Se esiste un album che incarna l’ideale di fusione, tramite sintesi, di tradizione musicale e innovazione tecnica, di materiale edito – concepito per essere, più o meno legittimamente, ad uso e consumo delle generazioni successive – e atmosfere, al contrario, inedite, quell’album non può che essere “Led Zeppelin”, esordio omonimo di uno dei complessi più pregnanti e adrenalinici che la cronologia del rock abbia mai accolto.

I Led Zeppelin sono una matura, eppur genuina, evoluzione, che si verifica grazie alla graduale trasformazione di esperienze precedenti, importanti ma ancora acerbe, in una realtà più consolidata, più cosciente di sé stessa, e fiera d’essere.
Il cuore pulsante delle tre avventure (Yardbirds e New Yardbirds prima, Led Zeppelin poi) si identifica nella persona di James Patrick Page (in arte Jimmy Page), chitarrista ma non solo, forgiatore – e spesso recuperatoredi riff inestinguibili e di assoli improntati all’improvvisazione ma non solo, autore dei testi ma non solo.
Page si aggiudica, responsabilmente, il diritto – e il dovere – di curare gli arrangiamenti delle canzoni, e di lavorare sulla resa sonora, in studio. Il suo stile di registrazione, non indifferente nel 1969, anno della prepotente entrata dei Led Zeppelin nel panorama musicale “pop”, nel senso di “popolare”, che include nomi da capogiro come Rolling Stones, Who, Pink Floyd (in Inghilterra), Jefferson Airplane e Frank Zappa (negli USA), viene battezzato come “live in studio”, trattandosi di una tecnica che permette, attraverso il posizionamento non di uno, ma di due microfoni, uno vicino all’amplificatore, l’altro più lontano, di ricreare, in una stanza insonorizzata, una situazione da concerto. Tale prodigiosa trovata scaturisce, spontaneamente, da un esercizio costante, assimilato da Page, come turnista professionista.

In seguito alla disgregazione degli Yardbirds, Jimmy, anziché staccarsi definitivamente dal progetto appena affondato, aggiunge “New” al nome preesistente, riconferma Chris Dreja al basso, gli affianca John Paul Jones come collega di strumento, e ingaggia Robert Plant (alla voce) e John Bonham (alla batteria). Plant entra nell’organico dei New Yardbirds in seguito all’offerta rifiutata da Terry Reid, cantante dal timbro molto simile a quello del fortunato nuovo entrato. Aneddoto abbastanza tragicomico, vista la leggendarietà che Page & Co costruiranno poi. Inoltre, lo stesso Reid rifiuterà, poco tempo dopo, un’offerta dai neonati Deep Purple. Affari tuoi, caro Terry! I New Yardbirds durano solo un anno (1968), che basta loro per collaudare il repertorio live, che finirà per essere elaborato in studio, diventando, infine, carne fresca per il nuovo album.

I New Yardbirds diventano storia vecchia quando nel gennaio del ’69 esce nei negozi l’esordio a nome Led Zeppelin (senza Dreja). La copertina è spiazzante: l’immagine raffigurante l’incidente dell’Hindenburg, dirigibile tedesco esploso il 6 Maggio 1937 (quindi poco prima del secondo conflitto mondiale) riempie le iridi di milioni di acquirenti di dischi negli Stati Uniti, paese della prima stampa assoluta.
Il lancio dell’album viene fortemente voluto e gestito da Peter Grant, che espone la giovane band inglese agli occhi del mondo. Lo slogan portante recita “Led Zeppelin – the only way to fly”. L’America, la stessa che si è divisa quando i Doorssi sono aperti un varco dall’altra parte”, ma che deve ancora ospitare la prima edizione del festival di Woodstock, è pronta ai Led Zeppelin che, seppur ricevano inizialmente poca acclamazione dalla critica, conquistano una buona fetta di pubblico.

Le nove tracce di “Led Zeppelin” creano un’associazione di blues e rock psichedelico, al quale si aggiunge un ingrediente segreto, che già dal ’67 è stato accennato ma non approfondito, da band britanniche quali i Cream, Jimi Hendrix Experience e gli stessi Yardbirds: un sottogenere del rock che verrà successivamente (’72) chiamato “hard”, a causa delle sonorità e del modo di porsi dei musicisti.
I testi di Page sono caratterizzati da un forte maschilismo di fondo, in linea con la tradizione blues, e riguardo ad alcuni temi musicali, da lui firmati, si tratta – ahimè – di mero ri-arrangiamento. In questi ultimi tempi, con la copertura massiccia di Internet e quel che comporta, molti fan dei Led Zeppelin sono costretti ad ammettere, tristemente, la forte dipendenza che Page ha avuto fin dall’inizio dai suoi maestri blues, folk e country – una dipendenza dichiarata solo in parte. Se anni fa si poteva pensare che brani come “Dazed and Confused” fossero tutti farina del sacco di Jimmy, beh, oggi non è più possibile, in virtù delle battaglie legali perse, contro i legittimi proprietari delle intere melodie prese in prestito, o rubate.

A prescindere da quest’ultimo dato, “Led Zeppelin” costituisce una pietra miliare della musica del Novecento, con i suoi pro e contro.
È musica piena di energia, vitale, mai stanca. I nove brani scorrono come in un concept: brevi cavalcate forsennate (“Good Times Bad Times”, “Communication Breakdown”), che anticipano hit come “Paranoid” dei Black Sabbath e “Breaking the Law” dei Judas Priest, non stonano con brani più intensi e lamentosi come “Babe I’m Gonna Leave You” e “Your Time Is Gonna Come” (quest’ultima dominata da John Paul Jones, bassista e organista).
Willie Dixon è la grande presenza dell’album, come punto di riferimento in due casi: “You Shook Me” e “I Can’t Quit You, Baby”. “Black Mountain Side”, unico pezzo strumentale, accreditato a Page e a Viram Jasani, musicista indiano (nato, però, in Kenya), che vi suona il tabla, risulta essere molto simile, se non identico aBlack Waterside” (pure il titolo è preso quasi pari pari) di Bert Jansch, virtuoso della chitarra molto caro a Page il Furbone, che non si è premurato di citarlo tra i crediti.
Persino “How Many More Times”, che chiude l’album, e che forse è il miglior inserto di tutto il lavoro, risulta essere un collage di citazioni, non dichiarate su vinile: “How Many More Years” di Howlin Wolf ne costituisce la prima parte; con il cambio di tempo e di umore, Plant, come in preda a un delirio, regala una perfetta esecuzione vocale ed espressivo-teatrale, rievocando la “The Hunter” di Albert King con i Booker T & the MG’s.

Con ogni strumento a fare il proprio mestiere, senza passare mai realmente in secondo piano, i Led Zeppelin rappresentano uno dei massimi esempi di unità e di affiatamento, qualità sulle quali band come i Pink Floyd non potevano, fisicamente, contare, lavorando in stanze differenti.
La magia di Page & Co non sta nella loro originalità musicale, ma nel loro aver creato una fusione alchemica, che non è la semplice somma delle parti.
Nel ’69 erano la “next big thing”, ma col tempo hanno dimostrato di essere qualcosa di più, di molto di più. Non hanno avuto, dalla loro, la visionarietà dei Pink Floyd o dei Velvet Underground, ma in quanto a rock ‘n’ roll sono stati forse i più efficaci a insegnarlo al grande pubblico.

Voto: 8,5/10 (condizionato dal fatto che è praticamente un album “di cover”)

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