C'è poco da fare, il gruppo del poliedrico Bellamy ricorda e di molto il combo del compianto Freddy Mercury, e non solo a livello strettamente musicale, cosa per altro abbastanza evidente e influenza palesamente dichiarata da parte del frontman, ma piuttosto a livello di scelte logistiche, di marketing e di immagine ed estetica.

Pomposi e discussi almeno quanto i Queen, ma anche abili, almeno quanto questi ultimi nel sapere accontentare e unire inclinazioni e flavour mainstream e ricercatezza sonora.

"Black Holes And Revelations", quarto disco, conferma quanto precedentemente detto, risultando un disco estremamente e forse troppo eteronegeo e ambizioso, che passa senza nemmeno chiedere permesso da mielosi e stucchevoli motivetti pop con base pianistica in un misto U2/Keane ("Starlight") o falsetti urticanti e fuori luogo su una base di synth e tappetto di chitarre ("Supermassive Black Holes"), a pezzi decisamente più inusuali, quali le atmosfere orientaleggianti di "City of Delusion" o il connubio rock-dance, che crea un sound molto particolare in "Map Of Problematiquè", tra gli esperimenti più riusciti.

Gli episodi migliori riesiedono in un pezzo secco e molto heavy per gli standard dei Muse (sullo stile delle precedenti "Hysteria" e "Stockhole Syndrome"), con un drumming assolutamente alienante e chitarre aspre contrapposte ad un solenne e lento refrain classico a cui Bellamy ci ha abituato di "Assasin" e i 6 minuti della hard prog-oriented "Knighs Of Cydonia", con divagazioni varie e una lunga introduzione a base di synth, acustiche e trombe memorabile, che ci conduce in una seconda parte in cui potenti chitarre e una sezione ritmica finalmente martellante come non mai prendono il sopravvento, accompagnandoci per mano in un lungo viaggio per lo spazio all'interno di una battaglia intergalattica per la sopravvivenza, una sorta di Bohemian Rhapsody del 2000, tra i migliori pezzi mai scritti dai Muse. Degno di nota invece il riff portante di "Exo-politcs", che idealmente riporta all'hard-rock d'annata, nonostante poi la canzone si sviluppi su una base melodica ben più canonica.

Non manca nemmeno il mood e le atmosfere minimaliste e dimesse stile Radiohead: si veda la breve "Soldier's Poem", che non manca di ricordare i Queen nei cori finali e la ballad con tanto di riverberi chitarristici che riproducono un rilassante ambiente marino di "Invincible" o l'amore per l'elettronica e i synth, sparse un po' come lo zucchero in una ciambella dall'iniziale "Take a Bow" dal sound a metà strada tra l'aero-spaziale e l'apocalittico passando per la già citata "Map Of Problematiquè" o il singolo "Supermassive Black Holes".

Se complessivamente il risultato non è negativo e si intravedono alcune idee interessanti, va però posto l'accento e la lente di ingradimento su quello che non va e penalizza un po' la resa finale, che sarebbe potuta essere di molto superiore.

In particolar modo non convincono pienamente le linee vocali di Bellamy, che mancano spesso di un'idendità ben precisa, volendo passare per troppi stili differenti (dal falsetto alle note basse e dimesse), risultando spesso incompatibili. Un'altra cosa riguarda un eccessiva ed esagerata eterogeneità della proposta, con traccie tutte diverse le une dalle altre, tant'è che si può parlare non di un opera, ma di piccoli frammenti, spesso con nessuna soluzione di continuità.

Nel complesso, manca un'anima di fondo, una matrice comune, a questo lavoro, che sia ben idenfiticata.

Nonostante tutto i fan dei Muse lo ascolteranno e lo ameranno, gli altri troveranno comunque almeno una/due canzoni, che riusciranno a colpire lo stesso. Se i Muse accantonassero la voglia di accontentare e voler diventare fruibili a tutto e tutti indistintamente, allora si potrebbe guardare a loro con molta più curiosità e fascino per il futuro.

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