Le poche spiazzanti note introduttive di “Oshi” con tastiera sghemba e synth, racchiudono perfettamente in se il motivo dominante che ha spinto Armando Greco, unica mente del progetto “Art Lexus”, lungo l’irta via densa di impervie difficoltà che riguarda il mondo della musica indipendente: diffondere il verbo dell’assoluta alienazione e della mancanza di qualcosa in cui credere veramente.

Al giorno d’oggi è veramente dura credere e Lexus questo lo sa. Per questo la sua musica esce dal calderone indie/rock/noise dell’underground italiano e le sue trame sonore non sono altro che pallidi scheletri, rumori circostanziati quanto mai velenosi ma allo stesso tempo sofferenti, che raccontano senza parole (che risulterebbero incomprensibili ai più) di stupidi e maniacali sogni infranti, poche speranze distrutte e spezzate nel giro di pochi istanti, durante tutta una vita. Null’altro che sofferenza, incrociata e per questo violentata dagli occhi insensibili, minacciosi e inquisitori degli “altri”.

Giudici supremi su questa Terra, anche se non si sa precisamente di cosa. La scarica di follia che attraversa “Dissidents” forse, con la sua ritmica quasi dub e la batteria elettronica sempre uguale racchiude il barlume di tutta un esistenza, fatta di stenti e poco altro, lo spettro dell’alienazione vissuta da dentro che fuori non trova riscontro, devastata dal baccano fintamente ipocrita e stereotipato che distrugge l’essere umano in quanto singolo disposto a relazionarsi in un mondo dove l’apparenza conta più di ogni cosa, dove essere o non essere equivale solo a non esistere, a castrare gli istinti, a rendersi conto che forse no, è meglio lasciarsi andare, anche se il nemico invisibile è presente in ognuno di noi.

Diversi siamo e diversi resteremo, le incomprensioni scandiranno per sempre il nostro battito vitale finchè anche quel battito si farà sempre più incostante, irrazionale, fino a collassare e finalmente ad implodere su se stesso.

Entra subito la chitarra noise-rock in “Every other step” e se ne sentiva la mancanza, una scossa dopo il torpore, un alito di vita che vola via lontano, che si respira attraverso la forza di un rock con poche pretese, se non quelle di cercare di sopravvivere nonostante tutte le pressioni, i richiami, le insegne al neon luccicanti ma quanto mai fuorvianti. Ingenuità vera e spirito adolescenziale si fondono in tutta la loro essenza, non se ne esce vivi.

Noise and Catharsis” è un battito meccanico, un fruscio ermetico e dissonante che non da tregua. E’ l’anima che reclama una via d’uscita, anche se questa non esiste.

Il verbo lexusiano si protrae poi con le snervanti dissonanze al rumor bianco di “Paths” e "Temptations” un’endovena sbilenca di Sonic Youth periodo “Confusion Is Sex”, la via della No Wave Newyorchese dei DNA e dei Mars riproposta e deframmentata, vilipesa, affranta, fino a ridursi a un suono inudibile e inqualificabile. Acidità stemperata mano a mano, come se in quell’acquerello al posto del colore rosso ci fosse sangue umano, vero, scuro, oramai cristallizzato.

Quanto mai oscura e disturbante risulta invece “Whirring Thougths” il brano più convicente del lotto, tra estremismi sonori e sperimentazione, un baccanale tra Merzbow e la drone music dei Sunn 0))) della durata di quattro minuti, dove il caos rumoristisco di Lexus raggiunge vette di visionarietà insperate con l’uso di frullatori, cacciaviti e chincaglierie varie.

Diploma continua l’esasperante cammino intrapreso dalla precedente traccia, il baccano si fa meno fisico e più mentale, un suono spossante e recalcitrante, destinato a spegnersi durante i suoi duecentoquarantasecondi al vetriolo.

Chiude l’opera la possente “Shiva” un altro esperimento destinato ai cultori del verbo del noise giapponese: Hanatarash, Incapacitants e Gerogerigegege frullati all’interno di un calderone bollente, figlio dell’harsh noise più scartavetrante e dannoso per il nostro sistema celebral-uditivo ormai in fiamme.

Quello che ascolterete durante questo “Blendergod”, il Dio Frullatore, è uno sperimentalismo a rotta di collo, indigesto, malsano e cupo, fottutatemente introspettivo.

Che vi spinge a guardarvi “dentro” alla fine del percorso antimusicale di Art Lexus, per poter scorgere una luce in fondo al pozzo nero delle vostre anime.

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