NdR.: Con questa recensione, vengo meno ad uno dei dogmi fondamentali che regolano la mia etica debaseriana: pubblicare recensioni "doppie". Mi scuso quindi in primis con me stesso, per aver ceduto alla superbia di credere che il mio scritto sia migliore di quello già presente (perché diciamocelo, rifare recensioni già scritte da altri per dare "una visione differente del disco" è spesso malcelata falsa modestia) e di rimando al suddetto recensore.
Difficile tentare di classificare o descrivere anche solo a grandi linee il marasma sonoro di cui è fatto "Trout Mask Replica", terza fatica di Captain Beefheart, al secolo Don Van Vliet, armonicista, clarinettista, cantante, ma anche pittore e scultore. E, particolare non secondario, amico e compagno di scuola di Frank Zappa, qui presente come produttore.
Anche se interamente composto in un'unica session di 8 ore al piano (successivamente arrangiata dal batterista Drumbo), Trout Mask è tutto fuorché un disco "improvvisato", sia musicalmente che concettualmente. L'album è contemporaneamente un capolavoro di premeditata erosione e di coraggioso ampliamento dei confini del rock.
La forma canzone era già stata abbordata, abbindolata e stuprata da altri (si pensi allo stesso Zappa, ai Fugs o ai Red Krayola, solo per citarne alcuni) ma qui l'attacco è ancor più radicale, diretto come è a minare le basi stesse della musica, cioè il beat, la ritmica. Si potrebbe definire Trout Mask un fine elaborato di decostruzione del ritmo, trasceso, sezionato in linee (a)melodiche singole e infine riassemblato in una forma aliena e distante. Distante dalle radici blues di colui che lo compose, e alieno al panorama rock, coevo e non. E proprio questa sua intrinseca alterità lo rende ancora, a 38 anni di distanza, un'opera unica, selvaggiamente autoreferenziale, totalmente disinteressata a qualsiasi accessibilità e fruibilità. Ebbe difatti pochi estimatori e un pingue numero di feroci detrattori già all'epoca.
Ma di che musica è fatto "Trout Mask Replica"? A grandi linee si può definire un disco blues, più nella struttura che nella forma; struttura su cui si intersecano schegge di free jazz, musica d'avanguardia, vocalizzi sguaiati, dadaismo sonoro di reminiscenza zappiana (ma in minima parte) e addirittura (proto) hard rock.
Già l'opening Frownland esemplifica bene la (non) struttura dell'opera: andamento zoppicante, due chitarre scarne perse nei propri soliloqui, batteria e basso totalmente liberi da ogni costrizione ritmica, e una voce blues paradigmatica che sembra non seguire alcuno strumento. Al tutto si aggiungono talvolta preziosi assoli free jazz di clarinetto e sax del Capitano (Wild Life, Hair Pie: Bake 1, Ant Man Bee, When Big Joan Sets Up).
Solo in casi isolati, durante i quasi 70 minuti del disco, si scorgono momenti formalmente meno dissonanti, come in Ellla Guru dove si affaccia uno stentato chorus, in Moonlight On Vermont condotta da un reiterato riff heavy, nel quasi canonico blues di China Pig, o nella conclusiva Veteran's Day Poppy, brano semi strumentale impreziosito una timida slide guitar.
Strumento aggiunto la voce, ora calda e baritonale (Dachau Blues), ora psicotica e straniante (Bills Corpse), ora declamatoria e sarcastica (Old Fart At Play), fondamentale nel conferire un alone ancor più alieno e alienante al disco.
In conclusione un'opera quintessenziale, emblema della più libera improvvisazione e monumento al genio sfrenato di un artista a tutto tondo. Ma, soprattutto, un disco che ha dimostrato come le barriere formali del "rock" potevano e dovevano essere infrante per rinfrescarne la primigenia carica dirompente e dissacrante, in barba ai formalismi vigenti già all'epoca.
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