“Mai giudicare un libro dalla copertina”

Così cantava nei '50 Elias Mc Daniel, altresì noto come Bo Diddley. E non possiamo che concordare con uno dei maestri del r'n'r, perchè molti, in un 1970 dove oramai Diddley era un ricordo sbiadito, un padre fondatore attuale ma comunque non “up-to-date”, avranno storto il naso davanti alla copertina di questo disco. Pur volendo sorvolare sulla botta cromatica giallo canarino, è la mise di Bo a lasciare qualche ragionevole dubbio: niente chitarra rettangolare (da lui creata e diventata simbolo eterno del suo Bo Diddley Beat, similare alla rumba) e borchie stile sadomaso portate a pelle nuda. Un misto di protopunk e sadomasochismo da sfociare quasi nel ridicolo.

Liquidare questo ritorno del padrino come poco interessante sarebbe, ora come al tempo, errore fatale, perchè, seppur non quintessenziale come i sui primi 4 dischi, è innanzitutto un disco con un groove da panico, unione perfetta fra il suo sound r'n'r e il nascente funk. A volte, e a dispetto di quanto si legge, bisogna seguire le proprie emozioni. Ovvio, qui il sound è ricco e meno scheletrico, ci sono organi torridi, coriste soul e tutte quelle cose che per un purista dei '50 sono fumo negli occhi. Ma, riconoscibilissimo sotto la coltre degli strumenti, c'è un groove pulsante che farebbe smuovere il culo ad una statua di granito, un'anima nera indomita che ha voglia di far sentire ai giovani virgulti cosa rende Bo Diddley quello che è.

Più o meno tutto ciò è racchiuso nella strepitosa “Elephant Man” che apre il disco, riff tagliato con l'accetta, Hammond sugli scudi e una voce mai così forte e potente. E che dire dello struscio funk di “Black Soul”, con un organo talmente caldo da rischiare di scottarsi. Destino simile alla mistica “If The Bible's Right”, in cui il gospel del nostro è supportato da coriste che, più che ad una messa, fanno pensare a qualcosa di più sconcio.

Presenza fissa quindi di tasti e voci femminili, ma non pensiate che il nostro abbandoni la fida sei corde, visto lo stomp blues di “Power House” o quello canonico di “Hot Buttered Blues”. Per non parlare della paradigmatica “Funky Fly” quasi in chiusura, dichiarazione di intenti spudorata e forse brano emblema del disco. E gli si perdona anche la finale “I Don't Like You” in cui il nostro, forse troppo gasato, si cimenta in un improbabile cantato operistico da unghie sulla lavagna, per poi redimersi con un lascivo botta e risposta uomo/donna su una base di organo e tipico Diddley sound.

Non produrrà più musica sua Bo, vivendo di rendita artistica, fiero del suo essere stato figura quintessenziale nell'evoluzione della musica (nera e non) del '900.

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