PREMESSA FONDAMENTALE: Cosa credete? Sono perfettamente cosciente che ci siano già altre recensioni di questa epopea sul qui presente sito, ma le questioni qui sono due: la prima è che io da sempre, sin da quando ero un poppante incosciente e che ignorava, faccio il gran cazzo che voglio; la seconda è che non è mai troppo tardi per discutere approfonditamente della bellezza, qualunque essa sia. E poi, abbiate pazienza, ma ho fatto pochi giorni fa diciotto anni, e sappiate che sono un diciottenne molto incazzato, col mondo e con la specie umana. Questa recensione è un portale che voglio costruirmi per urlare questa mia ira ormai quasi incontrollabile a chi avrà abbastanza pazienza da ascoltarla ed accoglierla.
Spero che possiate seriamente riflettere con questo mio racconto. Se non lo farete, allora vorrà dire che non avrò svolto bene il mio compito, e me ne assumerò la totale responsabilità. Ma datemi un minimo di fiducia, in modo tale che io possa lavorarci sopra e restituirvi un'emozione. O almeno, a questo miro.
RECENSIONE: E, tutto ad un tratto, le luci si spensero violentemente, lasciando un'atmosfera fredda e senza alcuna direzione segnata. Dove potranno andare a sbattere, questi pupazzetti? Quale sarà la loro prossima mossa sbagliata? Quanto saranno disposti ad osservare dentro di loro l'origine di questo marciume, che gli ha guidati sino a questo delirio? E anche se per incredibile ed imprevedibile miracolo dovessero riuscirci, resta a loro del tempo per comprenderci qualcosa?
No, non è il finale di un film drammatico, e se non ve ne siete resi conto nemmeno voi, allora la situazione è anche peggiore. Ciò che ho appena descritto è il mondo in cui viviamo, quello in cui abbiamo deciso di vivere. Perché io, su questo punto, non ammetto fraintendimenti: gli esseri umani hanno coscientemente e felicemente deciso di costruire un mondo in cui regnassero ingiustizie ed irrazionalità. Il disgusto e la rabbia che provo di fronte a tutto ciò ha raggiunto livelli elevatissimi, tali da non farmi dormire la notte; una sensazione di disperazione e profonda tristezza, di fronte al fatto che ci siano persone in questo Mondo che patiscono terribili sofferenze e dolori, che, a quanto vedo, sembra che affligga soltanto me. O forse, non soltanto. Cioè, quasi. Però, in effetti, c'è un altro essere umano che, nel corso della sua vita, ha tratto le mie stesse evidenti e dolorose conclusioni, arrivando a maledire questa atroce realtà. Sento di essere entrato immediatamente in contatto con lui, per l'allineamento di visioni, e anche l'atteggiamento nei confronti di questa società che aliena e distrugge. Si chiama Maynard James Keenan, e questo disco è la sua potentissima e violentissima dichiarazione d'intenti, inequivocabile e lampante.
Nel 1996, quest'uomo di 32 anni è il cantante e paroliere della band più misteriosa, oscura e sfuggente del panorama musicale Mondiale: i TOOL. Inutile azzardare tentativi di classificazione della loro musica, dal momento che il loro suono è talmente unico e complesso da non ammettere alcun tipo di catalogazione. D'altronde, anche loro sembrano essere d'accordo con tale considerazione. Si sappia solo che la loro musica è tanto complessa quanto emozionante, cervellotica quanto sentita (emotivamente), feroce quanto disillusa. Impossibile decifrarli fino in fondo, praticamente assurdo non rimanere estasiati e meravigliati da tanta grandezza musicale e morale, quali sono quelle portate da questa band.
Dopo aver pubblicato un EP pieno di violenza e un album di debutto assolutamente risentito e feroce, a quattro anni dall'inizio del nuovo millennio, i TOOL prendono definitivamente il volo con un disco destinato a rimanere negli annali. A dare (probabilmente involontariamente) una spinta energica molto importante per la concezione e composizione di questo album è un caro amico della band: Bill Hicks; un comico Statunitense (come la band, la quale viene da Los Angeles), purtroppo già deceduto giovanissimo all'epoca dell'uscita del disco, il quale, anch'egli evidentemente risentito per la miseria morale che affligge il genere umano, era solito proporre degli sketch molto spigolosi, che andavano esplicitamente a colpire i costumi e gli atteggiamenti della società Americana, mettendo in risalto tutte le sue contraddizioni e le sue disgustose condotte discriminatorie.
Unendo la loro scintillante follia (propria di tutti i geni) e la loro variegata cultura, i quattro Losangelini danno alle stampe un'opera di irreale profondità, in cui, a farla da padrone, sono oscurità, claustrofobia e rabbia. La riflessione che ne scaturisce è fortissima ed estremamente evocativa, tale da far rimanere sconcertati gli ascoltatori, che si sentono ora aggrediti, ora insicuri, ora disgustati dalla miseria umana proposta nei testi, e infine vengono lasciati con un imponente bagaglio di sentimenti potentissimi, indimenticabili ed indelebili, tali da risultare una guida attraverso i dolori e la cattiveria gratuita e non desiderata della vita sulla Terra.
Gli unici due pezzi "straightforward" di questo lavoro sono "Stinkfist" e "Hooker With A Penis", i quali, in un qualche modo, rappresentano gli unici episodi che, forse, sarebbero potuti essere inclusi senza alcun problema nel precedente disco, sebbene ne rappresentino comunque anch'essi una palese evoluzione. Sono le uniche due canzoni a non essere particolarmente cupe e tetre, e sebbene la prima sia estremamente sfuggente riguardo al suo messaggio, la seconda rappresenta un pesantissimo sfogo di Maynard (e del resto della band tramite la musica, soprattutto di quello straordinario chitarrista che è Adam Jones) contro un fan - o presunto tale - il quale, tempo addietro, aveva mosso un'accusa alquanto assurda ed improbabile contro la band, ovvero quella secondo qui quest'ultima si sarebbe svenduta al pubblico, diventando, dunque, più commerciale, con il loro primo disco Undertow, "rinnegando", dunque, il percorso inaugurato con il loro EP di debutto Opiate… … … follia pura, stupidità a livelli esorbitanti, ignoranza paurosa ed aberrante. Se c'è una band che mai e poi mai ha concesso nulla al suo pubblico, quelli sono i TOOL. Ed in tutta risposta, la band demolisce questo soggetto dedicandogli un'intera canzone, piena di sarcasmo e denigrazione. Mi chiedo se questa persona abbia più avuto il coraggio di mettere la propria punta del naso fuori dalla porta di casa. Rimarrò col dubbio.
Il resto del disco, però, è un autentico viaggio negli inferi dell'animo della specie umana, pieno di rami spinosi e foschie colorate di nero. I due episodi più enigmatici, profondi ed inquietanti, in tal senso, sono "H." e "Forty Six & 2", due canzoni tematicamente agli antipodi, praticamente due tracce che si tengono per mano e si fanno strada a vicenda, proprio come due persone perse in una buia grotta che, consapevoli del loro drammatico destino, si abbracciano forte e si trasmettono forza e coraggio. La prima è una strenua ammissione della propria patetica condizione morale, fatta di riecheggiamenti del passato e di allusioni al tradimento e alla tentazione. Probabilmente ispirata dalla nascita del primo figlio di Maynard (Devo H. Keenan, ndr), potrebbe essere la narrazione del stretto legame che unisce i due. Il crescendo chitarristico della canzone è maledettamente sublime: tanto pacata e riflessiva all'inizio quanto esplosiva e fuori di testa sul finale. L'atmosfera generale che pervade il brano è cupa, oscura, tetra, quasi come si stesse scoprendo un baule in cui è contenuta la nostra anima; il baule, aprendosi piano piano, rivela il suo contenuto, e così la canzone esplode in un finale rabbioso e potente. È un continuo susseguirsi di sensazioni forti ed intense, che altro non fanno che ricordare che, invece che carne, noi siamo anime, spiriti, vivi e reali. Non è poco, fidatevi.
La seconda delle due canzoni, invece, è un tripudio di genio e visione. Nonostante rimanga tutt'oggi un brano assolutamente e dannatamente criptico, si può comunque provare a ricostruire il suo messaggio di fondo fondamentale, ovverosia l' evoluzione personale e la scoperta del proprio io, per crescere come persone e come specie vivente, per poterci finalmente unire come un'unica cosa e avere pieno rispetto l'uno dell'altra, com'è assolutamente giusto che sia. La canzone, musicalmente, è indescrivibile: il genere umano non ha ancora trovato parole adeguate a descriverne la potenza e l'impressionante impatto emotivo. Il crescendo di chitarra è da urlo, e quello di Maynard mette i brividi. Sembra un demone venuto da chissà quale dimensione per smuovere le coscienze degli addormentati. Altro che demone: i demoni, semmai, sono gli esseri umani, i quali recano quotidianamente male e dolore al prossimo. Come si fa a vivere in un mondo così meschino e malato? Risposta: non ci si deve vivere. Bisogna cambiarlo, migliorarlo. Probabilmente, è soprattutto di questo che tratta questo brano.
Uno degli apici assoluti del disco è senz'altro "Pushit", brano megagalattico che, introdotto da un riff di chitarra straordinario che si insinua subito nel cuore dell'ascoltatore, conduce ad un'esperienza intensissima ed appassionata, che, verosimilmente, narra di una relazione tossica e umiliante, di cui, però (fatto eclatante), solo una delle due parti ne è consapevole; un concetto che verrà ancora ripreso in quel capolavoro totale e magnificente che sarà "Schism", contenuta nel disco successivo a questo.
Gli ultimi due brani sono quelli che, forse, racchiudono maggiormente, nel loro insieme, l'umore che intercorre per tutta la durata del disco. La semi-titletrack, "Ænema", è un concentrato di furia e devastazione, che non lascia nulla dietro di sé. I riff di chitarra sono semplicemente imponenti, mastodontici e supremi, suonati con una tecnica molto interessante, oltre che difficile da padroneggiare nel modo in cui ci riesce Adam Jones. Il brano si evolve, fa capriole su se stesso, si disfa e si ricompone, ma l'insieme che ne esce eventualmente è epocale e armonioso; un momento di notevole genio musicale, che denota un profondo amore per la musica e per la propria vena compositiva. Nel testo, invece, Maynard si scaglia esplicitamente contro la città di Los Angeles, criticandone superficialità e attenzione a elementi totalmente ininfluenti, se non addirittura dannosi, per il benessere generale e di tutti, non risparmiando parole molto poco gentili per tutti i suoi abitanti (li definisce chiaramente dei drogati) e non esitando ad augurare alla città intera di sprofondare nell'oceano. Più o meno ciò che penso ogni tanto anche io con la mia città (fidatevi, la detesto come non avete idea. È un po' la Los Angeles d'Italia, in un certo senso).
Con "Third Eye", invece, si vola a livelli stellari ed intergalattici, che raramente si toccano nella propria insulsa esistenza. Si tratta di un trip psichedelico della durata di 13 minuti, inaugurato da un discorso di Bill Hicks circa l'influenza delle droghe (soprattutto acidi) sul flusso creativo di un'artista (egli stesso ne fece un massiccio uso durante la sua gioventù). Impossibile descrivere la musica: è così unica ed inedita da non poter essere paragonabile a niente di tutto ciò che si può normalmente sentire. La verità è che, in certi casi, si può solo ascoltare una canzone e assorbirne l'energia e l'emozione, che rimangono indescrivibili e conficcati nella mente e nel cuore di chi ha vissuto. Volete viaggiare per poi non tornare mai più? Ascoltatevi la versione di questo brano contenuto in Salival, album live uscito circa 4 anni dopo questo disco; non tornerete mai più sulla Terra.
Ah, e un'altra cosa: non posso che provare immenso piacere nel notare come uno degli esseri umani più disgustosi e discutibili che siano mai esistiti, ovvero Ron L. Hubbard, sia in questo disco citato e totalmente distrutto dal buon Maynard. Prima in "Eulogy", anche se non è mai stato accertato ufficialmente, e poi esplicitamente in "Ænema", in cui lo manda, con estrema serenità, a fanculo. Assolutamente legittimo.
Giunti a questo punto, si resta con lo sguardo spalancato nel vuoto, possibilmente con le luci spente attorno, con la sensazione di aver appena percepito, per 77 minuti, delle emozioni vere ed indimenticabili, in mezzo ad un vuoto totale, rappresentato dalla nostra società. Questo disco rappresenta uno degli ultimi esempi di musica impegnata, impegnata a gettare un po' di luce sulle mille ombre della nostra esistenza, ad indicarci una via nella vita. Quest'album non è un momento, è un'intera vita, ed è proprio questo che lo eleva ad opera mastodontica, irripetibile e magica. È un lavoro che lancia un messaggio forte e chiaro, un percorso spirituale, un ultimo avvertimento prima dell'armageddon, dal quale non si tornerà più indietro. Forse ci siamo già dentro, anzi sicuramente lo siamo, visto che ormai un'infinità di esseri umani ha pagato un prezzo troppo alto per la cattiveria e povertà morale dell'uomo. Chi non sceglierà di accogliere ciò che questo disco comunica rimarrà nell'oblio eterno, vivendo una vita priva di colori e spiritualità. Ma che vita è questa? Forse è proprio a loro che è rivolto il significato più importante di questo disco: svegliatevi ora, o sprofondate per sempre. Difficile, ancora una volta, dargli torto, a Maynard.
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