Sbattuti fuori dal gruppo una cantante tedesca e un pubblicitario d’origini polacche, i Velvet Underground entrano in studio con un mood incazzereccio e un sistema nervoso sfibrato. Mettono gli ampli al massimo, volume a fondere, e cominciano a suonare.
Chi di voi suona il basso? Non c’è basso!
I fonici etichettano la jam come suprema porcheria da post-adolescenti dalle vene sbrindellate e trascurano tutta la produzione (chi si faceva la propria ragazza sul mixer, chi si faceva il proprio cazzo sul cesso), e grazie alla loro negligenza oggi abbiamo questo mastodontico antenato (uno di quelli con i peli ispidi e lunghe zanne conficcate nel ghiaccio) del lo-fi.
Percussioni primitive fanno da graticola alla viola che sfrigola, alle chitarre che sbuffano e sferragliano, alla voce nervosa e vibrante mentre l’organetto si distende esausto come una colata d’acido sul magma ribollente formato dagli altri strumenti. Le canzoni passano dall’anfetaminica (aggettivo abusato da recensori che vogliono fare gli spaccosi, ma che qua va preso proprio letteralmente) title-track allo spoken word di “The Gift” dove la voce di John Cale recita un testo di humor nero (un ironia simile si può ritrovare in qualche racconto di "Cavie" di Palahniuk) scritto da Lou Reed. “Lady Godiva’s Operation”, recitata da un Cale sotto anestetico (Nick Drake deve aver preso nota) parla di un cambiamento di sesso, e termina proprio in una “vertigine d’anestesia” con Reed che sbuca come un pappagallo gracchiante da lungomare di Bahia a sottolineare le parole del compagno di gruppo. Le altre due canzoni servono prima a rallentare, a cambiare gli amplificatori fusi e a scraticchiare le corde degli strumenti ("Here She Comes Now") e poi a riprendere il passo ("I Heard Her Call My Name"), e, forse, a mettere in guardia lo spettatore. Insomma, “I Heard Her Call My Name” dovrebbe già far capire la potenziale pericolosità del gruppo, ascoltate l’inizio, ricorda quello di “Search and Destroy” (ricorda a me, perché ho sentito prima gli Stooges dei Velvet…sai, quando sei un adolescente all’inizio del terzo millennio per trovare della buona musica vai a ritroso, e poi torni in avanti quando sei pronto per roba tipo i dEUS o gli Animal Collective, gente che non avresti potuto apprezzare conoscendo solo loro contemporanei del tipo Ligabue o Linkin Park)… se qualcuno non la intuisce qua, la loro pericolosità intendo, allora non gli rimane che essere fagocitato dalle fauci feroci di “Sister Ray”. Una canzone scritta in treno, che ha proprio l’incedere di un vagone merci sulle rotaie. Le merci trasportate sono anfe, gay e pulotti morti. Cioè, muoiono strada facendo. Anche qui (qui sulla macchia lasciata sul tappeto da un pulotto morto) emerge un umorismo a metà strada tra barzelletta yiddish e teatro dell'assurdo:
“Oh no, non avresti dovuto farlo! Non lo sai che macchierai il tappeto?!?!?
…e..appproposito, n’ncel’hai un dollaro?”
“Oh no, non c’ho proprio il tempo … so’ troppo impegnato a succhiarme er batacchio”
E io sono troppo impegnato ad ascoltarmi questo discolo per fare attenzione alla vecchia che mi chiede di cederle il posto sull’autobus..insomma sono le sette di mattina, c’ho pure i corsi di recupero da fare, ‘sta bolgia nelle orecchie..e tu, vecchia, non puoi ‘chiapparti un altro posto o startene in piedi che fa tanto bene alle vene varicose? Che tanto non ti sento… sono sotto dove il drone rallenta… mi ringuscio cheto-cheto in un ampli fumante…
Consiglio questo disco a chiunque abbia voglia di divertirsi a costo di ustionarsi le orecchie, a chi ha voglia di sentire della buona musica vorticosa, una poltiglia sonora nella quale gli strumenti sono indistricabili l'uno dall'altro. Sconsigliato a chi si sente in dovere di ascoltarlo solo perché è "il secondo album dei Velvet Underground". Dal primo starnazzo all'ultimo sibilo: questo è un viaggio, non un compito per le vacanze.
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