Alla pazzia umana non c'è mai un limite. 

Nel corso del Nuovo Millennio, molti gruppi si sono affacciati alla scena musicale, cercando di distinguersi in ogni modo, nella speranza di lasciare un'impronta indelebile all'interno di questo variegato universo. E non sono certo mancate le stranezze, gli estremismi: sicuramente, uno dei massimi esempi ci è dato dagli Orthrelm, un duo statunitense -impronunciabile- formato da Mick Barr (chitarra elettrica, chitarra acustica) e Josh Blair (batteria, percussioni).

I due americani sono noti ai più per il loro terzo album, "OV", pubblicato nel 2005 sotto etichetta Ipecac (Mike Patton docet...): un'unica, terrificante, maestosa, assurda composizione di quarantacinque minuti e quarantatrè secondi, un coacervo di rock sperimentale, noise, thrash metal e progressive sotto mid-tempi martellanti ed incessabili, realizzata senza l'ausilio di alcuna pausa, come in un trip allucinogeno e sferragliante. Inutile dire che album del genere o li si ama, o li si odia, ed è altrettanto futile affermare che, davanti ad opere similari, spunta inevitabile la domanda: "Ci sono, o ci fanno?".

Per trovare una risposta plausibile e soddisfacente bisogna spostare le lancette dell'orologio, indietro di tre anni. Siamo nel 2002: dopo alcune esibizioni live, rivolte ad un pubblico di nicchia, gli Orthrelm esordiscono nel mondo discografico con questo "Asristir Vieldriox" (la passione per i nomi impronunciabili non tramonta mai...). Bisogna stare attenti, tuttavia, a non farsi ingannare: se la copertina è affascinante, nella sua semplicità minimalistica (un alone bianco, rappresentante una forma non ben definita, su uno sfondo nero), non così è l'album. Quest'album è tutt'altro che semplice: è l'emblema della complessità, della stramberia compositiva, della tecnica schizofrenica, del coraggio -venato da una strafottenza quasi artistica- nell'intraprendere nuove strade sonore, abbracciando una nuova estetica di forma/canzone, apatica, stravolta, sofferente... amorfa.

Che cos'è quindi, in sostanza, questo "Asristir Vieldriox"? E' un lavoro che presenta numerose analogie con "OV": entrambi hanno il pregio di essere originali, entrambi hanno il pregio di sforare ogni archetipo di album tradizionale, entrambi sono un unico viaggio, senza buchi o vuoti riflessivi. In fondo, "Asristir Vieldriox" è un unico, grande, tecnicissimo, elaborato assolo, di oltre dodici minuti. Avete capito bene: niente testi strani, niente suoni bislacchi. Solo gli strumenti, e che strumenti: Barr la chitarra la sa tenere davvero in mano, e si sente; Blair la batteria l'ha imparata a suonare bene perchè, colpo su colpo, si denota una precisione certosina ed una pulizia di suono ineccepibili.

Ma... come negli episodi migliori, anche in questo caso c'è un ma.

Se è pur vero che questo cd è costituito da un unico assolo, è altrettanto evidente che, questo assolo, non è, come dire... continuativo. La mente tecnica degli Orthrelm lo scompone, lo sconvolge, lo spezzetta, lo tritura, lo distorce, con la solita frenesia, in tanti, piccolissimi loop. Per la precisione, novantanove brevissimi samples. Novantanove punti di vista dai quali ammirare la tecnica, nervosa ed esplosiva, delle sei corde di Barr. Novantanove loop, nei quali vengono creati novantanove piccoli mondi, diversi l'uno dall'altro, con gli stessi accordi, come in un grande gioco di carte, dove si creano tante combinazioni differenti. Novantanove samples pieni di inventiva, pregni di dinamismo. Novantanove modi per dire sol diesis, re, do, mi cantino: novantanove modi per scatenare una doppia cassa. Novantanove frammenti, senza un titolo. Il tutto in dodici minuti (la suddivisione più lunga è fissata a ventisette secondi, e si tratta della n°99). In parole povere, questi due non hanno il benchè minimo senso delle mezze misure. Ascoltate separatamente, l'una dall'altra, queste schegge sembrano essere fini a sè stesse, incompatibili con le atmosfere spigolose che si susseguono, in una spirale magnetica, una dietra l'altra. Preso complessivamente, invece, questo si rivela essere un lavoro sensato e, quel che è più importante, incredibilmente ispirato. Perchè, nel giro di pochi secondi, i due riescono a passare, con una nonchalance talvolta irritante, da un progressive rock venato di stralunata psichedelia ad attacchi catatonici semi-noise, salvo poi virare verso territori più ostici e sperimentali, o stupire tutti con dei crescendo dall'imprinting hard rock. Senza perdere la solita flemma che li contraddistingue.

Eppure, in questo caso, è la cornice la vera password per sbloccare gli ingranaggi di "Asristir Vieldriox". Perchè, grattando sotto la superficie raffinatamente cesellata, si scopre una vena seminascosta di swing esplosivo e dinamitardo, una sorta di oliatura che fluisce, pezzo dopo pezzo, fra le trame dell'opera. E' assolutamente innegabile che gli Orthrelm debbano ringraziare i Naked City per questo apporto: i continui stacchi che, come in una mitragliata, perforano il tappeto uditivo con cinica ferocia, risentono pesantemente del genio creativo di John Zorn (da notare... anch'esso un protetto di Mike Patton), forse il primo vero pioniere, capace di turbare le masse, mediante uno sconvolgimento sonoro, partito proprio dall'annichilimento totale dell'archetipo della canzone.

Per concludere: ci sono o ci fanno? Ci sono. Sono loro così: nessuna costrizione da parte di etichette o loschi personaggi. "Asristir Vieldriox" è un lavoro autentico, sincero e, perchè no, bello: va preso a piccole dosi, onde evitare uno shock anafilattico irreversibile, tale da rifiutare qualsiasi album che si discosti dalla normale concezione di "brano". Solo, non bisogna spacciarli per i salvatori della patria: certo, i ragazzi sanno suonare (anche se gioverebbe meno esibizionismo), ed hanno inventiva, ma c'è chi, queste cose, le ha fatte ben prima di loro, sovrastandoli per classe ed esperienza. In ogni caso, un esordio al fulmicotone, e certo non un episodio isolato.

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