Ci sono dischi che al di là dell'essere belli e particolarmente ispirati, si legano in maniera indissolubile a episodi della propria vita segnandone necessariamente quel determinato periodo storico. Successe anche a me con questo disco prestatomi nel giugno del 1995 dal mio collega/amico Gianni A. Lavoravamo assieme da un paio d'anni in un'agenzia pubblicitaria di Milano ed eravamo molto diversi tra noi: lui 29enne, magro, viso profondo, bellissimo, taciturno dall'animo tormentato, io 30enne massiccio, simpatico, solare e buontempone. Molto diversi ma per questo attratti uno dall'altro.

Mi diede questo disco raccomandandomi di ascoltarlo bene, che per lui era una pietra miliare del rock. Mi aspettavo di trovarmi davanti all'ennesima digressione rock'n'roll ma già al primo ascolto sentii che qui si respirava un'aria diversa, cupa, malinconica e vagamente naif.
"Berlin" inizia dolente da un riverbero lontano di voci, suoni di fine festa e un pianoforte stanco e il sussurro di Lou che scivola su un blues malinconico e decadente. Con "Lady Day" il tempo si fa più deciso, anche se permangono gli strascichi di un arrangiamento pomposo e leggermente prog, con stacchi sinfonici che rimandano necessariamente a quegli anni (è un disco del '73!). "Men Of Good Fortune" entra nei grandi classici di Reed. Un rock sostenuto anche se circoscritto a una tensione latente che non sfocia mai in urla liberatorie o suoni potenti. Così "Caroline Says", altro classico, incede rock senza mai sterzare in soluzioni esasperate. Ma è il sound delicato e "malato" di canzoni come "How Do You Think It Feels" o "Oh Jim", arrangiate con soluzioni orchestrali fin troppo eccessive, che danno quel sapore inconfondibilmente "rassegnato e nichilista" a questo disco. "Caroline Says II" riprende la canzone in maniera acustica ma è la successiva "The Kids" a segnare (a mio parere) un passaggio emotivo tra i più forti e indelebili (con la coda cantata da bambini in lacrime?) di tutto il cd. Anche la successiva "The Bed" riconferma il disco come un capolavoro di rock "trattenuto", per molti aspetti acustico, sofferto e "sentito" come pochi in questa sua collocazione quasi onirica e trasognata, che si percepisce in quasi tutte le tracce. Chiude "Sad Song", altro grande classico del nostro, arrangiata con tanto di orchestra, tromboni e violini in un Gran Finale corale ad alta intensità.

Parole profetiche, quelle di chiusura di questo album, che a distanza di anni mi stanno ancora a ricordare quell'anno orribile: nel luglio del 1995, infatti, Gianni venne ricoverato al Niguarda di Milano con diagnosi riservata che poi ci comunicarono essere un tumore al pancreas. A settembre reincontrai Gianni a casa sua (lo avevano oramai dimesso) ed era irriconoscibile: pesava 35 kg, pelato a causa della chemioterapia ma stranamente euforico e pieno di "voglia di vivere". Mi chiese di organizzare un viaggio in Giamaica (lui che era sempre molto restìo a parlare!) e altre cose e mi chiese di tenermi questo disco che me lo avrebbe regalato. Fu l'ultima cosa che mi disse. Il 29 ottobre di quell'anno, Gianni morì per metastasi e rimasi impietrito, sconvolto e scosso per settimane e settimane. Mi rimasero un paio di suoi libri, un libro scritto da lui di "sogni" trascritti e questo cd che al di là di tutto, per me sarà sempre un album unico e indimenticabile per questo e altri motivi. Un disco che non riesco a scindere dalla figura del mio amico/collega, una grande persona profonda e complessa scomparsa "troppo" giovane per confidare in un Dio giusto e caritatevole che permette tali ingiustizie.

**Questa recensione è dedicata a Simona Cella (sua fidanzata in quegli anni)

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