Parlando di musica, possiamo affermare che il potere della memoria gioca spesso brutti scherzi. Se da un lato adoriamo dischi che sono oggettivamente dei capolavori (Homework dei Daft Punk, giusto per citare la mia esperienza), dall’altro commettiamo l’errore di sopravvalutare opere mediocri o appena decenti a causa dell'affetto che proviamo nei loro confronti.

The Fat of the Land dei Prodigy rientra in questa seconda categoria. La sua pubblicazione si intreccia inevitabilmente con il vissuto del sottoscritto: dodici anni, un Natale trascorso in famiglia e, sotto l’albero, un tamarrissimo stereo portatile con Bass Boost per infastidire i vicini più il famigerato granchione, immortalato sul bagnasciuga di una sconosciuta spiaggia dell’orbis terrarum. Con il senno di poi è impossibile non sottolineare l’importanza di quel regalo, capace di plasmare i gusti di chi scrive e indirizzarli verso il mondo della musica “alternativa” o presunta tale, tuttavia una recensione necessita di un’analisi lucida e puntuale, garantita dalla maturità e dallo scorrere del tempo (diciamo pure dalla vecchiaia), ed è quello che proverò a fare.

The Fat of the Land viene dato alle stampe nel 1997, a tre anni distanza dal precedente Music for the Jilted Generation, e rappresenta una nuova tappa nella carriera della band di Braintree. Fedeli alla linea, Howlett e compagni cambiano di nuovo candeggio: se Experience sintetizzava alla perfezione il sound hardcore dei primissimi anni Novanta e Music for the Jilted Generation virava verso una techno più cupa e minacciosa, il terzo lavoro si tuffa a piene mani nel trend dell’epoca, il big beat, quella miscela di rock, elettronica e psichedelia esemplificata da album come Dig Your Own Hole dei Chemical Brothers o You’ve Come a Long Way, Baby di Fatboy Slim. A confermare la mossa furbetta e un po’ modaiola ci pensa il restyling dei componenti del gruppo, che si presentano in pubblico con un look molto più aggressivo rispetto al passato (mitiche le “alette” di Keith Flint, alla vista delle quali i miei genitori pregavano Dio affinché non mi trasformassi in un ribelle alcolizzato).

Venendo subito al sodo, potremmo dire che The Fat of the Land non è un brutto disco: è apprezzabile il tentativo di rinnovarsi ancora una volta, a conferma delle tendenze camaleontiche dei Prodigy e della loro capacità di stare al passo con i tempi, soprattutto in un periodo di grande evoluzione del suono elettronico. Nonostante ciò, a un ascolto attento, scopriamo che non tutto fila per il verso giusto e che qualche sbavatura compromette il risultato finale.

Partiamo dalle note positive: l’accoppiata “Narayan”/”Firestarter” rappresenta il momento migliore e più ispirato dell’album. La prima traccia è una lunga sfuriata psichedelica accompagnata dalla voce di Crispian Mills, cantante dei Kula Shaker, che non si risparmia nemmeno il mantra “Ohm Namo Narayana” nella parte centrale del brano; la seconda è famosa per il videoclip che enfatizza l’attitudine punk e mattoide di Keith Flint (“I’m the trouble starter, punkin’ instigator”: chi non l’ha mai cantata a squarciagola?), mentre la produzione è dominata da drum incalzanti e sonorità ossessive perfettamente confezionate da Liam Howlett, vera mente dei Prodigy.

È proprio “Firestarter” a introdurre una delle peculiarità di The Fat of the Land, consistente nel maggiore apporto di Maxim e Keith Flint all’esecuzione e alla scrittura dei pezzi (il ballerino Leroy Thornhill, invece, resta relegato al ruolo di frontman e animale da palco). La scelta a tratti è azzeccata, come nel caso dell’ipnotica “Breathe”, anche se i sample di spade sguainate contribuiscono a rendere un po’ kitsch il tutto (famoso il video, pieno di topi, scarafaggi e altre schifezze). È interessante anche il breakbeat di “Mindfields”, dove a farla da padrone è lo pseudo-rap di Maxim (peccato per i synth, che ricordano il verso di un gattino o le atmosfere di “Charly”, prive della profondità dell’originale). In altri momenti la ricetta non sembra funzionare a dovere: “Serial Thrilla”, ad esempio, strizza l’occhio al rap e al nu-metal, con tanto di scratch, chitarroni e una performance non eccellente del buon Keith. Anche i brani strumentali sono poco riusciti: “Funky Shit” campiona i Beastie Boys di “Root Down” (“Oh my god, that’s the funky shit!”), ma ancora oggi, dopo ventiquattro anni, non riesco a capire cosa abbia di “funky”; “Climbatize” invece è la traccia peggiore del lotto, affogata in un noioso wall of sound punteggiato da nitriti di cavallo (o qualcosa di simile) e da evitabili suggestioni esotiche, stile Le mille e una notte.

Volendo salvare qualcos’altro potremmo ricordare il singolo “Smack My Bitch Up”, con quel campione degli Ultramagnetic MCs usato un po’ a sproposito e quell’intermezzo mediorientale abbastanza incomprensibile (all’inizio si sentono strani suoni, simili a flatulenze. Che i Prodigy avessero esagerato con la fagiolata?), e soprattutto “Diesel Power”, industrial-rap impreziosito dalle rime di Kool Keith. L’energico electro-rock di “Fuel My Fire” è tutto sommato buono, ma stiamo comunque parlando di una cover (la canzone è degli L7) e, in generale, di un pezzo piuttosto distante dagli standard del gruppo (superfluo il featuring di Saffron dei Republica).

Alla fine della fiera, dei cinquantasei minuti di The Fat of the Land (locuzione traducibile più o meno come “ricchezza” o “agiatezza”) solo pochi deliziano i nostri padiglioni auricolari, al contrario abbondano soluzioni poco gradite, che fanno pensare a una mossa astuta e dai fini commerciali, ma non del tutto soddisfacente dal punto di vista musicale.

L’epilogo della vicenda è scontato: dopo aver realizzato l’inevitabile cambiamento dei miei gusti, qualche anno fa sono entrato in un negozio del centro storico partenopeo e ho venduto The Fat of the Land. Ho affrontato la tristezza e la malinconia e mi sono liberato di un oggetto sicuramente prezioso ma divenuto un orpello inutile, abbandonato su una mensola a prendere polvere (e anche lo stereo tamarro si è misteriosamente dileguato).

Ora lo spazio lasciato da quello e da altri CD è stato riempito da vari dischi. Tra di essi spiccano Experience e Music for the Jilted Generation, che restano i due grandi album dei Prodigy. Eppure ancora oggi ringrazio l’enigmatico granchione: se sono così, in fondo, lo devo un po’ anche a lui.

Thanks a lot, my crab. Wherever you are.

Voto del DeRecensore: 3,5

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