Mi vien da sorridere oggi a ripensare a certe discussioni in cui mi trovavo coinvolto negli anni liceali. Erano anni (metà 70) di grandi furori ideologici e non solo per questioni politiche. Anche i temi squisitamente legati alla musica (rock in primis) accendevano diatribe infuocate. Infatti molti ritenevano il rock in versione glam (David Bowie, Lou Reed, ecc.) uno stile decadente, etichettabile politicamente come "orientato a destra", diversamente dal rock progressivo. Se poi ci si interrogava sullo stato di salute del rock, prevaleva un forte scetticismo (forse non si era così convinti sulla longevità del prog e l'ondata punk e new wave era ancora di là da venire, alcuni decidevano di passare armi e bagagli al jazz e la scelta era massimamente degna di rispetto). Ma quello che mi lasciava perplesso allora era notare come gli stessi, che denigravano il glam rock, ascoltavano e apprezzavano molto un album antologico dal titolo "Andy Warhol 's Velvet Underground featuring Nico" . Lo ritenevo contraddittorio e comunque tutto questo mi induceva semmai ad ascoltare anche dischi sconsigliati da molti per poter maturare un mio punto di vista. E infatti l' album oggetto di questa mia recensione ("The Velvet Underground & Nico" pubblicato nel 1967) fu la chiave di volta, a distanza di anni, per comprendere molto della natura stessa del rock.
E per comprendere la portata innovativa del disco mi sono immaginato nei panni di un produttore discografico che, in quei tempi, fosse investito della responsabilità di far pubblicare un'opera di quel tipo. Certamente il momento storico era effervescente in ambito musicale. Nel decennio dei 60 il rock era ormai il vettore musicale delle ansie ed aspirazioni giovanili a livello planetario. Non si trattava più di quell'eccentricita' yankee denominata rock and roll che Elvis ed altri avevano lanciato a metà anni 50. Dai Beatles in poi era stato come un fiume musicale in piena e, diventando adulto, il rock poteva essere un business fiorente per le case discografiche. Solo che l'intero affare poteva rivelarsi anche ostico da gestire. Certe proposte musicali potevano essere proprio esplosive (tanto per dire Bob Dylan, Rolling Stones, Who, Jefferson Airplane, eccetera non avevano peli sulla lingua) E proprio "The Velvet Underground & Nico " è stato una case history anche per questo (e non solo come specifichero' più avanti) .Ovvio che i dirigenti della Verve, casa discografica sussidiaria della Mgm, non potessero aspettarsi che la band di nome Velvet Underground riproponesse uno stile musicale nel solco di confidenziali crooners a la Bing Crosby o Frank Sinatra (se così fosse stato che razza di gruppo musicale innovativo sarebbe stato?). Di loro, tanto restii a concedere interviste da mandare a quel tal paese chi insistentemente gliene faceva richiesta, si sapeva che erano al centro di shows multimediali che, intorno alla metà degli anni 60, si tenevano nella Factory di Andy Warhol, artista concettuale di punta acclamato nella New York dell'epoca. Uno sponsor di tutto rispetto ma non erano da meno i componenti dei Velvet Underground come Lou Reed (musicista di stile rock garage e con vasti interessi letterari), John Cale (reduce da collaborazioni con autori sperimentali come John Cage e La Monte Young), Maureen Tucker (batterista di stile primitivista africano) e Nico (cantante dal timbro vocale profondo, decisamente gotico, già apparsa in una particina nel film "La dolce vita di Fellini).
Tutte queste credenziali potevano avere un certo peso, ma non è così bizzarro notare il fatto che il disco" The Velvet Underground & Nico " fu pubblicato solo nel marzo 1967 dopo essere stato registrato fra aprile e maggio 1966. Dai nastri registrati emergevano crude rappresentazioni musicali della vita maledetta nei bassifondi della metropoli newyorchese, un vero e proprio pugno nello stomaco. Niente abbellimenti, luci sfavillanti sull'american dream bensì il porre in risalto una galleria di personaggi appartenenti ad una fauna umana di reietti.
Già il brano di apertura "Sunday morning", immerso nel tintinnio da carola natalizia, può trarre in inganno perché quanto va in scena è nient'altro che l'effetto della droga che svanisce alla domenica mattina dopo una notte di stravizi. E non va certo meglio con la composizione successiva "I'm waiting for my man" che non è certo una ballata di amor cortese, ma la chiara illustrazione della condizione di un tossico disperatamente in attesa del pusher che non è mai puntuale e si fa desiderare :
"Sto aspettando il mio uomo, con 26 dollari in mano, su a Lexington all'incrocio con la 125,mi sento malato e sporco, più morto che vivo, sto aspettando il mio uomo"
Insomma la vita per le strade di New York (e vale anche in qualsiasi altra metropoli) è semplicemente schifosa, pullula di tossici, spacciatori, prostitute travestiti, papponi, persone che comunque possono rivelare caratteristiche di inedito calore umano, come si può rintracciare in altre canzoni come "Femme fatale" (e qui Nico è in gran forma, come fosse una versione moderna di Marlene Dietrich in "L'angelo azzurro"). Ed ancor più esplicita è "Venus in furs" , ispirata al titolo di un testo di Leopold von Sacher Masoch, in cui si declama il fascino perverso dell'amore sado maso con le parole "Bacia lo stivale di cuoio lucido, lucido cuoio nel buio, lecca la cinghia, la cintura che ti aspetta, colpisci, padrona cara".
Perfino il richiamo ad un contesto festaiolo come "All tomorrow's party" può sviare perché qui si rievocano gli happenings nella Factory di Warhol, in cui ogni freno inibitore spariva e ci si lasciava andare a sfrenatezze varie.
Ma l'acme viene raggiunto dal brano "Heroin" che spiegava, senza le baggianate sulle sostanze stupefacenti di tanta controcultura hippy del tempo, la discesa infernale nella tossicodipendenza tanto da esclamare "Eroina,sii la mia morte, eroina è mia moglie, la mia vita". Un quadro schietto del flagello della droga e al riguardo Lou Reed ha sempre sostenuto di essersi limitato a dimostrare cos'è il male, non ad istigare a commetterlo.
Non mancano poi accenni alla sfera dei sentimenti come in "I'll be your mirror" in cui la voce vellutata di Nico invita la persona amata a corrispondere cantando "Sarò il tuo specchio, riflettero' ciò che sei, nel caso tu non lo sappia " (parrebbe proprio la celebrazione di un amore fra due persone così gemelle da essere del medesimo sesso..)
Ma poi con i brani conclusivi "The black angel's 'death song" e "European son", i Velvet Underground non si risparmiano nel lanciarsi in jams sperimentali prossime al flusso free jazz (ispirandosi un po' allo stile di Ornette Coleman) .
Pertanto, dopo un ascolto completo di simile disco, il dubbio amletico di un produttore discografico dell'epoca (lo do alle stampe o no?) non era proprio irragionevole. Aver pubblicato l'album dopo un anno di stand by non fu una mossa azzeccata dal punto di vista commerciale (nelle classifiche di vendita discografica USA arrivò solo al n. 171), ma fu rivalutato nel tempo dalla critica (ecco un'altra ragione per cui ho parlato prima di case history). Il disco divenne il punto di riferimento per tanti giovani musicisti che volevano proporre qualcosa di veramente innovativo. In particolare ciò vale non solo per l'onda punk, ma anche per quei nuovi rockers che a metà anni 70 mossero i primi passi (Patti Smith in primis) e considerarono "The Velvet Underground & Nico" l'alba di una nuova era per il rock, indubbiamente in anticipo sui tempi ma pur sempre imprescindibile per chi voglia sapere cosa sia il rock. Un documento storico quindi che, pur a distanza di tanto tempo dall'uscita, non può essere sottostimato e, in un ancor più lontano futuro, continuerà a testimoniare ai posteri di cos'era l'allora opulenta società moderna occidentale (quasi una Pompei del ventesimo secolo) nei bassifondi : viziosa, debosciata, disperata.
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