Dopo l'ottimo inizio i Litfiba bissano le proprie capacità sfornando il loro secondo full lenght, questo '17 re' che rimarrà il loro miglior lavoro di sempre.

I presupposti per gridare al capolavoro ci sono tutti, dalle atmosfere new wave a quelle etniche, passando a momenti di vero e proprio rock a momenti di claustrofobica nitidezza musicale. Un lavoro superbo in fase di composizione e di esecuzione rende questo album un master piece per tutto il rock italiano. 16 canzoni che volenti o nolenti rimangono nella testa del beato ascoltatore, che attento saprà cogliere ogni sfumatura, ogni sovraincisione, ogni pennellata di armonia in questo viaggio nella mente dei cinque fiorentini.

Il trip parte con "Resta", felice matrimonio di rock e new wave, veloce ed ossessiva, per dare poi spazio alla leggendaria "Re del silenzio", canzone oscura e dal testo estremamente introspettivo, con quel "perchè non so più amare" a riecheggiare nella stanza oscura dove Pelù affogava i propri demoni. "Cafè mexcal e Rosita" è un divertissment in cui si denotano le attitudini bevereccie del quintetto; da notare un magistrale lavoro di tastiere. "Vendette" ci mette di fronte al primo capolavoro del disco. Partenza con chitarra acustica, lavoro di batteria e basso realmente inconcepibile e sonorità da brivido. Assolo finale pregno di rock and roll. E dopo una canzone di questa fattura, senza respiro, appare un'altra perla di rara bellezza, "Pierrot e la luna", raffinata e romantica canzone dark in cui la luna appare realmente nella mente dell'ascoltatore. "Tango" vive di reminiscenze etniche, e benchè del tango vero e proprio non abbia nulla coinvolge con il proprio incedere. Segue "Come un dio", unico pezzo (a detta di chi scrive) non all'altezza del complesso, risultando noiosa, lunga e con in mezzo un trallallerolà di troppo. Subito dopo la claustrofobica "Febbre" riporta la qualità sui binari necessari ad un lavoro di tale portata, rendendo il concetto di immobilità e -è necessario ripetersi- di claustrofobia tangibile e presente.

A questo punto i Litfiba decidono che è l'ora di entrare nella storia della musica, e alla traccia numero nove ci regalano "Apapaia": inizio soffocato di basso, ponte rock e ritornello ossessivo. Forse la più grande canzone di questo gruppo. Segue la sognante "Univers", dichiarazione d'amore per viaggio ed esperienza, in cui lo spirito tende a sentirsi leggero come il pezzo pretende; "Sulla terra" è invece un materiale viaggio in un inferno colmo di odio e di avidità, con interludio onirico generato dall'ormai perfetto binomio Aiazzi-Maroccolo. Segue "Ballata", altra canzone che rischia di diventare un capolavoro, con l'infinita chitarra acustica di Renzulli a farla da padrone, un basso sempre presente e protagonista ed un cantato a dir poco strepitoso di Pelù. E' invece il nichilismo il tema portante delle due seguenti songs, "Gira nel mio cerchio" e "Cane", canzoni rock e dure, con testo pieno di rabbia. L'orientaleggiante "Oro nero" (figlia diretta di Robert Smith) è una cavalcata dark in cui risalta il sopraffino lavoro di Ringo De Palma, nonchè la chitarra impazzita di Renzulli. A chiudere questo duro viaggio nella realtà (una realtà che i Litfiba ci obbligano a vivere per l'intera durata del disco) è la sferzata antimilitarista di "Ferito", canzone durissima e che dal vivo regalerà poi disastri…

A questo punto possiamo premere stop e ripiombare nella grigia vita di sempre, distante anni luce dalle macchie di colore con cui questo album ci dipinge gli occhi e ci inebria la mente; oppure, saggiamente, mandare indietro, tornare alla traccia 1 e lasciarsi nuovamente rapire da questo universo musicale creato da cinque ragazzi fiorentini, che presero nome Litfiba.

BAND:
Antonio Aiazzi - tastiere
Ringo De Palma - batteria
Gianni Maroccolo - basso
Piero Pelù - voce
Ghigo Renzulli - chitarra

G.C.

Carico i commenti... con calma