The importance of being Rob Crow: part 1

Negli anni '90, se volevi manifestare in note il tuo disagio interiore - che, chissà perchè, era quello massificato di migliaia di giovani come l'allora te -, avevi tre possibilità per farlo: imparare a suonare i power chords inflanellato dalla testa ai piedi, abbattere il consumo di elettricità del tuo strumento in registrazioni amatoriali, abusive ed a fedeltà minima, oppure non farti vedere in giro per un po' di tempo, diventare scostante ed un po' intellettuale, giusto per farti una bella cultura strumentale, erudirti sulla chitarra ed uscirne in un cul de sac, nel territorio dei ragni. Poi, infine, c'erano anche quelli un po' ottusi, la frangia più nerd, che respirava finestre dalla mattina alla sera e se ne infischiava altamente delle barriere intergenere, continuando ad esprimere sè stessi e l'essenza della loro musica nel loro, personalissimo modo (o no?).

Ciccioni, barbuti, occhialuti, vestiti malissimo, probabilmente anche un po' allergici ad acqua e sapone - almeno i componenti masculi -, gli Heavy Vegetable ce le avevano proprio tutte per entrare a pieno diritto tra le sparute file di questo gruppo. Il loro polmone, portavoce, cantante, chitarrista e sacrestano si chiamava Rob Crow. Ma, come spesso accade in questi casi, come tutti gli uomini un po' troppo intelligenti anche Crow faceva dell'eclettismo la sua ragione di vita e si rendeva spesso inafferrabile ai cacciatori di etichette e classificazioni. Perchè non solo era brutto e bonaccione, ma amava altresì ascoltare moltissima musica, di tutti i tipi, e trasportarla poi nella sua esperienza quotidiana. Era il 1994, non il Pleistocene o il Carbonifero, e già sorgevano i problemi di essere solo questo o solo quello. Ma perchè, si chiedeva il gruppo, suonare grunge se ci piacciono anche i Pavement? Perchè dire al mondo che i Minor Threat erano dei grandi fighi, se poi ci rinchiudevamo in studio di registrazione ad ascoltare i vinili di John Lee Hooker e ci piacevano uguale? Perchè, insomma, decidere da che parte stare, se c'era posto a sufficienza per spaparanzarci su tutte le carreggiate? Bella domanda, che bisognerebbe far leggere alla nuova generazione di (menti?) musicali... Crow e crew, giusto per fare il calembour di cui nessuno sentiva la mancanza, non si pongono questi problemi. Ed osano. Anzi: scelgono la via, per loro, più normale.

"The Amazing Undersea Adventures Of Aqua Kitty And Friends" è, così, il "Double Nickels On The Dime" degli anni '90, ad una decade esatta dall'uscita del doppio capolavoro dei Minutemen. Così come il terzetto capitanato da D. Boon, gli Heavy Vegetable sfornano diciassette pezzi dalla durata media estremamente concisa - un brano solo è sopra i tre minuti, un altro sopra i quattro - in cui si permettono il lusso, alla faccia del settarismo imperante, di mescolare un po' di tutto. Pezzi acustici, folk, rock, grunge, lo-fi, punk, post rock, esplosioni hardcore, disturbi noise. Ma non pensate alla classica ammucchiata, dove c'è ogni ben di Dio solo per fine autocelebrazione dell'immenso ego dei musicisti. Causa, forse, l'assenza di un culto della personalità da parte dei membri della band, l'unione suona assolutamente compatta e al contempo scindibile in tanti piccoli segmenti, a seconda della volontà dell'ascoltatore. Ulteriore segno, questo, della freschezza del materiale proposto, che annega letteralmente dentro un crogiolo di idee e spunti, vero e proprio bacino da razzia che costutuirà l'Eldorado di interi filoni di artisti.

L'iniziale "Thingy", voce e chitarra acustica con grattuggiata finale, sfocia poi nell'impetuoso post-punk di "Saloon", come i Fugazi che incidono uno split coi Buzzcocks (e magari ci scappa pure la sbronza), primi atti di una genealogia del rock in durata potabile che si articolerà, in seguito, nei cambi di tempo di "Eggy In A Bready II", l'improbabile arrembaggio di "Doesn't Mean Shit" a base di break, ripartenze e rullate, una scheggia come "Myliebetz" che mette assieme power pop e punk, le sature distorsioni di "Couch" (una versione dei Melvins con meno roccia e Ray Davies al posto di King Buzzo), la nenia sussurrata di "Listen To This Song, Kill Pigs And Try To Sue Me", con la chitarra elettrica a trinare la più sfigata delle ninna nanne (Crow deve amare molto Stephen Malkmus) ed l'elegante brit rock in salsa Chains di "Head Rush", uno sputo a Madchester ante litteram.

Prestissimo il disco diventa un vero e proprio divertimento, a cui si fa davvero fatica resistere - quasi sia contronatura farlo - e la dipendenza raggiunge livelli acuti. Spesso stupisce l'accostamento di pezzi così improbabili fra di loro e che, ciò nonostante, funzionano come mai ci si sarebbe aspettato. Profonda conoscenza teorica o semplice, passionale attaccamento al proprio "mestiere"? Se, per assurdo, nè la malinconia della ballata acustica "Termites" nè il successivo post rock strumentale di "Calling The Toads" - entrambe sotto i due minuti! - non vi dovessero fornire una risposta ben precisa, sappiate che avete ancora un parco scelta fornitissimo, sia esso il cabaret grunge di "Johnny Pig", la chiusura ondivaga sul roots di "Means Less" o la mutevole cavalcata math di "Dutch". Guai a voi, però, se prenderete tutto quello che vi viene proposto con un sorriso sulle labbra, perchè la sorpresa è dietro l'angolo. Doppia: prima "Eight" (con deriva funk), poi "Black Suit" (riempita di fuzz), sono veri e propri sfoghi hardcore con ritmica a mille e scartavetrata che non ti aspetti. Praticamente i Black Flag riempiti di bubblegum e poi fatti esplodere nel nulla.

Questi, signori, erano gli Heavy Vegetable.

Oggi Rob Crow è ancora molto ciccione, molto barbuto e discretamente brutto. Scrive, suona, compone e si diverte in quantità, come un tempo. Ma questa, è il caso di dirlo, è un'altra storia che, se avrete la pazienza di seguirmi, vi verrà raccontata più avanti...

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