Noto che ci sono già altre mille recensioni su questo album, i puristi storceranno il naso, ma questa viene scritta dal sottoscritto a scopo terapeutico.

Arriva il giorno in cui ti viene a mancare un punto di riferimento.

E questo non significa necessariamente un lutto, ma altresì una figura che davi per scontata nei tuoi giorni e che da un giorno all’altro viene a mancare.

Per un ineffabile scherzo del destino ciò avviene in un momento delicato, un momento di scelte future e un momento in cui la stragrande maggioranza della popolazione si risveglia assonnata coi primi tenui assaggi primaverili.

Non riesco a stare in casa e decido di prendere il mio walk-man (si i miei amici ancora mi sfottono per questo e fanno bene) con una vecchia musicassetta donatami da mio cugino lato a lato b, Joy Division “Closer”.

E’ stato un gesto istintivo, è un periodo in cui mi diverto a ripescare le gesta dei primi Litfiba e le primizie di gruppi nostrani come i Diaframma, sarà per questo che ho optato per la musicassetta della band di Manchester o forse anche perché avevo un assoluto bisogno di empatia col vuoto che sentivo dentro in quel momento.

E la mia memoria mi suggeriva che il vuoto dentro e dietro le tracce di “Closer” poteva darmi l’empatia e l’aiuto di cui avevo bisogno.

Così mi ritrovo nel crepuscolo di una giornata mite di marzo a passeggiare come un’idiota da solo per le stradine del parco della mia città e mi sparo tra una sigaretta e l’altra i 44 minuti dell’album di filata.

Sono rimasto estasiato più che mai dalla bontà del lavoro.

Un susseguirsi di capolavori uno dopo l’altro, una catarsi che come tutti sappiamo si è conclusa in tragedia per Ian Curtis.

I miei pensieri si accavalano tra il basso pulsante di Hook e la chitarra scarna di Sumner e il vuoto dietro ai suoni lo posseggo e lo faccio mio mentre ascolto il rantolare talvolta marziale e talvolta lascivo di Ian.

Grazie a Dio il mio non è un calvario esistenziale come quello di Ian ma solo un momento di grande difficoltà come ognuno di noi può attraversare nelle sua vita.

Mentre cammino assopito nei miei pensieri tre cose destano in me un’attenzione inaudita e mi catturano inesorabilmente.

“Twenty four hours”, straziante; senti l’uomo che combatte con le sue ultime forze morali, che tenta invano di non arrendersi, un’inesorabile conflitto di accelerazioni e decellerazioni con un basso appesantito come solo un cuore può essere e che impazzisce e poi si acquieta in un’isteria convulsa.

Un mio amico la suonò al piano un paio di anni fa nel mio periodo “Joy Division”, era una versione minimale stupenda che ne faceva trasudare la vera essenza; ci sono un paio di versioni al piano su youtube ma non mi riavvicinano al ricordo che ho di quel momento.

“The Eternal”, beh che dire, “spargere fiori lavati dalla pioggia” qui Ian aveva decisamente smesso di combattere, il suo io è solo un tramite per i suoi ultimi pensieri, quasi del tutto impersonali.

“Non ci sono parole che possano spiegare, nessuna azione che possa chiarire” “solo guardare gli alberi e le foglie che cadono” il suo crooning in terza persona mi fa a questo punto rabbrividire e ho un sussulto; guardo davvero attorno a me e vedo che gli alberi effettivamente non hanno ancora le foglie al che penso “ma come tanto clamore per i diciannove, venti gradi “ la primavera che arriva di qui e di là e poi in una parco mediamente grande gli alberi sono ancora nudi come scheletri?”

E’ un particolare che mi ha molto colpito e mi inquietava non poco paragonare nella mia mente il sole trionfante con cui mi sono svegliato solo un paio di giorni fa con la secchezza di quegli alberi nudi e precari.

Oramai ho perso totalmente la coscienza del tempo ed è buio, sarà ora di cena pensai ma non sento fame, parte l’organo di “Decades”, “ecco i giovani il peso sulle spalle, ecco i giovani beh dove sono stati”?, ho pensato a Ian, ho pensato a come dev’essere stata dura con il suo disastro interiore e psicofisico a guardare sua figlia negli occhi e vederle in viso i connotati della sconfitta che Ian vedeva su tutti e in tutto.

Ian era uno “Weary inside”, un uomo sfinito dentro.

Incrocio anche io un paio di bimbi in bicicletta e se per caso ti immedesimi in Ian con nelle cuffiette il loop finale dei synth di “Decades” assicuro che un paio di brividi sulle braccia ti vengono.

L’opera termina e mi lascia interdetto.

Sono ancora dentro il parco e rimango col silenzio nelle cuffie.

Mi sembra il naturale prolungamento del disco.

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