Da tempo mi avvicino con scetticismo a tutto quello che fa Nick Cave. Il problema è che tutto è autoreferenziale e questa è chiaramente una scelta più o meno consapevole che ha finito con il farne una specie di rappresentazione iconografica, una messa in scena di se stesso o di quello che pretende di volere essere o che vuole che noi pensiamo che egli sia. Ma dove sta la differenza tra tutte queste possibilità, qualunque questa sia, è troppo sottile per essere afferrata e in fondo non sta a noi analizzarne le ragioni, né giudicare l'uomo, come egli vorrebbe che facessimo in effetti, mentre penso che sia giusto giudicarne solo il lavoro artistico.

Certo è difficile, commentando l'album in questione, non cadere in una retorica forzata e pensare a quanto di tragico gli sia accaduto nella sua vita personale quattro anni fa, tema già sviscerato fino in fondo nel disco precedente ("Skeleton Tree", 2016) che peraltro è stato il suo disco migliore negli ultimi anni, un vero e proprio sussulto nella piatteza delle sue produzioni artistiche più recenti.

Molto probabilmente c'è un prima e un dopo nella vita e nella produzione artistica di Nick Cave e non potrebbe essere altrimenti, perché c'è sempre un prima e un dopo e un evento drammatico costituisce uno spartiacque, ma concentrarsi su quest'aspetto finisce con l'avere qualche cosa di "morboso" e che non sarebbe giusto, così limitiamoci a dire che "Ghosteen" (Ghosteen Ltd.) si può considerare un prosieguo giustificato dell'album precedente, ma non necessariamente e qui sta il punto della questione, ne mantiene lo stesso livello sul piano qualitativo.

Al contrario se con "Skeleton Tree" Nick Cave aveva rinnovato il suo sound, introducendo elementi di musica elettronica e ambient, l'uso estensivo di drum machine e loop, ma senza rinnegare le radici rock and roll e blues, e aveva sorpreso, mettendo effettivamente a nudo se stesso come volere ritrovarsi, qui cade di nuovo in una forma di rituale autocelebrativo e che peraltro unitamente a una spinta ulteriore verso tipi di suono già sviscerati nel capitolo precedente, riesce in un album monocromatico, a dispetto dei mille colori della immagine di copertina, e monotono, dove la centralità e magari pure la bellezza dei testi è la ripetizione di una teatralità che non è altro che estetica.

Questo qui non è un disco di musica blues, perché Nick Cave non ha più quel sacro fuoco che gli brucia dentro: è un uomo lamentoso e ferito. Divide il suo album in una parte dedicata ai figli e un'altra ai genitori e lo fa quasi in una maniera biblica, come se volesse mettere le cose in fila con la sola scrittura, ma le cose sono più difficili che così. La prima parte contiene otto tracce praticamente tutte identiche: non riesco a entrare nel merito dei testi, i suoni sono oggettivamente sgradevoli e poco efficaci, il ruolo sempre più centrale di Warren Ellis nei Bad Seeds ha finito con il logorarne lo spirito (il gruppo di fatto dopo gli addii di Blixa e di Mick Harvey non ha più ragione di esistere), l'unica cosa interessante è che "Waiting For You" ricorda in qualche modo il tema di "Philadelphia" di Neil Young, ma non ne ha affatto la stessa forza espressiva.

La seconda parte è più "sperimentale", diciamo così, tanto che qualcuno ha voluto parlare di new age in maniera che definirei impropria e fuorviante. Si compone in effetti tuttavia di tre tracce prettamente strumentali, tra cui due lunghe composizioni di oltre dieci minuti ("Ghosteen" e "Hollywood"): il mood è profondamente drammatico, ci si muove a tentoni barcollando in una valle di disperazione e non si riesce a capire il perché. Non c'è un autentico messaggio che si vuole dividere con chi ascolta, non c'è nessun senso di "comunità", che pure ha eccome un suo significato anche in forme di rituali ecclesiastici, come quelli che vuole richiamare con l'uso eccessivo di sintetizzatori e cori oggettivamente di cattivo gusto. Tutto quello che si sente qui è un uomo solo e questo è molto brutto, ma la cosa peggiore non è tanto questa, quanto il fatto che questo status venga eletto anch'esso a una specie di processo necessario e messo in bella mostra come un'opera d'arte. Non funziona così: Nick Cave prova a fare la parte di Marina Abramovic e esaltare quella che è la mortificazione della carne, ma chi mortifica gli è complice e io non ci sto.

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