Giorgio Caproni dev'essere stato una persona deliziosa. Faceva il maestro elementare ed è uno dei più grandi poeti italiani del Novecento. Le sue foto lo ritraggono con un visino minuto, tutto rugoso, ma con un sorriso sempre latente. Pur avendo raccontato la morte di Dio. Ma Caproni lo porto nel cuore per la sua raccolta tutta dedicata alla madre, Annina. Il libro si chiama Il seme del piangere, e delle letture universitarie restano impresse nella mia memoria soprattutto le rime baciate e freschissime con cui quest'uomo celebrava la madre appena scomparsa.

Come scendeva fina
e giovane le scale Annina!
Mordendosi la catenina
d’oro usciva via
lasciando nel buio una scia
di cipria, che non finiva.

L’ora era di mattina
presto ancora albina.
Ma come s’illuminava
la strada dove lei passava!

Ora che i Tool sono su Spotify, nell'attesa del nuovo Fear Inoculum, sto ascoltando per benino il disco che non ho consumato come Lateralus e Ænima. È bello, non come gli altri. Ma non voglio parlare di questo. Mi interessa Judith Marie e il viaggio “ad portam inferi” che narra suo figlio James.

Non voglio fare un'analisi testuale, voglio solo dire come la penso io. Mi piace affiancare questi due uomini, Caproni e Keenan, lontanissimi, che in forme diverse raccontano uno dei misteri più belli, una delle forze che tengono insieme l'umanità e il mondo. L'abbraccio materno viene restituito da questi due figli anche oltre la soglia della morte. Entrambi seguono la loro madre fino alle porte del paradiso, incapaci di staccarsi da quell'angelo in bicicletta (Annina) e da quello immobile, paralizzato, in attesa di ali (Mary).

Il resto sono orpelli. La musica, le immagini metafisiche, le luci che guidano alle porte dei Cieli, gli assoli, i ritmi, la suite di 17 minuti. L'essenziale si racchiude in poche parole, il resto è un detour per non affrontare frontalmente un lutto troppo grande. Due uomini orgogliosi ma non troppo da negarsi l'ultimo ideale abbraccio materno, dispiegando al pubblico tutta la loro fragilità fanciullesca. E tutta questa tecnica, questa arte, questo talento creativo passa in secondo piano di fronte alla semplice disperazione di un bambino (cresciuto) che ha perso la madre.

Le recriminazioni (blasfeme in Mer de Noms) per le condizioni di vita dolorose di Judith Marie (anche Annina non aveva avuto una vita facile a Livorno...) lasciano spazio alla speranza di un Oltre, alla rassegnazione che quell'amore possa continuare a vivere solo nella speranza di un Halleluja, solo con un bel paio d'ali Mary e Anna possono continuare a esistere e proseguire il mistero gigantesco dell'amore tra una madre e il suo bambino.

In verità il paradiso di queste due donne è nelle canzoni dei loro figli, destinate all'eternità artistica. Il blasfemo Maynard crede nel paradiso? Lo scettico Caproni ritrova la fede? No, niente di tutto questo. Sono canti d'amore, ma d'un amore immenso e viscerale, geneticamente vergato nel sangue. E questo amore è più importante delle credenze, delle filosofie, delle religioni. È totalizzante, e un figlio non può che cantare l'eternità di sua madre, con più o meno sottotesti a seconda della profondità della scrittura. Ma l'essenziale è quello. Mamma non andartene mai.

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