«Mi sto innamorando di Calliope:

lei non è di nessuno, perché non concederla a me?

Lei mi parla, mi parla con gli occhi,

ed io sono così stanco di inseguire bugie…

Madre delle Muse, ovunque tu sia,

sono già sopravvissuto da un pezzo alla mia vita.»

Καλλιόπη. Erano almeno otto anni che la Musa dalla bella voce, figlia della Memoria, non faceva visita all’aedo di Duluth, da quando una struggente preghiera mormorata in punta di voce e interpolata ai versi immortali della Tigre di William Blake suggellava l’appassionata dedica a John Lennon in coda a Tempest. A quel temporaneo congedo da viaggiatore (poco) cerimonioso, che iniziava col Bardo in attesa dell’ultimo treno e culminava nel torrenziale poema eponimo sull’affondamento del Titanic, aveva fatto seguito un controversissimo Nobel per la Letteratura, una serie di ancor più controverse raccolte di scarne cover di brani d’antan (frettolosamente liquidate da pubblico e critica come poco interessanti “sinatrate”) e tanti concerti in giro per il mondo. L’instancabile decano errante dei songwriters d’America, prossimo alla soglia degli ottanta, sembrava essersi fermato, almeno creativamente, come negli splendidi versi di Not Dark Yet: «Qui sono nato e qui senza volerlo morirò / So che sembra che mi stia muovendo, ma sono immobile». E invece nel momento più inatteso e insospettabile, proprio quando è il mondo intero ad essersi fermato per cause di forza maggiore, l’inossidabile voice of sand and glue torna a farsi sentire per raccontarci nuove storie.

Del resto, Dylan ci aveva abituato alle lunghe pause di riflessione. L’ultima degna di nota era stata nei primi anni Novanta: anche lì al nostro erano serviti due dischi di cover, Good As I Been to You e World Gone Wrong, per riappropriarsi delle sue radici e attingere nuova linfa vitale per un songwriting che sembrava ormai esaurito. Il risultato era stata una straordinaria rinascita, l’ultima delle tante della sua carriera: la lancinante bellezza di Time Out of Mind.

Siamo di fronte a qualcosa di simile? Non proprio. Più che di una rinascita, questo Rough and Rowdy Ways ha semmai il sapore agrodolce di un congedo. Traccia dopo traccia, testo dopo testo, ballata dopo blues come il nostro ci ha ormai abituati, l’intonazione che si fa strada e che si impone all’ascoltatore è pressoché la stessa che negli ultimi anni, e non senza un velo di amarezza, abbiamo ascoltato in lavori quali Blackstar di Bowie o You Want It Darker di Cohen: quella dello struggente testamento artistico.

Non si tratta di una frase fatta, tantomeno di un tentativo di predire che questa possa essere effettivamente l’opera terminale dell’ex Robert Allen Zimmerman, epilogo di un canzoniere senza eguali. Si tratta però di riconoscere le tracce di un fil rouge che percorre tutte le dieci tracce di questa nuova raccolta, la prima da poeta insignito del Nobel: a pervadere e orientare tutte le canzoni dell’album è il sentimento della fine (la fine di un’era, di un percorso, di una cultura, come quell’epoca che muore con la morte di Kennedy, «il delitto più turpe»), indissolubilmente collegato a quello del passaggio, della transizione, del viaggio verso un altrove: che sia il passaggio del Rubicone di cesariana memoria (Crossing the Rubicon), caricato qui di valori metafisici («Il Rubicone è un fiume rosso che scorre dolcemente / più rosso delle tue labbra di rubino e del sangue che sgorga dalla rosa / Tre miglia a nord del Purgatorio, a un passo dall’aldilà/ Ho pregato la croce, ho baciato le ragazze / e ho varcato il Rubicone») in un bluesaccio luciferino che sfuma in un esaltante duello di chitarre elettriche, o l’idillio di Key West, il punto più a sud degli Stati Uniti, buen retiro di Hemingway e Truman, «paradiso divino sulla linea dell’orizzonte», il posto giusto per chi cerca l’immortalità, come canta il «pirata filosofo» protagonista della lunga e ispiratissima ballata - Key West (Philosopher Pirate) - che col suo dolcissimo ricamo di fisarmonica e un’apertura melodica di quelle che Dylan non ci regalava da secoli (il ritornello richiama da vicino la sontuosa Carribean Wind) si configura da subito come un instant classic, non l’unico che questo disco ci regala.

Mandolini, cupezza e atmosfere rarefatte alla Cohen scandiscono l’incubo di Black Rider, in cui un Dylan stanco e sibillino si prepara allo scontro col Cavaliere Nero, forse parente dell’omonimo diavolo di Tom Waits ma ancor più del Man in the Long Black Coat che si portava via la protagonista dell’omonimo brano di Oh Mercy: «Cavaliere nero, tutto vestito di nero / me ne sto andando, tu provi a farmi guardare indietro / Il mio cuore è a riposo, vorrei tenerlo così / Non voglio combattere, almeno non oggi […] Soffrirò in silenzio, non emetterò un suono / Forse vincerò per superiorità morale / In una sera incantata ti canterò una canzone». E anche l’unica apparente canzone d’amore del disco, I’ve Made Up My Mind to Give Myself to You, un lentone anni Cinquanta scandito da un dolcissimo coro a bocca chiusa (in tutto il disco, in generale, Dylan sembra aver fatto tesoro della sua recente full immersion nel Great American Songbook), si colora di nuovi sensi appena capiamo che potrebbe non essere affatto una canzone d’amore, ma - come una nuova When the Deal Goes Down - un’accorata preghiera a Dio da pronunciare nel momento estremo: «Ho percorso una lunga strada disperata / dove non ho incontrato nessun altro viaggiatore / Molta gente non c’è più, gente che conoscevo / Sono pronto a donarmi a Te. / Il mio cuore è come un fiume, un fiume che canta / Dammi solo un minuto per realizzare / Ho visto il sole sorgere, ho visto l’alba / Quando tutti se ne saranno andati mi sdraierò al tuo fianco».

Ma il testo più memorabile del lotto è per chi scrive quello di My Own Version of You, in cui un Dylan più mefistofelico che mai, la voce spettrale sorretta da un incedere cadenzato alla Ballad of a Thin Man, si cala nei panni di un novello dottor Frankenstein alla ricerca, in uno stralunato scenario apocalittico, tra visioni da Armageddon e da inferno dantesco, di «tutte le parti del corpo necessarie» per dare vita alla sua amante ideale. La finalità di questa creazione, che avrà «quello che chiamano lo spirito immortale» che «cresce dentro di te fin dal giorno in cui sei nata», è chiara e risoluta: «Se lo faccio per bene e con criterio, / sarò salvato dalla creatura che avrò creato». Una straordinaria metafora della creazione artistica e del suo potere eternatore e salvifico di fronte al disfacimento del tutto.

Tanti gli omaggi in questi testi, in un name-dropping serrato che sembra voler chiudere dei debiti: coi miti letterari («Ho un cuore rivelatore, come Poe», «Canto i Canti dell’Esperienza come William Blake», «Contengo moltitudini» come Whitman), musicali («Addio Jimmy Reed, dammi la religione di una volta, è ciò di cui ho bisogno»), coi compagni di strada e i modelli culturali di una generazione («Sono nato dal lato sbagliato del binario ferroviario / come Ginsberg, Corso e Kerouac»). Tanta, insomma, la Memoria: la greca Mnemosyne, la madre delle Muse, protagonista della solenne, programmatica invocazione omerica di Mother of Muses; è lei, la Memoria, che nutre la poesia, che crea il racconto: «Madre delle Muse, canta per me, / canta di Sherman, Montgomery e Scott, / e Zhukov, Patton e le battaglie che hanno combattuto, / di chi ha aperto la strada al canto di Presley / di chi ha tracciato il percorso per Martin Luther King / di chi ha fatto quel che ha fatto e se n’è andato per la sua strada / Potrei raccontare le loro storie tutto il giorno».

Ed è alla Memoria che l’aedo errante si consacra nel suo ultimo viaggio: un cupio dissolvi che sembra il finale di Mr. Tambourine Man riscritto sessant’anni dopo, nell’ultimo omaggio di Bob Dylan - sospeso, qui più che mai, tra il melodismo sontuoso alla Shadows in the Night e il folk acustico ed essenziale delle origini - al nume tutelare della sua ineguagliata parabola artistica:

«Portami al fiume, libera i tuoi incanti,

lasciami riposare un po’ tra le tue dolci braccia amorose,

svegliami, scuotimi, liberami dal peccato

rendimi invisibile come il vento.

La mia mente vaga, vaga senza meta:

viaggio leggero e lento verso casa.»

Last but not least, l’epopea di Murder Must Foul, a cui è giustamente dedicato un disco a parte, meriterebbe una recensione a parte. Sul brano più lungo mai inciso da Dylan, su Kennedy, Wolfman Jack, l’Amleto di Shakespeare e la spettacolare playlist infinita che occupa la seconda parte della cavalcata, fors’altri canterà con miglior plettro.

Carico i commenti... con calma