Poi, scopri l’esistenza un gruppo finlandese, di cui non sapevi nulla e che nessuno – qui - ha mai recensito. Strada facendo, scopri anche che ha sfornato oltre trenta dischi dal 1994 ad oggi. Allora ti fermi e inizi a ragionare ad esempio sul fatto che possa trattarsi di un gruppo di merda e senza senso, di quelli che rilasciano dischi fotocopia e che sentito uno sentiti tutti. Insomma di quelle band che nessuno caga, proprio perché di cagabile non c’è nulla. Andando ancora avanti con la ricerca, vedi che affrontano in maniera piuttosto incazzosa rock psichedelico, space rock dai tratti persino krauti, il tutto variabilmente tinteggiato di hard rock ipnotico e aggressivo, heavy metal e persino puntate su folk, noise, ambient, post punk, hardcore e minimalismo del ‘900. E così dici: “Capperi”, ma anche altre parole vanno bene e, sempre a ruota, dici: “Vediamo se trovo qualcosa!” … e qualcosa trovi e inizi ad ascoltare.

Alla fine ti convinci che su questo gruppo debba necessariamente essere scritta una recensione e  che, pur con difficoltà, dovrai individuare un album, tra i molti, e iniziare a parlare di quello.

E allora ecco “Infektio” disco del 2011 e quindi della produzione più recente della band ma, teniamo conto, che dopo questo ne sono già usciti altri due.

Altra bella sorpresa, leggendo il booklet, è la presenza, per tastiere, effetti e voci, di  Mika Rättö, già apprezzato con i Moon Fog Prophet o Kuusumun Profeetta, che dir si voglia.

L’ascolto è chiaramente appassionante: viste la varietà estrema e la trasversalità della proposta il materiale da produrre è effettivamente tantissimo e questo lavoro non fa che confermare le molteplici influenze sonore del semi-aperto collettivo finlandese. Non credo sia una scelta casuale quella di piazzare in apertura la lunghissima jam psico-space-cosmica di “Salvos”. È un poderoso quarto d’ora acido lisergico per un trip in continuo crescendo tra soffi pinkfloydiani e intrecci elettrici di chitarre, synth e voce filtrate. Il brano si avviluppa, solo apparentemente, su se stesso e sembra non volere portare a nulla, ma la sua esistenza è quella della sotterranea pulsazione che lo anima. Ben diversa, pilotata da stralunati e improbabili vocalizzi, che la spingono in territori spaventosi e angoscianti, avanza più prepotente “Maatunut” ricca di disequilibri e dissonanze di provenienza jazz. E su questo standard sembra attestarsi il resto del lavoro, cosicché ogni strumento, grazie a filtri ed effetti di uso particolare fa perdere il contatto con sé stesso, tramutandosi, svanendo e ricomparendo. Nello sviluppo sonoro dei restanti brani appaiono cose molto diverse tra loro, ad esempio il noise sfegatato di “Peruuttamaton”, il post industrial ambient di “Pisara” ricchissima di contaminazioni pseudo sinfoniche, grazie alle quali sembra di avvertire orchestre misteriose stendere morbidi tappeti tra le dune sabbiose di lande desertiche.

Ecco, sarebbe inutile tediare con la descrizione di altri brani, ma al contempo sarebbe anche necessario, vista la forte varietà di proposta e di sviluppi. Lasciamo andare i suoni esattamente dove devono andare e, senza forzature, finiranno per appassionare anche l’orecchio più difficile.

Una gran bella scoperta, priva del benché minimo sapore commerciale e che sa essere decisa nel motivare per successivi approfondimenti.

p.a.p. sioulette

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