Un disco atteso tredici anni. Ma alla fine a rovinarlo è stata... la fretta. Esagero? Solo un pizzico. Metteteci tutte le virgolette cautelative che volete, ma non facciamo finta di non vedere la realtà. Fear Inoculum è assemblato male, sembrano quasi canzoni strumentali con un tizio che passa di lì e decide di provare a cantarci su. Continuo a esagerare perché aspettare tutto questo tempo per trovarsi tra le mani un lavoro così “grezzo” è davvero paradossale.

Grezzo come una statua appena sbozzata, come se Manzoni non avesse mai sciacquato i panni in Arno. Sembra quasi un “buona la prima” per quanto riguarda l'alchimia tra musica e voce. Tutto questo è figlio di un metodo creativo discutibile e del riverberarsi di scelte egoistiche incrociate. Potrebbe essere andata all'incirca così: i tre hanno costruito questi pachidermi con estrema lentezza, brani di oltre dieci minuti, molto blandi, ipnotici, delle jam con davvero pochi spigoli ai quali aggrapparsi. Maynard ha atteso, covando un po' di rabbia, bestemmiando dentro tra vendemmie, bottiglie e progetti musicali paralleli. A un certo punto per Jones le musiche erano finite, mentre Keenan diceva che esitava a definirle tali (siamo nel 2016). Sono passati un altro paio d'anni, Keenan ha fatto altro, e quando finalmente ha avuto davanti a sé i pezzi, forse ha bestemmiato di nuovo. Ma dopo così tanto tempo la voglia di impegnarsi a fondo, la fame di musica, e anche l'urgenza comunicativa erano andate a farsi benedire.

Così, ha messo insieme i testi in breve tempo, perché davvero non ne poteva più di quella attesa. Poteva scervellarsi per contrastare la marea di note, poteva ruggire più forte delle corde. Ma chi glielo faceva fare? Tanta roba da ascoltare? Lasciamo spazio alla musica. Potrebbe averlo fatto un po' per pigrizia e vendetta, un po' per mancanza di ispirazione. Tuttavia, su brani così lunghi queste liriche succinte vanno strette, per usare un eufemismo. Il canto così minimalista e timido non rende giustizia al nome che rappresenta. E qui emerge il vero problema del disco, che getta anche una luce più chiara sulla qualità dei precedenti. Senza il contrappunto fitto del cantato, la musica dei Tool perde parecchio.

Non sono una prog band "di vecchio stampo", diciamolo, e i (pochi) brani a predominanza strumentale sono più delle sedute ipnotiche, certamente non centrali nei dischi. Penso ad esempio alla deriva finale del disco Lateralus, che infatti è una digressione psichedelica, il cuore è sicuramente altrove. Qui le liriche si adeguano alla struttura dilatata dei pezzi (per forza di cose o per mancanza di voglia di cambiare gli arrangiamenti, cioè di chiedere agli altri di farlo), Keenan punta sulla voce pulita, su melodie eteree, che non vanno in collisione (virtuosa) con le musiche e non le fanno risaltare per contrasto. Anzi, aggiungono opacità.

La musica dei Tool funzionava per le spigolature che creava con la evoluzioni vocali di MJK, i giochi ritmici, le sterzate di chitarra, le propulsioni di basso erano in continuo dialogo con quel diavolaccio che se ne inventava di ogni. E funzionavano perché era la voce a dare anima a quelle architetture così straordinarie ma fredde, incapaci di comunicare se non attraverso l'interpretazione “metafisica” di Jimmy. Ingranaggi oliatissimi e intrecciati con puntualità certosina alla loro controparte filosofica, esistenziale, narrativa, personale.

Ora che le parole si diradano, rallentano, si fanno meno urgenti e aggressive, a rimetterci è tutta la cattedrale musicale. Che per molti sarà pregevole, ma a queste velocità secondo me diventa davvero stucchevole, è il suono dei Tool diventati dinosauri, quasi inascoltabili. Mancano cuspidi vere a dare sapidità, una grande masturbazione di bravura senza grip sull'ascoltatore. Alcune reiterazioni di riff pressoché invariati per lunghi secondi (ma forse minuti) non possono non avere un forte retrogusto da geriatria del rock. Tutto scorre come in uno spettacolo bolso, certamente curato, senza sbavature ma senza nemmeno essere quasi mai a fuoco. Ci si perde nella cura di un'architettura che funziona solo nei sogni egotici dei singoli musicisti. Emblematica l'inutile “Chocolate Chip Trip”, che non si vergogna di ripetere un motivo di synth per cinque minuti, solo per permettere a Carey di mettere la mazza sul tavolo.

La musica dei Tool nella sua scansione canonica non parla da sola, è un supporto ideale per dare forza a una voce. È matematica, numeri, geometrie, che non hanno una loro espressività autonoma. Il tema dell'album per Adam Jones doveva essere il sette perché c'erano diverse canzoni con quel numero nei tempi. Questo dovrebbe dare l'idea della genialità quasi robotica, ma anche della carenza emozionale dell'approccio del chitarrista e dei suoi due sodali. Poi è arrivato Maynard, che aveva un concept proprio incentrato sul numero sette. Vedremo se con il tempo almeno le parole ci diranno qualcosa.

Dicevo che le geometrie musicali del diabolico trio non bastano a se stesse. Jones forse lo sa, e in uno degli episodi meno infelici del disco si dedica a un lungo assolo, che in “7empest” ben sostituisce la voce. È quanto meno un moto emotivo, una scarica di adrenalina in un contesto in cui ci si sente comfortably numb.

Sono tutti brani che potevano essere asciugati di un terzo, o della metà, e resi più intensi con un restringimento delle maglie che avrebbe imposto un lavoro più accurato di intreccio con i testi. Bisognava mettersi lì a limare bene tutte le escrescenze e far collimare vocalizzi, rullate, assoli, pulsazioni. Questo sembra invece un film prima del montaggio finale, quando la vanità del regista troppo talentuoso gli fa credere di non poter scendere sotto le quattro ore. Poi arriva qualcuno e lavora di mannaia e bisturi. Ecco, questo è Fear Inoculum, una director's cut esageratamente prolissa e innamorata di sé.

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