Dalla terra al cielo in otto mesi. Dicembre 1965: viene pubblicato il gradevole (ma nulla più) “Rubber Soul”; Agosto 1966: esce “Revolver”, forse il massimo capolavoro del pop-rock psichedelico di sempre. Un passo da gigante nel senso letterale del termine che, a nostra conoscenza, non ha eguali nella storia della musica popolare e forse della musica in generale.
I critici hanno tentato di capire quest’incredibile crescita e hanno trovato le risposte utilizzando le interviste dei protagonisti: da una parte l’LSD (che i Beatles, specialmente John Lennon, cominciarono ad usare massicciamente dal Dicembre 1965); dall’altra le nuove apparecchiature messe a punto ad Abbey Road (limitatori, compressori, altoparlanti Leslie, ADT, nastri rovesciati).
Quando “Revolver” uscì nei negozi, i maestri della psichedelia rimasero a bocca aperta per le sue invenzioni creative e sonore e lo ascoltarono senza posa cercando di carpirne e riprodurne i segreti. Al di là delle esagerazioni di tanti critici, ci troviamo di fronte ad un fatto indiscutibile: “Revolver” è un vero spostamento di paradigma. Un album che ha dato ispirazione a tanti gruppi di livello ben superiore ai Beatles.
Per parlare di “Revolver” dobbiamo partire con il singolo “Paperback Writer/Rain” pubblicato nella Primavera del 1966. Un singolo che fu una sorpresa per i fan, e che certamente li preparò ad affrontare l’ascolto del disco vero e proprio in modo meno traumatico. Vendite disastrose.
Sul lato A troviamo una canzone abbastanza convenzionale come “Paperback Writer”. Il brano è costruito su un solo accordo che, sostanzialmente, fa da sostegno alla melodia, come in innumerevoli canzoni di McCartney. Quello che dà vero valore musicale alla canzone è la splendida sezione al basso che fa quasi da chitarra ritmica. I cori rivelano la passione (mai nascosta) di McCartney per i Beach Boys. Fortunatamente, qui i cori non scadono mai nell’eccesso, come quelli del gruppo californiano. Il testo fu scritto dal solo McCartney (cosa rarissima) anche se il risultato non è eccezionale.
Al lato B troviamo: “Rain”. Vera pietra angolare per via dei “nastri al contrario”. John Lennon e George Martin hanno polemizzato molto tra loro, ognuno invocando la paternità dell’idea. Martin disse che fu una sua intuizione, e questo fa di lui il “quinto Beatles” come molti hanno giustamente scritto. Lennon invece disse che una sera tornò a casa alle due del mattino, molto stanco, e, mezzo addormentato, mise il brano nel suo registratore al rovescio. Il suono prodotto lo svegliò dal suo torpore. Di chiunque sia la paternità, i nastri al contrario riescono a creare degli effetti ammalianti per l’orecchio, sconosciuti all’epoca. Molti musicisti non credettero alle loro orecchie quando ascoltarono questi ipnotici effetti creati dalla chitarra e dal crash della batteria (che parte con un suono “espanso” e finisce con il suono “chiuso”). Che questi effetti onirici siano quelli prodotti dall’acido o meno, è poco importante. Questa è musica, ed una musica che non si era mai sentita prima. Ottima la performance di Ringo; qui il batterista si abbandona al flusso della canzone e il risultato è magnifico. Ancora più straordinaria la performance di McCartney al basso, da ascoltare con l’equalizzatore per apprezzarla in tutta la sua bellezza e maestria tecnica.
Il disco vero e proprio parte con “Taxman”, un blues di George Harrison. Composizione abbastanza trascurabile, con la chitarra che sulla cassa destra si limita a sostenere la (memorabile) melodia di Harrison. Ma, si sa, come melodisti, i Beatles hanno avuto poco rivali. A rendere memorabile la canzone c’è l’ottimo assolo suonato da McCartney sulla seconda cassa. Dopo l’assolo (1:35), Paul comincia a suonare la chitarra come un basso, e la bravura di McCartney al basso è storica. Il testo è una collaborazione tra Harrison e Lennon, un acidissimo e poco raffinato j’accuse al governo inglese per le sue esorbitanti tasse: “So come andrà: uno per te, novanta per me, perché io sono l’uomo delle tasse. Se dici che è troppo poco, ringrazia che non ti prendo tutto. (…. )Quando morirai, tasserò anche i penny che ti metteranno sugli occhi”.
Si passa a “Elenor Rigby”. “Revolver” non è passato alla storia come uno degli album più influenti della storia per brani come questo. Tuttavia questo rimane uno dei massimi capolavori melodici di McCartney. La canzone deve tutto all’arrangiamento di George Martin. Il testo è pregno, forse il migliore dell’album. La storia narrata è bellissima nella sua tristezza: Eleonor Rigby sola che passa il tempo a raccogliere il riso ai matrimoni (uno dei pochi momenti per vedere gente); Padre McKenzey che non ha nessuno e che si rammenda i calzini da solo (un’ idea di Ringo Starr) e che poi officia il funerale di Eleonor a cui non va nessuno.
“I ‘m Only Sleeping” è, al di là di “Tomorrow Never Knows”, il capolavoro del disco, oltreché uno dei massimi capolavori melodici di Lennon. Di solito molto piatto nel cantare, qui lo vediamo abbandonarsi a variazioni melodiche notevolissime. Lennon riuscì a rappresentare alla perfezione il torpore al momento di alzarsi, il tentativo di saltare dal letto e la finale rinuncia. Una celebrazione della pigrizia, e un’ironica stoccata contro coloro che si affannano tutti i giorni correndo qua e là. La canzone, con i suoi saliscendi, sarebbe un capolavoro (in forma-canzone) anche senza il suo fantastico assolo di chitarra “al contrario” di dieci secondi (1:33 – 1:44). Il merito di questa delizia non è del genio di John, ma di Harrison. George suonò l’assolo prima in modo normale e poi lo ascoltò al contrario – ispirato dalla scoperta di Lennon e/o Martin in “Rain”. Sei ore di lavoro per mettere le note nel posto giusto perché l’assolo al contrario suonasse come appare sul disco.
“Love You To” è di George Harrison. Dopo la convenzionale “Taxman”, George ci lascia una perla di tale originalità, anche se il sitar all’epoca era molto meno originale di quanto, purtroppo, possa apparire oggi. Sarebbe il caso che la musica popolare riscoprisse questo sorprendente strumento. Il testo è una celebrazione dell’amore: amiamoci perché si muore presto. Banale ma inappuntabile.
Si ritorna al pop di classe con “Here, There, Everywhere”, una canzone alla McCartney: minimalismo compositivo e massimo impatto melodico. Sostanzialmente la musica non esiste, al di là dei leggeri e delicati sostegni di chitarra nelle strofe, e le due piccole e belle cascate di note: (1:02 – 1:05) e (1: 37 – 1: 40). La musica la fa il perfetto coro (la grandezza dei Beatles nei cori non può essere sottovalutata) e la dolcissima melodia di McCartney.
“Yellow Submarine” è la canzone che ci ha fatto tanto sorridere e gioire da bambini, proprio perché McCatnery, che ne è l’autore, volle scrivere una canzone per bambini. I Beatles volevano dare a Ringo il suo spazio e quindi scrissero per lui questo brano. Forse non si rendevano conto del valore storico del disco, e non si resero conto che questa canzonetta ne abbassa (gradevolmente) il livello. Un peccato veniale. Certo, trovare “Yellow Submarine” come lato B di “Paperback Writer” e “Rain” al posto del sottomarino giallo sarebbe stato (gradevolmente) meglio.
“She Said, She Said” è un altro dei trionfi di Lennon, che in questo album raggiunge i vertici della sua creatività. La perfetta versione del rock psichedelico, meno ipnotica (e per questo meno affascinante) di “Rain”, ma molto più ingegnosa dal punto di vista ritmico (con un ottimo Ringo) e chitarristico (con un eccellente Harrison). Sembra che la canzone venne registrata senza McCartney, che andò via dallo studio dopo una discussione con gli altri. Bastarono tre Beatles per tirare fuori il gioiello. Il testo, basato su un fatto realmente accaduto a Lennon nel 1965 in California, sembra descrivere la sua angoscia nei confronti della morte e la sua nostalgia per l’infanzia “quando tutto andava bene”. Della nostalgia dell’infanzia parlerà in modo molto più perspicuo, alcuni mesi dopo, in “Strawberry Fields”.
“Good Day Sunshine” lascia sconfortati per la banalità e l’infantilismo del testo e lascia incantati per il lavoro al piano “trattato”. L’apertura in crescendo ci prepara al ritornello che viene messo all’inizio, come McCartney fece altre volte (per esempio in “Can’t Buy Me Love”). Qui, come in “Eleonor Rigby”, il merito è di nuovo di George Martin che questa volta non scrive arrangiamenti, ma suona addirittura lo strumento lasciando ai posteri un bellissimo ma troppo breve assolo (0:58 – 1:05). Senza Martin sarebbe stato solo un altro capolavoro di pop melodico.
Si ritorna di nuovo a Lennon con “Your Bird Can Sing”, un altro eccellente pezzo alla chitarra. Lennon negli anni 70 definì il brano “spazzatura”. John lo giudicò in modo così sprezzante per via del testo – questo sì, davvero spazzatura – e per lui il testo era fondamentale nel giudicare una sua creazione. A causa del testo scadente, disprezzò “It’s Only Love”, una delle sue migliori composizioni con il suo geniale raddoppio di chitarre in stereo (una elettrica su una cassa e una acustica sull’altra). L’inizio alla chitarra, molto ingegnoso, lascia il passo alla melodia, per poi ridare di nuovo fiato allo strumento (0:37) che sostiene il bellissimo cambio. Non sappiamo chi suona la chitarra ma se è Harrison, possiamo affermare che George è stato un chitarrista sottovalutato e che, con la costanza giusta, poteva diventare un eccellente strumentista. La forza chitarristica del pezzo è aumentata dal raddoppio del suono (uno su una cassa e una sull’altra), resa possibile dall'ADT (Automatic Double Tracking), un dispositivo (forse inventato ad Abbey Road) che consente di raddoppiare voci o suoni senza bisogno di cantare o risuonare la sezione. La versione originale (che potete ascoltare nella “Beatles Anthology II”) utilizzava la dodici corde; una versione con suono meno “pastoso” e più “luccicante”.
Si ritorna di nuovo al pop con un altro capolavoro di McCartney: “For No One”. Anche qui minimalismo compositivo per il massimo impatto melodico. Il piano ripete i suoi accordi (interrotto nella sua monotonia dalla solita cascata di note (0:24 – 0:38) e dal bellissimo assolo di corno francese. Un altro brano dei Beatles consegnato per sempre agli annali della canzone melodica. Una canzone d’amore finito molto elegante, con lui che guarda lei che prima si trucca e poi lo pianta. McCartney è sempre stato accusato di essere un cantante sdolcinato di ballate. Questa è certamente una ballata; ma di certo non sdolcinata.
“Doctor Robert” è un altro ottimo pezzo, per il suo carattere “ritmico” che risulta memorabile al primo ascolto, grazie alla chitarra psichedelica (marchio di fabbrica di Lennon in questo disco). Carino anche il supporto delle note arpeggiate nel momento in cui Lennon canta il suo “ye – ye – ye”. Ma ne era passata di acqua sotto i ponti dai “ye – ye – ye” di “She Loves You”. Il testo sembra celebrare la persona che riforniva il gruppo di LSD e anfetamine.
“I Want to Tell You” è un'altra sorpresa di Harrison. La canzone si apre con una bella dissolvenza. Prima le corde di chitarra, poi il tamburello perfetto per introdurre alla perfezione il bellissimo piano che venne suonato da McCartney e che raggiunge il climax con le sue belle cascate. “I Want to Tell You” ha un testo profondo – almeno nelle intenzioni. Qui George parla di quanto spesso i pensieri chiari nella mente vengano fuori in modo confuso dalla bocca.
“Got To Get You In To My Life” venne inizialmente registrata con l’organo e il charleston, in una versione più lenta e solenne della versione su disco. Alla fine McCartney eliminò spessore e aggiunse fantasia con l’uso delle trombe: “Volevo fare qualcosa stile Motown, una cosa nera”. Il testo parla delle esperienze di Paul con la marijuana. Lennon nel 1980 disse: “Il testo è uno dei suoi migliori. E le parole non le ho scritte io”.
E infine “Tomorrow Never Knows”, il punto più alto dell’album. Tutto partì da una lettura di Lennon – “L’Esperienza Psichedelica” di Timothy Leary – un libro che celebra la perdita dell’ego teorizzata da tanti yogi orientali e mistici cristiani. La perdita del proprio orgoglio in favore di una più grande libertà interiore, non solo dagli altri ma anche da se stessi e dalle proprie opinioni.
Dopo la lettura, John decise di trasformare il libro in musica. McCartney ricorda nel VHS dell’Anthology: “Di solito scrivevamo le canzoni con due o tre accordi e qualche variante. Un giorno John portò questo brano tutto in DO che ci colpì parecchio”. Ispirato da questo, Paul costruì “Paperback Writer” su un solo accordo.
L'unica indicazione che Lennon fornì per l'arrangiamento fu che voleva far cantare il brano a un coro di cento monaci tibetani. Mai suggerimento fu più disatteso. La canzone dovrebbe descrivere la pace raggiunta quando si esce fuori da se stessi, e invece è la descrizione sonora della follia, della disperazione, o dello stesso inferno con:
a) la batteria ossessiva con il suono “lungo”;
b) i rumori iniziali di avvoltoi che non sono altro che le voci dei Beatles accelerate e rese stridule;
c) il lugubre e inquietante organo (che in realtà un mellotron trattato) (0:19);
d) i violini accelerati a velocità supersonica (0:40);
e) la chitarra al contrario (da sembrare quasi una tromba) (1:08 – 1:26);
f) il mix di mellotron, violini e avvoltoi (dai 2:00 fino alla fine)
Non ci sono aggettivi per descrivere la grandezza di questo brano. A nostro giudizio, solo i migliori pezzi di “Trout Mask Replica” (come “Hair Pie: Bake 1”) raggiungono questo livello nella rappresentazione sonora della malattia mentale e della disperazione.
Il pezzo fu messo giustamente alla fine perché in un’altra posizione, avrebbe sovrastato e annullato tutte le canzoni successive.
Con questo brano e con questo disco i Beatles si sono garantiti un posto immortale nella storia del rock.
“Revolver”: il pop-rock che fece scuola al rock.
Alcune informazioni qui riportate sono prese dal sito di Luca Biagini, www. Pepperland.it, che vi invito a consultare per analisi tecniche di ben altro livello.
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