"My premise is very simple: Israel, contrary to commonly accepted propaganda, is a positive model, a case study for anyone who finds himself living in a democratic society that must eventually confront a defensive war-one that encompasses the entire universe of Western democracy today".
(F. Nirenstein, dalla presentazione all'edizione statunitense del libro)

La legge sulla par condicio e l'esigenza di non influenzare il diritto di voto degli utenti del sito mi spingono, con questo mio nuovo intervento, ad abbandonare la politica interna per dedicarmi, con più ampio respiro, ad una tematica di rilievo internazionale interessante quanto delicata, ovvero la "questione ebraica": meditata dopo la lettura di questo interessante saggio di Fiamma Nirenstein, autorevole rappresentante della comunità ebraica italiana ed ottima giornalista, già eletta nel nostro Parlamento.

Prima di discutere del libro, è forse opportuno chiarire - anche all'utente medio del sito, magari digiuno di storia - i termini della questione analizzata dal saggio della Nirenstein: dopo la cacciata da Gerusalemme nel 70 d.C., gli ebrei furono, per diversi secoli, una Nazione senza Stato, ovvero una comunità di popolo, cultura, religione priva di sovranità su una determinata porzione di territorio, e, conseguentemente, priva di istituzioni statuali espressive di tale potere sovrano.

Per lunghi secoli essi furono "dispersi" nei vari Stati europei, venendo variamente accolti, ora con favore (Paesi Bassi soprattutto, ma anche Inghilterra), ora con sostanziale indifferenza, altre volte con sfavore più o meno pronunciato (fu nella Repubblica Veneta che nacquero, ad esempio, i primi "ghetti": dal nome del quartiere ebraico sito nei pressi delle locali fonderie, richiamando il "getto" del metallo fuso).

Particolare fu il ruolo degli ebrei nel contesto mitteleuropeo ed europeo orientale: essi influenzarono profondamente la cultura di quei luoghi, soprattutto in ambito asburgico (pensiamo alla notevole influenza che ebbe l'ebraismo nella società praghese) o nell'Est più lontano (dove l'ebraismo influenzò non poco parte della cultura polacca), per non dire del mondo tedesco, in cui l'influenza ebraica toccò non solo vasti settori culturali, ma anche lo stesso sviluppo economico, diventando gli ebrei, ed in particolare la famiglia Rotschild, i principali finanziatori delle economie degli Stati tedeschi preunitari, fino ad assurgere ad arbitri della stessa economia europea (e dunque mondiale) dell'epoca, finanziando campagne militari come intraprese commerciali al di là degli oceani.

All'ascesa ed importanza ebraica nel contesto socioculturale europeo corrispose, come tragicamente noto, un crescente movimento antisemita, le cui radici sono troppo complesse e variabili per essere agevolmente sintetizzate: piuttosto che cercare una singola causa dell'antisemitismo, è preferibile limitarsi ad osservare come, nei confronti degli ebrei, pesassero una serie pregiudizi storici, sociali e psicologici (spesso frutto di autentiche falsificazioni) inerenti alla loro "colpa deicida", alla loro pretesa "infedeltà" nei confronti delle nazioni ospitanti, alla loro "influenza economica" e quant'altro: quello che conta è osservare come gli ebrei fossero, al contempo gli "estranei perfetti" rispetto ad ogni altro individuo ed i "colpevoli perfetti" rispetto ad ogni colpa possibile (come ad esempio alcuni casi parossistici di infanticidio o rapimento, rispetto ai quali si scatenava spesso un'irrazionale e folle "caccia all'ebreo").

Fu nel XX secolo che questi pregiudizi trovarono tragica sintesi, fino ad esplodere, nella Germania nazista, in cui le radici popolari e, sorprendentemente, teoriche (Fiche, Nietzsche), religiose (Lutero) dell'antisemitismo furono il detonatore della follia hitleriana: oltre sei milioni di morti nell'Olocausto (a cui vanno comunque aggiunti altri rappresentanti di minoranze etniche o culturali, come zingari, omosessuali, dissidenti politici). Tragedia, questa, alla quale non fu indifferente l'Italia Fascista, macchiatasi della colpa della "leggi razziali" del 1938 e della successiva deportazione di migliaia di ebrei nei campi di sterminio, da Buchenwald, a Treblinka o ad Auschwitz.

Fu dopo questa tragedia che la Comunità internazionale ritenne doveroso contrastare in varie dimensioni l'antisetimismo ed ogni forma di razzismo: fra le varie politiche attuate per evitare la ripetizione di siffatte tragedie, vi fu anche la doverosa cessazione della diaspora ebraica con la nascita dello Stato di Israele, sotto l'egida dell'ONU, nel 1948.

La questione, a questo punto, poteva dirsi risolta: eppure, come spesso accade nella storia e nella politica, presero allora abbrivio problemi ulteriori, di rilievo anche contemporaneo.

Avvenne infatti che la realizzazione dello Stato di Israele (per ovvie ed intuibili ragioni filo-atlantico e filo statunitense) fu avversata dalle popolazioni palestinesi stabilitesi in quei territori ormai da millenni: di religione musulmana, ma di etnia affine a quella ebraica, ove si consideri come tutte quelle tribù derivino dalla mitica figura di Ismaele, figlio illegittimo dell'ebreo Abramo. I palestinesi trovarono poi il sostegno degli altri popoli arabi vicini, fra cui siriani ed egiziani, dando il via ad una serie di guerre, guerriglie e bassa intensità e lotte che si trascinano ancor oggi, con morti da entrambe le parti.

Lotte e guerre talmente complesse in cui è difficile, dopo anni, scorgere i motivi originari e le ragioni dell'una o dell'altra parte.

L'aspetto più interessante della vicenda, per noi italiani, è ben colto dal saggio della Nirenstein, e riguarda il ruolo della nostra popolazione rispetto al conflitto mediorientale: ruolo in cui i pregiudizi politici e le lotte tipicamente interne hanno portato i partiti politici e le masse giovanili, soprattutto di sinistra, a riconoscersi nella difesa dei diritti della popolazione palestinese ed araba, adottandone simboli ed inni: questo non tanto per una razionale opposizione allo Stato ebraico in quanto tale, ma per una opposizione latente agli Stati Uniti visti come i registi occulti della crisi mediorientale e della stessa nascita di Israele, qui inteso come una longa manus della "plutocrazia" americana, a propria volta rappresentata da figure d'origine ebraica particolarmente influenti, come Henry Kissinger.

E' tragicamente ovvio che, in un simile contesto, fatta la semplice equazione USA/Israele= URSS/Palestina, le sinistre italiane parteggiassero per la popolazione palestinese, ed, in generale, filoaraba, sulla base di un'acritica, e come sempre fideistica ed infantile, adesione ai dettami del Partito e del Pensiero Unico.

Questa grossolana adesione, paradossalmente, finì per nutrirsi degli stessi pregiudizi antiebraici, o più diffusamente antisemiti, che circolavano in Europa da diversi secoli e che, come abbiamo poc'anzi chiarito, furono una delle stesse cause dell'Olocausto, o per meglio dire della "non manifesta opposizione" dei popoli europei allo sterminio della popolazione ebraica.

Per quanto sembri di primo acchito paradossale, vista anche la chiara matrice ebraica del pensiero marxista, la sinistra finiva dunque per strumentalizzare due volte la questione israeliana; la prima volta, sottovalutando le cause dell'Olocausto ed i suoi effetti per banalizzarle all'interno di lotte politiche interne; la seconda volta, utilizzando le vicende storiche relative alla nascita dello Stato di Israele come pretesto, o cavallo di Troia, per l'ennesima vacua critica al presunto imperialismo americano, senza avvedersi di un argomento comunque fondamentale, di cui ancor oggi si sottovalutano gli assunti: ovvero che lo Stato di Israele, per quanto criticabile in ordine alle politiche militari avviate dal suo efficientissimo Esercito e dai suoi eccezionali Servizi Segreti (ben descritti dal "Munich" di Spielberg), era e resta uno Stato democratico, specchio di una virtuosa coesistenza di valori ebraici e miglior tradizione occidentale, in un contesto sociopolitico in cui questi valori non si sono mai affermati e non hanno mai compiutamente attecchito.

In tale ambiente, sono stati invece i moderati a sostenere con assoluta coerenza e lealtà la posizioni dello Stato israeliano, sia riconoscendo in maniera assolutamente schietta la tragedia dell'Olocausto (di cui gli stessi moderati italiani furono, purtroppo, parte in causa, non opponendosi con nitore alla persecuzione ebraica, sia come fascisti che come cattolici), sia riconoscendo la centralità geopolitica dello Stato di Israele nello scacchiere internazionale ed il fatto che la difesa di Israele finisca per essere, al dunque, una difesa della democrazia nei confronti di tendenze antidemocratiche.

Il libro della Nirenstein lumeggia, con una prosa esplosiva, fiammeggiante, che non lascia prigionieri, e non dà alcuna tregua al lettore, la questione ed il suo impatto nella politica italiana, invitando tutti gli italiani "a dirsi Israeliani", ovvero schiettamente consapevoli della propria storia, ed ahinoi anche delle nostre colpe, ma anche edotti dell'importanza della democrazia come valore assoluto, la cui realizzazione sembra essere giustificata con ogni mezzo possibile, contro ogni nemico.

Il libro costituisce, in tale prospettiva, anche una rimeditazione del pensiero giovanile della Nirenstein, sedotta dalle sirene del '68 e dal libertarismo giovanile che spezzando tutte le catene del passato, recideva ingenuamente anche le proprie radici, ancorate a solide tradizioni e valori che, più che abbandonate, andavano rimeditate ed aggiornate.

Il messaggio, tuttavia, non si ferma solo qui: il libro ha anche una prospettiva politica e guarda al futuro, non solo al passato. Affermare che "Israele siamo noi" vuol dire anche che il modello politico israeliano deve considerarsi un modello generale applicabile anche in Europa, e, soprattutto, in Italia, allo scopo di difendere i valori fondanti della civiltà europea (le cui radici ebraiche non sono discusse nonostante i tentativi di rimozione del passato) nei confronti delle aggressioni esterne provenienti dalle popolazioni arabe e filo islamiche, soprattutto a seguito dei fatti dell'11 settembre e dell'attacco sferrato alle Torri Gemelle come simbolo della cultura occidentale: occorre, in tale visione, respingere siffatte aggressioni, portatrici di disvalori, e confinarle verso spazi esterni alla comunità occidentale, trattandosi di fenomeni insuscettibili di assimilazione nel più generale canone della cultura occidentale.

Un modello che, quindi, potrebbe essere utile, anche nel nostro Paese, per arginare gli effetti di un'immigrazione che propone dei valori alternativi a quelli fondanti la nostra civiltà ed i valori stessi di un Occidente che ha le sue radici, e la sua più alta espressione, nello Stato di Israele, visto come avanguardia e simbolo di tutti i paesi del mondo civile.

Un libro utile dunque: esso consente di mettere all'angolo i pretesi paladini della democrazia in Kefiah, oltre che le loro fragili radici, di dimostrare l'intima contraddittorietà della sinistra italiana rispetto a problemi storici e geopolitici, fornendo al contempo un'efficace ricetta per rispondere ai problemi del multiculturalismo contemporaneo, facendo tesoro degli insegnamenti della Storia.

Il colpo d'ala di questo libro è dunque quello di farci mettere, dopo secoli di distinzioni, nei panni del popolo ebraico, dando valore universale alla sensazione universale di chi si sente perennemente sotto minaccia da parte di aggressioni esterne finalizzate alla distruzione dell'identità del popolo. In questo il significato autentico dell'ammonimento morale contenuto nel titolo del libro.

Penso sia sufficiente ed invito tutti gli utenti a riflettervi bene, astenendosi da commenti strumentali e basati sul tipico luogo-comunismo che affligge molti, e sull'a-storico antisemitismo dell'estrema sinistra italiana, cercando piuttosto di riflettere sui contenuti e stimoli presenti in questo ottimo e schietto lavoro.

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