Cos'è successo a Zucchero? È vecchio? È malato? O è soltanto più intelligente e bravo di quanto l'abbiamo sempre considerato?

Siamo nel 2010. Tutto è stato detto. Come disse Kobain prima di fare la scelta che ha fatto, le corde della chitarra sono sei, le note sono sette, più di tanto non si può inventare. E tutti hanno detto tutto. E Zucchero con loro.

E, piaccia o non piaccia, la sua è stata una carriera grandiosa. Quando uscì negli anni '80, inizialmente appariva un po' come il frutto sfigatiello di Mamma Emilia, quella che sparava colpi altissimi con Dalla, con Vasco, già con gli Stadio e molti altri. Allora anche Genova e Roma non scherzavano, come scuole. E il nebbioso e ingrugnito Piemonte diceva la sua con Buscaglione prima, e con Tenco e Conte poi.

Zucchero sembrava un po' lo scrondo di famiglia. Poi è venuta fuori la vena blues, una voce decisamente bella e “internazionale”, la credibilità e l'amicizia di inglesi e americani, un disco più divertente e ben fatto dell'altro. Copiava? Certo che sì, come quasi tutti e meglio di molti, mischiando i crismi della musica nera con la provincia italiana, creando quel mix di malinconia e goliardia che è sempre stato tanto il suo marchio di fabbrica quanto la sua arma vincente. Se poi ci pensiamo, si tratta di un mix neanche troppo lontano da quello di Ligabue a pochi chilometri di distanza o del miglior Pino Daniele a molti.

Ma non divaghiamo troppo, restiamo sul disco. Contro la logica, contro i tempi, contro il divertimento a tutti i costi, il “progressismo” musicale a tutti i costi, la classificona a tutti i costi (che comunque ha conquistato...), Zucchero ha confezionato un disco vecchio, triste, vagamente mortifero e di saluto (…?), nebbiosissimo e autunnale.

Bellissimo.

Anche i due brani veloci e goderecci (per dirla banalmente: “alla Zucchero”) che ci ha infilato dentro sono sì divertenti e quasi sicuramente da classifica (gli italiani, è noto, non si fanno troppe domande...), ma sono “sentiti” fino a un certo punto. Staccano - e lo si deve fare, tecnicamente - la bella monotonia dell'insieme, ma si percepisce benissimo che Zucchero, oggi, è altrove, soprattutto dal punto di vista compositivo.

Zucchero oggi è tutto in quella sfilza di drammaticissimi e bellissimi “ciao” che spara nel brano più bello del disco: “Il suono della domenica”. Sentitelo e capirete in pieno ciò che voglio dire.

Dunque, alla faccia dei nani, delle ballerine, dei prodottini di laboratorio (scadenza: un anno) dell'amicixfactor Raiset, dell'epoca infame e della superficialità governante, il nostro (ex?) godereccio del reggiano ci butta lì un'opera senza tecnicismi strumentali particolari, senza ospitate - ci sono...ma non sono - troppo evidenti, senza “urlo".

Tutto incentrato sulla malinconia, sulla giovinezza (andata), sui ricordi. Sulla provincia.

Ed è una scelta grande e coraggiosa, di cui la storia della musica italiana gli renderà grazie.

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