[In questa recensione parlerò solo della canzone Anime salve]

Ho letto diversi commenti a proposito del disco Anime salve, tutti giustissimi. Ma in questi anni, ormai più di dieci da quando ho conosciuto De André, m’è sempre rimasto dello scetticismo. Non ero convinto che l’interpretazione comune fosse la più corretta, o semplicemente l’unica possibile.

Ascoltavo i pezzi di questo disco e non capivo, la mia comprensione risultava manchevole. E allora per diverso tempo l’ho evitato, questo album. Troppo enigmatico, troppo criptico. In particolare, la canzone che dà il titolo mi risultava incomprensibile. Perciò ho fatto sedimentare le esperienze, le letture, le mie capacità di comprendere.

Poi ieri sera, prima di dormire, ho sentito un bisogno, la necessità di ascoltare una canzone che fosse nutrimento conoscitivo, una scintilla consolatoria, eppure disincantata, nel pieno della notte. Non so per quale motivo, ho messo su Anime salve. Non tutto il disco, solo un paio di canzoni. Mi sono scontrato dopo anni con il brano in questione. E forse l’ho capito.

Le «anime salve» di cui parla Faber non sono quelli che vanno in direzione ostinata e contraria, non sono i rom, non sono gli esclusi, le puttane, i nani. Quello lo diceva già negli anni Sessanta, non sarebbe stato un approdo ulteriore della sua poetica. Le anime salve sono tutte le anime degli uomini, perché l’anima è un «bell’inganno», cioè non esiste, è un’illusione.

La visione di De André e Fossati è profondamente metafisica, si pone da una prospettiva esterna alla vita. E allora tutto diventa un gioco, un frin frin, spariscono il bene e il male, si confondono fino a diventare identici. Sono tutti «solo passaggi e passaggi / passaggi di tempo». La vita dell’uomo è questo: «mille anni al mondo, mille ancora». Una cosa esigua, un ammazzare il tempo, anno più, anno meno.

Il bene e il male non turbano più: «Sono state giornate furibonde / senza atti d’amore / senza calma di vento», ma ci saranno anche «i futuri incontri di belle amanti scellerate». Non importa tanto: saranno affanni per mille anni ancora, ma questa è la vita, «ore infinite come costellazioni e onde».

C’è un’accettazione dell’esistenza a priori, perché è l’unica cosa che abbiamo e tutto si confonde. Il tempo si appiattisce: la memoria è spietata, eppure non basta mai, continuiamo ad affrontare la vita e le sue asperità. E poi il futuro, che è bello solo prima che arrivi, ma non importa. Ancora mille anni, resistiamo ancora un po’.

La valutazione del proprio tempo non può essere lucida: «e che grande questo tempo / che solitudine / che bella compagnia». Apparentemente un paradosso, ma non nella visione spersonalizzata di questa canzone. La vita è compagnia, ma è anche grande solitudine. De André si vede da fuori: «Mi sono guardato piangere in uno specchio di neve / mi sono visto che ridevo / mi sono visto di spalle che partivo».

Le cose della vita, i fallimenti e le tragedie, vengono polverizzati dal tempo. Si perde la scala dei valori: «mi sono spiato illudermi e fallire / abortire i figli come i sogni». Un figlio, la cosa più carnale e concreta che esista, viene accostato a un sogno, a nuvole di pensieri. Perché vita e sogno si sovrappongono, tutto si allinea in un orizzonte conoscitivo radicalmente diverso e distaccato.

È questo il plusvalore lirico della canzone, difficilissimo da comprendere (ho letto le altre recensioni e non ho trovato analisi su questo singolo brano). E allora eccolo l’ultimo passo poetico di Fabrizio: dopo aver elevato gli ultimi, dopo aver scardinato i pensieri canonici dei borghesi, dopo aver amato le puttane, si arriva alla visione finale, a tirare le somme della propria esistenza: un inganno, tanti passaggi di tempo, illusioni e fallimenti, amanti scellerate, figli e sogni. Ma è stato bello, una grande compagnia. E allora che si prosegua così (facendosi un po’ del male): il futuro, mille anni ancora.

Le parole escono lente, scandite, sgranate. La melodia quasi scompare, perché queste sono visioni da declamare solennemente. E il corno inglese incornicia in modo sacrale i versi, pur mantenendo un piglio brioso e quasi festante. Quella festa sacra, tragica e felice, che è la vita.

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