editoriale di sotomayor

Benvenuti al nostro appuntamento settimanale. Eccoci qui collegati dalla nostra postazione radiofonica per una nuova intervista impossibile.

Come ogni settimana avremo anche oggi un ospite impossibile e che abbiamo intercettato grazie alla nostra strumentazione speciale e alla solerte opera dei nostri tecnici che con estrema perizia e cognizioni scientifiche operano ai fini di rendere possibile questa trasmissione che varca ogni confine spazio-temporale ivi compreso quello tra la vita e la morte.

Anche questa volta abbiamo un ospite internazionale e per la prima volta da quando abbiamo inaugurato la trasmissione, abbiamo come ospite un musicista. Uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi e per il quale ammetto di avere da sempre una particolare predilizione. Spero che data l’audience della nostra trasmissione, la scelta vi sia molto gradita.

Tutto cominciò per quanto riguarda il mio interesse nei confronti di questo grandissimo chitarrista e virtuoso dello strumento, effettivamente con un film che Woody Allen volle tributagli anni fa e intitolato "Sweet & Lowdown". Siamo nel 1999. Si tratta di un falso documentario imperniato su personaggi fittizi e centrato sulla figura del chitarrista Emmet Ray, interpretrato da uno straordinario Sean Penn. Fanno parte del cast anche Anthony LaPaglia, Uma Thurman e una incredibile Samantha Morton, bellissima e candidata a diversi premi come migliore attrice non protagonista.

Sto parlando di Django Reinhardt.

Nato a Liberchies in Belgio nel gennaio 1910, Django Reinhardt nasceva in una famiglia di etnia sinti. Oppure "manouche" secondo la terminologia francese. Dopo un lungo girovagare la sua carovana si fermò presso la periferia di Parigi in Francia, dove Django visse per lo più la sua intera esistenza.

Uno dei più grandi e influenti chitarristi della storia del jazz, Django Reinhardt seppe coniugare la tradizione musicale della musica gitana, derivata dalle radici nell'India subcontinentale e sviluppatasi nel corso dei secoli da quel crogiuolo e incontro di culture che fu l'Europa mitteleuropea, la antica Armenia e quella che oggi chiamamo Boemia, con la musica jazz importata dal Nord America.

Esponente di spicco della cultura della propria comunità, Django Reinhardt è considerato dagli zingari come un vero e proprio eroe e come la più grande personalità che si sia imposta al di là del jazz al di fuori della cerchia del mondo manouche.

Django è il viaggiatore che si è imposto presso i "contadini".

Dopo una menomazione alla mano sinistra, sviluppò una sua particolare tecnica chitarristica che è ancora oggi deliberatamente imitata da parte della moltitudine di chitarristi che si sono ispirati e che si ispirano a lui.

Sergio Corbucci lo omaggiò dandò il suo nome a uno dei personaggi più famosi della storia dello "spaghetti western" (un film ripreso poi in tempi recenti da Quentin Tarantino): "Django". Interpretato da Franco Nero.

Fu anche pittore e a modo suo poeta, che non sapeva leggere e scrivere, ma che "cantava" con la sua chitarra trasmettendo in via orale la cultura e la storia della sua comunità come fece a suo tempo Omero con i suoi poemi.

Che altro aggiungere?

D. Penso che vada bene così [Ndr. Sorride.].

Hai ragione, cominciamo pure con l'intervista allora.

D. Sì sì, va benissimo.

1. Buonasera Django e grazie di essere qui con noi stasera. Penso che questo sia uno di quei casi tipici in cui, pure interloquendo con un musicista, dobbiamo in qualche modo ampliare i nostri orizzonti e parlare anche di altro. Al contrario di quello che si pensa di fatto tu non sei esattamente un "gitano", ma nasci in Belgio da una famiglia di etnia sinti (quelli che i francesi chiamano "manouche"). Pure viaggiando molto, hai vissuto per lo più tutta la tua esistenza in Francia e attorno alla città di Parigi. Ciononostante tu sei considerato come l'eroe di un intero popolo. Gli zingari vedono in te l'equivalente di un dio, l'unico uscito da questa grande comunità che abbia varcato i tempi e le frontiere e imponendosi alle generazioni successive al di là del jazz. È una domanda sicuramente difficile, ma volevo chiederti quanto questo sia importante per te e se questa considerazione ti pesi in qualche modo. A parte questo se e quanto le tue origini abbiano influito sul tuo modo di suonare.

D. Penso che sia più facile rispondere alla seconda domanda. Quando mi chiedi quanto le mie origini abbiano influito sul mio modo di suonare.

Tutti quanti nella mia famiglia, nella mia comunità, suonavano. Suonavamo quelli che voi chiamate i valtzer tzigani, la musica tradizionale del nostro popolo. Così ho cominciato anche io. È stato un fatto naturale, non ho dovuto fare nessuno studio particolare quando ho cominciato a suonare. Probabilmente questo come dici, è il nostro modo per raccontare delle storie, trasmettere la nostra cultura di generazione in generazione, come fate voi con la storia scritta. Voi scrivete le vostre storie, noi le raccontiamo e le tramandiamo ai nostri figli attraverso la nostra musica. Penso che hai bisogno di un posto dove custodire le storie "scritte" e noi siamo un popolo nomade. Non abbiamo nessun posto dove conservare. La musica non ha bisogno di essere scritta. Non ci sono mai stati spartiti e tutto quello che abbiamo, lo portiamo dentro di noi.

Mi chiedi poi se mi sento come se fossi l'eroe di un intero popolo. Se è così, questa cosa non mi pesa affatto. Sono stato sicuramente un musicista molto conosciuto durante i miei anni, così in Europa come negli Stati Uniti d'America e forse sono stato il primo della mia comunità a diventare così famoso e se per questo ho fatto qualche cosa di buono per il mio popolo oltre che per me, questo è sicuramente positivo. Penso di essere ancora ricordato e non solo nella mia comunità. Ma penso anche che oggi i tempi siano diversi che in passato e che il nostro modo di vivere sia sempre più raro e che a causa di questi cambiamenti ci sono stati altri appartenenti alla nostra comunità che sono diventati molto conosciuti. Questo anche nel mondo della musica. Penso a Bireli Lagrene oppure Jimmy Rosenberg, Stochelo Rosenberg... Anche i miei figli Lousson e Babik. Mio nipote David... Ma questo è normale. Il mondo è diventato improvvisamente più piccolo. Forse è troppo piccolo perché una popolazione possa considerarsi ancora nomade.

2. Django, è il 2 novembre 1928. Hai diciotto anni, ti sei già sposato con Bella e sei andato a vivere con lei in una tua roulotte regalata da tuo suocero in occasione delle nozze. Avevi già cominciato a farti conoscere in giro come musicista: eri stato ingaggiato per suonare il banjo nella orchestra di Jack Hylton. Ma quella notte un terribile incendo scoppiato disgraziatamente nella roulette ti costrinse alla menomazione e la perdita dell'anulare e il mignolo della mano sinistra. Continuare a suonare il banjo era impossibile. Secondo il medico non avresti mai più potuto suonare. Poi tuo fratello Joseph ri regalò una chitarra...

D. Sì. È inutile ricordare questa storia: fu una disgrazia. Ritornai di notte a casa e Bella dormiva. Quando abbiamo acceso una candela per fare luce, questa ci scappò di mano e in poco tempo ci furono fuoco e fiamme dappertutto. Rimasi in ospedale per un anno e mezzo: volevano amputarmi la gamba destra ma rifiutai.

Fu allora che mio fratello Joseph mi regalò una chitarra. Non potevo più suonare il banjo. Il banjo è uno strumento troppo rumoroso per poter essere suonato in un ospedale e poi era veramente troppo pesante. Così cominciai a esercitarmi con la chitarra. All'inizio questa era una sfida con me stesso per vedere se riuscivo a recuperare l'utilizzo della mano, ma in seguito acquistai una familiarietà tale con la chitarra da farne il mio strumento principale e... Paradossalmente questa fu una fortuna perché è proprio come chitarrista che sono diventato famoso e ancora oggi ricordato da tutti.

Django, tu sei ricordato come un vero e proprio virtuoso dello strumento e un compositore fertilissimo. Eppure molti ti ricordano principalmente per il fatto che avevi rivoluzionato il modo di suonare la chitarra. A causa della menomazione sviluppasti infatti una tua tecnica particolare e che non prevedeva l'uso dell'anulare e del mignolo. Secondo alcuni storici però questa tecnica era già diffusa presso i musicisti manouche. In ogni caso è vero che oggi ci sono musicisti che suonano in quel modo per imitare il tuo stile?

D. Alla seconda domanda penso che tu possa rispondere meglio di me, perché si tratta di qualche cosa che riguarda il tempo presente. Il mio futuro. Però sì, so che ci sono molti musicisti manouche o che comunque diciamo che vogliono imitare la mia musica e il mio stile e che cercano di suonare anche loro senza usare l'anulare e il mignolo. Se vuoi sapere io che cosa penso, però, ti dico che questa mi sembra una grande sciocchezza: perché mai dovresti rinunciare a usare tutte e cinque le dita? Non c'è nessun motivo. Immagino che se avessi potuto farlo, se avessi potuto usare cinque dita invece che tre, avrei suonato ancora meglio. Ne sono sicuro.

Quello che dicono questi "storici" di cui parli invece è una bugia. È una storia inventata per la stessa ragione che ti ho spiegato: perché se hai cinque dita, devi usarne solo tre? Non ha nessun senso.

3. Il Quintette du Hot Club de France! Il critico Thom Jurek (ma non solo) lo hanno definito come uno dei gruppi più originali nella storia del jazz. Sicuramente era un ensemble rivoluzionario per come lo avevate concepito, composto da cinque elementi e da soli strumenti a corda. La formazione più celebre è quella composta da te e i chitarristi ritmici Roger Chaput e tuo fratello Joseph, il bassista Louis Vola e il violinista Stéphane Grappelli. Fondamentalmente tuttavia il gruppo aveva come componenti stabili e principali te e il Grappelli. Penso che la collaborazione tra voi due si possa definire una di quelle combinazioni uniche nel corso della storia della musica e l'incontro tra due virtuosi della storia del jazz senza pari. Ci racconti qualche cosa del vostro incontro?

D. È una storia curiosa. Io e Joseph passavamo un sacco di tempo in un bar a la Rode chiamato "Chez Thomas" o al "Café des Lions" dove suonavamo e chiedevamo l'elemosina. Qui conoscemmo sia il pittore e fotografo Emile Savitry che ci iniziò al jazz degli americani, musicisti che non avevamo mai ascoltato prima e di cui avevamo solo sentito parlare: Louis Armstrong, Duke Ellington, Joe Venut, Eddie Lang...

Poi conoscemmo Louis Vola, che allora suonava la fisarmonica e cominciammo a suonare con la sua orchestra... Dopo un po' di tempo incontrai Stéphane, suonavamo negli stessi cortili dove entrambi chiedevamo l'elemosina: lui allora suonava con l’orchestra di questo André Ekyan. Oggettivamente in quel contesto era sprecato. Fui molto colpito dal suo modo di suonare, così una sera lo invitai sul mio carro a cena e da quel momento cominciò la nostra collaborazione.

Stéphane ricorda che in quell'occasione suonaste "Honeysucle Rose".

D. Non lo so. Non riesco a ricordare con precisione. Ma se lo ha detto Stéphane allora sarà stato sicuramente così.

Ma è vero che avevate due caratteri radicalmente diversi?

D. Stéphane era un musicista incredibile, che sapeva associare la musica jazz degli americani alla musica più popolare e folkloristica e quella della tradizione manouche. Anche se lui non era un manouche. Aveva invece una storia molto particolare alle spalle. Suo padre era stato un professore di filosofia, aveva origini nobiliari e Stéphnane era per metà italiano. Aveva studiato al conservatorio ma non aveva finito gli studi: aveva una formazione culturale e musicale che raccontata in questo modo può sembrare incompleta, ma che invece si completava con tutti questi elementi diversi incastonati tra loro.

Avevamo caratteri diversi? Sì e no. Penso che il punto di vista differente fosse quello che riguardava il modo di considerare la nostra attività di musicisti. Lui pensava che suonare era qualche cosa di interessante ma che non bastava per guadagnarsi da vivere. Io non mi sono mai preoccupato di questo aspetto. Per me suonare è sempre stato una parte della mia vita, qualche cosa che avevo sempre fatto e che avrei continuato a fare sempre e in ogni caso possibile. L'unica differenza rispetto agli altri appartenenti alla mia comunità sta nel fatto che io ero il più bravo, il più bravo di tutti, e per questa ragione ho cercato di migliorarmi sempre di più e confrontarmi con i migliori musicisti in Europa e nel mondo.

4. Django, un film documentario uscito di recente [Ndr. Non è il primo film e/o documentario dedicato a Django Reinhardt ovviamente.] di un regista e produttore francese di nome Ètienne Comar, racconta la Francia nel 1943 sotto l'occupazione nazista e del fatto che la tua musica fosse ammirata anche dagli ufficiali tedeschi. Si racconta allo stesso modo sia di una tournée che avresti dovuto intraprendere a Berlino al cospetto di Goebbels e del Fuhrer stesso e della tua fuga in Svizzera con una amante doppiogiochista di nome Louise. Il film ti presenta in qualche maniera come una specie di eroe all'interno della comunità sinti. Che cosa pensi al riguardo?

D. Non ho visto questo film. So che sono stato "doppiato" da Stochelo Rosenberg, che ho già menzionato prima e che è un bravo chitarrista. Uno dei migliori. Ma la storia raccontata da questo signore in questo film-documentario è tanto bella quanto falsa e completamente inventata.

Mi piacevano le donne, questo è vero, ma non ho mai conosciuto nessuna Louise. Ho avuto due compagne stabili e che ho amato molto: la mia prima moglie Bella e Naguine [Ndr. Vero nome: Sophie Ziegler.], che sposai nel 1943. Sono state le madri dei miei due figli: Lousson e Babik. So che questa donna, questa Louise, è stata una specie di invenzione cinematografica del regista per raccontare la storia, ma non è mai esistita.

Allo scoppio della guerra mi trovavo in Inghilterra con Stéphane e il resto del quintetto. Ma non sono tornato in Francia perché volevo fare parte della resistenza o come simbolo di resistenza dei manouche. L'ho fatto perché avevo paura delle bombe e perché sapevo che i nazisti non mi avrebbero perseguitato: mi sembrava la soluzione migliore per sopravvivere. Inoltre, per quanto possa sembrare strano per uno zingaro, non mi piaceva stare troppo tempo lontano da casa e volevo ritornare a Parigi.

Una volta in Francia riformai il quintetto con Hubert Rostaing al clarinetto, perché Grappelli decise di rimanere in Inghilterra. La storia che riguarda questa tournée in Germania e a Berlino al cospetto di Goebbels e Adolf Hitler è completamente inventata ma è vero che ai nazisti piacesse sentirmi suonare. Del resto non potevo certo impedirglielo.

Tutto questo non significa infatti che io fossi un nazista (è vero che cercai anche di fuggire in Svizzera del resto) o che sia stato insensibile a quelle che sono state le persecuzioni e il genocidio delle popolazioni rom e sinti in Europa. È stata una pagina tragica per il mio popolo e per tutta l'umanità. Non penso che spetti a me raccontarla, sappiamo tutti che cosa è successo.

E tu hai scritto una delle tue canzoni più belle, "Nuages", come "requiem" in memoria di tutti i caduti...

D. Non andò esattamente così. Io continuai a suonare e scrivere canzoni durante quegli anni ovviamente. Tra queste canzoni vi fu "Nuages", diventò in maniera del tutto casuale una specie di inno di speranza per tutta la popolazione di Parigi. Durante un concerto al Salle Pleyel suonai la canzone tre volte di seguito...

5. Parliamo degli ultimi anni. Dopo la guerra e una reunion con Stéphane Grappelli, nell'autunno del l946 andasti per la prima volta in tour negli Stati Uniti d'America dove andasti in tournée con Duke Ellington. La storia vuole che in verità la prima cosa che tu abbia fatto una volta sbarcato in America sia stata quella di cercare Dizzy Gillespie, è vero? Che ci puoi raccontare comunque di questa esperienza?

D. Sì, è vero, volevo a tutti i costi ascoltare Dizzy Gillespie. Un musicista fantastico. Lui e la sua orchestra rappresentavano appieno la musica degli anni sessanta. Con questo voglio dire che erano praticamente avanti di vent'anni.

Ma le cose non andarono benissimo. Penso che l'America non mi abbia accolto come meritavo. Non mi ero portato la chitarra e me ne diedero una che somigliava a una grande casseruola, come se fossi l'ultimo arrivato. Inoltre il mio stile non piaceva ai critici americani. Ma gli Stati Uniti d'America non erano quel posto fantastico che mi avevano raccontato. C'era molta discriminazione nei confronti dei neri, figuriamoci nei confronti di uno zingaro come me.

Cominciai presto ad annoiarmi e decisi di ritornare in Francia.

Mercer Ellington, il figlio di Duke, dichiarò che "Esiste una vera parentela musicale tra i neri e gli indiani (dell'India da dove hanno origine gli tzigani), e in particolare nel loro rapporto con il ritmo. L'utilizzo delle terzine nella musica indiana è quasi evidente come nello swing - da... dada... da... dada... da... dada... Come se fosse un valzer rapido." Aggiungeva inoltre il fatto tu fossi un musicista straordinario e che il padre ti ammirasse molto.

D. Duke Ellington era un grande musicista e sono contento di avere suonato con lui, ma se vogliamo raccontare la verità, possiamo dire che io potevo suonare benissimo con questi musicisti, ma loro non potevano suonare con me. Non avevano una mentalità abbastanza flessibile. È il limite di molte grandi orchestre americane secondo me. Non riuscivano letteralmente a starmi dietro

Raccontai a Stéphane di questo viaggio e in generale della grande delusione. Dopotutto non avevo trovato nulla di nuovo negli Stati Uniti d'America. Stéphane rise e mi disse che ero un idealista e che il mio modo di suonare non avrebbe mai potuto avere nulla a che fare con le grandi orchestre americane e che la mentalità negli Stati Uniti d'America era diversa e che se volevo sentire del vero jazz avrei dovuto andare a Harlem o sulla cinquantaduesima strada, perché lì avrei forse potuto trovare qualche cosa in comune con la mia musica. Non lo so se questo fosse vero, ma la verità è che me ne ritornai in Francia molto deluso e non volli più saperne degli Stati Uniti d’America.

Erano gli anni in cui avveniva la scissione tra il be-bop e il jazz. Nasceva un nuovo tipo di linguaggio. Veniva introdotta la chitarra elettrica. Come hai vissuto queste innovazioni?

D. Bene. Francamente le nuove sonorità furono una sfida interessante, ma non ebbi nessun problema in questo passaggio. Lo stesso vale per la chitarra elettrica. Posso dire che il cambio fu naturale.

E della rivalità con Les Paul?

D. Nessuna rivalità. Lui ha sempre dichiarato di considerarmi un grande chitarrista.

E tu cosa pensi di lui?

D. Era bravo sì. Non ho molto da dire al riguardo.

Capisco. Be', che altro dire? Penso che sia stata una chiacchierata molto interessante e nella quale abbiamo soddisfatto la curiosità di molti dei nostri ascoltatori che sicuramente amano la tua bellissima musica.

D. Sono contento di avere potuto comunicare con loro e che nonostante siano passati tanti anni, ci siano ancora dei miei ascoltatori e appassionati. Li ringrazio e li saluto tutti.

E io ringrazio ancora te Django per questa intervista e ringrazio anche tutti i nostri ascoltatori a cui dò appuntamento la prossima settimana. Buona serata a tutti!

"Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai."

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Bentrovati. Siamo di nuovo collegati dalla nostra postazione radiofonica per il consueto appuntamento settimanale con le nostre interviste impossibili.

Come ogni settimana abbiamo un ospite impossibile e che grazie alla nostra strumentazione e ai nostri tecnici, siamo riusciti a intercettare per una intervista nella quale oltrepassiamo quel confine suscettibile di alterazioni spazio-temporali tra la vita e la morte.

Questa volta ospitiamo un personaggio internazionale e ascrivibile di merito a quella che potremmo definire come la 'categoria degli infami'.

Questa è una specifica che gli abbiamo fatto quando gli abbiamo richiesto di concederci questa intervista. Del resto non abbiamo motivo di essere ipocriti e non siamo quelli che si possono definire dei mistificatori della verità.

Cionondimeno gli abbiamo garantito un trattamento pari agli altri ospiti che sono finora intervenuti e che questa sarebbe stata una chiacchierata amichevole. Del resto non avrebbe senso invitare un ospite e poi impedirgli di parlare.

Tanto vale a questo punto svelare l’ospite di oggi. Una personalità incredibilmente popolare e la cui popolarità è rimasta invariata negli anni anche grazie al cinema e alla letteratura.

Sto parlando del Generale George Armstrong Custer (1839-1876).

Formatosi all'Accademia Militare degli Stati Uniti d'America di West Point, testardo, ribelle, orgoglioso, permaloso e scarso amante dello studio, eccelleva invece nella schermo, nel tiro con la pistola e l'equitazione. Caratteristiche che gli permisero di fare carriera nelle forze armate in cui raggiunse il grado di tenente colonnello e quello di generale 'brevet' in via provvisoria tra il 1865 e il 1866.

Ufficiale dell'esercito degli Stati Uniti d'America, fu comandante di reparti di cavalleria durante la guerra di secessione americana e le guerre indiane. Morì durante la famigerata 'Custer's Last Stand', il 25 giugno 1876 durante la battaglia di Little Bighorn contro gli indiani Lakota Sioux, Cheyenne e Araphao.

Fatta questa breve presentazione, è il momento di introdurre il nostro ospite.

Buonasera Generale e bentrovato.

C. Buonasera a lei, ragazzo, e buonasera a tutti gli altri convenuti a questa chiacchierata che spero si rivelerà in qualche maniera proficua e non una inutile perdita di tempo.

Farò del mio meglio per non annoiarla Generale. Del resto abbiamo molti argomenti di cui parlare.

C. Molto bene. Cominciamo pure.

1. Generale, se non le dispiace, pensavo di cominciare dalla fine. Dalla sua fine. Cioè dalla battaglia di Little Bighorn, dove il suo 7º cavalleria fu sconfitto ma soprattutto dove lei trovò la morte sul campo di battaglia. Che cosa ricorda di quella giornata e di quella battaglia? La storia la addita come il principale responsabile della sconfitta. Pensa di avere sbagliato qualche cosa in quella occasione particolare?

C. Prima di risponderle, ragazzo, mi dica: lei è mai stato su un campo di battaglia?

Mai nella mia vita. Per fortuna. In verità sono un pacifista e ripudio ogni forma di violenza e l’utilizzo delle armi.

C. Ha! Un vile dunque. Un codardo. Una donnicciola... Ora capisco ogni cosa. Ma procediamo pure con questa intervista. Vediamo dove vuole andare a parare.

Come preferisce. Ma mi creda, non ho nessuna intenzione di denigrarla. Vorrei semplicemente portare avanti questa intervista. Allora, come andarono le cose quella volta?

C. Avevo preparato tutto alla perfezione. Come mio solito. Non avrei del resto ottenuto la carica di generale e non sarei diventato così famoso senza la mia bravura e il mio ingegno. Oltre che il mio coraggio. Ma, vede, in quel caso specifico fummo ingannati da degli informatori che sbagliarono ogni valutazione oppure che, chi lo sa, facevano il doppio gioco. Avevamo informazioni sbagliate per quanto riguarda lo schieramento nemico e il loro numero. La verità è che c'erano molti interessi economici in ballo in quella regione e sarebbero dipesi dall’esito di quello scontro. Senza considerare gli interessi politici, che mi riguardavano personalmente dopo una vita intera passata a servire il mio paese sul campo di battaglia e durante la quale mi ero fatto molti nemici.

A Little Bighorn io ho perso, ma i miei veri nemici erano a Washington nelle stanze del potere, non sulle Black Hills!

Si riferisce al presidente Grant?

C. Ha! Proprio lui. Tra gli altri. Non fu il primo di quei maledetti politicanti corrotti a mettermi i bastoni tra le ruote, ma sicuramente fu l’ultimo!

Si riguardi la storia com’è andata veramente: il generale George Armstrong Custer non avrebbe mai perso a Little Big Horn!

Ho perso perché hanno voluto che le cose andassero così, fu un complotto ai miei danni e io e i miei ragazzi abbiamo pagato con la vita quello che è stato il mio coraggio contro tutto e tutti. Parlo di veri patrioti americani, mandati a morire sul campo di battaglia dai massimi rappresentanti della classe politica degli Stati Uniti d'America!

Ma è vero che lei fu ucciso quasi subito durante la battaglia?

C. Questa è una domanda impertinente. Quello che le posso dire è che ho sempre combattuto in prima linea e senza nascondermi dal nemico e questo lo ha sempre riconosciuto anche ogni mio avversario.

2. Il 27 novembre del 1868 a capo del suo 7º cavalleria, attaccò un villaggio sul fiume Washita in Oklahoma. Era un accampamento di sole 250 persone disarmate. Molte di queste persone erano donne o bambini. Quelli superstiti vennero fatti prigionieri. Fu un attacco sferrato di sorpresa alle prime luci dell’alba e che le valse il soprannome di ‘Figlio della Stella del Mattino’. Ma lei odiava gli indiani? Voglio dire, a quei tempi era consapevole di stare prendendo parte a quello che sarebbe poi stato un vero e proprio genocidio? Perché compiere azioni militari di questo tipo?

C. Come ha riconosciuto precedentemente, lei non è mai stato su di un campo di battaglia quindi forse alcune questioni non le sono chiare.

Vede, la guerra non è qualche cosa che ammette compromessi. Questi al contrario possono comportare solo ulteriori problemi e incrementare il numero delle vittime da tutte e due le parti. Un inutile spargimento di sangue e senza che si arrivi a nessuna soluzione del conflitto. Tra parentesi: questo fu alla base dello scontro ideologico tra me e i miei superiori. Senza considerare i soliti politicanti.

Quando sei un ufficiale hai delle responsabilità e devi adempiere al tuo compito anche se questo possa apparire brutale. In quel momento devi agire in maniera ferma e irreprensibile, non sono ammessi tentennamenti e nessuna esitazione. Ci vuole decisione e il coraggio di andare fino in fondo anche se questo comporta azioni che possono spaventare e che non possiamo raccontare a casa alle nostre mogli e ai nostri bambini.

Va bene. Ma in questo caso infatti parliamo proprio di donne e bambini...

C. E lei cosa ne sa? C’era forse? Questo è quello che hanno raccontato, ma chi le può confermare che questo costituisca una verità? Anche quando attaccammo a Little Bighorn dissero che sarebbero stati in pochi e invece...

La storia viene raccontata sempre in maniera diversa a seconda delle situazioni.

Per chiarire la questione definitivamente: io non ho mai odiato gli indiani. Ma eravamo in guerra e la guerra è guerra. Eravamo avversari e ci dovevamo combattere. Io da una parte, gli indiani dall’altra. Ma c’erano anche alcuni indiani che del resto combattevano dalla nostra parte e che avevano capito che la scelta giusta fosse abbandonare il loro sistema di vita primitivo e passare allo stato di società più avanzata del nostro sistema.

Parlare di genocidio è ridicolo: semplicemente gli indiani, senza considerare quelli che sono gli incroci tra appartenenti a razze diverse, hanno scelto di vivere all'interno della nostra società e abbandonato le loro stupide abitudini e credenze primitive. Questo a parte uno sparuto numero di fannulloni, che vive nelle riserve pretendendo di ignorare lo scorrere del tempo e di ricevere comunque sussidi e assistenza dalle organizzazioni governative. Ma queste persone non fanno del bene a se stesse né a chi li circonda. Non fanno del bene ai loro figli!

Mi sembra un punto di vista sicuramente - diciamo - quantomeno discutibile, ma immagino che lei, Generale, sia irreprensibile su ogni sua affermazione. Posso chiederle comunque se è vero che sposò una donna indiana?

C. Non è così.

Io mi sposai una sola volta: con Elizabeth Cliff Bacon. Questo succedeva nel 1864. Ma non ho nessun problema a parlarle di Mo-nah-se-tah oppure ‘Erba di Primavera’ (Ndr. Era la figlia del capo Cheyenne Ho-han-i-no-o aka 'Piccola Roccia'), una donna bellissima e che mi diede anche un figlio e quello era figlio mio, non era un indiano. Così come Erba di Primavera era la mia donna. Mia e di nessun altro.

Ripeto: non ho mai avuto nulla contro gli indiani, ma questi erano il mio nemico e io dovevo combatterli e mi creda, non lo avrei fatto se loro avessero capito che noi eravamo portatori del vero progresso. Quando parla di genocidio sbaglia: oggi i discendenti di quegli indiani vivono assieme al resto della popolazione americana, sono integrati all'interno della nostra società e questo è merito degli uomini come me e dei nostri sacrifici.

Ha visto cosa succede in North Dakota? Mi riferisco alla protesta dei nativi americani e degli ambientalisti contro la costruzione della Dakota Access Pipeline. Cosa ne pensa?

C. Penso tutto il male possibile. La storia si ripete. Ci sono determinate persone che non vogliono accettare il progresso, ma le pretese di pochi non possono arrestare il progresso, lo sviluppo sociale e quello scientifico e tecnologico e la vita di una intera comunità. Queste persone sono dei criminali e vanno trattate come tali.

Penso che se si fa una scelta poi bisogna portarla a termine con decisione. Questa è una responsabilità di chi ci governa. Non sono ammessi tentennamenti, questi non fanno che aumentare i disordini e la possibilità di scontri. Ci vuole decisione e bisogna agire rapidamente e con la massima decisione.

3. Visto che abbiamo accennato a tematiche di attualità... Sicuramente conoscerà il Presidente Donald Trump. È una figura sicuramente controversa e molto discussa. Che sembrerebbe ricevere critiche dai suoi avversari e quindi dagli esponenti del partito democratico, ma anche da una componente del partito repubblicano. Da storico conservatore e uomo d’armi, sente una affinità con questo personaggio? Che giudizio ha di lui?

C. È un argomento per quanto mi riguarda molto doloroso. Lei dice bene: sono sempre stato un conservatore e ho combattuto per questo paese sia nella guerra civile che contro gli indiani. Sono morto per questo paese e i suoi ideali libertari e per la salvaguardia della nostra supremazia culturale. La tutela dei valori e dei principi repubblicani su cui si fonda la società americana.

Come dice, ho principalmente una formazione militare e penso che le forze armate siano uno dei cuori pulsanti di questo grande paese.

Ma non mi rivedo in questo presidente e penso con nostalgia ad altre grandi figure del partito repubblicano degli ultimi anni che hanno onorato la nostra bandiera: Bush padre e figlio, Ronald Reagan, Richard Nixon... Gente che ha fatto grande questo paese e onorato chi ha combattuto per esso e quelli che come me che sono morti per questa causa.

Tutte cose che un ricco industriale come Donald Trump non potrà mai capire. È solo un fantoccio e prima l’establishment del partito se ne accorgerà e lo priverà di ogni potere, tanto meglio sarà per l’America. Restituiamo l’America agli americani: quest’uomo ci ha venduto ai russi e ci ha coperti di ridicolo. Non è ammissibile.

4. Anche lei tuttavia aveva una fama, se posso permettermi, sicuramente controversa. È stato una persona ambiziosa ma con un carattere diciamo molto acceso e le sue 'fiammate' unitamente al suo carattere testardo e orgoglioso probabilmente hanno costituito un punto di forza ma anche il suo limite più grande. Che cosa mi può dire al riguardo? Pensa che alcune sue scelte siano state sbagliate e le abbiano impedito ad esempio di riuscire a raggiungere il traguardo di essere eletto presidente degli Stati Uniti d’America? Quello che molti ritengono sarebbe stato il suo vero obiettivo dopo avere vinto la guerra contro gli indiani.

C. Da questo punto di vista, come le dicevo, gran parte delle responsabilità venivano dalla ambiguità dei rappresentanti del mondo della politica che mi hanno storicamente sempre messo i bastoni tra le ruote e alla fine mi hanno usato senza dare nulla in cambio.

Fu anche arrestato...

C. Quella vicenda fu ridicola. Applicai lo stesso sistema che avevamo usato a Gettysburg: chi disertava, pagava con la vita e veniva giustiziato. Questo sistema mi permetteva un maggiore controllo sulle truppe e una maggiore forza di persuasione nei loro confronti. Il mio 7° Cavalleria era una armata compatta e perfettamente disciplinata e che rispettava i miei ordini fedelmente.

Comunque fui assolto e prosciolto anche da quest’altra infamante accusa. Immagino si possano ancora trovare degli atti che lo certificano.

Non so se avrei potuto diventare presidente, ma so che avevo il carattere adatto per guidare questa nazione che amo così tanto quanto lei amava me. Purtroppo la storia ha voluto che questo non si verificasse, ma non ho rimpianti, sono ricordato come e più di qualsiasi altro presidente o rappresentante politico dei miei tempi.

5. Ho solo un'altra domanda Generale. Come pensa di essere ricordato oggi nel mondo, ma in particolare negli Stati Uniti d’America. Sicuramente molti la considerano un grande patriota e un eroe senza macchia e senza paura. Uno degli eroi del selvaggio West. Esistono statue erette in suo onore e intere contee denominate come 'Contea di Custer'. Eppure una certa cultura che poi ha rivisto la storia americana da altre prospettive, la considera in maniera negativa e quasi la irride per la sua sconfitta a Little Bighorn...

C. Penso che una certa cultura hippie e pacifista diffusasi negli anni sessanta dello scorso secolo abbia scientificamente lavorato per oscurare la mia immagine e lo stesso è successo per quanto riguarda altri appartenenti alla storia delle forze armate degli Stati Uniti d’America. Hanno girato le spalle ha chi ha donato la vita per questo paese e salvaguardarne i principi libertari. Io ho sempre combattuto per questo paese per nessun altro: nella guerra civile ero dalla parte giusta e abbiamo vinto. Nella campagna contro gli indiani è stato lo stesso. Io sono morto ma noi abbiamo vinto. Abbiamo vinto le guerre mondiali salvaguardando i principi democratici in tutto il mondo, mentre questi erano messi in serio pericolo dai nazisti. Senza considerare la guerra fredda.

Un vero americano sa che io sono un simbolo importante di questa nazione e mi riconosce sicuramente come un vero eroe. Pensi che dopo la guerra civile mi fu offerto di andare in Messico e guidare l’esercito di Massimiliano d’Austria. Mi offrirono un sacco di soldi. Ma rifiutai. Non mi interessavano. Non sono mai stato interessato ai soldi. Io amavo e amo l’America e le ho dedicato tutta la mia vita. Sono un eroe nazionale tanto quando George Washington oppure Thomas Jefferson, Abraham Lincoln. Magari questo a qualche sciocco pacifista non piacerà ma per fortuna da questo punto di vista ce ne sono pochi come lei.

Che fortuna.

C. Ha! Esattamente.

Bene Generale, direi che adesso la nostra simpatica chiacchierata si può dire conclusa. È stato un piacere averla con noi. Io la ringrazio e la saluto così come saluto anche tutti i nostri ascoltatori a cui auguro anche un felice nuovo anno 2018!

C. Un saluto a tutti e un augurio per il nuovo anno. Dio benedica gli Stati Uniti d’America!

'Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai.'

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editoriale di sotomayor

L'uomo ha il dovere di sopravvivere alla natura. Cioè di vincere ogni sfida che questa ci pone quotidianamente e pure in un contesto che da questo punto di vista è in costante evoluzione e ha subito delle alterazioni dettate proprio da questo rapporto di forza e dalle modifiche che vi abbiamo apportato nel tempo.

I naturalisti più estremisti considereranno questa mia dichiarazione in maniera negativa, ma non sto con questa sicuramente invitando alla distruzione di ciò che ci circonda.

Non sto dichiarando guerra alle forze della natura.

La sfida è aperta da quando il processo evolutivo ci ha condotto al nostro attuale stadio evoluto. Da allora combattiamo contro noi stessi. Da una parte siamo attaccati alla terra, dall’altra sappiamo che solo liberandoci da essa potremo essere salvi.

Il nostro pianeta, l’intero sistema solare non sono eterni. Allo stesso modo prima o poi le risorse naturali tenderanno inevitabilmente a diminuire fino a scomparire del tutto.

Abbiamo ancora molto tempo secondo me, ma vanno continuamente cercate nuove soluzioni.

È un lungo cammino ma che nell’ultimo secolo ci ha visto fare importanti passi in avanti in questo processo di emancipazione dalle forze della natura.

Il 7 febbraio 1984 Bruce McCandless compie la prima attività extraveicolare nello spazio in completa libertà.

La missione è la STS-41B. Lo scopo è posizionare due nuovi satelliti artificiali in orbita ma anche sperimentare il nuovo sistema di propulsione astronauta Manned Maneuvering Unit (MMU).

Bruce McCandless, che ha contribuito al programma in maniera determinante, lascia il Challenger e si lancia nello spazio aperto. Batte i denti, forse perché lo spazio è freddo come ce lo hanno raccontato, forse perché è in un momento di tensione particolare. Sarebbe naturale. Bruce McCandless non è un eroe come Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins. Ha paura. Dopo dirà che per Neil questo sarebbe stato dopo tutto solo un altro piccolo passo, ma che per lui invece è stato un balzo enorme.

Aveva paura che il salto potesse essere troppo grande e che non sarebbe mai più tornato indietro.

Non credo che Armstrong abbia mai risposto a questa affermazione. Ma che avrebbe dovuto dire. Gli eroi non devono dare spiegazioni a nessuno.

Bruce percorre i cento metri più lunghi della storia dell’uomo nello spazio mentre la moglie in ansia lo segue da Terra. Lavora anche lei per la Nasa. Poi Bruce rientra alla base. A bordo del Challenger. Tutti tirano un sospiro di sollievo.

Sembrava impossibile. Ma Bruce è rimasto, anche se per pochi minuti, completamente sospeso nello spazio e ha fatto quello che nessuno aveva mai fatto prima di lui: nessun cordone ombelicale lo teneva legato alla Terra. Nessuna astronave. Non c'era nessun suolo lunare da calpestare questa volta.

La sensazione deve essere stata simile a quella di essere in uno stato di sospensione sott’acqua, immaginiamo, e ci domandiamo quanto e se lo spazio gli possa essere apparso in qualche maniera denso. E se questo non significhi per l’essere umano una specie di ritorno ideale.

In quel momento fu completamente libero da ogni vincolo: è l'uomo che ha superato lo stadio evolutivo di Homo Sapiens e che ha avviato un processo di cambiamento che chissà quando avrà fine.

Pochi lo ricordano e pochi lo ricorderanno dopo la sua morte avvenuta lo scorso 21 dicembre, ma Bruce McCandless è stato il primo.

La sua anima, dopo la morte, è stata ritagliata nell'oscurità dello spazio, circondata dalle stelle che compongono la volta celeste.

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editoriale di sotomayor

Dalla nostra postazione impossbile, dopo i fortunati episodi che ci hanno visto intercettare Serge Voronoff, Garrincha e il Presidente Saragat, ci colleghiamo per trasmettervi in diretta una nuova intervista impossibile.

Vi ricordiamo che tutto questo è reso impossibile dalla nostra strumentazione speciale che ci permette di abbattere ogni barriera spazio-temporale e quel confine sottile tra la vita e la morte, nonché dalla nostra preparatissima e accuratamente selezionata squadra di tecnici radio. Senza di loro questa trasmissione, ammesso che fosse veramente possibile, non esisterebbe.

Dopo avere ospitato una personalità, come dire, molto discussa come quella del Presidente Saragat, abbiamo oggi ospite un altro nostro connazionale e una figura che definirei 'unificatrice', trattandosi in questo caso di una persona dalla elevata caratura morale. Questo prima ancora che essere uno dei più grandi attori della storia del teatro e del cinema italiano.

Sto parlando del cavaliere Aldo Fabrizi.

Nato Aldo Fabbrizi (1905-1990) presso una umile famiglia romana, rimase giovanissimo orfano del padre Giuseppe, di professione vetturino, e per contribuire al sostentamento della famiglia (tra cui la sorella Elena, conosciuta come 'Sora Lella'), si adoperò a fare i lavori più disparati.

Questo non fermò la sua vocazione artistica. Già nel 1928 pubblicò un volumetto di poesie romanesche e cominciò a calcare le scene, fino a mettere in piedi una propria compagnia teatrale. Fece l'esordio sul grande schermo nel 1942.

Nel dopoguerra divenne uno degli attori più popolari del cinema italiano.

Fatta la debita presentazione, lasciatemi introdurre finalmente il nostro ospite.

A nome mio e di tutto i nostri ascoltatori, buonasera cavaliere.

F. Ma che cavaliere e cavaliere... Io sono Aldo Fabrizi e basta. Che bisogno ci sta di tutte queste formalità. Cavaliere ora. Ma lasciamo perdere.

Buonasera a te e a tutti i nostri ascoltatori.

Mi scusi cavalie...

F. Ahè...

Volevo dire: mi scusi signor Fabrizi. Benvenuto.

Se non le dispiace, comincerei con la nostra intervista.

F. Ma sì, facciamoci quattro chiacchiere.

1. Se permette, comincerei questa nostra intervista parlando dei suoi inizi. Mi riferisco agli anni venti, in cui cominciò - contemporaneamente allo svolgimento di altre attività - a esprimere la sua vocazione artistica prima scrivendo e successivamente calcando i palchi teatrali. Questo avveniva tra gli anni venti e gli anni trenta e in quelli che furono anni difficili per il nostro paese. Che cosa ci può raccontare di quegli anni e dei suoi inizi come attore di teatro? È vero che già durante quegli anni avvenne il suo primo incontro con Alberto Sordi?

F. Ma furono anni difficili all'inizio. Mio padre morì quando io avevo solo undici anni e allora mi dovetti impegnare a fare diversi tipi di lavoro: ho fatto il fattorino e il meccanico, il guardiano notturno e il postino... Insomma si faceva tutto quello che si poteva fare per andare avanti. Poi nel 1928 pubblicai un volumetto di poesie romanesche che si intitolava 'Lucciche ar sole' e da lì poi... Prima cominciai a scrivere sul 'Rugantino', che era un giornale dialettale che ci aveva una lunga storia e diciamo una certa fama tra i letterati dell'epoca. Quelli che erano interessati alla poesia, diciamo così. E poi cominciai a lavorare in teatro recitando le mie poesie e come si diceva allora, come 'macchiettista', interpretrando dei ruoli che poi ho ripreso nel corso degli anni: il vetturino, il tramviere, lo sciatore...

Alla fine mi riusciva pure facile perché molti di questi ruoli erano attività e professioni che io avevo veramente svolto. A parte il fatto che proprio mio padre prima di morire faceva il vetturino.

Ma come era la vita durante gli anni del fascismo e sotto l'occupazione dei tedeschi?

F. Io qua posso rispondere per quello che mi riguarda. E diciamo che se prima che cominciasse la guerra magari la pensavo in una certa maniera, dopo ecco facciamo che mi sono reso conto che le cose è che andavano poi tanto bene. Non so se mi sono spiegato...

Ritornando alla mia attività teatrale, alla metà degli anni trenta, mo non mi ricordo esattamente quando, fondai questa mia piccola compagnia teatrale. Ma non è che giravamo tanto, eh, stavamo per lo più sempre a Roma che a me non mi è mai piaciuto tanto viaggiare. E comunque sì, proprio in quegli anni conobbi Alberto Sordi.

Si accorse subito del suo talento?

F. Ma era un ragazzino e poi rimase nella compagnia per poco tempo, però si, si vedeva già che c'aveva talento e che aveva studiato.

È stato lui il più grande attore italiano di tutti tempi?

F. Questa è una bella domanda. Sicuramente Alberto Sordi è stato un grandissimo attore, ma se mi chiede chi sia stato il più grande e allora la risposta non può che essere una sola.

Totò?

F. E ma sì. Per forza. Totò è stato grandissimo. Un grandissimo attore e ancora più grande, se possibile, come persona. Lavorare con lui è stata una vera gioia. Non c'avevamo mica bisogno di un copione: molto spesso improvvisavamo. Oddio molto spesso... Quasi sempre per la verità. L'unico problema è che alla fine a volte era difficile non scoppiare a ridere perché eravamo come spettatori di noi stessi. Bei tempi.

2. Veniamo ai suoi inizi come attore di cinema. Il primo film è del 1942 quando recita in 'Avanti c'è posto' di Mario Bonnard, che la dirige anche nella pellicola seguente, 'Campo de' fiori'. Nel 1943 recita in 'L'ultima carrozzella' di Mario Mattioli e con Anna Magnani. Ma è vero che aveva un rapporto difficile con Anna Magnani?

F. Ma no. Che rapporto difficile. Ognuno faceva il suo ruolo di attore. Quello che si doveva fare. Lei in quel film faceva un'attrice di varietà, mentre io facevo la parte di questo vetturino che avevo ripreso dai miei vecchi personaggi che già facevo a teatro... E mi ricordo che io poi feci recitare nel film Scotti. Tino Scotti. Che era un caratterista bravissimo e che avevo conosciuto durante quegli anni. Scotti era veramente bravissimo, quando era ragazzo aveva pure giocato a pallone con l'Inter prima di cominciare a dedicarsi al teatro. Nel film gli feci fare un personaggio che era una specie di attore, che nella vita era uno spasso, ma davanti all'obiettivo proprio non ce la faceva. Un personaggio che lui fece a meraviglia.

E poi ci stava Mario Mattioli, che per me è stato più che un amico. Un fratello.

Nel 1945 invece fu la volta di 'Roma città aperta' di Roberto Rossellini e in cui lei interpreta la parte di Don Giuseppe Morosini...

F. Su questo film si raccontano un sacco di storie...

Intanto bisogna precisare che sto film non esisteva all'inizio. Ci stava 'La morte di Don Morosini' scritto da Alberto Consiglio che poi divenne capocronaca a 'Il tempo'. Fu un film girato a pezzi e girato dove capitava e in particolare in un teatrino che stava in Via degli Avignonesi e che stava vicino a un locale di quelli lì che... Insomma ci siamo capiti. E Rossellini era un frequentatore.

È vero che non ha avuto nessun compenso per...

F. Manco 'na lira.

E Rossellini come dirigeva?

F. Mmmmh... E dirigeva bene. Cioè s'è visto. Ha vinto un sacco di premi. Come doveva dirigere. Era bravo.

3. Il periodo di maggiore successo popolare possiamo dire che va dal dopoguerra fino all'inizio degli anni sessanta. In questo periodo credo che abbia interpretrato qualche cosa come 60-70 film e in alcuni casi delle parti che sono passate alla storia, disimpegnandosi in ruoli sia comici che drammatici. Abbiamo già accennato in particolare ai film interpretrati con Totò, ma anche con Peppino De Filippo ha scritto pagine importanti del cinema di quegli anni. Ad esempio 'La famiglia Passaguai' nel 1951, una commedia che possiamo dire che abbia definito un certo tipo di schemi che praticamente sono gli stessi che vengono adoperati ancora oggi e di cui oltre che attore protagonista, fu anche regista e sceneggiatore.

F. Probabilmente è film di maggiore successo tra tutti quelli che ho diretto. La sceneggiatura l'avevo scritta assieme a Mario Amendola e Ruggero Maccari. E la storia era quella lì di questo cavaliere, Peppe Valenzi detto Passaguai, che decide di passare una domenica al mare a Fiumicino con la famiglia, ma non gliene va bene manco una. Così alla fine 'la famiglia Passaguai' è diventato una specie di modo di dire quando a uno la fortuna diciamo che non gira dalla sua aprte.

Ci stava Peppino De Filippo, ma altri attori con cui lavorare assieme era un piacere. Innanzitutto ci stava Ave Ninchi che era un'attrice incredibile e una amicizia che mi è durata tutta la vita. Bravissima. E poi ci stavano Luigi Pavese, Enrico Luzi, ancora Tino Scotti e Carlo Delle Piane...

Lei ha diretto in tutto sette film. L'ultimo, 'Il maestro...' (1957), è uno dei suoi film dai contenuti più drammatici.

F. Il film era una produzione italo-spagnola. Lo girammo in Spagna... E sì, era un film sicuramente drammatico. Ma era pure una specie di favola. Ci sta la storia di questo maestro che perde il figlio a causa di un incidente e riesce a ritrovare se stesso solo attraverso la fede, quando appare nella sua vita sto ragazzino di nome Gabriele che lo sprona a andare avanti. Era un film difficile perché argomenti di questo tipo sono delicati e poi ci stava da affrontare anche argomenti religiosi e bisognava stare attenti a non essere troppo retorici. E niente... Era un lavoro difficile, ma alla fine ne uscì un buon film.

4. Dopo gli anni sessanta ha fatto invece prevalentemente teatro. Come mai? Fu una scelta quella di smettere di lavorare con il cinema? Poi le volevo domandare se nel corso degli anni, a partire diciamo già dagli anni sessanta e fino a oggi, c'è stato un attore in cui si è qualche modo identificato?

F. Ma no. Non mi sono rivisto e non mi rivedo in nessun attore. Ma questo mo non vuol dire che non ci sono stati altri attori bravi. Ma i tempi erano cambiati e hanno continuato a cambiare. Però ci sono stati grandi attori come Alberto Sordi, Nino Manfredi con il quale rimettemmo in scena il 'Rugantino'. Ma io già dopo il 1960 non mi ci rivedevo più in un certo tipo di cinema che si andava affermando e allora preferii dedicarmi principalmente al teatro. Poi, oh, qualche film lo ho fatto anche dopo eh. Penso per esempio a 'C'eravamo tanto amati' di Ettore Scola e dove facevo la parte di questo ricco palazzinaro nostalgico fascista. Un ex capomastro, un tipo rude, antipatico e con un caratteraccio, che poi diventa il suocero del personaggio interpretato da Gassman. Fui pure premiato col nastro d'argento come migliore attore non protagonista a Venezia.

5. Sicuramente lei è stato ed è tuttora uno dei maggiori rappresentanti di quella che si definisce la 'romanità' di una volta. Questo penso che sia un grande merito che le è riconosciuto anche da tutti quelli che non riconoscono il suo grande spessore artistico e la considerano semplicemente come un 'comico', adoperando questa espressione in maniera riduttiva. Durante la sua carriera cinematografica, al di là di quelle che sono state le sue rappresentazioni più 'macchiettistiche', lei ha sempre interpretrato ruoli di grande spessore morale: da questo punto di vista è stato ed è secondo me anche un grande esempio di moralità e di umanità e portatore di quelli che si possono considerare senza retorica come i valori di una volta. Che cosa pensa della Roma di oggi?

F. E che cosa ti posso dire. Su questi qui che dicono che sono stato solo un 'comico' non me ne importa proprio niente. A parte che per me essere stato un 'comico' è un complimento. Il resto sono problemi loro.

Per quanto riguarda la città di Roma e la romanità... Penso che la Roma di una volta, quella che conoscevo io, oggi non esiste più. Roma è diventata una brutta città. È semplicemente indecente il modo in cui viene degradata quella che è la più bella città al mondo. Non si capisce più niente. Ci stanno certi posti che non si può più nemmeno girare di giorno. Una volta non era così. Ci stava più umanità. La gente c'aveva un'anima. Ma oggi invece non è più così. Nessuno credo più in niente. La gente non si fida degli altri e ognuno cerca di fregare al prossimo suo. E questo è un peccato.

Che cosa pensa che si possa fare per fare ritornare Roma quella lì di una volta e anche per riportare alla città quella grande fama che la ha sempre giustamente accompagnata?

F. E chi lo sa. Però posso dire una cosa: che Roma ha e avrà sempre una grande fama, perché nonostante questi disgraziati è e resta una città unica al mondo. E questo primato non glielo toglierà mai nessuno.

Speriamo che questa sua convinzione possa in qualche maniera fare risvegliare quella anima di questa città che lei stesso ha richiamato.

Io la ringrazio ancora per averci concesso questa intervista a nome mio e di tutti i nostri ascoltatori, che sicuramente avranno riascoltato con grande piacere la sua voce.

F. Sono io che ti ringrazio. Sei un bravo ragazzo.

La ringrazio molto...

F. Be', che dire, è stata una bella chiacchierata. Ringrazio te e tutti quelli che ci hanno seguito. Buona serata a tutti.

Buonanotte a tutti.

Alla prossima settimana con un nuovo personaggio e una nuova intervista!

'Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai.'

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editoriale di sotomayor

Bentrovati. Siamo qui come sempre in collegamento dai nostri studi radiofonici per proporre ai nostri ascoltatori una nuova intervista a uno dei nostri personaggi.

Ricordiamo che tutto questo è reso impossibile come sempre dalla nostra strumentazione speciale e dalla grande perizia dei nostri tecnici, che ci permettono di valicare il confine tra la vita e la morte e intervistare una persona che è stata ma che in qualche maniera è ancora. Del resto la morte, come la vita, è imperfetta e tante cose succedono dove regna il caos e ci sono quelle incongruenze tipiche che poi sono alla base della nascita del nostro universo.

Dopo Serge Voronoff e Garrincha questa volta intervistiamo un nostro connazionale.

Si tratta di una personalità molto importante e che per quella che è stata la sua storia politica e la storia politica del nostro paese anche molto discussa.

A maggior ragione, soprattutto per questo, non posso che ringraziarlo per avere accettato di sottoporsi a questa breve intervista.

L’ospite di oggi è Giuseppe Saragat (1898-1988).

Quinto Presidente della Repubblica Italiana, Giuseppe Saragat è stato una delle figure più importanti nella storia della Prima Repubblica. Iscritto al PSI sin dal 1922, confluì successivamente al seguito di Filippo Turati nel PSU di Giacomo Matteotti. Esule in Austria e in Francia, al ritorno in Italia entrò nella resistenza e fu condannato a morte dai nazi-fascisti ma scampò alla esecuzione. Presidente della assemblea costituente nel dopoguerra, ha rappresentato l’anima socialista democratica del PSI sin dalla scissione di Palazzo Barberini.

Storico il dualismo con l’amico-rivale, il ‘caro nemico’, Pietro Nenni, negli anni Saragat ha ricoperto diversi incarichi di governo e dal 1964 al 1971 è stato Presidente della Repubblica, il primo socialista a ricoprire questa carica.

Fatte tutte queste premesse, penso che sia giunto il momento di dargli la parola.

Buonasera Presidente e benvenuto a nome mio e di tutti gli ascoltatori.

S. La ringrazio e la saluto e saluto con grande affetto tutti gli italiani e le italiane che ci stanno ascoltando in questo momento.

Presidente la ringrazio molto per avere accettato questa intervista. Se per lei va bene adesso comincerei con le domande. Ci sono veramente tanto argomenti da trattare. Cercherò nei miei limiti di provare a toccare quelli più rilevanti.

S. Sono sicuro che farà del suo meglio. Cominciamo pure.

1. Presidente, come dicevo, ci sono così tanti argomenti da affrontare che è stato difficile per me decidere da dove cominciare. Così ho deciso di farlo da quello che è il momento più oscuro della storia del nostro paese: l'uccisione di Giacomo Matteotti per mano di una squadra fascista e volontà di Benito Mussolini. Che ricordo ha di quei giorni? Ricordiamo peraltro che lei faceva parte con Giacomo Matteotti di quella corrente riformista 'turatiana' che nel 1922 diede vita al Partito Socialista Unitario. Come commenta quella fase decisiva della storia del nostro paese e decisioni come la Secessione dell’Aventino? Rivendica ancora ora la giustezza di quelle scelte o ritiene che queste furono un errore.

S. Lei comincia effettivamente parlando di quella che giustamente definisce come la parte più oscura della storia del nostro paese, ma, vede, il delitto Matteotti - al di là del brutale atto omicida - fu effettivamente anche una delle pagine più oscure nella storia della democrazia in occidente nel ventesimo secolo. Alcuni storici, come ben saprà, fanno risalire alla gravità di questo episodio in maniera diretta quello che accadde negli anni seguenti fino ad Auschwitz. Un punto di vista forse poco condivisibile ma che spiega la portata e la gravità di questo momento.

Come lei dice, nel 1922 vi fu una scissione in seno al PSI, che seguiva come ben sappiamo quanto avvenuto nel 1921 con i fatti che portarono alla formazione del PCI.

Il PSU è storicamente ricordato come un partito riformista, ma è bene ricordare comunque la ispirazione al pensiero marxista, rivendicando tuttavia da una parte la propria indipendenza nell'azione politica dall'Unione Sovietica e dall'altro richiamando alla necessità di partecipare alla vita e alla lotta parlamentare e in maniera particolare in quel determinato contesto storico.

Furono queste dunque le ragioni alla base della nascita del PSU, un partito di ispirazione democratica e che non a caso fu per questa ragione il più perseguitato dal fascismo, così come successe ai socialdemocratici nella Germania hitleriana.

Senza dilungarmi troppo, poiché ci sarebbero sicuramente molte cose da raccontare, questi eventi ci conducono alla cosiddetta secessione dell'Aventino del 26 maggio 1924.

La storia ricorda ancora oggi questa scelta come un gravissimo errore e che di fatto devo dolorosamente considerare spianò la strada al fascismo. Ma fu una scelta condivisa da tutte le forze di opposizione e che probabilmente tutti quanti avremmo rifatto in osservanza a quei principi che vogliono il parlamento come la massima espressione del pensiero democratico.

Purtroppo nel frattempo Mussolini aveva già, come dire, tessuto la sua tela e legato a se stesso tutti i poteri forti nel paese. Non secondariamente la figura del re, che si fece praticamente beffe delle nostre lamentele.

Credo che la secessione dell'Aventino fosse l'unica scelta possibile all'interno di un contesto democratico. Solo che quello, oggi me ne rendo conto, non era più evidentemente un contesto democratico.

Da questo punto di vista fu commesso un errore di valutazione e anche da parte di rappresentanti storici del socialismo italiano, come Filippo Turati e Anna Kuliscioff che ancora in quei giorni sottovalutarono la portata di quegli aventi e la forza che aveva ottenuto il Partito Nazionale Fascista e Benito Mussolini. Ma non le posso dire che cosa sarebbe successo se avessimo agito diversamente. Nessuno può saperlo. L’unica alternativa sarebbe stata la guerra civile. Però probabilmente a quel punto sarebbe stato in ogni caso troppo tardi.

I fascisti erano pronti a questa evenienza e avevano il re dalla loro parte. Noi ci eravamo divisi per ragioni ideologiche senza considerare che una base comune poteva esserci: cioè la difesa e il rispetto della democrazia nel nostro paese.

2. Sul periodo relativo la seconda guerra mondiale e prima ancora il suo esilio forzato a partire dal 1926 in Austria e successivamente in Francia ci sarebbe moltissimo da dire. Lo stesso vale per la resistenza cui prese parte al rientro in Italia all'indomani del 25 luglio 1943. Ma vorrei domandarle in particolare di uno degli episodi più noti che la riguardano e che la videro protagonista assieme al Presidente Sandro Pertini. Entrambi foste catturati dalle autorità tedesche alla fine del 1943 e condannati a morte. Come avvenne l’evasione? Ma è vero che Pietro Nenni, che fu tra i principali organizzatori di questa operazione, scriveva ai compagni di partito che occorreva vi si liberasse il prima possibile aggiungendo 'Soprattutto Saragat,' richiamando una certa maggiore resistenza di Sandro Pertini rispetto alla sua?

S. Intanto devo dire che il mio periodo da esule, diciamo così, mi fu in qualche maniera molto utile per formare e completare il mio pensiero confrontandomi con delle realtà politiche diverse da quella italiana. In particolare fu rilevante l'incontro con l'austromarxismo e figure come Max Adler, Otto Bauer, Karl Renner... Tutto questo contribuì in maniera rilevante alla formazione del mio pensiero socialista democratico e che sviluppai negli anni successivi.

Ma furono anni duri. In Francia io e Pietro Nenni stringemmo una alleanza che poi avrebbe portato alla ricostituzione del partito socialista. Ma in Italia la situazione per tutti i compagni era difficile. Poi scoppiò la guerra. Fu un massacro con tanti italiani mandati a morire al fronte per la causa fascista. E come sappiamo le cose per quelli che restarono nel paese non andarono sicuramente meglio.

Quando rientrammo, ricostituito il partito socialista italiano, ne assunsi la direzione e entrai a fare parte della resistenza.

La vera o presunta frase pronunciata da Nenni è diventata leggenda. Secondo questa storia Pietro Nenni rimarcava il fatto che si dovesse procedere alla liberazione per entrambi - ovviamente - ma che la cosa andasse fatta con una certa urgenza soprattutto per me. Dando in questo senso per scontato che Pertini fosse oramai abituato alla prigionia e che vi avrebbe resistito senza problemi mente io ne avrei giustamente sofferto come ogni individuo costretto in quelle condizioni. [Ndr. Ride.].

Vera o no, questa resta una storia sulla quale in privato abbiamo sempre scherzato.

Mi lasci aggiungere che ho un ricordo molto affettuoso di Sandro Pertini, una persona eccezionale, brillante, sincera e onesta, dall’elevata caratura morale. Un vero socialista e che anche in quella occasione dimostrò tutta la sua grandezza adoperandosi al massimo per salvare la vita ad altri cinque compagni oltre che la mia e la sua.

La nostra fuga avvenne in maniera rocambolesca, grazie a un gruppo di partigiani socialisti delle Brigate Matteotti e a degli ordini di scarcerazioni falsi. Fu un piano ideato e diretto da Giuliano Vassalli. Che poi, ironia della sorte, fu egli stesso fatto più tardi prigioniero dai nazisti e fortunatamente successivamente liberato per intercessione, pare, del Papa Pio XII.

3. Finisce la guerra. Lei viene eletto presidente della Assemblea Costituente preposta alla stesura della Costituzione, lavori che si protrassero a tutto il 1948. Intanto le cose all'interno del partito socialista cominciano di nuovo a scricchiolare e nel 1947 si arriva alla famosa scissione di Palazzo Barberini e alla conseguente formazione del Partito Socialista Democratico Italiano. Si parlerà da quel momento in poi nel corso degli anni di dualismo tra lei e Pietro Nenni, che venne definito come il suo 'caro nemico'. Questa scissione fu la prima nel dopoguerra di una serie di errori compiuti dal partito socialista in Italia. Condivide oggi questa analisi? Col senno di poi avrebbe forse agito in maniera diversa? Oggi la storia ha in qualche modo condannato tutta la storia del socialismo italiano. Questo anche per quello che è successo con Bettino Craxi negli anni ottanta. Non si sente comunque in qualche modo responsabile di tutto questo?

S. Finita la guerra e risolta la questione monarchica con il referendum del 2 giugno 1946, era chiaramente centrale lavorare alla stesura della costituzione e nel frattempo garantire una certa stabilità in un momento comunque difficile come il dopoguerra. Ho ricoperto il ruolo di presidente dell'assemblea costituente dal giugno del 1946 fino al febbraio del 1947, fu un incarico di prestigio ma molto impegnativo e fu un momento molto importante nella storia del nostro paese e del quale mi sembra che oggi ci sia poca memoria. La repubblica e la costituzione sono le basi della vita democratica nel nostro paese.

Come arrivammo alla scissione di Palazzo Barberini?

È vero che il Presidente Sandro Pertini fece di tutto per evitare la scissione?

S. Sì. Sandro Pertini, come le ho detto precedentemente, fu un uomo eccezionale e anche in quei momenti difficili dimostrò tutto il suo spessore umano e politico. Ma nemmeno lui poté impedire ciò che era inevitabile.

Del resto, guardi, tutto avvenne in maniera naturale. Non vi furono forzature. Chiaramente poi a suo tempo la cosa fu presentata quasi come una questione personale tra me e Pietro Nenni, ma tra di noi c'è sempre stata amicizia e una grandissima stima. La verità è che c'erano delle differenza sul piano ideologico e politico che erano insormontabili e che neppure gli avvenimenti che seguirono nel corso degli anni, e mi riferisco in particolare alle conseguenze del XX Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietico e alla divulgazione del testo di Nikita Kruscev, riuscirono mai a superare.

La verità, al riguardo, è che sapevamo tutti benissimo che cosa succedeva in Unione Sovietica. Ma questo non lo dico solo in riferimento alla adozione di una politica autoritaria da parte di Stalin: la questione era soprattutto di natura ideologica. La eccessiva burocratizzazione dell'apparato statale in Unione Sovietica aveva creato un sistema dove appariva quasi inevitabile si arrivasse a quelle conseguenze.

Intanto la vita politica del paese andava avanti e ci poneva davanti a delle scelte. Come leader del partito socialista democratico ho sempre riconosciuto la priorità della lotta parlamentare e la considerazione di ogni processo rivoluzionario sottoposto a quello che si ritiene necessario essere un contesto democratico.

La nostra fu una scelta netta e priva di ambiguità. Mentre il PSI non riuscì effettivamente mai a slegarsi completamente dal PCI così come dall'Unione Sovietica e finì per diventare un partito minoritario e dipendente dalla linea massimalista del PCI, che in Italia era il principale referente dei sovietici.

Ma la sua scelta, per quanto netta e priva di ambiguità non fu effettivamente una vera e propria svolta a destra?

S. Il mio orientamento politico è sempre stato rivolto a quello che è il pensiero marxista e al socialismo democratico. La mia scelta, per quanto anche dolorosa, fu netta e qualche cosa che ancora oggi non rimpiango nella maniera più assoluta: spostò in maniera decisiva l'asse delle scelte governative in una certa direzione, impedendo il possibile insorgere di derive verso destra che avrebbero in quel momento particolare potuto portare al ripetersi di situazioni da cui eravamo appena usciti.

Molti chiaramente criticarono e criticano ancora questa mia scelta, sono stato addirittura accusato di essere un fascista, ma penso che la mia assunzione di responsabilità sia stata importante in quel momento storico e anche per quello che riguarda l'adesione al patto atlantico che comunque ha rafforzato un blocco, quello occidentale, cui la storia ha dato in qualche maniera ragione rispetto a quello che accadde in Unione Sovietica.

Infine: no. Non mi sento colpevole per quelli che sono stati i fatti politici di queli anni, né per quelli che furono gli eventi molti anni dopo del Partito Socialista. A parte che io presi sin da subito una decisione netta rispetto al resto dei socialisti del nostro paese, a quel punto la mia fase storica e quella di altri uomini che fecero la storia del PSI come Pietro Nenni oppure Sandro Pertini si poteva considerare chiusa. Probabilmente quello che accadde in quel momento fu figlio delle tante divisioni interne al partito, ma ricercare delle colpe in figure del passato sarebbe sbagliato.

Mi sembra peraltro giusto sottolineare medie cose. Gli avvenimenti di quegli anni e quelle che possiamo considerare le 'derive' di un certo tipo riguardarono anche altri partiti politici e non solo il partito socialista.

4. Ha ricoperto per sette anni la carica più alta dello Stato ed è stato il primo socialista a ricoprire la carica di presidente della Repubblica. Che cosa ricorda di quei sette anni? Come ha voluto interpretrare il suo ruolo istituzionale? Peraltro lei è uno dei pochi che dopo avere ricoperto questa carica è ritornato a fare politica attivamente. Perché?

S. La mia nomina avvenne in un contesto particolare, perché il presidente uscente, Antonio Segni, dovette rinunciare alla carica a causa di problemi di salute. Peraltro ebbe un malore proprio durante una discussione con me e l'onorevole Aldo Moro.

Peraltro si era già parlato di una mia possibile nomina nel 1962, quando fu eletto proprio eletto proprio Antonio Segni. Nel 1964, invece, la scelta cadde su di me dopo una specie di 'scontro' - se così vogliamo dire - contro il mio amico Pietro Nenni. Per l'ennesima volta si parlò della rivalità tra noi due, ma alla fine fu proprio lui a sostenere in maniera diretta la mia candidatura.

Interpretrai gli anni della mia presidenza come avevo sempre considerato andasse svolto questo delicatissimo ruolo all'interno del sistema costituzionale: difendendo il ruolo centrale del parlamento e di cui rispettavo diciamo religiosamente l'azione.

Nel frattempo, è vero, mi adoperai personalmente nel tentativo di portare alla unificazione le forze socialiste. Tentativo che riuscì ma solo in parte e per un breve termine, perché dopo tre anni, il calo di voti alle elezioni politiche del 1968 comportarono una nuova scissione. Quella definitiva.

Finito il mio mandato, ritornai alla guida del mio partito per un breve periodo. L'ho fatto perché erano anni difficili e c'era bisogno di figure importanti di riferimento e io avevo fatto la resistenza, ero stato presidente della repubblica... Insomma si riteneva avessi un profilo importante e potessi essere la persona cui attaccarsi in un momento difficile e che peraltro era stato tra i fondatori del partito e tra i principali ispiratori del pensiero socialista democratico in Italia. Ma già allora il mio tempo era probabilmente passato: fu una esperienza breve ma nella quale comunque cercai di offrire la mia esperienza al servizio dei più giovani.

5. Con l'ultima domanda proviamo a costruire un ponte dal tempo passato fino ai giorni nostri. Perché la socialdemocrazia? Che cosa significava allora fare questa scelta e per quello che da osservatore è la sua idea, che significa essere socialdemocratico oggi? È sempre convinto che questa ideologia politica sia la giusta via al socialismo?

S. Intanto alla definizione di socialdemocratico, io ho sempre preferito quella di 'socialista democratico'. Il termine 'socialdemocrazia' può facilmente cogliere in errore e portare a sottovalutare il contenuto rivoluzionario del pensiero socialista democratico.

Perché il socialismo democratico? Perché avevamo capito che bisognava mettere al centro del processo rivoluzionario quelle che sono le libertà individuali e di conseguenza che si potesse pervenire al socialismo solo attraverso la democrazia.

Sono convinto peraltro che la storia mi abbia dato in qualche modo ragione. Lei mi chiede di costruire un ponte dal tempo passato fino ai nostri giorni. Ebbene, se c'è un ponte, questo è idealmente costituito dal pensiero socialista democratico, che oggi è ancora diffuso e costituisce una realtà in tutto il mondo occidentale. Compresi gli Stati Uniti d'America dove non a caso il principale leader del Partito Democratico è dichiaramente un socialista democratico.

Ma c'è di più. Penso che il fallimento del socialismo reale e dell'esperienza dell'Unione Sovietica ci abbiano insegnato molte cose sulla via giusta da percorrere per il socialismo e sulla importanza delle libertà individuali.

Oggi il mondo è molto diverso da quello che mi ha visto attivo sulla scena politica, ma sì, oggi più che ieri sono convinto che quella sia la giusta via da percorrere e a chi dice che non ci sono più ideali, rispondo di guardare dentro se stesso e di guardarsi attorno e di battersi in primo luogo per la democrazia, per le libertà individuali e la rivendicazioni dei diritti sociali. Un processo che può passare anche attraverso dei compromessi e se necessario anche spostando il baricentro secondo quello che si può ritenere una spinta centrifuga e la collaborazione internazionale con le altre forze democratiche, sia europee che gli stessi Stati Uniti d'America se necessario. Solo attraverso questo processo si potrà poi spianare la via al socialismo.

Presidente, ma quanto le ha pesato essere in qualche maniera considerato come l'uomo più odiato dalla sinistra italiana?

S. Mi ha pesato perché sono state dette delle cose sul mio conto che non corrispondono al vero e perché sono stato attacco anche su quella che era la mia vita personale e privata e purtroppo alcune di queste cose penso continuino ancora oggi a macchiare la mia immagine. Ma chi conosce la mia storia e chi sa come sono andate veramente le cose, penso che mi ricorderà come una persona coerente e soprattutto per quello che ho significato per il socialismo e la democrazia in questo paese. Questo peraltro vale anche per le persone che a suo tempo avevano idee politiche differenti dalle mie, a partire dagli altri appartenti al partito socialista con cui ci fu sempre uno scontro leale.

Ma alla fine con Pietro Nenni come vanno le cose adesso?

S. Come vuole che vadino. Stiamo sempre lì a litigare. Cane e gatto. Diciamolo pure ai nostri ascoltatori. In fondo ci sono miti che meritano di superare la prova nel tempo e se questo è un modo per ricordare sia me che Pietro Nenni allora va bene.

Con questa ultima domanda e un saluto ideale anche all'onorevole Pietro Nenni, concludiamo anche questa intervista.

Presidente io la ringrazio ancora per la disponibilità e auguro una buona serata a lei e a tutti i nostri ascoltatori. Ci vediamo alla prossima puntata.

S. Grazie a lei e a tutti gli ascoltatori. Buona serata a tutti.

'Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai.'

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editoriale di sotomayor

Rieccoci in collegamento dal nostro studio radiofonico per una nuova intervista di cinque domande a un personaggio impossibile e che è passato alla storia per il suo contributo rilevante a quello che possiamo considerare come il grande viaggio della nostra specie.

Ricordiamo che tutto questo è reso impossibile dalla speciale strumentazione in dotazione al nostro studio e dai nostri tecnici, che con la loro perizia ci permettono questa occasione unica di potere entrare in contatto diretto con il mondo dei morti. Parlare con i morti per parlare della loro vita e ricordare a tutti i nostri ascoltatori che la vita è bella, ma non è mai perfetta.

Questa volta sono, come dire, felicissimo di introdurre il nostro ospite speciale. Un personaggio che sicuramente tutti gli appassionati di calcio conosceranno e riconosceranno come una delle stelle più luminose che hanno fatto la storia di questo sport.

Parlo di Manoel Francisco dos Santos meglio noto come 'Garrincha'.

Mané è nato a Magé nello Stato di Rio de Janeiro il 28 ottobre 1933. Ala destra. Fu uno dei giocatori simbolo del Botafogo, uno dei club più importanti del paese, e in particolare della Nazionale brasiliana con la quale giocò più di dieci anni, collezionando 50 presenze e 12 reti, ma soprattutto vincendo due edizioni della Coppa del mondo.

Deceduto a Rio de Janeiro il 30 gennaio 1983 all'età di soli quarantanove anni, ancora oggi Garrincha resta uno dei giocatori di calcio più amati dai brasiliani. Forse più dello stesso Pelé.

Per me che sono un grande appassionato di questo sport, possiamo dire che intervistare Garrincha costituisce una opportunità unica.

Benvenuto Mané.

G. Buonasera a tutti.

Vi ringrazio per avermi invitato. È sicuramente molto strano per me, dopo tutto questo tempo, ricevere tutta questa attenzione. Ma sono molto contento. La considero una opportunità per, come dire, parlare di calcio e del mio calcio ai più giovani che magari non mi hanno mai visto giocare. Quindi va bene. Va benissimo così.

1. Cominciamo con la prima domanda. La storia ci racconta che sin dalla nascita tu sia stato afflitto da diversi difetti congeniti: strabismo, la spina dorsale deformata, uno sbilanciamento del bacino e sei centimetri di differenza in lunghezza tra le gambe nonostante un interento chirugico correttivo. Una malformazione dovuta alla poliomielite che praticamente avrebbe dovuto impedirti di giocare al calcio e invece... Molti sostengono tu avessi una andatura sbilenca e che quelli che avrebbero dovuto costituire dei limiti in realtà fossero i punti di forza e il segreto del tuo dribbling. Che cosa c'è di vero in tutto questo?

G. Tutto quello che hai detto corrisponde alla verità. Sono nato in una famiglia molto povera e credo che se pure ci fossero state delle cure a quei problemi, non avrei potuto accedervi. Mio padre, che discendeva da una tribù di indios dell'Alagoas, pensò allora di curarmi secondo i metodi tradizionali della sua gente e somministandomi una mistura a base di cachaca, quella che voi chiamate 'acquavite'. Ma chi lo sa se questa abbia veramente avuto effetto.

Ma non lo so se questi problemi siano stati per me un vantaggio come calciatore. Alcuni dicevano effettivamente che avessi una andatura particolare e poiché da bambino ero anche molto piccolo una delle mie sorelle cominciò a chiamarmi 'Garrincha’. Un piccolo passerotto.

Quello che posso dire è che penso di essere stato fortunato. Non sono mai stato molto religioso ma ecco possiamo dire che io abbia ricevuto una specie di dono del signore. Sapevo giocare a calcio. Sapevo giocare a calcio molto bene.

Alcuni dicono che Dio ti toglie delle cose e te ne dà delle altre. Io non lo se questo sia vero, ma nel mio caso è andata veramente così.

2. Mané senza dubbio sei stato un grandissimo calciatore. Universalmente sei considerato come uno dei giocatori più forti di tutti i tempi. Alcuni critici e storici del gioco del calcio ti considerano anzi proprio come il più forte calciatore di tutti i tempi alla pari di Pelé e di Diego Armando Maradona. Che cosa ne pensi di questo confronto? Ti sembra troppo impegnativo?

G. Intanto voglio dire che essere accostato a due grandi del gioco del calcio come Pelé e Maradona mi fa molto piacere. Parliamo di due calciatore che come me sono stati degli spiriti liberi sul campo da gioco. Due calciatori che avevano una grande fantasia e che giocavano per i tifosi e per la loro gioia oltre che per se stessi. Però non ti posso dire molto su Maradona perché dopo che ho smesso di giocare non ho più seguito tanto il calcio. Ho chiuso quella pagina della mia vita, ma mi è dispiaciuto perché allo stesso tempo anche il mondo del calcio ha chiuso con me e sono stato in qualche modo dimenticato.

Non penso comunque che questo paragone sia troppo impegnativo. Sono stato un calciatore, come dire, abbastanza bravo da reggere il confronto.

Ma Pelè era veramente così forte come dicono?

G. Pelé era fortissimo. Chi sostiene che sia sopravvalutato allora non lo ha mai visto giocare. Ha segnato più di mille goal, ha vinto tre Mondiali... Pelé è il calcio e giocare con lui era fantastico.

Quando abbiamo giocato assieme con la maglia amarella non abbiamo mai perso. Ma del resto io ho perso una sola partita con la Nazionale brasiliana. L'ultima. Nel 1966 contro l'Ungheria...

3. Il 1966 è stato il tuo ultimo Mondiale, ma si può dire che in quel momento tu fossi già in una fase calante della tua carriera? Allo stesso tempo possiamo dire che il tuo momento migliore sia stato invece il Mondiale del 1962 in Cile?

G. Probabilmente questo è successo anche a causa dell'infortunio di Pelé.

Parlo del Mondiale del 1962 in Cile.

Chiariamoci. Non voglio dire che questo fu una fortuna. Anzi. Però dopo l'infortunio di Pelé, dato che c'erano comunque grandissime aspettative nei confronti della squadra, ognuno di noi ha dovuto caricarsi sulle spalle una responsabilità ancora più grande. Così penso che durante quel Mondiale io abbia offerto le migliori prestazioni della mia carriera: la squadra puntava molto su di me e le mie giocate e alla fine sono stato capocannoniere e il migliore giocatore del torneo.

Purtroppo da quel momento in poi ho cominciato a essere bersagliato dagli infortuni.

Ho fatto tutto quello che potevo per continuare a giocare, perché avevo bisogno di soldi, perché non potevo stare lontano da un campo di calcio. Avevo bisogno di giocare perché il calcio per me era motivo di gioia e era motivo di gioia per tutti quelli che tifavano per me e questo mi dava una carica incredibile. Il calcio era la mia unica vera ragione di vita.

Quando ho dovuto smettere definitivamente è stato tutto più difficile.

4. Ci parli della tua relazione con Elza Soares? Fu una relazione molto discussa. Così come il vostro trasferimento in Italia nel 1969. Cosa ricordi di quegli anni in Italia?

G. Elza era una donna bellissima e una grande artista e che per me ha fatto molto. Molto più di quanto io abbia fatto per lei.

Fu lei a insistere perché io mi rimettessi in piedi per giocare i Mondiali del 1966.

Si prese cura di me anche dopo la morte di Donna Rosaria (Ndr. La madre di Elza Soares, morta in un incidente stradale, mentre alla guida dell'automobile era proprio Garrincha.) e durante tutti gli anni che abbiamo passato assieme. Anche nel periodo che abbiamo passato in Italia. Mi è stata accanto fino all'ultimo giorno.

Molti dicono che siamo venuti in Italia perché io ero in depressione e avevo problemi con l'alcol, ma in verità questo è successo perché in Brasile c'erano i militari e gli artisti come Elza non erano ben visti. Non è stata l'unica artista brasiliana che è venuta a stare in Italia durante quel periodo.

Non ricordo però molto di quegli anni nel vostro paese: non è stata una fase felice della mia vita. Mi sono rimasti solo ricordi confusi. Forse ho voluto semplicemente dimenticare.

Per quanto riguarda Elza poi è finito tutto. È stata colpa mia, spero che almeno dopo tutto questo tempo mi abbia perdonato e conoscendola so che deve essere così.

5. Possiamo parlare di come tutto è finito Mané? So che è un argomento delicato, ma spero tu non abbia problemi a parlarne oggi dopo tutto questo tempo. Dopo la rottura definitiva con Elza Soares, la tua situazione di salute, mi riferisco alla depressione e ai problemi di alcolismo, si aggravarono ulteriormente fino alla tua morte. Sei morto triste, malato e completamente in solitudine. Eppure quando giocavi eri 'la gioia del popolo', il calciatore che ha regalato più allegria di chiunque altro quando calcava un campo di calcio. Un giornalista italiano (Ndr. Franco Rossi.) ha scritto che tu sei più amato di Pelé dai brasiliani. Perché Pelé è quello che i brasiliani vorrebbero diventare, mentre tu sei esattamente come loro sentano di essere. Che loro si identificano con te. Che ti considerano uno di loro. Perché sei morto da solo e dimenticato da tutti allora?

G. Parlare di problemi come la depressione è qualche cosa di difficile per tutti ancora al mondo di oggi a più di trent’anni dalla mia morte.

Penso di essere sempre stato triste. Ho sempre avuto una specie di buco dentro, ma quando giocavo a calcio, quando giocavo davanti a tutti quei tifosi che facevano il tifo per me, io mi sentivo speciale. Loro erano felici, io ero felice. Ero veramente 'la gioia del popolo'.

Quanto tutto questo è finito non avevo più niente e provavo a riempire questo vuoto con le donne, ne ho amate tante, mi piacevano le donne. Con l'alcol. Ho cominciato a bere e fumare quando ero solo un bambino. Ma niente mi aiutava veramente a colmare quella sensazione di vuoto.

Durante gli anni in cui giocavo, il calcio mi spingeva a stare lontano da queste tentazioni, dava veramente senso alla mia vita, ma quando tutto è finito e dopo l'incidente e la morte di Rosaria, Garrincha non è stato più la gioia del popolo. Anzi non c'è stato più nessun Garrincha, quello era rimasto su qualche campo da calcio alla ricerca di se stesso, mentre Mané è rimasto solo e Mané era triste e depresso.

Ma penso che i brasiliani mi abbiano voluto bene e mi vogliano bene ancora oggi e questo per me significa molto, perché significa che loro lo sanno che io ho giocato per la loro gioia e che la loro gioia era la mia, perché eravamo tutti tristi e avevamo bisogno di vedere rotolare quel pallone nel quale c’erano dentro tutti i nostri sogni. C’era un legame speciale tra me e loro e che anche il tempo non potrà mai spezzare.

Mané, ti ringrazio molto per questa intervista e perché oltre che parlare di calcio, ci hai aperto il tuo cuore e parlato di temi molto difficili.

Permetti? Se non ti dispiace, prima di salutarti, vorrei darti un abbraccio.

G. Perché no...

(Ndr. Il conduttore e Mané si alzano dalle rispettive postazioni e si stringono in un abbraccio fraterno.)

Con questo abbiamo chiuso anche questa intervista impossibile.

Dalla nostra postazione è tutto. Da parte mia, di Mané e di tutto lo staff tecnico che ha reso possibile la trasmissione, un augurio di buona serata a tutti gli ascoltatori.

G. Buonasera. Ciao. Deus vos guarde.

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Ci sta questo locale a Kreuzberg, Berlino Est, che si chiama ‘Madame Claude’. Il posto è carino. Voglio dire, niente di particolare, semplicemente un classico sotto-scala con quattro-cinque locali a disposizione. Ma è accogliente. Ce lo avevo proprio dietro casa. Cinque minuti a piedi. Dieci se avevo i piedi troppo gonfi per il freddo.

Chiara amava quel posto e ci andavamo ogni settimana. Specialmente il lunedì. Perché il lunedì al Madame Claude era la serata dedicata agli artisti di musica elettronica sperimentale e lei ci teneva tantissimo a assistere a ogni performance. Ammetto che sono sempre stato una persona di poche pretese. Non me ne importava niente di queste performance, ma mi bastava semplicemente uscire e stare assieme. Dunque perché no. Ci tengo a dire che non ho mai lasciato trapelare poco entusiasmo, anzi a volte le proponevo proprio io direttamente di andarci. Meglio che restare sempre chiusi in casa.

Questi happening avvenivano all’interno di una delle sale del locale che veniva attrezzata con delle sedie. In fondo alla sala venivano generalmente proiettate delle immagini. Si trattava del resto per lo più di opere concettuali e cui anche queste avevano o avrebbero dovuto avere evidentemente un ruolo centrale.

Naturalmente, mi sembra inutile specificarlo, la maggior parte dei progetti proposti era assolutamente inascoltabile. Ma Chiara amava quelle performance che ogni volta seguiva ad occhi chiusi per tutto il tempo e io per dire la verità sopportavo in maniera molto religiosa anche questo suo atteggiamento. Sono sempre stato abituato a stare da solo, di conseguenza quando sono in compagnia di qualcuno da qualche parte, da qualsiasi parte, voglio parlare. Non sto dicendo di chiacchierare ad alta voce ogni volta, ma, cazzo, io se non voglio parlare con nessuno, me ne sto a casa mia da solo, non posso concepire di stare tutto il tempo accanto a una persona immobile in silenzio in una specie di stato di trance. Questo mentre dei ragazzetti molto alternative giocano con i loro ‘canta tu’ da milioni di euro e urlano delle grida al microfono che ricordavano quelle di Fantozzi nei momenti più tragici. Però la rispettavo molto e allora immaginavo che questa cosa per lei avesse un qualche significato particolare.: come se questa esperienza in ogni caso la facesse entrare tipo in una specie di trance meditativa. Come praticare lo yoga. Non lo so.

Le immagini proiettate erano comunque tratte da film sperimentali giapponesi oppure coreani o in ogni caso da qualche pellicola che a un povero ‘peones’ come me non diceva assolutamente nulla. Molto spesso non credo queste avessero un contenuto direttamente collegato con il concept (eventuale) che si voleva sviluppare e che fossero chiaramente invece una specie di esibizione alternative anch'esse. Ma una sera in via del tutto imprevista ecco che sullo schermo cominciarono a scorrere delle immagini familiari e che riconosco immediatamente. Il film è ‘Arrivano i titani’ del 1962, un ‘peplum’ diretto da Duccio Tessari e con il suo feticcio Giuliano Gemma nel ruolo di protagonista.

Nella sala eravamo gli unici italiani quindi immagino che nessun altro oltre me abbia capito esattamente di cosa si trattasse. Mi sentii fiero e orgoglioso di avere riconosciuto quel film. Che finalmente avevo trovato qualche cosa in un luogo 'ostile' che mi apparteneva e di cui potevo rivendicare il pieno possesso. Allora cominciai a dare dei colpetti a Chiara: ‘Chiara... Oh, Chiara, guarda lì, c’è Giuliano Gemma...’ Ma lei, dopo aver fatto un po' di resistenza, si limitò a emettere un grugnito, quindi fece una mossa come se fosse stata colpita da una tarantola e io allora rinunciai e continuai a ‘guardare il film’.

La performance si concluse dopo poco e lei volle subito andare via. Fuori faceva un freddo cane e per qualche ragione lei aveva voluto uscire vestita solo con i leggings e un giubbotto di pelle. Le stavano bene ma faceva oggettivamente un freddo cane e io glielo avevo detto, ‘Guarda Chiara che fa un freddo cane.’ Ma ogni volta che glielo dicevo, lei diceva che io avevo sempre freddo. Non ci stava una cosa che le dicessi che per lei andasse bene. Tremava, io come sempre mi avvicinai a lei con una certa premura, ma venni nettamente respinto. Poi passa la metropolitana finalmente. La U2. Facciamo due fermate e poi dieci-quindici minuti a piedi e siamo a casa sua. Percorriamo tutto il tragitto in totale silenzio interrotto di tanto in tanto da alcuni miei velleitari approcci e tentativi di capire.

Ci spogliamo in silenzio (cioè io mi tengo comunque addosso almeno i calzettoni di lana se non la calzamaglia) e ci infiliamo direttamente a letto. Lei assume da subito la sua tipica posizione difensiva dandomi le spalle. Io mi sento male e penso semplicemente che non ho capito un cazzo e mi metto a fissare il soffitto. Dopo un po’ mi fa, ‘Che fai?’ E io le dico, ‘No, niente, cioè guardavo il lampadario. È sferico, mi fa pensare a una volta che dovevo andare al planetario, ma non mi hanno fatto entrare.’ Lei mi dice, ‘Buonanotte.’ E io sono sicuro ancora a distanza di tanti anni di non avere capito un cazzo. Sono sicuro peraltro che non mi risponderebbe neppure oggi. Così mi domando ancora adesso fino a che punto puoi dare per scontato che uno debba sempre riuscire a interpretarti e se uno non ci riesce, è veramente per forza uno stronzo?

Penso che Chiara fosse come una gatta. Forse considerava quello spazio come un suo territorio e dove nessuno, me compreso, avrebbe dovuto entrare. Ma nel momento in cui avevo identificato la pellicola, il regista e Giuliano Gemma, avevo evidentemente commesso una violazione a questo suo spazio sacrale. Con il tempo scoprii che i suoi spazi inviolabili erano così tanti che scontrandosi tra di loro riuscivano a creare il vuoto. Lo stesso che mi porto ancora dentro a distanza di tutti questi anni.

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editoriale di sotomayor

Cominciamo con queste cinque domande una rassegna di interviste a personaggi impossibili e che hanno fatto a loro modo la storia della cultura, del pensiero filosofico e della vita politica e sociale.

Una iniziativa che è resa impossibile dalla speciale strumentazione in dotazione al nostro studio radiofonico e che ci permette di entrare in contatto diretto con i morti. Parlare con i morti per parlare della loro vita e ricordare a tutti che la vita non è mai perfetta.

Il primo personaggio intervistato è Serge Voronoff (1886-1951), chirurgo e sessuologo russo naturalizzato francese e una delle personalità più celebri al mondo durante gli anni della cosiddetta 'belle époque'.

Parliamo di una personalità molto speciale e che ha mantenuto negli anni grande fama e che per questo ringrazio molto per la sua disponibilità e averci concesso questa breve intervista.

V. Buonasera a tutti.

Vi ringrazio per avermi invitato e per avermi scelto come prima persona intervistata. Devo dire al riguardo che la cosa mi fa molto piacere, la considero come un modo di dare ancora adito al mio contributo alle scienze anche successivamente il mio trapasso.

Devo altresì dire che varcare questa soglia tra la vita e la morte ha costituito sicuramente una esperienza affascinante. Ah, se solo avessi la possibilità di non essere intangibile! Sicuramente in tal caso mi dedicherei a sperimentare su quache cavia questo tipo di esperienza. Ma ahimè i miei tempi sono andati.

Oppure... Chi lo sa. Magari potrebbe assistermi lei? Cosa ne pensa? Io la mente, lei le braccia. Assieme potremmo fare grandi cose!

Ehm... Capisco il suo rammarico Dottore e la ringrazio per l'offerta generosa, ma credo proprio che la chirugia non sia il mio campo.

V. Peccato.

Ma se cambia idea sa dove trovarmi.

1. Cominciamo allora con le domande. Dottore, i più giovani molto probabilmente non hanno mai sentito parlare di lei e dei suoi studi nel campo della medicina e della biologia. Al contrario, quando si sente nominare il suo nome, sembra sempre che questo sia oggi contornato da un alone di oscurità e di mistero (si raccontano per la verità molte storie anche per quello che riguarda la sua residenza nella riviera ligure, lo 'Chateau Grimaldi'). Solo poche persone inoltre la ricordano come un brillante chirurgo e un vero innovatore nel campo della scienza medica e la maggior parte la ricorda come un personaggio eccentrico, quasi una specie di 'scienziato pazzo'. Cosa pensa di queste definizioni? Le considera offensive?

V. Naturalmente io non sono mai stato pezzo, né sono mai stato considerato come tale da nessuno, ripeto: nessuno, tra le più eminenti personalità del mondo della medicina. Considero quindi assolutamente offensiva la definizione di 'scienziato pazzo'.

Queste cui accenna sono senza dubbio tutte allusioni che non corrispondono al vero e che considero dovute a una certa invidia nei miei confronti che si è scatenata dopo la mia morte e ha macchiato la mia reputazione.

Peraltro, mi conceda una ulteriore precisazione, non vi è assolutamente nulla di oscuro e di misterioso sia nella mia immagine di medico e scienziato, dato che i miei studi e i miei risultati sono sempre stati qualche cosa che ho voluto io stesso far conoscere al mondo intero (non dimentichiamoci che sono stato anche autore letterario molto prolifico) e che sono stati comprovati e dimostrati agli occhi dell'intera comunità scientifica.

Secondariamente, mi guardi bene, mi considererebbe una figura oscura e misteriosa? Andiamo! Al contrario sono sempre stato quello che si potrebbe definire un viveur, amavo la vita mondana e le belle cose. Amavo la vita intensamente!

2. Ma perché questa ossessione per l'eterna giovinezza? Voglio dire, prima di entrare in medias res nel merito dei contenuti dei studi, voglio domandarle da quali presupposti ideologici e concettuali ha voluto partire per orientare i suoi studi in quella determinata direzione. In effetti in generale è sempre esistito il mito della vita eterna, ma che poi se invecchi, giustamente di questa vita che te ne fai. Il segreto quindi sarebbe quello di vivere e restare sempre giovani. Ma lei aveva paura della morte?

V. Ma vede, il mio proposito, quella che consideravo la mia vera missione, era quella di garantire a tutti quanti una vita migliore.

È indubbio che, come dice lei, la vita eterna non ha senso senza giovinezza, così come è evidente che restare giovani significhi vivere bene la propria esistenza. Ma i nostri corpi non solo non sono fatti per durare in eterno, questo è infatti il minore dei problemi, ma sono soggetti a un certo decadimento: infortuni, malattie... la vecchiaia! Senza considerare tipologie di problematiche e malattie che possono essere congenite. Ecco: a tutto questo io ho dedicato la mia attenzione! Gli studi di una vita!

I media e la storia del resto si sono concentrati solo sugli aspetti più 'pruriginosi', ma i miei studi sono sempre stati orientati a garantire una giovinezza persistente nei miei pazienti da ogni punto di vista. Io volevo il bene dell'umanità!

La verità in fondo è che ciacuno dovrebbe curare il proprio corpo e la propria anima per restare giovani per sempre, ma quanti ci riescono. Chi ha parlato di effetto 'placebo' nel caso dei miei interventi sbaglia, ma accenna a una componente comunque vera, come è vera del resto in ogni branca della medicina. Cioè che l'aspetto psicologico e quello mentale sono determinanti per la cura e la salute del paziente.

Qui la scienza medica incontra una certa componente magica e elementi vicini allo spiritismo. Ma non c'è trucco: senza la medicina vera e propria non si può compiere alcun miracolo.

Per quanto riguarda la vita eterna, questa non mi ha mai interessato. Ho voluto vivere la mia vita al massimo finché questa è durata. Non credo nella vita eterna e neppure in una specie di continuum della vita dopo la morte dovuta ai procressi di procreazione. Anche per questo non ho lasciato eredi. Come è stato possibile nonostante tutte le donne io abbia avuto nel corso della mia vita? Qui mi dispiace ma non posso rispondere. Mi conceda la possibilità di tenere per me qualche trucchetto [Ndr. Sorride.].

3. Dobbiamo a questo punto necessariamente affrontare l'argomento principale, cioè la sua attività come chirurgo e biologo di fama internazionale. Lei era praticamente famoso in tutto il mondo, si racconta di folle che aspettavano il suo arrivo a Rio de Janeiro in occasione di un viaggio in Brasile. Si parla di centinaia di interventi e di file di pazienti in attesa fuori dal suo studio. Così come è noto che lei avesse un vero e proprio allevamento di scimmie nella sua villa a Grimaldi da usare come 'pezzi di ricambio'. Che cosa c'è di vero in tutto questo? Ma questi suoi interventi erano veramente miracolosi? Come è arrivato a questo tipo di conclusioni?

V. Voglio innanzitutto dire che a quei tempi la sperimentazioni sugli animali e in particolare sulle scimmie, costituiva una prassi e una pratica di routine. Non mi considero un mostro per questa cosa e non sono colpevole per quelle che sono state le mie sperimentazioni sugli animale. Senza considerare che ogni applicazione su di loro ha comportato l'aumento di conoscenze anche per quello che riguarda la loro natura e anche campi come la medicina veterinaria ne hanno tratto giovamento.

So bene comunque che oggi molti mi considererebbero un mostro. Non so se abbiano ragione e la cosa non mi interessa: io avevo una missione da compiere e tutto quello che ho fatto, l'ho fatto per il bene della scienza e seguendo le regole.

Come mi è venuta l'idea? Be', rispondere a questa domanda apparentemente semplice, è in verità abbastanza complesso, ma proverò comunque a esporre la cosa usando un linguaggio poco scientifico per essere più comprensibile ai lettori.

Sicuramente alle basi vi furono le teorie sull'evoluzione e il darwinismo. L'uomo, come è noto, si è evoluto dalla scimmia. I primati appartengono quindi alla nostra stessa 'superfamiglia'. Come tali possediamo un numero considerevole di caratteristiche in comune. Tanto più il nostro cervello è sviluppato tuttavia, in maniera inversamente proporzionale il nostro corpo appare essere dotato di un certo vigore. Nelle scimmie accade esattamente l'opposto. Per quanto dunque muniti di un cervello superiore, questo non ci permette di trascendere da questa considerazione. Senza considerare la persistenza nelle specie animali di quegli istinti che noi abbiamo soppresso e superato a favore dell'intelletto. E cosa è più liberatorio che scatenare i propri istinti? Qui nacque l'idea del trapianto.

Adesso la cosa può sembrare molto semplice, ma bisogna essere dei chirurghi molto bravi per compiere con successo operazioni di questo tipo e io modestamente lo ero. Uno dei migliori.

Il grande successo è semplicemente dovuto al fatto che i miei interventi funzionavano.

Ma è anche vero che permane nella nostra cultura un certo oscurantismo che impedisce alle scienze di svilupparsi e gli individui di essere liberi. Ci sono poteri forti che impediscono il progresso. Ma questa è una storia vecchia.

4. Immagino che lei si riferisca alla chiesa e in generale alle istituzioni religiose. Che effettivamente hanno ancora oggi qualche problema con le teorie sull'evoluzione e le nuove scoperte in campo scientifico. A parte questo io devo per forza chiederle di tutte quelle voci sull'uomo scimmia che si ritiene si aggirasse nei dintorni di Villa Grimaldi durante quegli anni. Oltre della possibilità che... un uomo possa accoppiarsi con una scimmia e dare alla luce una ibridazione.

V. Per quanto riguarda la chiesa e le istituzioni religiose, lei ha colto perfettamente il punto! Probabilmente è proprio a causa delle istituzioni ecclesiastiche se oggi godo di questa cattiva fama e i miei studi sono stati screditati. Se sono passato alla storia come un 'ciarlatano'.

Per questo inoltre i miei studi non hanno avuto seguito e probabilmente continueranno a non essere considerati e presi in considerazione dalla comunità scientifica. CI sono troppi paletti. La scienza è schiava di se stessa perché si è imposta troppe regole. Ma tutto questo è semplicemente ridicolo. Così non arriveremo mai da nessuna parte.

Non ho intenzione invece di rispondere a quelle che sono le insinuazioni e le baggianate sull'uomo scimmia che io avrei creato e che secondo certi si aggirava nei dintorni della mia abitazione. Questa storia fu chiaramente inventata per creare un certo clamore e perché io ero una personalità molto popolare. Chi lo sa, magari qualche volta sarà semplicemente scappata una scimmia e la suggestione avrà giocato qualche scherzo.

Comunque, qualcuno ha mai portato prove reali della sua esistenza? Ci sono testimonianze attendibili, fotografie? No. Niente di niente. Di che cosa parliamo allora? Se poi qualcuno avesse delle prove in tal senso, ce le mostrasse. Ma dovrebbe poi dimostrare anche i miei legami e le mie responsabilità in questa cosa. E anche se fosse, che tipologia di reato avrei commesso? Andiamo. Mi sembra di parlare di storie come quelle che riguardano lo yeti, gli ufo, i vampiri. Cose che non esistono.

In quanto all'ultima domanda, penso che lei si sia risposta da solo. Che esistano ibridi all'interno del mondo animale è una verità dimostrata e sotto gli occhi di tutto. L'uomo e la scimmia sono due specie appartenenti alla stessa 'superfamiglia'. Di conseguenza...

Ma penso che il mondo sia oggi anche meno pronto che ieri a riconoscere la verità.

5. Be', sicuramente è un tema controverso. Quindi posso bene immaginare che cosa intende dire.

L'ultima domanda riguarda il suo rapporto con il nostro paese, l'Italia. Che legame ebbe con il nostro paese? È vero che ebbe dei legami con Mussolini? Ciononostante è vero che fu costretto a lasciare il paese a causa dell'emanazione delle leggi razziali?

V. Io sono sempre stato e rimango un ebreo. Non ne parlo volentieri, ma due miei fratelli morirono nel campo di concentramento di Auschwitz... Per quanto io non sia mai stato particolarmente religioso, le mie origini mi ponevano in ogni caso in una situazione scomoda quando furono emanate le leggi razziali. Lasciare l'Italia in quel caso divenne un obbligo e un modo per tenermi al sicuro.

Devo dire che la Francia di quella che voi adesso chiamate 'belle époque' fu qualche cosa di incredibilmente meraviglioso e di una bellezza ineguagliata da nessun altro posto al mondo durante quegli anni e forse anche successivamente. Furono anni meravigliosi e di un furore artistico e culturale senza pari. A parte le scoperte nel campo scientifico.

Ma amavo l'Italia, certo. Del resto è lì che avevo la mia residenza e dove sono ritornato a vivere dopo la guerra e fino alla fine della mia esistenza.

In quanto a Mussolini... Be', suppongo di potere oggi parlare liberamente di lui e senza nessun timore particolare. A differenza che quegli anni.

Benito Mussolini era molto interessato ai miei studi e al mio linguaggio in generale. Credo che fu proprio lui a coniare il verbo 'voronofizzare'. In generale lui diceva di volere 'virilizzare' l'Italia e praticamente fece dei miei studi una specie di slogan pubblicitario. Del resto è innegabile che questo funzionò e che molti giovani lo seguirono in quelle sue manie da grandeur. Ma per quanto mi riguarda - a parte quella che considero fu una pubblicità gratuita per me e i miei studi - lo ho sempre considerato un pallone gonfiato. Se tra me e lui ci fosse un ciarlatano, be', quello era sicuramente lui.

Ma si è mai rivolto a lei come paziente?

V. Mi dispiace ma questa è una domanda a cui non posso rispondere. La mia etica come medico mi impedisce di rispondere e di mantenere un certo riserbo.

Capisco Dottore...

Che altro aggiungere? La ringrazio per questa intervista e per per il tempo che ci ha concesso.

V. Ci mancherebbe altro.

Adesso ho mio malgrado molto più tempo a disposizione che in passato, anche se fortunatamente riesco sempre a trovare qualche svago e a organizzare quelle feste e ritrovi che tanto amavo quando ero in vita.

Grazie a lei per aver ridato con questa intervista letteralmente 'vigore' alle mie tesi e i miei studi da troppo tempo dimenticati. Spero che la mia intervista sia stata illuminante.

Sicuramente e penso che saranno della stessa opinione anche i nostri ascoltatori.

Un saluto dalla nostra postazione radio. Buona serata a tutti.

'Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai.'

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editoriale di sotomayor

Chi lo avrebbe mai immaginato che esistessero ancora, conservate perfettamente fino ai giorni nostri, lettere di manifestazione di dissenso (e contenenti in molti casi anche minacce di morte) scritte al Re Vittorio Emanuele III. Pure non dubitando del fatto che si potessero scrivere delle lettere al Re, questa è una cosa che non avevo mai preso in considerazione, così sono rimasto colpito dall'esistenza di questa opera di raccolta dell'Archivio Italiano Tradizione Epistolare in Rete (AITER).

Coinvolgente cinque unità di ricerca (Università degli Studi di Pavia; Università per Stranieri di Siena; Università degli Studi di Roma "La Sapienza"; Università degli Studi di Cassino; Università degli Studi di Milano) scopo dell'AITER è stata la creazione di una banca dati di corpora epistolografici dal medioevo al Novecento e basto su un'interfaccia web per la lettura dei testi, consultabile attraverso un apposito motore di ricerca: http://aiter.unipv.it/

Con questo progetto e la trascrizione dei testi sono stati messi a disposizione diversi 'carteggi', di cui la sezione forse più interessante per la verità è 'Lettere a e da internati militari' conservate nel Fondo Pirola (1943-1945) e contenente in tutto 15 faldoni e 428 fascicoli (sono state pubblicate 200 corrispondenze) di lettere internati militari italiani (IMI) condotti nei lager tedeschi dai nazisti nelle fasi successive all'8 settembre 1943. Ma quella relativa 'Le lettere al Re' (a cura di Barbara Achilli, Manuela Baroncini e Roberto Vetrugno) è sicuramente qualche cosa di inedito e che genera una certa curiosità

Le lettere (400), provenienti da ogni parte d'Italia (questo si intuisce facilmente dall'utilizzo di espressioni di uso dialettale) ma anche da altri paesi come Francia oppure Stati Uniti d'America, sono tutte relative al periodo 1914-1918 e di conseguenza, come si può facilmente immaginare, per la maggior parte dei contenuti richiamano come argomento principale la prima guerra mondiale. Ci sono lettere di minaccia, dissenso, lamentela o semplicemente richiesta di attenzioni da parte di sua maestà il Re oppure la Regina Elena di Savoia o anche le principali figure politiche di quel periodo, i presidenti del consiglio Antoni Salandra e Vittorio Emanuele Orlando, il ministro degli esteri Sidney Sonnino.

Raccolte in 17 gruppi molte di queste lettere, come è facile immaginare e in particolare per quelle con toni più aggresivi e contenenti minacce di morte, sono lettere anonime e non sono firmate. Immagino del resto che al tempo il reato di lesà maestà fosse abbastanza grave da poter incorrere in parecchio guai anche semplicemente rivolgendogli una pernacchia. Generalmente toni più concilianti sono adoperati nei confronti della Regina Elena di Savoia, mentre in alcuni casi le lettere non hanno neppure un destinatario specifico, ma anticipando di cent'anni qualche cosa che si ritiene sia nata solo con i social network, si configurano come dei veri e propri sfoghi. Molte lettere sono chiaramente sgrammaticate, ma questo è inevitabile, considerando che ci riferiamo all'inizio del secolo scorso e che queste venivano scritte da soggetti di ogni estrazioni sociale.

Vale la pena ricordare il contesto storico specifico. Quello della prima guerra mondiale e cui l'Italia prese parte dopo i Patti di Londra dell'aprile 1915 dichiarando guerra all'impero austro-ungarico. Una scelta che nasceva da ragioni di opportunità e causa la pressione dei cosiddetti 'interventisti' e che strategicamente andava nella direzione di porsi in maniera autorevole sulla scena internazionale come era accaduto cinquant'anni prima con la guerra di Crimea.

La prima guerra mondiale fu un massacro. I morti furono quasi dieci milioni (650.000 soldati italiani circa) ma le perdite dovute alle situazioni di indigenza, senza considerare le drammatiche conseguenze dei disturbi post traumatici da stress, costituiscono un danno che è impossibile da quantificare. È calcolato inoltre che in totale morirono all’incirca un milione di civili. La febbre spagnola, la più grande pandemia ricordata dalla storia e il cui contagio si diffuse durante quegli anni, uccise quasi sei milioni di persone in tutto il mondo.

Alla fine della guerra, alla conferenza di pace a Parigi, l’Italia, rappresentata dal nuovo capo del governo Vittorio Emanuele Orlando e dal solito Sidney Sonnino, fu tuttavia trattata come una potenza minore e ottenne molto meno di quanto le era stato promesso alla stipula del patto di Londra in caso di vittoria. Un nuovo trattato, Il trattato di Rapallo del 1920, fu un tentativo da parte dell’Italia di ottenere quanto non le era stato attribuito alla conferenza di Parigi, ma ogni tentativo fu vano: sostanzialmente l’Italia ottenne una ridefinizione se confini nella zona del Friuli e l’Istria. Ma il risultato fu accolto tiepidamente dall’opinione pubblica, tanto che si parlò in ogni caso, secondo una definizione di Gabriele D’Annunzio, di ‘vittoria mutilata’, un leit-motive che costituì uno dei principi fondamentali cui si deve probabilmente la nascita del fascismo.

Va detto, al di là delle conseguenze finali, che il ruolo del Re Vittorio Emanuele III nell’entrata in guerra dell’Italia fu determinante come mai forse nessuna altra decisione presa in prima persona nel corso del suo regno. Di fatto la sua volontà si impose su quello che era l’orientamento generale del parlamento e delle forze politiche e sul loro orientamento neutralista, quando superando i precedenti accordi con Germania e Austria-Ungheria (la cosiddetta Triplice Alleanza), si accordò con le forze dell’Intesa. Ovvero Francia, Inghilterra e Russia. Fino alla Rivoluzione d’Ottobre. Senza considerare il solito intervento decisivo degli americani. Che fosse ritenuto direttamente responsabile di quello ‘scempio’ non ci appare dunque particolarmente strano e queste lettere sono in questo senso solo un piccolo pezzo della storia del dissenso di quegli anni, passato chiaramente in secondo piano a fronte di quelli che furono eventi di una drammaticità unica come la guerra di trincea raccontata in maniera tanto sensibile quanto unica da un autore gigantesco come Giuseppe Ungaretti.

Tra le tante lettere presenti, a titolo esemplificativo, ne ho scelte due in particolare che vi sottopongo in calce a questo editoriale. La prima (a titolo esemplificativo) è di un mittente anonimo e destinata a Tommaso di Savoia, capitano di vascello e luogotenente del Regno durante gli anni della guerra in cui Vittorio Emanuele II si traferì al fronte. La seconda invece è sempre di un mittente anonimo ma non ha un destinatario specifico ed è una delle cose più belle io abbia letto negli ultimi tempi e che voglio condividere su queste pagine.

Buona lettura.

[Anonimo] a Tommaso di Savoia
Napoli(NA), 6 giugno 1917

A Sua Altezza Reale
Tommaso di Savoia
Luogotenente di S.M. il Re- Roma
[1] I cenci vanno sempre in'aria, Altezza in Russia e
successo il contrario, e i signori governandti avrebbero dovute
farne tesoro di tale insegnamente.
In Italia quando si tratta di dissanguare maggiormente le
masse lavoratrice, subito si fa con decreto legge; ma quando
ai lavoratori si dovrebbe dare qualche miglioramente gli si
promette ma mai tale promesse si mantengono.
[2] Sembra però che i dormiente si stiano destante e vedremo,
Vedrete!
Anche per i dissanguatori delle masse, i grandi ed eterni
sfruttatori dell'umanità ci dovrebbe essere un limite…
Vuole S.A. imporla? o vuole che si ribellano i lavoratori
per fame?
In certi casi si sà dove s'incomincia, ma non si sà
dove ha fine le risolte di popolo
Avviso a chi tocca
Gli operai Napoletani
Napoli 6-6-1917

Missiva autografa.
(*Napoli 6.6.17) allegati: Pref. di Napoli 15 agosto 1917.

[Anonimo] a [anonimo]
[s.l.], 25 dicembre 1917

[…] 25 Dicembre 1917
[2] vita il infelice,
la notte sono solo à
mia luna, come sei alta
aiuta mi. dove sei? à
sono in uno scoglio in
mezzo al mare. è
vedo un pesce grosso,
che mi vuol mangiare
chi tia portato ali?
e dove sei nato?
io sono nato in un altro
scoglio più alto e cera
unaltro scon pesci
che mia veva tirato
una volta ma non
mia pigliato, e cosi
mene sono venuto qui?
matu ai paura di morire
e vero?
nò nò, opaura per una
sola cosa che moio in
mezo all'ingnoranza.
percio aiutami, domani sera
ci vediamo allora ti
saluto il tuo amico, ignora
nte[…]

Al Statut[…] di Roma
Italia

Missiva autografa.
(Galveston 26.12.17 - (Genova posta estera) Roma 31.1.18) allegati:(?)

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editoriale di sotomayor

Secondo una determinata visione della vita, esisterebbe non solo ciò che vediamo attraverso i nostri occhi ma anche tutto ciò che riusciamo a immaginare. Questo pensiero è in parte comprensibile e può essere spiegato con un semplice esercizio di logica: se lo spazio è infinito, allora può esistere qualsiasi cosa. Qualsiasi. Voglio dire che in questo caso tutti gli studi relativi la ricerca di altre forme di vita partono da presupposti sbagliati perché queste possono eventualmente esistere secondo modalità che noi non abbiamo neppure la facoltà di comprendere.

Ciononostante, secondo me ci sono alcune cose che al di là di quelle che possono essere prove inconfutabili, non esistono veramente.

Non voglio andare troppo lontano e ritornare nello spazio. Restiamo invece con i piedi per terra e sulla Terra facendo esempi di natura pratica.

Prendiamo la giraffa per esempio.

Brevemente: la giraffa, alla pari dell’elefante e del leone, è un animale che non esiste.

Questo non significa chiaramente che la giraffa non sia mai esistita, abbiamo infatti i fossili, le testimonianze storiche, ma è facilmente dimostrabile che questa oggi non esista più.

Non possiamo negare del resto che non solo in epoca preistorica ma nel corso della intera storia e anche solo negli ultimi centocinquanta anni si siano estinte più specie animali. Direi che anzi si siano verificati fenomeni di gran lunga peggiori. Opere scientifiche di genocidio di massa che hanno comportato la scomparsa di intere popolazioni e culture. L’esempio più grande, senza tirare in ballo gli orrori della prima metà del secolo scorso in particolare, potrebbe benissimo essere quello degli indiani d’America.

Qualcuno potrebbe menzionare allora le riserve, così come nel caso della giraffa si potrebbe fare riferimento agli zoo. Ma che cosa sono gli indiani nelle loro riserve e le giraffe negli zoo se non semplicemente il segno manifesto della loro fine. Una evidente manifestazione di impotenza. Una specie di coitus interruptus.

Così vi domando: avete mai visto veramente una giraffa? La sapreste descrivere minuziosamente in ogni suo particolare? Facciamo un esercizio. Chiudete gli occhi per venti-trenta secondi, concentratevi e immaginate una giraffa. Fatto? Che cosa avete visto? Io ho visto una giraffa diciamo di stazza media. L’ho visualizzata come all’interno di un contesto fotografico. Una fotografia verticale sbiadita, scattata probabilmente quando io ero piccolo nella seconda metà degli anni ottanta. La giraffa è da sola circondata da pochissimo verde. Sullo sfondo ci sono delle montagne che si intravedono in lontananza e l’azzurro colore del cielo. Le sue tipiche chiazze sono indistinte e quasi si mescolano in questo giallo ocra, mentre la testa è senza nessuna ragione fasciata con delle strisce nere. Magari non c’ha neppure le corna caratteristiche. È stata disegnata male.

È sicuramente una giraffa molto naif.

Questo è tutto quello che riesco a immaginare: una giraffa ‘povera’, come del resto tutto mi appare povero nelle fotografie di quegli anni. Guardo e conservo con piacere solo quelle di mio fratello quando era piccolo (ne ho un altro ancora più piccolo, ma sarebbe nato dopo, all’inizio degli anni novanta e anche se lui per me sarà sempre piccolo, conservo effettivamente anche le sue) e quelle di mia madre da giovane. Una di queste che risale a molti anni prima, quando lei aveva quattordici oppure quindici anni la porto sempre con me.

Ma la giraffa? È chiaro che se essa appaia idealmente sbiadita e inanimata già nei miei ricordi di trenta anni fa, questa debba per forza oggi non esistere più. Ho visualizzato quella che è una idea di giraffa, ma non un animale vero e proprio. In ogni caso qualcosa che è praticamente immobile e incapace di reagire a un processo di decadimento che ha coinvolto se stessa oltre che il suo habitat naturale.

Non ricordo inoltre di avere mai visto da vicino una giraffa.

Oppure: qualcuno di voi saprebbe farne il verso? Tutti saprebbero imitare l’abbaiare di un cane, il ruggito del leone, persino il barrito dell’elefante. La giraffa no.

Da bambino sono stato allo zoo ma non ricordo la giraffa. Eppure, voglio dire, non può esistere uno zoo senza una giraffa. Forse il punto è che pure se questa c’è, sta dentro un recinto e tu non la puoi toccare e allora come fai a dire che esiste veramente, se non la puoi toccare con mano. Magari quella che ti dicono che è una giraffa è tutta una montatura: una grossa fregatura. Solo una proiezione mentale dettata da determinati input che ti hanno inculcato sin da bambino. Ma questo non significa niente. La giraffa esiste tanto quanto potrebbe esistere oggi un Tyrannosaurus Rex.

Del resto la giraffa è sempre stata qualche cosa di più che un semplice animale: essa è stata infatti sin dalle prime testimonianze che sono arrivate fino ai giorni nostri, una specie di animale mitologico. La storia ci racconta che questi animali furono a lungo circondati da un alone di mistero: abbiamo così poche testimonianze scritte. Nel passato, centinaia di anni fa, per incontrare una giraffa non avevi scelta: dovevi attraversare il Mare Mediterraneo e poi quella incredibile barriera naturale che è costituita dal deserto del Sahara, un ostacolo che fermò persino l’avanzare dell’Impero Romano. Parliamo di una impresa sovrumana e che ancora oggi costituisce un fattore in quella parte del mondo.

Sicuramente sin dall’antichità si dovette convenire sul fatto che spingersi oltre era troppo complicato. Eppure fu proprio in quegli anni che a quanto pare si videro per la prima volta in Europa delle giraffe, a Roma, alla corte degli Imperatori.

Dopo sarebbero dovuti passare centinaia di anni, quando una di queste fu condotta alla corte di Lorenzo de’ Medici e raffigurata in dipinti di autori come Giorgio Vasari oppure Francesco Botticini oppure Piero di Cosimo, in affreschi e celebrata in poesie. Si trattò di una pagina rilevante nella storia di questo animale in Europa e un evento che come nessun altro ci offre ancora oggi spunti culturali e sociali di rilievo che provino la sua esistenza in carne ed ossa. Per la prima volta abbiamo delle immagini.

Quante giraffe ci saranno nella mia città, in Italia, in tutta Europa e nel mondo. Sicuramente troppo poche da giustificare e determinare la loro esistenza. Non si tratta tanto di portare avanti una qualche causa animalista. Devo dire che pure apprezzando chi si adoperi a tale scopo, in questo caso specifico scrivo solo perché mi rendo semplicemente conto che sto raccontando di qualche cosa che probabilmente c’era e che adesso non c’è più e tutto questo mi è venuto in mente all’improvviso anche se ora capisco di avere sempre saputo la verità.

Niente e nessuno potrà far rivivere la giraffa e non ci resta che attaccarci ai nostri ricordi sbiaditi oppure alle opere ‘magnifiche’ su menzionate e che vollero celebrare un mito che ha faticosamente resistito fino ai giorni nostri per ricordarci vagamente o idealmente come fosse effettivamente fatto questo animale.

È così alla fine che come il mammut oppure la tigre con i denti a sciabola e come fiere leggendarie come il drago oppure il grifone, la giraffa scompare ma la sua leggenda resta e questa cammina idealmente ancora a testa alta in mezzo a noi.

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