“Ogni tanto mi piace dare una mano a voi negri”. È una frase di Earl, novantenne appassionato di fiori, durante uno dei suoi viaggi come corriere della droga. Seguito da sgherri che lo controllano a pochi metri di distanza, decide di fermarsi comunque a soccorrere una coppia che ha forato la gomma dell’auto.

È solo uno dei tanti spunti polemici, provocatori, quasi paradossali dell’ultimo film di Clint Eastwood. Più che un film, un saggio filosofico di un uomo non banale, appuntito, il cui cuore indurito rivela in fondo una bontà austera, che non cerca pietà dagli altri.

Commuove la coerenza del cineasta, la sua tenacia nel raccontare quella che è la sua Repubblica ideale. A differenza degli ultimi lavori, stavolta ci mette dentro la sua figura assottigliata dai decenni ma resistente come il ferro. Recita quasi se stesso, mettendo a nudo tutte le sue idiosincrasie, la sua poca tolleranza per le frivole disquisizioni dell’America dei salotti, smascherando l’ipocrisia del politicamente corretto arroccato nella sua torre d'avorio (e negli ultimi anni ne spuntano tanti di film così), facendo coesistere la schiettezza nel chiamare le cose con il loro nome (negri, lesbiche, gringo e così via) e la capacità di rapportarsi con chiunque, senza avere più pregiudizi di tanti altri.

Il pregiudizio è centrale, ogni azione ne è determinata: ma stavolta non si parla tanto (o comunque non solo) del pregiudizio verso i neri o i messicani. No, si parla del pregiudizio positivo aprioristico verso un novantenne bianco, che può avere anche trecento chili di droga nel bagagliaio ma nessuno si sognerà mai di controllare.

La polizia, la Dea viene sostanzialmente irrisa: pur avendo spie, strumenti tecnologici, intercettazioni, elicotteri e quant’altro, alla fin fine interviene sempre il fattore umano nel determinare quale sia il pick-up nero da fermare. E non si sognano di certo di fermare quello di Earl.

È un regista bianco e conservatore a sanzionare la fallacia della società americana, e lo fa interpretando proprio lo stereotipo del cittadino tutelato a priori. Lui viaggia, tranquillo, canticchiando canzoni d’altri tempi, fermandosi per un panino o un gelato, intrattenendosi con prostitute fino a tardi. Nessuno si sogna di indagare un simile paradigma statunitense.

E in questo suo essere paradigmatico, Earl raccoglie in sé il momento di un’America che sta degenerando. Non ha davvero bisogno di quei soldi, è l'estrema metamorfosi di un desiderio di grandezza, d'una smania di avere tanto e subito, anche per fare del bene ma sempre con un tocco frivolo, gigione. Un vuoto quotidiano e una noia che vanno riempite, ma un vecchio fioraio senza nessuno o quasi cosa può combinare? La scelte del crimine imborghesito appare quasi logica e rappresenta perfettamente le frustrazioni che diventano ambizioni smisurate della società attuale.

Earl non può rientrare semplicemente in un paradigma, è una figura complessa: ha sbagliato tanto, ha trascurato la famiglia, s'è ridotto al crimine, ma la sua è una vita pacificata, o meglio anestetizzata. Non arriva mai a scontrarsi davvero con le sue nemesi, svicola, fugge, sa godersi l'estemporanea gioia di un panino con l'arrosto di maiale, o una bella canzone durante il viaggio.

È umano, profondamente umano. Come lo sono tutti. E questa è una conquista enorme per il film, perché ogni personaggio, dai familiari ai banditi del cartello, fino ai boss e agli agenti della Dea, ecco ognuno di loro arriva prima come essere umano che come maschera, come figura con una funzione. C'è del buono in ognuno, anche nei più stronzi criminali. Si tratta solo di trovare la leva giusta per aprire il loro cuore. Earl chiacchiera con quelli che gli caricano il furgone con la cocaina, chiede loro come stanno i figli, si intrattiene con loro imparando a usare lo smartphone. Sono questioni piccole, chiacchiere non importanti, ma danno colore alla vita. Earl non segue il percorso dettato, fa il suo giro, si ferma quando vuole. La sua è una vita, non un grafico matematico.

Impossibile non pensare, in due momenti, alla sequenza più famosa di Heat – La sfida; ho quasi paura a dire che sta volta Eastwood ha addirittura battuto Michael Mann. L'incontro tra poliziotto e bandito è duplice, in due atti molto brevi. Ma questa volta Nanni Moretti non potrà contestare nulla. Due uomini “nudi” che si consolano. Alla fine volevo piangere.

Insomma, pregiudizi che dettano il nostro agire, decadenza di una società, i capricci dell'io, la nostra dimensione umana. Argomenti leggerini a cui il regista aggiunge infine il carico da novanta: la famiglia e lo Stato. Il messaggio è semplice, ma qui vive della drammatizzazione toccante più che della raffinatezza dei concetti: The Mule non è un film che lavora di fino, al contrario, affastella argomentazioni per sostenere tesi semplici, ma che pur capendo molti faticano a mettere in pratica.

E allora c'è la famiglia, trascurata per il lavoro, per le donne, per il successo, per ogni capriccio possibile e immaginabile. Serve la morte per portare a maturazione un padre inadeguato come Earl. Non dico altro. E alla fine arriva pure lo Stato, tanto aspramente criticato da Eastwood. Non è fatto di leggi, non è fatto di giudici e avvocati: è fatto di uomini, più o meno meschini, più o meno forti, coi coglioni di ferro o le palle mosce, più o meno onesti, responsabili e obiettivi di fronte ai propri errori. Il cittadino perfetto condanna se stesso per ciò che ha fatto. Non è un mostro perché ha commesso dei crimini, anzi, è sollevato quasi perché abbraccia serenamente la necessità di essere punito.

Nel suo percorso di redenzione Earl-Clint traccia la strada verso un “mondo perfetto”, il suo mondo perfetto. A volte è bacchettone, sbaglia tantissimo, quasi tutto, ma a novantanni arriva a capire. Ha voluto dircelo, rivelarcelo con un film, per darci una mano a vivere.

8.5/10

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