Non c'è bisogno di pomposità, di gridare al capolavoro, di esternare paroloni per un'opera già ampiamente valutata e rivalutata da chi di dovere e con ben più capacità di chi scrive. In un'eccezione cara a Reed mi limiterò ad essere cronista, più che giudice.

Ridurre i "Velvet Underground" al solo gruppo d'accompagnamento di Lou Reed è l'errore più grande che si possa commettere. Non da meno quello di considerarli come sola espressione artistica di Andy Warhol, semplici accompagnatori musicali dell' Exploding Plastic Inevitable: folle e anfetaminico spettacolo multimediale colorato di luci stroboscopiche, bolle di sapone, psichedelia, cinema e naturalmente musica.

White Light / White Heat saprà bacchettare lo scettico e disinformato ascoltatore sulle mani.

E' però necessario fare prima qualche breve e utile cenno storico.

Siamo nel 1968, le scarse vendite del primo album, inciso nel 1966 sotto l'egida di Warhol e in attiva compagnia della magnetica chanteuse Nico, non hanno certo rincuorato gli animi dei componenti. Verve è delusa, Tom Wilson sembra crederci ancora. Si ritorna in studio, e stavolta non ci sono ostacoli. Non sarà proprio così.

Il 1969 inizierà con una nuova line-up. Cale viene estromesso da Reed e il vero sound della band risucchiato, senza nessuna traccia, senza che nessun altro potesse mai più replicarlo, da un buco nero. Una cupo universo temporale raffigurato sin dalla copertina dell'album, ad opera del fotografo Billy Name, socio della Factory di Warhol. Un tatuaggio raffigurante un teschio in rilievo, impossibile coglierlo se non in controluce. Minimalismo, sperimentazione estrema; volumi assordanti, troppo per le strumentazioni dell'epoca: il disco è, citando le parole di Sterling Morrison, "un fallimento a livello tecnico".

Riuscire a distinguere gli strumenti è spesso un'impresa ardua, ma andiamo per gradi, anzi per tracce.

1 - White Light / White Heat

John Cale furioso batte sul pianoforte minimalista. Le chitarre ritmiche di Reed e Morrison stridono, il rumore eccessivo non aiuta di distinguerle. La Tucker inflessibile e timida batte a tempo sulle grancasse, lo strumento più nascosto della traccia, soppiantato dal fastidioso rumore "bianco" che avvolge l'ascoltatore. Tecnicamente scadente, artisticamente malato. Reed, beffardo, senza un filo di timbro vocale, vuoto e patologicamente distaccato si limita a raccontare gli effetti dell'anfetamina su un corpo umano in overdose. Un treno lanciato a tutta velocità, come doveva essere per "I'm Waiting for the Man" del primo disco (e le similitudini sonore non sono poche), viene lanciato contro la parete dell'ascoltatore.

Traccia di grande influenza per le generazioni, soprattutto punk, a venire. Omaggiata da Bowie, riproposta in live nella re-union del 1993.

2 - The Gift

La traccia che sin dall'uscita fu sponsorizzata come grande novità. Verve Records rilasciò addirittura un 45 giri promozionale in cui Cale e Reed ne parlavano con il fervido produttore Tom Wilson. Niente di più semplice: una base musicale improvvisata, condidati di feedback, presa da un live degli stessi su idea di Cale. Lo stesso che passa al microfono e che con accento gallese legge un vecchio tema di Lou Reed per un corso di scrittura creativa alla Syracuse University. Waldo è il protagonista, lontano dalla fidanzata, geloso, troppo paranoico e troppo al verde per spostarsi dalla sua amata. Decide di farsi spedire in un pacco regalo. Sorpresa ben congegnata, ma la stessa fidanzata commetterà un gesto rabbioso, nell'intento di aprire il pacco regalo non voluto nè atteso, che si concluderà con la morte del fidanzato. Una forbice dritta al centro della fronte, e tutto finisce in un guizzo di sangue. Reed mette in scena e in musica come non mai un decadentismo grottesco, simbolismo senza morali nè prese di posizione, solo un cronista. E.A. Poe si rivela grande ispiratore, così come il suo vecchio maestro Delmore Schwartz. Cale condisce il tutto con una voce da vecchio giornalista dimenticato della BBC, o magari rifiutato...

3 - Lady Godiva's Operation

Forse un precursore del rock "industriale". Il finale di questa traccia, che narra un'operazione chirurgica maldestra che finisce in tragedia, presenta suoni e rumori tipici di una sala operatoria. Suoni di respiratori, pistoni e strumenti elettronici del tutto sinistri, stavolta distinguibili nell'orgia di suoni lascivi delle chitarre e forsennati tambureggiare della Tucker. Si scende ancora più in profondità. Cale ancora al microfono, Reed lo accompagna solo nel finale intonando parole a tempo, come per sentenziare la fine della sfortunata "Lady Godiva".

4 - Here She Comes Now

L'unica traccia a rispecchiare le tranquille ballate del disco precedente, infatti era stata scritta per Nico e ripescata per l'occasione. Non ha molto da dire, una classica boccata d'aria in stile Velvet Underground o, se volete, un passaggio a vuoto. Band successive non la penseranno davvero così, i Nirvana omaggeranno più volte in Live, con questa canzone, i V.U.

5 - I Heard Her Call My Name

Un preludio all'ultima cavalcata, la quinta traccia spara le prime bordate rumoriste e dopo un testo di paranoia e amore, Reed sfoga da solo la sua ira su un lungo assolo di chitarra divenuto leggenda. E' solo un'introduzione.

6 - Sister Ray

Il cuore del disco sta tutto nella traccia più malata, e certamente la più rappresentativa dei Velvet Underground. Sterling Morrison spiegherà, successivamente, che si trattò di una "sfida interna". Ogni egomaniaco componente della band tendeva sempre a scegliere le take delle canzoni in cui il proprio strumento dava l'effetto migliore. Sister Ray fu un compromesso: se c'e qualcosa da voler dimostrare farlo "ora o mai più". Buona la prima, pochi accordi, tanta energia. Chi segue chi? All'ascoltatore il giudizio.

Sister Ray parte con il peso di "Venus in Furs". Le chitarre esplodono, il battito nevrotico della Tucker le accompagna e presta all'ascoltatore il senso del tempo in quell'orgia minimalista. Orgia a cui poi si aggiunge, schioppettante e fuori da ogni portata di volume, l'organo di John Cale. Li sovrasta tutti e li batte sul tempo. Cale genera un epico baccano rimembrando le sperimentazioni con LaMonteYoung. Stavolta i bordoni vanno nel profondo e Sister Ray crea un muro del suono che inizia a fluttuare solo dopo circa 6 minuti, in cui l'organo cala la guardia e le chitarre si sfidano a colpi di feedback, dissonanze, rumori ed esplosioni. La Tucker, ragazzina all'epoca e con apparente debolezza fisica, cede leggermente il passo agli altri strumenti dopo circa 7 minuti in cui cala la sua ritmica feroce, imbestialita, da violento tambureggiare africano della miglior classe; si ascolti Babantude Olatunjii e il suo "Drums Of Passion" a cui lei stessa ha sempre dichiarato d'essersi ispirata. 

Provenivano tutti da scuole differenti. Il minimalismo di Cale; l'attitudine free-jazz anfetaminica e malata di Reed, che ha spesso dichiarato di voler far sembrare un sax la sua chitarra elettrica; il rock n' roll più crudo di Morrison; i tamburi "africani" della Tucker. Sister Ray rappresenta la summa, il centro musicale a cui tutti questi bivi han portato. Ognuno è partito con il suo bagaglio e con il suo arrogante, dissoluto caratteraccio da Punk prima che i Punk facessero capolino a smuovere la musica Rock.

Percussività al limite del sopportabile ed energia senza precedenti, i Velvet Underground mettono sul piatto d'argento la nascita del suono Punk (ed Heavy Metal) più crudo che esista e mai più replicato. Gli omaggi in formato Cover, dai Joy Division (e poi New Order), ai Suicide, ai Sister of Mercy non si contano. 

Dopo questo disco Reed continuerà la sua esperienza, dando nome ad un gruppo che non è mai stato più tale, e sarà lui (e John Cale, anima e voce della "ragion musicale", con qualche punta di stizza) stesso ad ammetterlo.

WL / WH rispecchia i veri Velvet Underground. Sicuri di accontentarsi del primo disco?

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