Visto il recente revival beatlesiano dovuto a Lucio su debaser mi sento in dovere di dire anch’io la mia sulla più popolare e a parer di molti la più grande band di musica leggera del’900. Prendo in esame la seconda fatica del quartetto di Liverpool, quel “With The Beatles” che a mio parere può definirsi a buona ragione come un’unità compatta insieme al primo “Please Please Me”. Infatti i suddetti album furono pubblicati a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro, e hanno una struttura simile: quattordici concise caramelle pop, in cui si alternano alla maggioranza dei pezzi Di Lennon & McCartney una manciata di cover r’n’r, un minimo spazio per George Harrison (massimo due canzoni per l’intero album) ed eventualmente un angolo per Ringo Starr (vedi “I Wanna Be Your Man”, cedutagli con poca convinzione da Lennon).
E’ incredibile -ribadisco- vedere l’omogeneità delle due opere, la medesima intensità di gemme e cedimenti, di novità e ingenuità. Ma è utile sfondare la barriera dei giudizi che circondano queste 28 canzoni. Umanimamente i critici cominciano a prendere seriamente in considerazione i Beatles artisticamente da “A Hard Day’s Night”, che in effetti è il primo capolavoro assoluto della band. Inoltre tutti sappiamo a quali incredibili risultati i Fab Four sono arrivati con gli Lp successivi. Un Sgt. Pepper spazzerebbe via la carriera di chiunque, ma anche uno stesso Rubber Soul; ma questo non toglie niente alla bellezza di queste prime due opere. Ci immaginiamo spesso questi primi Beatles come dei ragazzetti ancora di primo pelo che si arrangiano a fare la teen-band. In realtà i nostri si erano fatti notevolmente le ossa con ben un anno e mezzo di serate nelle balere di Amburgo (dove poveretti dovettero fare amicizia pure con Mino Reitano..), oltre alle decine di provini e alle centinaia di performance sorbite in madrepatria. Come lo definiva il loro ex batterista Pete Best, questo gruppo apparentemente acerbo una volta messo dietro ai propri strumenti diventava una “carismatica centrale elettrica”, preparata ad ogni tipo di esibizione. L’unico limite che poteva ancora mancare la quartetto era la maturità creativa degli anni a venire, che qui comunque comincia già ad essere modellata. Non è sostenibile come dicono i più che questi Beatles si adattassero al trend del periodo, perché questo trend del merseybeat sono proprio loro stessi a definirlo, sebbene tutto in queste songs provi quanto essi desiderino fuggire da ogni definizione.
Nel giro di mezz’ora abbondante del vostro tempo potrete passare dall’ascoltare la perfezione pop delle maccartiane “All My Loving” o “Hold Me Tight” (quante volte l’avranno sentita i Supergrass?) ai furori del ragazzo-padre Lennon, arrogante ed esuberante in “It Won‘t Be Long“ o in “Little Child“ ( non ancora ammorbidito e rallentato dall’Lsd) o al fragile e sensibile Harrison, di cui memorabili sono sia “Don’t Bother Me” (“Non Mi Bacare”), la canzone più acida e insolita dell’album, sia un’emozionata “Roll Over Beethoven” in cui intimidito dalle registrazioni indugia intimidito su quegli accordi provati magari centinaia di volte. E simpatico è anche il già citato tentativo di lanciare Ringo come cantante per una canzone: quanti gruppi avrebbero dato (/darebbero) questa possibilità al proprio batterista?
Lennon & McCartney non sono interessati a diventare i migliori in un genere pre-esistente ma anzi tentano di conglomerare tutte le esperienze musicali a loro precedenti (in “Till There Was You” il Macca prova pure la cover brodaway-latineggiante!) in un nuovo tipo di musica - il futuro pop - che abbia il solo scopo di far impazzire le masse, di farle cantare e ballare, sospirare o sognare. Ancora non ci si preoccupa dei testi, semplici riempitivi con l’esclusiva funzione di accompagnamento della parte strumentale. Non per questo essi sono banali o zoppicanti, ma solo superficiali e oliati con troppi sentimentalismi. Ma erano altri tempi, non erano appunto ancora arrivati i Beatles…
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