LE TEMPESTE DI MILLE VIAGGI
ovvero i ricordi da mettere in valigia prima di partire

Premessa: è impossibile parlare delle storie di Davide Van De Sfroos meglio di quanto faccia lui stesso, perciò invece di leggere questa "recensione" andate ad un suo concerto oppure acquistate un suo disco e leggete i suoi testi.

Davide Van De Sfroos è uno strano personaggio che si aggira sui moli e sulle spiagge del Lario, e che racconta tante cose. Racconta di personaggi da bar sport, di contrabbandieri, di allucinazioni temporalesche, di persone che fuggono e altre che tornano. Nel primo disco, "Manicomi", ha raccontato il manicomio e alcune piccole paranoie sociali, nel secondo, "Breva e Tivann", i sogni dei personaggi di una balera fantasma sul lago, e nel terzo, "E semm partii" (2001), il menestrello raccoglie la sua valigia di esperienze e la sua chitarra in dialetto laghee e parte per il mondo, alla ricerca di altre contaminazioni e altre storie.

Si parte in quarta con il folk-ska di "El Bestia", un leggendario figlio dei boschi temuto e innamorato (irresistibile la risata del Davide... castigh del signur... eheh!), poi c'è il "Sugamara", una specie di rapinatore-avventuriero (secondo me è sardo come le Balentes, coriste ospiti) che incontra il figlio aldilà dello sportello della banca che sta per rapinare. Per Sugamara la vita tutta di corsa come questa fisarmonica, quindi "che hai da guardare?" e via di corsa con il bottino in una mano, una pistola giocattolo nell'altra, e gli occhiali da tafano dell'autogrill di Fiorenzuola sugli occhi e sul passato. Non si può fermare un dado intanto che gira e non si possono fermare i trascinanti ritmi reggae portati dal "Kapitan Kurlash", supersalvatore alieno di questa società entrata in loop.

Siamo partiti e un "Trenu Trenu" ci porta fino al delta del Missi-fottuto-sipi, con un blues di valigie pesanti, di fotografie lasciate sui binari, di rose di plastica in mazzo ai rifiuti, e uno slide profondo, delirante, ubriaco (è lo slide del grande Gnola, bluesman del delta... di Pavia!). "E semm partii" su una nave di emigranti verso l'America portando con noi solo due cori di speranza, un mandolino, il vestito buono, tanti ricordi lasciati sul molo, tanta paura di fronte a una faccia che ci guarda dura da lontano, da New York, dove i nostri bisonnni si chiedono "sarem poi simpatici alla Libertà?". Si torna per un momento sul lago con "Me canzun d'amuur en scrivi mai", ironizzando sulla musica alla Ligabue con la storia di un giardiniere innamorato della padrona di casa, un giardiniere che non sa scrivere canzoni d'amore e, rosso in viso quando lei passa, si nasconde tra i fiori che vorrebbe donarle, magari con lo sfondo di un bel "sole che balbetta".

In controluce di quello stesso tramonto si muove "L'omm de la tempesta", brano più dylaniano del disco, e forse una delle mie canzoni preferite in assoluto, una canzone fatta di fughe senza guardarsi indietro, scappando come "una formica che si arrampica sul mappamondo", temporali trattenuti dietro le nuvole, futuri predetti e non accettati, occhi che tagliano cieli di paesi sconosciuti. Entrando invece al "Grand Hotel" ascoltiamo la banda di paese (la Banda Osiris per l'esattezza!) suonare con uno skapunk dai mille fiati indemoniati l'illusione di un amore e la storia di una famiglia rinchiusa nella prigione di un lavoro di corsa. Dalle finestre ska del Grand Hotel possiamo vedere un vecchio pescatore seduto sulla terrazza dell'ospizio che scruta con occhi bagnati un lago asciutto come la sua dentiera, aspettando che all'improvviso salti fuori "El mustru" visto tanti anni prima, mentre era ancora il re dei pescatori, e non dei rimbambiti. Ma è esistito veramente o è solo un ricordo nascosto nel bicchierino delle pastiglie?

Con questo interrogativo si calmano i ritmi ma non i ricordi, e la "Television" ne contiene tanti, quanti ne può contenere una scatola polverosa fatta di 50 anni di storia: l'assassinio di un presidente a Dallas, un goal dell'Italia, un discorso del Papa, un passo sulla Luna, e ancora guerre, telequiz, Sanremo, John Wayne... tutti i colori che questa chitarra ci dipinge sotto gli occhi, mentre affondiamo nella fossa sul divano modellata dalle nostre chiappe e ci beviamo tutte le cose che ci hanno voluto far credere, e forse è ora di spegnerla questa televisione per tuffarci nella notte (scusate l'espressione da Lucignolo-Bellavita) di "San Macacu e San Nissoen". Veloci emozioni acustiche in questa notte di assurdità e deliri, notte di angeli e diavoli, madonne stanche e gatti musicisti, ombre autonome e batman in galera.
Dopo aver giocato il nostro ultimo asso con "La ballata delle 4 carte", dietro la quale si nascondono fantasmi, candele e occhi pieni di fumo, è giunto il tempo di partire di nuovo, questa volta verso il cielo, lanciandosi insieme al "Ladro dello Zodiaco" tra le costellazioni, oppure di nuovo tra le canzoni di Davide Van De Sfroos, magari verso la stazione, o tra le giostre abbandonate, o semplicemente all'inseguimento d'El Bestia o di ricordi che non svaniranno nelle parole biascicate di un vecchio al tavolino del bar, se sapremo ascoltare con l'orecchio teso e il cuore aperto... che non svaniranno nel vento puro e acustico di "Ventanas", ultima traccia (intesa come sentiero), filastrocca sciamanica, respiro di pace e sollievo, ninnananna catartica.

da "L'omm de la tempesta":
"E puoi bere mille tazze di camomilla
rinchiudere i pensieri nella bottiglia di vino bianco
alla tempesta non basta una scodella
perché l'inchiostro di ogni viaggio è nel tuo sangue...
... andrai in giro, o forestiero, per tutto il mondo
ma anche il mondo da una qualche parte finirà
una tempesta è difficile da nascondere
resta con me, e la tempesta cesserà...
"

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