Uh-oh! Ci fanno notare che questa recensione compare anche (tutta o in parte) su velvetgoldmine.it

DAVID BOWLING.

Appena dopo Outside (che non era niente male), e dopo i bastardissimi anni ottanta e quella mezza stronzata del progetto Tin Machine (ma perche dico io... perchè?!), invece che proseguire con l'atteso secondo capitolo di Nathan Adler, David Bowie nel 1997 decide di dare alle stampe questo "Earthling", che nelle intenzioni del Duca avrebbe dovuto aprirgli le porte al mondo dei GGiovani, appassionati dei ritmi jungle, techno e drum'n'bass (ehh si, sembrano passati secoli!), che furoreggiavano da un paio d'anni nei clubs di mezzo mondo, e che ovviamente ritroviamo pari pari in questo album.
Un lavoro bizzarro e tracotante giovanilismo senile a più non posso, suonato da un gruppo di musicisti anche di buon livello artistico ( Reeves Gabrels, Mike Garson, Gail Ann Dorsey, Zachary Alford e Mark Plati etc) e prodotto, udite udite, per la prima volta dai tempi di Diamons Dogs, dal solo DB!!
Bowie così, che si sente Ggiovane come non mai, sforna un album che, pur agli antipodi del suo predecessore e destabilizzando il suo pubblico per l'ennesima volta, ci restituisce un disco dedicato all'Eterna Ricerca della Modernità Perduta, e se vogliamo, visto i magri risultati, oserei dire fine a se stesso.
Se Outside era profondo e complesso, Earthling è leggero e veloce.
Se Outside era una narrazione coerente, Earthling è puro divertissement musicale e linguistico.

Se Outside era bello, Earthling non lo è.

Punto.

Insomma, ancor oggi viene da domandarsi: ma che stracazzo ha voluto dirci il sig. Bowie con questa mezza ciofeca né carne né pesce? Che il mondo "va veloce"? che ormai "tutto è sconnesso"?! che bisogna "correre come schegge impazzite"?!
Miiii che botta di originalità, viene da chiedersi!!

I brani colpiscono l'ascoltatore con l'incedere lancinante delle chitarre, la velocità e la compattezza di una sezione ritmica di batteria e basso straniante con uso strabordante di tutti gli ultimi ritrovati dell'ultima tecnologia disponibile (come ad elemosinare un "ohhhh" meravigliato alle giovani leve che si ascoltano per la prima volta "questo" Bowie).
Tutto bene.
Tutto lodevole.
Ma viene lecito domandarsi:

... ESTICAZZI?!

Cosa ci voleva dirci Bowie con questa strabordante "orgia sonora" che ci lascia a malapena un gusto di "irrisolutezza" incompiuta alla fine dell'ascolto? Era quello il senso? I soliti fans-sfegatati diranno "certo che si"... tutti gli altri, suppongo, si faranno le mie stesse domande.

Si passa dal crossover di jungle'n'roll di "Little Wonder" (l'unica che si ricorda ancora), alle pulsioni techno di "Dead Man Walking" e "Law". Dall'incipit in puro drum'n'bass di Seven Years in "Tibet" alle galoppate dissennate rock di "I'm Afraid of American" e "Looking for Satellites" fino alla commistione di generi e strati sonori di "Battle For Britain" e "Telling Lies" in un campionario di stili e tecnica alquanto "freddi e spiazzanti" come, immagino, fossero le intenzioni del Duca Bianco.
L'uso della voce e del testo poi, è a dir poco versatile e mutevole (per non dire scollegato e incoerente in tutto ) con esperimenti di cut-up alla W. Burroughs misti a liberi nonsense visionari e post-psicadelici.

Insomma, un disco transitorio e di rottura, come ci ha abituato sovente il diafano cantante ormai rincoglionito nella sua isoletta, e che per molti (me compreso) ha segnato un varco irrimediabile tra la vecchia produzione Bowiana e questo nuovo corso (vedi l'altra stronzata di "Reality"), che ormai ci restituisce scampoli di un Bowie appannato e annaspante su tutti i fronti, incapace di tornare a galla (musicalmente parlando), perso dietro un "pre-pensionamento" dorato nella sua "Isola che non c'è" con la bella Iman che lo sollazza in lungo e in largo, da mane a sera... gli vogliamo dare per questo?!

Certo che si.

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