editoriale di splinter

[Premessa: questo articolo non fa riferimento agli utenti di DeBaser, tutti più o meno colti e con una più o meno seria cultura musicale]

Da quando ho cominciato a navigare nel mare della musica non ho potuto fare a meno di notare quanto la musica commerciale ascoltata da gran parte della popolazione sia tremendamente vuota: è priva di arrangiamenti di spessore, non c’è una prestazione strumentale di rilievo, non ci sono idee, non ci sono passaggi degni di nota, non ci sono melodie ben studiate e costruite, non c’è una sperimentazione; ci sono solo una manciata di suoni poco udibili, un ritmo da ballare e qualche parola d’amore. Quando ho cominciato ad esporre le mie critiche ed opinioni sul mondo musicale moderno e a far notare agli interlocutori la piattezza di quel panorama pop non ho potuto non notare l’approccio ignorante, superficiale, poco costruttivo, addirittura infantile con cui la gente rispondeva alle mie osservazioni. Inoltre non mi sono affatto sfuggiti gli appellativi con cui critici, recensori ed opinionisti vengono continuamente apostrofati: “invidiosi” (di cosa poi???), “irrispettosi”, “moralisti”, “criticoni”! Quello che mi accingo a fare è elencare ed analizzare alcune delle risposte più comuni ricevute…

- “Eh ma ognuno ha i suoi gusti”. Ma grazie al cazzo, che risposta scontata, come se non lo sapessimo che ognuno ha i suoi gusti… Non hanno capito che la valutazione di un’opera non è un fatto di gusto personale ma è una vera e propria analisi delle sue molteplici sfaccettature e di tutta una serie di svariati fattori circostanti, e che quest’analisi dovrebbe essere, per quanto possibile, imparziale. Ecco, è proprio il valore dell’imparzialità, del senso critico, dello spirito analitico, quello che non è stato loro insegnato fin dalla tenera età, loro non sanno fare una valutazione ragionata che esuli dal loro gusto personale, che sia libera da un certo edonismo di fondo, per loro il gusto personale è l’unico parametro di valutazione, per loro “mi piace” = “è un capolavoro”.

- “Eh ma ha/hanno venduto milioni di dischi”. Per loro il successo è un insindacabile indice di merito artistico. Quando fai successo per la gente vuol dire che automaticamente sei bravo, sei un artista, sei autore di capolavori inestimabili. Fatemi capire bene… quindi se io metto il microfono al water mentre cago e registro i rumori, vendo il disco e faccio successo allora vuol dire che automaticamente ho fatto un capolavoro?! Se tutti si buttano dalla finestra allora vuol dire che è una cosa giusta? Beh allora io seguendo la stessa logica potrei dire che Hitler era un grande uomo perché aveva migliaia e migliaia di seguaci, o che fumare è una cosa giusta perché lo fanno milioni di persone (sono esempi volutamente estremi ma che rendono l’idea)… Dai, ma non potete pensarlo veramente! Se aveste un minimo di testa capireste un semplice concetto, che vi spiego io: quegli artisti mediocri che tanto vi piacciono fanno successo non perché sono i più bravi sulla terra ma semplicemente perché la gente non conosce altro e non si sforza di conoscere altro, la macchina mediatica propina quello e tutti ascoltano solo quello, che inevitabilmente fa successo.

- “Eh ma sono un gruppo pop, non si può pretendere chissacché” (frase pronunciata più che altro da persone un po’ meno ignoranti, che in qualche modo riconoscono l’esistenza di una musica sostanzialmente migliore)… Ah quindi essere pop diventa una giustificazione per fare delle cagate immonde? No, carissimi, NO, il pop, anche se ambisce a piazzamenti piuttosto alti, è comunque un genere musicale e come tale dovrebbe essere assolutamente curato e ben dettagliato negli arrangiamenti. Pop in passato sono stati i Tears For Fears, i Toto, i Supertramp, i Depeche Mode, i Talk Talk, ma avevano (alcuni tuttora hanno) arrangiamenti ben notabili, di altissimo livello, ben in evidenza, protagonisti, a volte perfino complessi, rimaneva sempre e comunque musica, non rutti e scorregge.

- “Eh ma dai, evolviti un po’”… Fermi tutti… IO devo evolvermi??? Sì, mi sono sentito dire anche questo!!! Qua siamo davvero all’apice, alle comiche, persone che non sono mai andate oltre le canzonette chiedono a gente che ogni giorno si sforza per scoprire nuova musica di evolversi, il bue che dice cornuto all’asino! Cari miei, noi siamo evoluti e siamo in evoluzione continua, voi invece siete rimasti fermi lì e da lì non vi schiodate mai; e in ogni caso evolversi non vuol dire aprirsi alle peggio porcherie, anzi, essere evoluti vuol dire anche saper riconoscere il cattivo gusto e fare il passo indietro quando il passo avanti porta al burrone!

- Arriviamo così al trattamento più stupido, infantile ed ignorante riservato a chi parla e chi fa della critica musicale: “rispetta i gusti altrui” oppure “non devi permetterti di criticare le scelte degli altri”. Fatemi capire bene… fare delle analisi sulla musica ed arrivare a decretare che si tratta di prodotti scadenti vuol dire mancare di rispetto? Esprimere un parere negativo è mancanza di rispetto? Vi siete forse dimenticati che siamo in democrazia e che democrazia vuol dire essere liberi anche di dire cose spiacevoli? Sembra che la gente si senta quasi minacciata dalle opinioni dei critici! Cosa cambia a voi se noi ci esprimiamo negativamente? Chi vi impedirà di ascoltarvi la vostra musica di merda? Ma poi di cosa avete paura? Che veniamo lì a casa vostra per bastonarvi perché avete dei gusti discutibili? O semplicemente che magari possiamo avere ragione e che le vostre certezze possano crollare? Il vostro è un atteggiamento che denota presunzione e prepotenza! Dimostrate di non sapervi confrontare con gli altri, specialmente con chi è più esperto e ferrato di voi, la persona più esperta vi incute timore perché avete paura che possa smascherare la vostra ignoranza; non sapete mettervi in discussione, non siete in grado di interpellare la vostra coscienza, non volete proprio crescere e maturare come persone; perché altrimenti vi porreste delle domande, fareste dell’autocritica, magari ascoltereste anche qualche nostro “consiglio per gli acquisti” e vi si potrebbe aprire un mondo a voi sconosciuto, magari migliore e più bello di quello che conoscete, e un giorno potreste anche ringraziarci per la scoperta. Invece no, volete rimanere lì nel vostro porto sicuro e guai a chi prova a farvi uscire. Inoltre, con il vostro voler sopprimere l’opinione altrui, denotate una mentalità fascista e retrograda (secondo me ancora inconsciamente radicata nella popolazione italiana media), ma paradossalmente agli occhi vostri i dittatori che vorrebbero imporre la mentalità agli altri siamo noi, anche qui è il bue che dice cornuto all’asino.

Alla luce di tutto ciò vorrei mettere le cose in chiaro. Non critici ed opinionisti non siamo né moralisti, né invidiosi, né irrispettosi! Semplicemente facciamo le nostre osservazioni e lo facciamo in maniera obiettiva e imparziale, valutando ciò che ascoltiamo con un approccio analitico, cerchiamo di individuare pregi e difetti di ciò che ascoltiamo; anzi, vi diciamo di più, a volte siamo pungenti anche verso i nostri stessi artisti preferiti, a volte addirittura troviamo il pelo nell’uovo anche in cose che ci piacciono, perché sappiamo scindere il gusto personale dalla valutazione oggettiva. A me ad esempio ogni tanto piace ascoltare gli Imagine Dragons ma non mi sogno mai di considerare i loro dischi dei capolavori, anzi vi individuo un sacco di difetti, perché analizzandoli se ne individuano parecchi, sono un fan dei Nickelback ma riconosco che hanno evidenti limiti sotto molti aspetti. Aggiungo che se vuoi portarmi al cinema senza farmi addormentare mi devi portare a vedere qualche commediola italiana di quelle da ridere… ma non mi sognerei mai di definire questi filmetti capolavori del cinema, né di considerarmi un amante del cinema, sarei ingiusto e perfino disonesto. Voi invece no, non siete capaci di condurre un’analisi impersonale, perché non siete stati educati a farlo, vi hanno inculcato che è solo ed esclusivamente un fatto di gusto personale e chi si è visto s’è visto. Poi per carità, nessuno ci garantisce che le nostre analisi siano tassativamente giuste ed insindacabili, sono soggettive anch’esse (altrimenti la critica musicale non avrebbe ragion d’esistere), però sono fatte con la testa… e secondo me comunque l’opinione personale alla fine sbatte contro un muro chiamato “evidenza”, quella a cui è praticamente impossibile arrendersi; possiamo discutere su chi sia più grande fra Yes e Genesis, come fai invece a non ammettere la superiorità dei King Crimson rispetto ad esempio ai Green Day, o dei dipinti sofisticati di Caravaggio rispetto ai tagli sulle tele di Lucio Fontana, o di Messi rispetto a Borriello?!

Ma soprattutto… Noi la musica l’abbiamo esplorata in diverse sfaccettature, siamo andati a spulciare nei dischi di nostro padre oppure semplicemente non ci siamo accontentati di ciò che il sistema ci propinava e siamo andati in profondità documentandoci sui vari siti e sfruttando le potenzialità offerte prima dal peer-to-peer e poi dai servizi di streaming. Abbiamo ascoltato diversi suoni, diverse forme di espressione, diversi generi, ed esplorando qua e là ci siamo resi conto di quante cose imponenti, grandiose, sofisticate ci siano nell’immenso panorama musicale, ma anche quanto vuota, piatta e povera sia la musica commerciale. Parliamo con cognizione di causa, con le orecchie di chi ha ascoltato, di chi conosce. E voi invece? Che ne sapete della musica? Che titolo avete per parlarne? Voi vi siete limitati ad ascoltare le quattro canzoncine offerte dalla stazione radio di turno e avete conosciuto solo il lato più superficiale e inconsistente della musica, siete stati abituati ad un beat che pompa nello stereo o ad un banale testo d’amore; non siete cresciuti con vostro padre che vi guidava ad ascoltare con attenzione l’intro di pianoforte di “Firth of Fifth” o l’assolo di turno di David Gilmour o di Keith Emerson, siete cresciuti con vostra madre che guardava “Non è la Rai” e vi faceva ballare e battere le manine sul beat della hit da discoteca del momento, o che ascoltava i versi amorosi di Laura Pausini mentre faceva i mestieri, che visione della musica potrete mai aver coltivato? Chiaramente una visione estremamente limitata, per voi la musica è quello e soltanto quello, canticchiare, ballare, pomiciare, basta. Quando qualcuno vi chiede che musica ascoltate rispondete “un po’ di tutto” dando prova pratica della vostra ignoranza, con quel tutto sappiamo benissimo che intendete solo la musica pop perché sotto sotto siete quasi convinti che non esista altra musica. Solo all’occorrenza fate finta di avere un’anima rock solo perché ascoltate Vasco Rossi o Ligabue, o peggio vi fingete amanti della lirica e dell’opera solo perché ascoltate Il Volo o Andrea Bocelli, poi quando arriva il vero rock o la vera musica classica fate una faccia stranissima. Quelli sono gli unici generi meno commerciali che forse conoscete, quando qualcuno vi dice che ascolta musica “non commerciale” la vostra mente va subito al rock o al metal; per voi non esistono progressive, ambient, trip-hop, psichedelia, post-rock, blues, country, jazz, folk, ska, industrial e chi più ne ha più ne metta. Per voi la musica non è una chitarra che costruisce un blues, una fuga al pianoforte, un bell’assolo di sintetizzatore, non è sperimentazione, non è ricerca e studio di linguaggi alternativi, non è costruire qualcosa di interessante o artistico che catturi l’attenzione, che susciti curiosità, non è un utilizzo intelligente della strumentazione; anzi, siete abituati a così tanta pochezza che quando sentite qualcosa che va appena fuori dagli schemi radiofonici a cui siete abituati, qualcosa di appena un po’ più “suonato” e “musicale”, a voi sembra roba totalmente aliena, per voi persino la chitarra di Mark Knopfler o un tappeto di organo Hammond sembrano qualcosa di stranissimo; e chi ascolta quel qualcosa di strano per voi non è semplicemente “uno che ha una cultura musicale”, per voi è un pazzo o un “alternativo del cazzo”, magari pure “uno che si droga”, per voi persino i metallari sono solo una banda di drogati; e quando qualcuno vi fa notare che non capite nulla di musica voi che fate… lo attaccate, lo zittite, gli implorate di rispettare i gusti altrui, semplicemente non volete ammettere che è più ferrato di voi sull’argomento, vi dà quasi fastidio che venga fuori la vostra poca conoscenza in materia.

Quello che voglio dirvi è… beh, innanzitutto che ci dispiace che non vi interessiate a scoprire la musica nelle sue diverse forme, che vi accontentiate di così poco nonostante il ricco arsenale da cui poter attingere; ma soprattutto vi diciamo che non c’è niente di male ad ammettere che non sapete nulla di musica, ad ammettere la vostra ignoranza circa un qualsiasi argomento, riconoscere le proprie lacune è da sempre un grande atto di onestà, se anziché attaccarci perché vi bacchettiamo vi limitaste a dire “mmmh, guarda, non sono un grande appassionato di musica, ascolto un po’ quello che passa il convento” fareste senz’altro più bella figura, risultereste autocritici, onesti, maturi, vi rispetteremmo sicuramente di più, così facendo invece risultate presuntuosi, arroganti, lasciatemelo dire, persino comici, per non dire ridicoli. Davvero, per la vostra onestà intellettuale, magari sforzatevi di ascoltare nuova musica e nuovi suoni, ma se non volete farlo almeno astenetevi dal parlare di musica!

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editoriale di splinter

“Io non seguo la moda, ho uno stile mio, me ne frego di quello che dicono gli altri”. Questa frase si sente spesso e devo dire che mi suscita molta perplessità. Sei davvero sicuro/a di vestirti veramente come vuoi, senza condizionamenti esterni? Sei sicuro/a di essere veramente libero/a? Perché ad essere obiettivi non siamo mai stati veramente liberi di vestirci come cazzo ci pare, anzi, il più delle volte ci siamo vestiti perlopiù tutti uguali. L’abbigliamento dovrebbe essere una scelta personale, una conseguenza del nostro pensiero e delle nostre emozioni, dovrebbe dipendere solo da noi. Invece no, anziché educarci a seguire il nostro istinto e il nostro gusto personale il sistema ha sempre cercato di pilotare le nostre scelte stilistiche facendoci credere che esista un modo corretto di vestire e facendo sentire in colpa coloro che non vi si adeguano, per poi svegliarsi una mattina e decidere di cambiare le regole del gioco. Pensateci bene: ciascun decennio degli ultimi due secoli viene ricordato per una sua particolare estetica e per un suo determinato modo di vestire, per determinati capi iconici che più o meno tutti indossavano; si parla di “moda anni ‘60”, “moda anni ‘70”, “moda anni ‘80” e via dicendo. E questo cosa sta ad indicare? Semplicemente il fatto che non ci è mai stata concessa molta libertà di scelta, che non c’è mai stato davvero un culto dello stile personale.

Ogni santa stagione gli stilisti presentano le nuove collezioni indicandole genericamente con la stagione e l’anno di riferimento (es. “autunno/inverno” 2023/24). Già questo potrebbe nascondere un messaggio becero e consumistico: quei capi andranno indossati quella stagione e basta, dopo diventeranno ridicoli ed obsoleti, dovrete buttarli via, i vestiti hanno una scadenza esattamente come un cartone di latte. Poi però si aggiunge tutta la macchina mediatica, fra TV, riviste, fashion blogger, influencer e compagnia bella. Leggo spesso con interesse gli articoli web delle riviste di moda e non ho potuto non notare le espressioni persuasive utilizzate, quando scorro quelle righe sinceramente non mi sembra di leggere dei semplici consigli per gli acquisti, sembrano piuttosto dei tentativi di imposizione. Ad esempio ho notato un frequente utilizzo della parola “diktat”, oppure frasi del tipo “le scarpe che devi avere la prossima estate”, “queste sono le uniche gonne che vorremo indossare la prossima stagione”; in pratica secondo loro tu devi per forza indossare quel capo la prossima stagione, non è una scelta, lo chiamano “MUST di stagione”. Le influencer fanno praticamente la stessa cosa sui social, ogni tanto mi capita di imbattermi in qualche reel su Instagram in cui una ragazza che fino a ieri non sapevi chi cazzo fosse viene a recitarti il mantra su quali saranno le tendenze della prossima stagione, facendolo con un’enfasi vocale che di certo non passa inosservata, oppure fa un raffronto fra i futuri “trend” e “no trend”. Fanno la loro parte anche le esperte di stile in TV, quando cercano di vestire una persona o semplicemente di dare consigli lo fanno quasi sempre “secondo le tendenze del momento”, guai ad essere totalmente controcorrente. Non per ultimi i negozi, che quando pubblicizzano i nuovi arrivi sottolineano con grande enfasi il fatto che questi siano “molto di tendenza questa stagione”, guai a non esserlo, sai…

Ma a quanto pare non è tutto, la loro opera non è completa, oltre a decretare la tendenza del momento bisogna assolutamente distruggere e denigrare quella precedente. Mi è capitato di trovarmi di fronte ad articoli del tipo “Gli indumenti di cui devi assolutamente disfarti” o “Cosa non indossare più nell’anno …. per non sembrare ridicola”, come se improvvisamente si instaurasse un divieto morale di indossare un capo. In pratica non devono coesistere più mode diverse, opposte, contrastanti, se ne deve seguire una, per diversi anni si indossa solo quel tipo di indumento e il periodo successivo si indossa l’altro, una moda soppianta l’altra. Ci ricordiamo bene di quanto l’hanno menata Enzo Miccio e Carla Gozzi con il loro “Ma come ti vesti?!”, il loro lavoro di distruzione della personalità altrui in favore di un look a tutti i costi di tendenza e ordinario è vivo nei nostri ricordi.

Il tentativo di manipolazione però non è solo psicologico ma anche commerciale: l’indumento che viene declassato a “oggi improponibile” sparisce anche dagli scaffali dei negozi, diventa quasi introvabile, sostituito da quello che un manipolo di stilisti e addetti ai lavori ha decretato che in quel momento è “cool”; nei negozi trovi solo quello che è di moda, in pratica la gente è quasi costretta a vestirsi secondo i dettami della moda, quante volte ci siamo lamentati di non riuscire più a trovare cose che ci piacciono…

E la gente come reagisce a queste imposizioni? Solitamente non reagisce, semplicemente abbocca; lo fa perché non sa sviluppare una propria identità, un proprio gusto personale, non sa costruire un proprio io unico ed originale… ma soprattutto per paura di non essere accettata, di apparire sfigata; ha subìto un vero e proprio lavaggio del cervello, è stata portata davvero a credere che esista un solo modo di vestire, ed eccole tutte a comprare capi che schifavano fino all’altro ieri (come si spiegano le vie dello shopping strapiene appena arrivano i saldi? Dubito che non abbiano nulla da mettersi) e a relegare agli angoli più remoti dell’armadio capi che magari adorano (lamentandosi poi di non avere “nulla da mettere”, in realtà hanno semplicemente “paura di metterli”). Fateci caso, quando si scava nei ricordi di un determinato decennio è ricorrente il tormentone “Ma come cazzo ci vestivamo?!” oppure “Come cazzo abbiamo fatto ad indossare quelle robe lì?!”; e allora perché tutti si sono vestiti così? Semplice, un po’ per la non vastissima possibilità di scelta ma anche per una certa paura di essere radiati dalla società.

Il problema è che la gente non è solo vittima di questo meccanismo, anzi ne è perfino complice, spesso non si limita a subirlo, lo alimenta. Si è convinta che quello sia il modo di vestire e così sminuisce il diverso, lo ridicolizza anche se non con troppa cattiveria e in maniera non troppo esplicita; l’età adolescenziale è terreno molto fertile per questo fenomeno, quanti ragazzi lamentano angherie perché fisicamente diversi o per l’abbigliamento non conforme, secondo un’indagine più di un ragazzo su dieci considera sfigato chi non segue la moda, il 34% degli adolescenti sostengono l’importanza di seguire la moda, il 40% sceglie marche di tendenza. Ma non è che gli adulti si astengano da giudizi simili, è stato rilevato che le persone tendono a tenersi a distanza da persone con outfit decisamente datati o fuori moda. In generale ho notato che c’è sempre stato un certo stigma sociale verso il “fuori moda”, ciò che è ”out” o “datato” è sempre stato un più o meno rigoroso tabù, vestire indumenti passati di moda è sempre stato considerato ignobile, ridicolo, improponibile, praticamente come indossare un costume di carnevale... salvo poi tornare magicamente ad essere accettato sotto indicazione di qualche stilista illuminato che una mattina si è alzato e ha deciso che è “vintage”. Immaginiamo ad esempio di essere negli anni 2000, quelli dei jeans a vita bassissima, delle ballerine, delle giacche di jeans attillate, delle felpe Rams, delle Nike Silver, delle cinture con borchie e paillettes, degli occhiali da vista dal taglio piccolo; immaginate che una mattina degli anni 2000 una ragazza decida di andare in giro con un outfit clamorosamente anni ’80, con un jeans a vita alta, una giacca extralarge con spalline, una chioma vistosa e voluminosa e un paio di occhiali da vista enormi; o che nello stesso periodo un ragazzo si presenti con un pantalone a zampa, una camicia colorata, i capelli lunghi sulle spalle e delle scarpe a punta, come un disco dancer degli anni ’70: entrambi verrebbero immediatamente guardati con un occhio strano e pubblicamente ridicolizzati… e se la cosa avvenisse in una scuola questi potrebbero avere a che fare anche con delle angherie. A scuola da me c’era qualche metallaro o qualcuno con uno stile “suo”, ma per i comuni mortali erano semplicemente degli “alternativi del cazzo”, che spesso si costruivano la loro cerchia ristretta di contatti.

Possiamo quindi affermare che la moda è una velata forma di dittatura. Non una dittatura vera e propria, perché non implica nessuna costrizione di legge, non c’è nessuna imposizione di forza e non comporta alcuna aspra pena a chi va contro il sistema, è una dittatura più che altro psicologica, morale, fa credere alla popolazione di dover per forza tenere un determinato comportamento, con la differenza che in questo caso sarebbe molto facile ribellarsi senza prendere manganellate dalla polizia in piazza, basterebbe che il popolo si organizzasse e rifiutasse in massa certe imposizioni. Ma più che una dittatura la moda sembra una religione, ha proprio le sembianze di un credo organizzato e riconosciuto, per niente apocrifo; la moda è anch’essa fatta da precetti e dogmi, è una religione politeista che ha come dèi e profeti stilisti, influencer, personaggi dello spettacolo e santoni su TV e riviste, mentre i precetti consistono nell’adeguarsi alle tendenze e nel cambiare con loro; non seguirle è peccato, sarebbe come allontanarsi da Dio, indossare capi fuori moda è addirittura peggio, è come essere blasfemi. E se le religioni sono il frutto della paura della morte fisica la moda è il frutto della paura della morte sociale; la religione si segue ciecamente per sperare di non soccombere nell’aldilà, la moda invece si segue per sperare di non soccombere sulla terra. E la paura è così forte che spesso anche il non credente o il credente tiepido segue i precetti in maniera praticamente inconscia, proprio come nella religione.

La moda in ogni caso è un cancro da estirpare della società, porta tutta una serie di conseguenze negative. Ho già parlato del fast fashion e del suo impatto devastante sull’ambiente, se scegliessimo uno stile più personale, consolidato e duraturo il problema sarebbe forse di minor portata. Il peggio però si verifica a livello psicologico; la moda può rendere la gente insicura, alimentare il senso di inadeguatezza e la mancanza di autostima, la paura di non essere accettati può portare l’individuo ad una vera deriva psicologica; e anche fisica, quante ragazze giovanissime e meno si sono rovinate l’esistenza o sono cadute in anoressia per seguire quei fastidiosi dettami. La moda può creare divisioni fra gli individui, può creare rivalità fra chi è più “figo” e chi più “sfigato”, la moda non unisce, divide. La moda crea tremendi stereotipi che finiscono per radicarsi nella società e relegare al margine determinati individui. La moda crea inoltre una società dell’apparire, in cui si afferma la convinzione che il contenitore sia più importante del contenuto, che il modaiolo sia più interessante del professore pazzo dall’aspetto trasandato, quando poi basta parlare con entrambe le persone ed accorgersi del contrario; perché chi segue la moda probabilmente è una persona che non ha idee sue e quindi sceglie di percorrere sentieri già ampiamente battuti. La moda inoltre accresce il culto dell’uso e getta, infonde quella mentalità secondo la quale nulla deve durare per sempre, nulla deve restare, tutto deve fare i suoi tempi ed essere poi sostituito, essere usato e poi distrutto e rinnegato. Ma soprattutto la moda rende la società tremendamente piatta e ripetitiva, annulla la personalità degli individui e la gente diventa tristemente tutta uguale, non stimola più la voglia di scoperta e di conoscenza, non capisco cosa ci si trovi di divertente nell’andare nei luoghi della socialità e vedere gente tutta uguale, che noia e che tristezza! A me piacerebbe andare in una piazza affollata e vedere la pin up anni ’50, il paninaro anni ’80, il pigoldino anni 2000, il metallaro, il punk, o anche quello che con nonchalance mescola gli stili a proprio piacimento (e non riderei nemmeno se vedessi anche il signore dell’ottocento e la maschera di carnevale), e mi piacerebbe che questi venissero visti come persone libere e creative anziché come ridicole e démodé; mi piacerebbe che una volta per tutte si smettesse di parlare di “moda” e si parlasse solo di “stile”, un qualcosa che ognuno crea per sé e che va sempre bene in qualsiasi epoca.

Ad essere sincero le persone che fanno più ridere sono proprio quelle più “trendy” o che tentano di esserlo! Perché ogni loro manifestazione non è spontanea, è una forzatura, lottano contro un nemico inesistente e contro loro stesse, contro la loro libertà, compiono uno sforzo che non porta a nessuna ricompensa ma solo all’illusione di essere ammesse in un regno dei cieli che in realtà non esiste, corrono alla ricerca di qualcosa ma nemmeno loro sanno cosa… e tutto questo fa ridere! Quando indossano i loro fighissimi abiti guardandosi allo specchio non si stanno vestendo, si stanno travestendo, perché non si stanno vestendo da “loro stesse” ma stanno impersonando qualcun altro, e l’effetto non può che essere assolutamente buffo!

Tuttavia c’è da dire che forse, ma proprio FORSE, le cose stanno cambiando: siamo nell’epoca in cui si stanno sfatando molti tabù, in cui più o meno tutto è possibile, in cui si pesca liberamente da qualsiasi epoca e ci sono numerose manifestazioni di revival, in cui si cerca di combattere le discriminazioni contro chi è “diverso” dagli altri, in cui si ribadisce più spesso l’importanza di essere sé stessi, in cui il mondo si presenta almeno sulla carta più inclusivo e aperto a una vasta gamma di modelli; sembrerebbe che la scelta di avere un proprio stile oggi sia decisamente più accettata che in passato, su Instagram si vede un po’ di tutto, anche se i pregiudizi non sono stati del tutto sconfitti. Io personalmente consiglierei a chiunque di fare di testa propria e di non avere paura né di sembrare fuori moda e né di sembrare ridicoli… nemmeno di sembrare carnevaleschi! Ricordatevi che il carnevale non è la festa in cui ci si mette in maschera ma quella in cui si tolgono le maschere che solitamente si indossano durante la vita; e che l’unico modo veramente ridicolo di vestirsi è quando si cerca in maniera rigorosa e convinta di seguire la moda!

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editoriale di splinter

Ormai sappiamo un po’ tutti cosa vuol dire salvare il pianeta, ce lo ripetono su televisioni e giornali fino allo sfinimento e forse (ripeto, FORSE) stiamo entrando nell’epoca dell’azione concreta dopo anni di chiacchiere e sottovalutazione del problema, quella in cui le autorità stanno mettendo sul tavolo soluzioni concrete.

Però… c’è un però: l’azione delle autorità non è sufficiente, serve il contributo di ogni singolo cittadino del mondo, se dall’alto si cercano soluzioni per ridurre le emissioni di gas serra e il consumo di acqua il cittadino deve cercare quanto più possibile di rivedere le proprie abitudini e limitare i consumi. Ma siamo davvero sicuri che i cittadini siano in grado di fare questi piccoli sacrifici? Siamo davvero sicuri?

Salvare il pianeta vuol dire ad esempio viaggiare di meno. Gli studi attribuiscono al traffico aereo e ai viaggi un impatto all’incirca dell’8% sul riscaldamento globale. Molti intervistati (meno del 50% comunque) sarebbero disposti a rinunciare ai viaggi aerei o a parte di essi, ma la mentalità generale che imperversa sui social è decisamente viaggiatrice: post che ci fanno credere che chi non viaggia è perduto, che chi non viaggia muore, non scopre altre culture e diventa perfino razzista o robe simili, a cui va ad aggiungersi la gente che intasa i profili altrui con spiagge tropicali, foto con cocktail, chiappe al vento, grattacieli e città sterminate… e non solo stagionalmente ma più volte all’anno. Tutto questo quando invece in Italia abbiamo bellissime spiagge e luoghi di cultura invidiati in tutto il mondo. Tutto il mondo ha creato una società e un’economia basata sul turismo di massa, il turismo è per molti paesi una primaria fonte di guadagno, sarebbero questi in grado di rinunciarvi sapendo che vorrebbe dire perdere entrate sicure? E la popolazione sarebbe veramente in grado di contenere questi istinti da esploratori folli? La storia recente ci suggerisce che l’uomo non è capace di evitare i disastri, lo ha dimostrato durante l’estate 2020: reduci dalla terribile prima ondata di Covid-19, con il virus che in alcune aree non aveva frenato del tutto la propria circolazione, ci era stato fortemente consigliato di rimanere nel nostro paese, e invece… tutti hanno spinnato per andare in Croazia, Spagna, Malta, ecc. riportando le forme gravi e facendo ripartire alla grande l’epidemia. E si trattava di comportamenti in grado di ucciderci in breve tempo, figuriamoci in questo caso dove le ripercussioni sono nel lungo periodo…

Salvare il pianeta vuol dire anche usare molto meno le automobili. Siamo sicuri che la popolazione voglia veramente fare a meno delle automobili? Quando osservo le strade nelle ore di punta ogni volta penso “mamma mia, quante macchine, quanti veleni nell’aria!”, mentre sui social girano post che mostrano quanto spazio occupano tutte quelle macchine e quanto più libera sarebbe quella strada se quelle stesse persone fossero concentrate in un mezzo pubblico. Io che vivo nell’hinterland milanese so che gran parte di questo è raggiungibile abbastanza agevolmente con il servizio pubblico, che tra l’altro permetterebbe agli utenti di risparmiare notevoli costi relativi al mantenimento dell’automobile e anche ad evitare lo stress mattutino legato alla paura di non arrivare in tempo per via del traffico o del parcheggio che non si trova. Ma non c’è niente da fare, la gente, anche secondo diversi sondaggi, sembra preferire nettamente l’auto, probabilmente per quel senso di autonomia e di controllo della situazione che essa offre, quando parli con certa gente sembra che il passaggio alla bicicletta o al mezzo pubblico sia persino follia, non passa nemmeno per l’anticamera del loro cervello. Posso capire che alcuni grandi spostamenti è meglio farli in piena autonomia e senza grossi sbattimenti, il problema è che l’auto viene utilizzata anche per spostamenti di pochi chilometri, ma ho visto addirittura utilizzarla per brevissimi tragitti effettuabili tranquillamente anche a piedi, quasi ignorando o fingendo di ignorare il beneficio fisico del camminare; magari anche gente che la prende per recarsi alla palestra situata all’altro capo della strada e fare attività fisica leggera quando si faceva prima a correre sui percorsi pedonali o nelle campagne. Anche dai piani alti però non sembra farsi molto per scoraggiare l’uso dell’auto in favore del trasporto pubblico e ciclabile: almeno da noi, le piste ciclabili non sono ancora onnipresenti, sono molteplici le zone non raggiungibili con i mezzi pubblici (come se venisse dato per scontato che ad un certo punto uno si automunisca), a Milano poi il prezzo del biglietto viene addirittura aumentato e le corse tagliate. Ci si mette poi anche la pubblicità: in tutti questi decenni sono passati in TV così tanti spot di automobili che se andiamo a scavare nella nostra mente ce ne vengono in mente a bizzeffe, alcuni particolarmente teatrali e memorabili, pensiamo poi a quante canzoni sono diventate celeberrime grazie agli spot automobilistici; quanti spot di biciclette invece abbiamo visto? Io ne ho contati giusto giusto due sulle TV locali. Come si fa ad incoraggiare la svolta ecologica se nella mente del popolo viene inculcata solo una mentalità automobilistica? Il ciclista viene persino deriso sui social, il ciclista non è quello che ama l’ecologia, è quello che invade la carreggiata, quello indisciplinato, quello che rallenta il traffico (sai com’è, sono tutti di fretta) e altre dicerie simili, e la costruzione di una pista ciclabile viene spesso vista come un fastidioso restringimento della carreggiata anziché un’opportunità.

Salvare il pianeta vuol dire anche ripudiare il fast fashion, responsabile di circa il 18% delle emissioni di CO2, e imparare a comprare meno capi ed utilizzarli il più a lungo possibile. La gente sarebbe disposta a farlo? Non saprei, ogni volta che cominciano i saldi i centri commerciali si intasano di gente che non vede l’ora di accaparrarsi il capo all’ultima moda, continuamente spinta dall’influencer di turno su TikTok o Instagram che autoproclamatasi ministra della moda ha decretato quali sono i capi cool da comprare subito e quali invece sono out e vanno stipati nel fondo dell’armadio, influencer che, specie dalle giovanissime e più incoscienti, viene seguita senza minimo giudizio come fosse una dea, come fosse vangelo; così come anche gli articoli delle riviste online che con toni dittatoriali ti dicono di dire “addio a quei vecchi pantaloni, questi sono gli unici jeans che vorremo indossare la prossima stagione”, in quante inconsciamente abboccano, guai a non essere al passo con i tempi, sarebbe un’eresia… Comprare e comprare vestiti magari di scarsa fattura che non avranno nemmeno una vita così lunga per poi doverne comprare subito di nuovi perché i “vecchi” (fra virgolette, sia chiaro) cadono già a pezzi, costringendo queste aziende ad aumentare la produzione per stare dietro a questa sfrenata voglia di shopping (il fenomeno Primark è lì a dimostrarlo) e di conseguenza le emissioni e il consumo di acqua. Ma dico io, ma davvero non avete niente da mettervi? Ma che ve ne fate di tutti quegli abiti che poi manco mettete? Lo sappiamo bene ormai che avete un sacco di roba nell’armadio e che vi lamentate di non aver nulla da mettere! E poi è davvero così necessario essere all’ultimissima moda? Fate schifo se non lo siete? Ma creare un vostro stile personale no eh? E non vi accorgete che dopo un po’ diventate anche tutte tristemente uguali… e contribuite inconsciamente al disastro.

Ma attenzione! C’è anche un culto, un rito annuale che ha un impatto ambientale più devastante di quanto si possa pensare: il Natale. Una festa in grado di produrre in pochi giorni circa il 6% della CO2 che produciamo in un anno, oltre che una quantità incalcolabile di carta da imballaggio (spesso non riciclabile), un notevole consumo di elettricità e chi più ne ha più ne metta. E anche questa è un’abitudine che si può benissimo rivedere e correggere ma vai a farlo capire alla gente. Anche qui la pandemia fa scuola, con gli ospedali pieni e la gente che moriva, tutti si riversavano comunque a fare regali, Piazza del Duomo a Milano stracolma come se nulla fosse, mentre l’anno successivo (pur con i vaccini e un virus meno aggressivo), nonostante l’ampia circolazione virale, tutti in coda a fare tamponi perché guai a rinunciare al cenone di Natale. Non li ha fermati una minaccia virale immediata, può farlo una minaccia a lungo (anzi, ormai breve) termine? Eh, come fai a levare dalla testa della gente una tradizione consumistica ormai consolidata? Pubblicità e parenti ci hanno fatto fin da piccoli una testa tanta con ‘sta storia del Natale, tant’è che ora è una cosa praticamente automatica quanto dovuta. È normale e dovuto fare l’albero di Natale (e tenerlo acceso consumando un sacco di corrente), e soprattutto è normale e dovuto fare centinaia di regali, guai a non farli, è mancanza di rispetto, è disinteresse, è egoismo. In realtà ve lo dico io cos’è, falsità ed ipocrisia, oltre che ignoranza e indifferenza. Fate regali forzati a gente che non cagate di striscio per tutto l’anno, magari vi scannate pure… però “Buon Natale!”, esprimete emozioni che non sentite soltanto perché vi hanno detto che bisogna essere più buoni, ignorate il vero significato del Natale e mentre fate ciò che vi è stato detto di fare dalle lobby non sapete che state dando il vostro piccolo ma pesante contributo alla distruzione del pianeta.

E poi c’è una questione che tiene banco ormai da diverso tempo, e anche questa sembra passare sotto gli occhi della gente con un certo senso di indifferenza: la crisi idrica. Salvare il pianeta vuol dire anche salvare le risorse idriche e sprecare meno acqua. Ma la gente sarebbe disposta davvero ad usarne di meno? A leggere i social sembrerebbe di no. Gran parte della popolazione fa un numero spesso eccessivo di docce a settimana, numeri che arrivano perfino alla doppia cifra in alcuni paesi asiatici e sudamericani, tanti la fanno addirittura senza chiudere il rubinetto durante la fase di insaponatura; ma anche senza andare troppo lontano, rimanendo anche solo sui social e nelle chiacchierate amichevoli possiamo farci un’idea di cosa pensa la gente in merito. Quando senti parlare la gente secondo loro la doccia quotidiana è assolutamente sacrosanta e indiscutibile, anche nei mesi autunnali e invernali dove si suda decisamente poco e anche se non lavorano in fabbrica con forni e sostanze chimiche, in estate poi si arriva addirittura alle 3 al giorno, nonostante contro il caldo appiccicoso si possa fare decisamente poco. Come se la doccia avesse poteri magici. Quando spunta l’articolo che mette sul banco l’ipotesi di ridurre il numero di docce settimanali per scongiurare la crisi idrica ecco che arriva l’orda dei sapientoni che dicono di “non dare questi consigli malsani ora che sta arrivando la stagione calda” o che tira in ballo il fatto che sui mezzi pubblici ci sono millemila odori, come se l’igiene personale fosse efficace al 100% contro i cattivi odori; e grazie al cazzo, sono tutti stati abbindolati per anni e anni dalle pubblicità dei deodoranti che ti fanno addirittura credere che “più sudi e più profumi”… Per il genere umano poi l’odore è qualcosa da nascondere, al contrario del restante mondo animale, l’odore di sudore è una cosa normalissima e invece no, la gente deve nasconderlo con ettolitri di deodorante, o meglio deve cercare di nasconderlo, darsi l’illusione di poterlo fare quando invece i miracoli non esistono. Viene ignorato poi anche il fatto che l’odore personale sgradevole può dipendere anche da altri fattori e malattie, per la gente uno che puzza è semplicemente una persona che non si è lavata e basta, una persona da mettere alla gogna, magari non è colpa sua ma fa niente, è da emarginare per le proprie abitudini e basta; e viene ignorato anche il fatto che l’eccessiva igiene può portare la pelle a liberarsi di batteri buoni, a seccarsi, a diventare più sensibile e a sviluppare malattie, e lo dicono i dermatologi, mica io; un’ignoranza diffusa e un senso di intolleranza che ci stanno trascinando in un dissesto idrico senza precedenti. Voglio vedere come questi maniaci della pulizia si laveranno quando per colpe anche loro dai rubinetti uscirà aria…

Queste sono solo alcune delle abitudini che possiamo modificare. Ma alla gente sembra non fregare nulla di questo riscaldamento globale, anzi, a tratti sembra quasi contenta che il clima diventi più caldo. Ogni anno la gente non vede l’ora che arrivi l’estate, di tuffarsi in mare, di invadere le spiagge e le discoteche all’aperto, e quando l’estate non è lì va a cercarla ai tropici o nell’altro emisfero. Per la gente l’inverno è depressione, buio, freddo. Perché è stata educata così, anche qui pubblicità e media hanno fatto il suo sporco mestiere, tanta pubblicità a gelati (l’Algida e il suo “cuore di panna”), agenzie viaggi, crociere, creme solari. Anche le canzoni non hanno fatto eccezione, le canzoni più ricordate e cantate sono legate all’estate o hanno un’ambientazione estiva, pensiamo a “Sapore di sale”, “Abbronzatissima”, “Stessa spiaggia, stesso mare”, ma anche all’estate che “vorrei potesse non finire mai” dei Negramaro, pensiamo ai cantanti di lingua spagnola che ogni anno sono lì a progettare il successo per l’estate magari allegandoci un balletto da dare in pasto ai villaggi turistici, pensiamo ai videoclip commerciali che sono ambientati più volentieri su spiagge e piscine con ragazze in abiti succinti che non su piste da sci o in Islanda. Per la società devi vivere solo in funzione dell’estate, del sole e del mare, non ci hanno mai educato a trovare del romanticismo nella pioggia, nella nebbia, nei campi bianchi di brina, negli alberi spogli e nelle foglie secche, nel fruscio del vento, forse lo hanno trovato i più intellettuali e colti, quelli più indifferenti alla mondanità, quelli che hanno capito che il monopolio estivo è tutta una trovata pubblicitaria… Quando il clima è precocemente caldo la gente non sembra preoccuparsi minimamente, anzi invade le spiagge e racconta con fierezza di aver fatto il bagno a marzo, questa gente vedrebbe in un ulteriore riscaldamento atmosferico un’opportunità anziché una minaccia… solo però quando le fa comodo, quando non fa più comodo si rintana in casa con il condizionatore sparato a manetta sul 16 già alle 8 del mattino, altra abitudine non proprio amica dell’ambiente né della salute, vogliono la botte piena e la moglie ubriaca, vogliono l’estate ma non vogliono sudare, vogliono il caldo ma si lamentano dell’odore di sudore altrui, vogliono il fuoco in spiaggia e il ghiaccio in casa; in ogni caso voglio proprio vedere se gioiranno ancora quando ci saranno eventi catastrofici, la loro casa sarà sommersa e le temperature saranno veramente da inferno dantesco.

Insomma, dopo tutte queste riflessioni possiamo arrivare al punto e farci la domanda. La gente cambierà davvero le proprie abitudini? È questa la popolazione a cui chiedere di salvare il pianeta? In tutta franchezza… NO!!!

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editoriale di splinter

Ci hanno accompagnato nei momenti peggiori della pandemia, quando in assenza di vaccini erano l’unico strumento in grado in qualche modo di proteggerci da un nemico invisibile e pericoloso, probabilmente meno efficaci del totale isolamento e della rinuncia a qualsiasi relazione sociale. Speravamo che una volta conclusa la florida campagna vaccinale ci saremmo definitivamente liberati di queste odiose mascherine e invece continuano a menarcela per paura che il virus possa di nuovo riservare scenari come quelli del marzo 2020. In sostanza il virus non è più il nemico pubblico di due anni fa ma ci viene a volte chiesto di comportarci come allora, con il risultato che qualcuno di tanto in tanto crede davvero di trovarsi ancora di fronte alla peste bubbonica, continuando ad indossare queste orrende pezze sul muso anche in situazioni con bassissima probabilità di contagio, come incontrando un gruppo di poche persone o in luoghi non particolarmente affollati.

Personalmente considero il fatto di dover proteggere le vie respiratorie nonostante tre dosi di vaccino un’assurdità totale. Pensa che cosa strana, mi sono vaccinato, il virus difficilmente può farmi davvero male (dovrei essere proprio sfigato perché ciò accada) ma devo essere prudente lo stesso, è un controsenso. È un estremo rimedio per un male non estremo (o meglio, non più estremo), un non voler accettare nemmeno le malattie nella loro forma più leggera. Interessante la posizione espressa da Vittorio Sgarbi in uno dei suoi molteplici interventi: è l’unico periodo della storia in cui la malattia, anche quando ormai leggera e curabile, viene considerata un qualcosa da scongiurare totalmente, in passato la malattia è sempre stata considerata un incidente di percorso, da curare per poi tornare alla normalità, questo atteggiamento iperprotezionista che porta ad evitare totalmente la malattia è un fenomeno sostanzialmente nuovo.

Ma arriviamo al succo del discorso. Il bello è che tutti dicono “eh ma cosa vuoi che sia una mascherina…”, come se una mascherina sul volto fosse niente… invece è tanto, è tristemente tanto. Partiamo da un semplice presupposto: le mascherine, perlomeno nella fase post-vaccinale, sono state il principale oggetto dei provvedimenti presi per paura che il contagio potesse ancora far disastri, alle avvisaglie di risalita la prima decisione riguardava il ripristino del loro utilizzo in determinati luoghi e contesti. Riflettiamoci su, se indossare le mascherine fosse normale quanto indossare le scarpe allora il problema non si porrebbe, le indosseremmo ogni volta che usciamo di casa e il discorso sarebbe chiuso; pertanto, se ogni volta che le forze governative si riuniscono con quelle scientifiche la questione sul tavolo riguarda l’uso delle mascherine e l’obiettivo è quello di abolirne l’obbligo in determinati contesti allora vuol dire semplicemente che indossarle non è proprio una cosa normale! Madre Natura non ci ha certo fatto con un mascherina in volto e a lungo andare la mascherina può diventare fastidiosa e soffocante, causare l’appannamento degli occhiali (anche se esistono prodotti appositi) e per chi soffre di alitosi risulta ancora più atroce; inoltre proteggersi troppo può disabituare l’organismo all’esposizione di virus e batteri, si va a creare un debito di immunità di cui gli scienziati hanno spesso parlato in quest’ultimo periodo, il risultato è che le successive esposizioni ai virus possono diventare più pesanti, il ritorno in grande stile dell’influenza stagionale è lì a dimostrarlo.

Ma ci sono altre problematiche. La mascherina può rompersi accidentalmente, si può perdere o a volte non si sa dove mettere. Non dimentichiamo l’impatto sull’ambiente, con rischi legati alla loro dispersione e alla diffusione di microplastiche, oppure l’impatto sull’economia, la produzione di mascherine è senz’altro un costo, specialmente quando si tratta di produrle per tutta la popolazione in molteplici esemplari.

Ciò che rende però assolutamente triste la mascherina è semplicemente il fatto che occulta gran parte del viso, con le mascherine non ci si vede in faccia, e vuol dire tanto! Pensate cosa succederebbe se l’uso delle mascherine divenisse normale come l’uso delle scarpe, immaginate i visi delle persone costantemente e definitivamente coperti, immaginate proprio delle persone senza volto: saremmo semplicemente degli omini stilizzati che camminano, senza identità e senza emozioni, saremmo dei freddi robot. Il viso non è una parte del corpo qualsiasi, coprire un viso non è come coprire un braccio, una gamba o la pancia, il viso è l’elemento che più ci distingue e che più dà informazioni su di noi, è il viso il primo elemento di riconoscimento di una persona (sui documenti di riconoscimento mettiamo la nostra faccia, mica un braccio o una gamba), ma anche di ricordo e di attrazione. In un recente corso sulle competenze trasversali ad un certo punto ci veniva chiesto di associare ad ogni espressione facciale (era la stessa persona con espressioni diverse) un’emozione; ora immaginate di mettere una mascherina a ciascun’immagine… le immagini diventano tristemente tutte uguali e le facce diventano facce senza emozioni, facce che non dicono nulla, la persona praticamente smette di comunicare e diventa una delle tante. Secondo molti esperti il linguaggio non verbale è più importante di quello verbale, rappresenta addirittura il 70% della comunicazione, è chiaro che in questo modo ci perdiamo molte informazioni preziose circa la persona che abbiamo davanti, un lato importante della persona viene proprio a mancare. Riguardo al riconoscimento ricordiamoci quante volte abbiamo fatto fatica durante questi due anni a riconoscere una persona, qualche volta ci siamo dimenticati di salutarla oppure abbiamo fatto tremende figuracce perché la persona da noi importunata per strada non era quella che pensavamo. Per non parlare di quello che succede nelle scuole, forse il primo luogo in cui i bambini imparano a socializzare e confrontarsi con l’altra persona; immaginiamo che l’uso delle mascherine a scuola divenisse normalità... succederebbe che i bambini potrebbero non sviluppare la comprensione proprio di quel linguaggio non verbale, così come la memoria associativa legata ad un volto e ai suoi tratti; immaginate poi che un giorno gli venisse chiesto che ricordo ha della sua maestra (e più avanti professoressa) e dei suoi compagni (perlomeno quelli con cui non ha sviluppato un rapporto extrascolastico) e lui rispondesse “non saprei, erano sempre con la mascherina”, pensate che tristezza assoluta. Il viso è inoltre la cosa che spesso guardiamo per prima nell’altra persona, quella che il più delle volte determina se la persona ci attrarrà fisicamente oppure no; con la mascherina sparisce un importante (o forse il più importante) elemento di attrazione e valutazione, fa proprio da barriera, isola i soggetti e li mette praticamente in condizione di non incontrarsi, di non conoscersi a fondo, il gioco stesso della seduzione verrebbe a morirebbe; quante volte abbiamo visto una persona apparentemente di bell’aspetto fisico e alla rimozione della mascherina risultava avere un viso insignificante, non entusiasmante o addirittura di pessimo aspetto (in parole povere “un cesso”).

Alla luce di tutto questo mi chiedo come mai non si sia fatto un serio lavoro di sviluppo e promozione di mascherine trasparenti, in grado di salvaguardare sia la salute pubblica sia il rapporto umano; si è fatto giusto per le persone con difficoltà comunicative, affette da sordità e simili, allora perché non estenderle a tutta la popolazione? Non nascondo poi che mi piacerebbe, il giorno che finalmente si potrà dichiarare la pandemia conclusa, che queste mascherine venissero addirittura vietate, magari con lo scopo di rieducare la gente ad una socialità priva di psicosi e di riabilitare le coscienze al fatto che siamo umani e in quanto tali siamo vulnerabili e mortali; magari prendendo spunto da quanto fatto da Sgarbi a Sutri, facendo leva su quella famosa legge che vieta di comparire in pubblico con il volto coperto senza giustificato motivo, non sussistendo più questo giustificato motivo.

Anche perché a lungo andare la mascherina può essere anche oggetto di conflitti, si sono registrati casi di persone che si sono scontrate fisicamente con i gestori di locali che hanno chiesto di indossarla, ma senza citare i casi estremi immaginate come può sentirsi una persona che vede un’altra persona alzarsi la mascherina al suo arrivo: “ho la peste?”; si crea una sorta di conflitto biologico che riporta alla mente la caccia all’untore della peste manzoniana, una guerra nella guerra, o meglio, la fine di una guerra e l’inizio di un’altra.

C’è chi poi come Pregliasco ha proposto che le mascherine diventassero persino accessori moda… ma hanno davvero le carte in regola per esserlo? No, francamente no! Le mascherine chirurgiche hanno l’aspetto di pannolini spiaccicati in faccia, quelle ffp2 invece hanno l’aspetto di maschere antigas, specie quelle con il filtro, e non mi pare che ci sia mai stato nulla di “cool” in un pannolino o in una maschera antigas. Le mascherine sono semplicemente indumenti kitsch e continueranno ad esserlo, altrimenti le fashion blogger le avrebbero mantenute e probabilmente reinventate con la loro fantasia.

E allora dopo tutto questo lungo discorso la mia domanda è: avrebbe senso ancora rinunciare ad una parte importante del proprio aspetto solo per proteggersi da un virus ormai non più particolarmente problematico e che ora provoca solitamente sintomi lievi che si risolvono in pochi giorni? È ancora un male estremo che richiede un estremo rimedio? Forse la cosa potrebbe essere ancora sensata per le persone più fragili ma si finisce sempre sul solito discorso. Da come le cose vengono raccontate sembra che questi soggetti non possano minimamente sentirsi sicuri con il vaccino, invece li protegge eccome, basterebbe che tutti questi soggetti facciano la dose di richiamo quando indicato dagli organi sanitari di maggior rilievo, ordine che finora è stato ignorato dai più. Dopotutto, se voi foste nonni sareste disposti ad accettare che i vostri nipotini non vi ricorderanno un giorno per il vostro sorriso smagliante? Immaginate il tema “Descrivi tua nonna” e la frase “non ricordo la sua espressione né conosco il suo sorriso, indossava sempre una mascherina per paura di morire”, fa tristezza solo a pensarci.

Non dobbiamo accettare nulla di quello che abbiamo accettato in questi anni pandemici, le mascherine, il saluto col gomito, la distanza, la rinuncia ad abbracci, baci e strette di mano, dobbiamo salvare i rapporti umani pur a costo di un margine di rischio leggermente più alto (si rimanda al mio precedente editoriale). La stragrande maggioranza della popolazione non lo sta accettando e mi sembra un’ottima cosa.

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editoriale di splinter

Premessa: so che questo articolo potrebbe apparire estremamente cinico e agghiacciante, che potrebbe anche urtare la sensibilità di qualcuno, in realtà non lo è affatto perché non fa altro che delineare una nuda e cruda verità sull’essere umano; è un invito a riflettere e a rivedere alcuni aspetti della nostra psicologia.

La pandemia di Covid-19 ha infatti messo in luce più che mai una verità assolutamente scomoda, non nuova ma mai troppo sbandierata fino ad ora: l’uomo non sa accettare la morte e la malattia, non sa convivere pacificamente con la loro natura.

Siamo tutti d’accordo, morire non è bello, anzi è bruttissimo, quindi ben venga la prudenza, le cure, i vaccini, la vita sana, la limitazione dei rischi e tutto ciò che può ritardarla il più possibile… Però è una cosa naturalissima, una delle cose forse più naturali del mondo, la fine ovvia di un ciclo vitale. Invece viene vissuta come una tragedia, come un fatto gravissimo, tanto grave da arrivare a condizionare le scelte umane, a costituire un freno alle azioni e a prendere decisioni drastiche e spesso esagerate.

Ricordo ancora quando morì Giovanni Paolo II, ma anche i giorni immediatamente precedenti. A parte che da ateo e antireligioso mi verrebbe da dire “ma chi cazzo sarà mai il Papa?”, ricordo comunque come tutto fu fermato, trasmissioni televisive, persino i campionati di calcio, così come ampie porzioni di stampa dedicate all’agonia del Pontefice… che non era ancora morto, solo tremendamente sofferente. Ricordo poi come il funerale paralizzò l’intero palinsesto, tutte le emittenti televisive collegate col Vaticano, persino MTV che di solito si fermava massimo 5 minuti per il notiziario. Mi viene da domandarmi… In un mondo più consapevole della mortalità e della fragilità umana verrebbe mai interrotta la vita e verrebbe mai fermato il calcio e il palinsesto televisivo solo perché il capo di una confessione religiosa che non interessa necessariamente a tutti sta morendo perché ormai vecchio e malato?

Ho visto poi un simile copione ripetersi in occasione dell’agonia di Nelson Mandela. Clima di apprensione generale e manifestazioni disperate, preghiere con invito a restare in vita ancora a lungo, tutte manifestazioni che sembravano delineare il profilo di un’umanità che non voleva proprio accettare che un uomo di 95 anni ormai malato si stesse spegnendo.

Il top della non accettazione della morte però lo raggiungiamo con i casi di finte vite prolungate all’infinito. Da Eluana Englaro a Welby fino a Dj Fabo, persone la cui vita si era ridotta all’impossibilità di fare qualsiasi cosa, una non vita che loro stessi erano volenterosi di interrompere… e invece no, la si voleva portare avanti anche quando non aveva più nulla da dire, quando non era vita; non si vuole accettare la morte nemmeno quando questa è già cosa concreta, si preferisce una non vita sofferta a una dolce morte, la morte è così un tabù che piuttosto che incontrarla meglio triplicare le sofferenze.

Ed è un tabù anche solo parlarne o accennarla. Attingendo dalle esperienze personali ricordo quando da piccolo si giocava al gioco dell’impiccato o degli anagrammi e venivo fortemente stigmatizzato quando facevo indovinare ai parenti parole come “ambulanza” o “ospedale” (“dai, non sempre parole brutte” dicevano); come se ai bambini si volesse nascondere la triste verità, come se ai bambini si dovesse dire che tutto è bello, che le cose brutte non esistono, poco importa se poi cresceranno in un mare di illusioni e non sapranno digerire le sconfitte della vita.

Ma veniamo ad oggi. In definitiva però la pandemia di Covid-19 è un lampante esempio di non accettazione della morte e addirittura semplicemente delle malattie, e a mio avviso è la sola cosa che nel lungo periodo ci impedirà di dichiarare finita l’emergenza. Finché non disponevamo dei vaccini l’emergenza aveva senz’altro senso, avevano senso le mascherine, aveva senso il distanziamento, il non incontrarsi se non necessario, aveva senso il lockdown ferreo. Perché si era tutti in una situazione di grave rischio, di rischio inaccettabile, una situazione in cui facevi un passo sbagliato o di troppo ed eri morto; una marea di gente che stava bene ed improvvisamente si ritrovava con un tubo in gola solo per essere stata a cena con gli amici o a sciare, come se ogni attività sociale fosse improvvisamente diventata uno sport estremo; e succedeva a tante persone in breve tempo, tanti personaggi famosi ricoverati nel giro di pochi mesi non si erano mai visti.

Poi sono arrivati i vaccini che hanno reso la malattia sostanzialmente leggera, col tempo lo stesso virus è diventato più leggero seppur molto più contagioso, non si sente praticamente più notizia di un personaggio famoso che viene ricoverato per Covid, abbiamo visto poi ammalarsi un sacco di amici e parenti ma è stata per tutti un’influenza o poco più, il ricovero o peggio la morte è ora una fatalità che riguarda fondamentalmente le persone più fragili. Eppure nonostante tutto il Covid continua a venirci presentato come se fosse la peste, reclamando prudenza come se ancora si rischiasse la morte sul colpo, menandola ancora con mascherine e distanziamento, mostrando timore nel rimuovere restrizioni draconiane ormai non più commisurate al rischio... anche se siamo vaccinati.

Ancora oggi sentiamo ai telegiornali titoloni allarmanti del tipo “oggi superati 100.000 contagi, aumenta il tasso di positività, aumentano i ricoveri, più di 100 i morti”, “tragediaaaaa” aggiungerei io, arriva poi il virologo di turno che fa la sua solita retorica sulle mascherine, sul distanziamento, sulla presunta pericolosità dei grandi eventi; mai una volta che vengano sottolineati gli aspetti positivi, tipo che una buona fetta di accessi in ospedale non avvengono per Covid ma i pazienti scoprono di averlo dopo il tampone (scorporarli dal computo totale no eh?), che i ricoveri per Covid riguardano in gran parte persone già dotate di fragilità pregressa e/o particolarmente anziane, che una fetta di persone ricoverate non erano vaccinate (e qui direi “chi è causa del suo mal pianga se stesso”), e che in ogni caso i numeri sono molto lontani da quelli delle ondate pre-vaccinali. Come se non bastasse ogni caso di positività di un personaggio della televisione, della politica o dello spettacolo viene spiattellato con un altro titolone ad effetto “Tizio è positivo al Covid”, “Caio è positivo al Covid”, poco importa se questi è vaccinato con tre dosi e pertanto ha i sintomi di un raffreddore o l’ha scoperto per caso in uno screening, per i giornali è un fatto grave e clamoroso come se avesse contratto la peste. In alcuni casi lo stesso contagiato ne approfitta per fare retorica insopportabile, da Lilli Gruber che si mette ad elencare tutti i sintomi e dice di essersi pentita di alcuni comportamenti spavaldi (gli abbracci) manco si fosse buttata da un ponte fino alla concorrente di Amici che raccomanda le mascherine. Poi c’è Selvaggia Lucarelli che attribuisce i morti alla mancanza di buonsenso e viene raggiunta da trafile di commenti di persone che raccontano di essere state malissimo nonostante le tre dosi di vaccino, come se le influenze nelle passate stagioni fossero delle passeggiate di salute…

Una modalità di comunicazione che non può che riflettersi sui comportamenti del popolo. All’abolizione dell’obbligo di mascherine ancora più di metà di chi entrava all’Esselunga dalle mie parti la indossava, ma anche sui social trovi una mega-trafila di persone che dicono “continuerò ad indossarla".

Il messaggio che con questa comunicazione può passare è: “Cosa l’abbiamo fatto a fare il vaccino se poi devo comportarmi ugualmente come un appestato? Io speravo che dopo il vaccino mi sarei sentito sicuro, non più a rischio”, un messaggio che può contribuire a creare una nuova e fitta schiera di ipocondriaci; ma è anche un messaggio che può addirittura diventare un boomerang e risultare potenzialmente pericoloso e in grado di nutrire la già sostenuta schiera no-vax: “Cosa vi siete vaccinati a fare che tanto vi state tutti ammalando e morendo lo stesso?” (senza nemmeno saper interpretare e confrontare i numeri)…

Quello che poi ho notato è che al verificarsi di un aumento significativo dei contagi e dei morti l’apparato politico-sanitario tende a scaricare le colpe in maniera generale e non mirata, così che anche il popolo più civile ed educato - quello che si è regolarmente vaccinato e nelle fase più acute della pandemia (quelle precedenti al vaccino) ha rigorosamente rispettato le regole - finisce alla gogna solo per il fatto di essere tornato meritatamente alla normalità: se muoiono le persone fragili o non vaccinate la colpa è automaticamente di chi è andato a vedere Vasco o il Palio di Siena; anche le varie misure intraprese nella fase post-vaccinale sono sempre state generalizzate quando potevano benissimo essere mirate: anche dove l’ingresso era consentito con green pass rafforzato… ingresso contingentato, mascherine e distanziamento sebbene praticamente nessuno rischiasse davvero la polmonite interstiziale. Inutile dire che questa tendenza a scaricare le colpe sulla popolazione è un modo per nascondere le proprie mancanze nella gestione della pandemia: voi che rompete le balle ai vaccinati solo perché gli ospedali vanno ancora sotto pressione (cosa che tra l’altro avveniva anche durante i picchi influenzali negli anni passati ma la cosa faceva meno notizia) cosa avete fatto per aumentare i posti letto ed il personale? Cosa avete fatto per evitare le eccessive code al pronto soccorso? Cosa avete fatto per somministrare gli antivirali ai più fragili (evitando un sacco di ricoveri) ora che sono disponibili? Cosa avete fatto per proteggere i più fragili ed anziani (dato che attualmente la pandemia vera e propria è la loro)? Cosa avete fatto per alleggerire il lavoro dei medici di base? E perché non avete avuto il coraggio di introdurre a livello generalizzato l’obbligo vaccinale (dato che la quarta ondata è stata fondamentalmente quella dei no-vax)?

Tuttavia la cosa più paradossale è un’altra. Ho appena detto che non si riesce ad accettare la morte… ma in questo strano periodo storico sembra che quella per Covid-19 sia praticamente l’unica a non venire accettata facilmente, l'unica a far notizia. Ogni giorno muoiono chissà quante persone per i più svariati motivi, infarti, tumori, ictus, incidenti, diabete, ecc… ma quelli gravi, quelli da spiattellare su ogni giornale sono solo quelli di Covid. E così solo per evitare i morti di Covid si prendono misure drastiche, e per evitare tutti gli altri? Vittorio Sgarbi durante il primo lockdown evidenziò più volte come non avesse molto senso lasciare aperte le tabaccherie che ogni anno si rendono responsabili di decine di migliaia di decessi per tumore al polmone; sì, ok, l’obiettivo del lockdown era fermare la diffusione del contagio ed evitare la saturazione degli ospedali, ma dato che in ballo c’era anche il salvataggio di numerose vite permetti che è incoerente salvare la gente dal Covid e permettere il fumo di sigaretta. Fatemi capire bene, quindi esistono morti di serie A e morti di serie B? Decessi che devono tassativamente essere evitati e decessi che invece possono continuare a conteggiarsi indisturbati?

Credo comunque che dietro a questa rinata fobia della morte e della malattia ci sia dietro una ragione ben precisa: ci siamo abituati piuttosto bene. Veniamo da un secolo (facciamo meno, 60-70 anni) relativamente e sorprendentemente sano (chiaramente grazie ai progressi della medicina), con la speranza di vita in costante crescita che è arrivata a superare gli 80 anni, ma quest’ultimo periodo storico è a pensarci bene un’anomalia assoluta in centinaia di migliaia di anni di storia dell’umanità. Ci sembra scandaloso che un virus respiratorio provochi un aumento della mortalità ma ci dimentichiamo che fino a non molto tempo fa si moriva di punto in bianco di tubercolosi, di morbillo, di vaiolo, di peste. Ci siamo spaventati per 100.000 morti in più a fine anno nel 2020 ma è niente in confronto alla peste del 1630 che fece fuori circa un quarto della popolazione del Nord Italia o il vaiolo che sterminò letteralmente le popolazioni azteche nel '500. Inoltre, in aggiunta al periodo storico, ci troviamo anche in un’area geografica piuttosto sana; in Africa è quasi normalità ammalarsi o addirittura morire di malaria, HIV, tubercolosi, colera, ebola, e un'aspettativa di vita superiore agli 80 anni se la sognano, in molti paesi appena appena supera i 50 anni.

E quindi cosa dobbiamo fare per considerare conclusa questa pandemia? Chiuderci in casa a fasi alterne? Portare quelle orrende pezze sul muso che non ci permettono di guardarci in faccia e di sorriderci (oltre che di respirare decentemente) e che ci fanno sembrare degli omini stilizzati inespressivi che camminano? Vivere al 30%? No, semplicemente vivere normalmente come prima ed accettare il fatto che si è aggiunta un'altra malattia e un'altra causa di morte, limitarsi a fare i richiami vaccinali quando necessario ma accettare il fatto che qualche persona in più a letto influenzata ci sarà, che qualche persona in più in ospedale ci sarà, che qualche persona fragile o anziana in più morirà e che il conto dei decessi ogni anno sarà un po' più salato. Recuperare quella mentalità un po' più fatalista e darwiniana che abbiamo perso per strada. Anche perché ora non è più possibile sfuggirne, non possiamo più evitare quel numero di malati e di morti in più, l'unica soluzione sarebbe chiudere tutto ogni volta come la Cina, affossando l'economia e causando la morte economica e psicologica delle persone che fa forse più male di quella fisica. E in ogni caso il meccanismo darwiniano del più forte, in questo caso del più debole che non sopravviverà, ci sarà sempre, è sempre esistito in natura e anche con tutti i vaccini e le medicine del mondo non si può in alcun modo annullarlo, dobbiamo solo accettarlo.

L'unica persona che l'ha capito ha un nome e cognome: Boris Johnson. Assolutamente sciagurata l'idea di puntare sul'immunità di gregge a marzo 2020, siamo tutti d'accordo, idea perversa, irraggiungibile ed ingestibile, per fortuna subito abbandonata. Ma poi, conscio del fatto che il problema di fondo era la mancanza di un vaccino, una volta reso il vaccino disponibile ha avviato una rapida ed efficiente campagna vaccinale. Però una volta vaccinata una grossa fetta della popolazione ha saputo dire basta, non c'era più necessità di limitazioni alle abitudini della popolazione, una popolazione vaccinata è da considerarsi sicura e non deve subire più limitazioni, via così tutte le restrizioni, si punta tutto sui richiami vaccinali, partendo ovviamente dai più fragili, per il resto se c'è qualche ricovero o morto in più è normale e non si può fare molto. Col risultato che il Regno Unito non si è più trovato nella condizione di dover richiudere, quasi a dimostrazione che le restrizioni successivamente adottate dal resto d'Europa sono state dettate più dalla paura che da altro (gli stessi britannici hanno ripristinato le mascherine nei negozi nel periodo dicembre-gennaio, ma più che altro perché la paura fa 90).

Morale della favola: se impariamo ad accettare un po' di più il nostro destino la pandemia è già finita da mesi, se non lo facciamo la pandemia dura altri 10-20 anni. Ora e più che mai: MEMENTO MORI!

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Insultano, sparano stronzate, si fingono esperti di qualsiasi materia e attaccano quelli che non la pensano come loro... eppure li chiamano “LEONI da tastiera” (termine che si riferisce principalmente all’approccio offensivo ed aggressivo di questi individui ma che si può tranquillamente estendere al loro voler mettere il becco ovunque, su qualsiasi argomento non di loro competenza)…

Fatemi capire bene… “LEONI da tastiera”??? Il leone è da sempre usato come simbolo di forza, coraggio, nobiltà e saggezza. Quali doti avrebbero questi individui per meritarsi l’appellativo di “LEONI”? Sarebbero davvero individui forti e saggi? Siamo sicuri che non stiamo utilizzando il termine sbagliato? Un leone non si offenderebbe se paragonato a questi individui?

Attingendo dal regno animale, almeno dal punto di vista puramente simbolico, ci sono diversi altri appellativi che descrivono sicuramente meglio la natura di questi individui, sia riguardo lo stile aggressivo sia per quanto riguarda lo stile semplicemente saccente.

Si potrebbe ad esempio chiamarli “ASINI da tastiera”: sono ignoranti, non sanno fare 1+1, non conoscono le più basilari regole della grammatica, non conoscono la storia che si nasconde dietro l’individuo che stanno deridendo (probabilmente non conoscono nemmeno loro stessi), non conoscono la realtà dei fatti, eppure provano ugualmente a fingere di essere colti e di essere gente che la sa lunga, mentre chi davvero legge, studia e si informa è un pirla vittima del “sistema”.

Oppure “PECORE da tastiera”: seguono il gregge di persone, trovano rifugio nelle parole altrui perché non sanno esprimersi a parole proprie, pensano che “se tutti dicono e pensano così ci sarà un motivo”, poco importa se quei “tutti” sono del loro stesso livello di analfabetismo funzionale; a volte hanno un pastore, un guru che seguono ciecamente ma che non è un personaggio affidabile (perché non hanno certo il fiuto per riconoscere l’affidabilità), a volte è un medico radiato, a volte un trapper di periferia con il vizio dell’illegalità, a volte un personaggio uscito da un reality o un politico no-vax che non sa interpretare la Costituzione, ma va tutto bene perché è un capostipite.

Mi piace anche “MAIALI da tastiera”: amano sguazzare nel fango e nella merda e amano gettare i liquami in mezzo alla folla, sono sporchi loro e sporcano gli altri.

Ma un momento… Siamo davvero sicuri che questi appellativi alternativi siano effettivamente adatti? Stiamo individuando similitudini con questi animali solo sulla base della nomea che hanno da tempo. In realtà questi animali sono intelligenti, senz’altro più di questi individui, e poi non sono cattivi; l’asino non è stupido ed è stato in passato una forza lavoro molto utile per l’uomo, le pecore sono molto socievoli, i maiali sono annoverati addirittura fra gli animali più intelligenti che ci siano e se si rotolano nel fango lo fanno per ragioni di termoregolazione e addirittura per motivi di igiene e difesa dai parassiti.

Forse serve un animale più cattivo, spietato e privo di veri e propri pregi, la vipera ad esempio. Sì, “VIPERE da tastiera” mi piace già di più, perché questi individui hanno proprio il veleno dentro e non vedono l’ora di buttarlo addosso agli altri, sono bravi a mimetizzarsi nella rete, vi si nascondono e strisciano (perché di camminare diligentemente non sono certo capaci) in quel viscido terreno fatto di esibizionismo e menzogne, gettando di tanto in tanto il veleno per poi nascondersi di nuovo nella loro inutilità, sono esseri territoriali e la nullità è il loro territorio.

Oppure per sminuirli ulteriormente e definitivamente si può paragonarli a qualche sempliciotto e dannoso organismo, ad esempio i virus. Sì, loro sono “VIRUS da tastiera”, perché sono dei veri e propri patogeni del web, diffondono il contagio della loro cattiveria e della loro ignoranza, innescano una reazione a catena che porta numerose persone altrettanto ingenue ad imitarli e a creare una vera e propria pandemia digitale. Forse c’è un vaccino per estirparli, quello dell’istruzione e dell’educazione, da somministrare fin da piccoli.

Insomma, ci sono diversi appellativi, alcuni che calzano a pennello e altri un po’ più forzati, ma vi prego, NON CHIAMATELI LEONI…

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Viviamo l’infanzia avvolti da una vera e propria tavolozza di colori, tutto è tremendamente colorato. Non serve una gran memoria per ricordare quanti colori ci circondavano. A Natale le luci sull’albero che si accendevano ad intermittenza e poco sotto tutti quei pacchi ricchi di decorazioni delle più disparate. Nell’astuccio a più scomparti potevamo ammirare tutta la scala di colori creata dai nostri pastelli o la confezione sottile e longilinea dei pennarelli appena comprati, in più la maestra ci faceva colorare le schede, anche se orrende per via delle fotocopiatrici molto rudimentali, perché sapeva che i colori erano importanti. Facevamo il bagnetto con un ranocchio che non aveva vergogna di mostrarsi in tutto il suo verde sgargiante, ma nemmeno la paperella si vergognava del suo giallo acceso. A carnevale dal pacco trasparente uscivano tanti dischetti di carta variopinti, e ci piaceva assai, come anche il vestito di Arlecchino con i suoi rombi tutti ravvicinati che anticipavano le fantasie di Desigual di alcuni secoli; ma anche nel nostro guardaroba c’erano tante belle tutine colorate.

Poi succede una cosa che non so quanto sia bella sotto certi aspetti: cresciamo… e crescendo cambiamo stile come se fossimo diventati un’altra persona. Da un giorno all’altro i colori ci diventano quasi indigesti. Gli abiti cominciano a diventare meno sgargianti, usiamo le tonalità più spente e scure di qualsiasi colore, quando facciamo shopping il rosso tende al porpora, il blu diventa notturno, il verde tende ad appassire, il giallo diventa giallognolo, il rosa è perlopiù spento. Ma soprattutto ci danno fastidio gli accostamenti di fantasie e di colori, ecco che allora ci riempiamo di pippe mentali che chiamiamo, per usare un linguaggio elegante, “abbinamenti”; il colore delle scarpe deve abbinarsi con la maglia, e lo smalto dev’essere in sintonia con l’ombretto o il rossetto… e andiamo nel panico, e l’unico problema spesso non è che i due colori non stanno bene assieme ma addirittura che i due capi non hanno esattamente lo stesso colore. Già negli anni delle superiori definiamo “sfigato” quello che indossa troppi colori (“costume nero, ne vado fiero, i colorati sono sfigati” cantavano i GemBoy).

Poi facciamo la patente e compriamo la macchina… ed ecco che lo spettro di colori si riduce ulteriormente, sulle strade si vedono perlopiù automobili bianche, beige, nere, grigie, in minor frequenza blu scurissimo o rosso scuro. Poi ci sposiamo e compriamo casa… ed eccoci ancora una volta a puntare su mobili beige o marroncini e ancora pippe mentali su quanto quell’accessorio stia bene nel salotto e su quanto sia davvero in sintonia con il mood; solo all’arrivo dei bambini la cameretta si anima di colori, solo per merito loro quella stanza diventa la più cool della casa.

Il problema di fondo è che chiamiamo questo passo verso il grigio “maturità”, sembra che ci abbiano proprio inculcato la convinzione che “i colori sono da bimbi”, arriviamo a pensare che il festival dei colori rappresenti il disordine, il caos, l’indecisione, e che la moderazione e l’abbinamento rigoroso degli stessi sia simbolo di crescita, come se ci si sentisse orgogliosi di essere riusciti a fare delle scelte e a trovare l’armonia e l’equilibrio. Non è un caso se anche il settore della moda presta un’attenzione maniacale agli abbinamenti.

Dobbiamo invece riscoprire la bellezza dei colori e del loro trionfo. Nel momento in cui ci disfiamo dei colori ci disfiamo di noi stessi, perdiamo quell’allegria che i colori mettono e siamo soltanto più morti psicologicamente, se non depressi, e chissà, magari il nostro stato d’animo non sempre al top potrebbe dipendere anche dalla scarsa presenza dei colori, chi l’ha mai negato?! Chissà, magari i bambini sono sempre felici perché hanno tanti colori attorno e non ne fanno un problema… Ma liberandoci dei colori e dei motivi fantasiosi perdiamo anche quella fantasia, quella pazzia e quella creatività che la natura ci ha dato ma che noi quasi ci vergogniamo a mostrare, come se mostrare un lato vario(pinto) sia da persone infantili ed insicure, che non sanno quello che vogliono; in realtà sono invece i monocromatici od oligocromatici ad essere troppo convinti e schematici, a dimostrarsi ottusi e perfino noiosi, anzi, diventiamo insicuri e paranoici proprio quando ci ostiniamo a scegliere ed abbinare i colori in maniera rigorosa, perché non ci sentiamo mai soddisfatti della scelta, perché abbiamo paura del giudizio altrui e ne diventiamo infelicemente schiavi.

C’è però una contraddizione in tutto ciò: ci piacciono la primavera e l’estate, le due stagioni più colorate, non vediamo l’ora che arrivino, ci piacciono proprio il giallo del sole, il verde degli alberi, i vari colori dei fiori e l’azzurro del cielo, colori che si presentano tutti insieme e che ci piace vedere tutti insieme, ci piace perfino il tramonto, appena viene fuori uno di quei tramonti variopinti ecco tutti pronti a fotografarli per metterli su Instagram… e poi ci piace l’arcobaleno, che di colori ne ha 7. Questo ci dice molto, ci dice che senza i colori saremmo tutti morti, senza accorgercene i colori ci danno quella forza in più, ci fanno amare la vita senza farsi sentire troppo, dovremmo pertanto riscoprire la loro bellezza e portare loro più rispetto, pensiamoci quando chiamiamo “Arlecchino” il tizio con troppi colori addosso.

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editoriale di splinter

Fosse stato per me - abituato a fare foto solo quando sento che è davvero necessario il supporto visivo - ne sarei stato fuori per sempre ma vedendo il fenomeno crescere (quanta gente ha perfino smesso di postare su Facebook o ne ha ridotto significativamente l’uso…) ho dovuto cedere per evitare di soccombere. Sto cercando, se proprio devo, di utilizzarlo in maniera creativa, presentando foto un tantino sensate, magari un tantino originali, talvolta davvero non so che cazzo farci, ma mi ritrovo anche ad osservare una realtà virtuale che qui si rivela in tutta la sua nullità.

Tutto a partire dal suo fondamento principale: Instagram è un social network prettamente visivo, che obbliga a postare un’immagine o un video, un contenuto visivo che sovrasta nettamente la parte descrittiva, quest’ultima collocata sotto all’immagine, anzi, figura semplicemente nei commenti, è il primo della serie, quasi come se dovesse scomparire o passare inosservata. Questo è già sufficiente per definire la società in cui ci troviamo: la società dell’apparire, quella dove il nostro modo di vestirci o di presentarci visivamente è più importante di quello che abbiamo da offrire, poco importa se poi dentro non si ha nulla. Sta di fatto che per mantenere viva la propria presenza sul social la gente si impegna a farsi una serie di foto perlopiù inutili e spesso uguali, molti sono banalissimi selfie in pose improbabili, spesso addirittura verso lo specchio con tanto di orrenda visione della manina che sorregge il cellulare mentre scatta la foto; sono foto talmente banali e prive di valore artistico ed estetico che è troppo evidente che l’unico motivo dello scatto è quello di rimanere sulla cresta dell’onda. Poi ecco i filtri, tutti già preparati da qualcun altro e pronti per essere utilizzati, con un clic ecco che una foto palesemente insulsa diventa apparentemente “seria”; è il trionfo del saper diventare chiunque con poco, mostrare a chiunque di essere persone “brillanti” che la sanno lunga, con un’aria da saccenti tuttofare, in un’epoca in cui tutti si spacciano per esercenti di professioni del quale non conoscono nulla chiaramente non potevano mancare gli pseudo-fotografi. Non bastasse fingersi fotografi ecco che ci si finge pure poeti, con risultati altrettanto discutibili, nel tentativo di darsi un tono e far sembrare sensato l’ennesimo scatto di bassa lega ecco che la fighetta di turno ci piazza la frase poetica, ma una frase il più delle volte già sentita e risentita, basata sui soliti concetti di amore, sincerità e quant’altro, spesso copiata in giro qua e là, figurati se la sciacquetta che quotidianamente inizia i discorsi con “se io avrei” è dotata di sufficiente fantasia per poter creare una frase d’effetto in piena autonomia. Poi c’è il festival degli hashtag, di cui la gente fa un vero e proprio abuso senza nemmeno sapere qual è la loro funzione, altrimenti non si metterebbe ad usare tag ipergenerici o completamente inventati; questo aspetto rivela l’incapacità della gente di usare la logica e la tendenza ad imitare ciecamente gli altri senza manco sapere cosa fanno, semplicemente fidandosi del fasullo motto “Vox populi, vox Dei”.

Poi ci sono le stories, queste specie di sequenze di immagini che scorrono automaticamente, non esiste un modo ufficiale per stoppare lo scorrere delle immagini (se non con alcuni escamotage) e spariscono dopo 24 ore, molti utenti le preferiscono ai post permanenti. Anche questo fenomeno stories ci rivela un dettaglio importante della società in cui viviamo: siamo meteore di passaggio, tutto quello che facciamo è cool in questo momento domani no, nessuna speranza di essere ricordati in futuro, dobbiamo solo cercare di attirare l’attenzione in questo momento e poi levarci subito dalle palle perché è così che la società vuole e anche la gente vuole così perché la società l’ha indirizzata a volere così. Storie che poi sembrano non avere davvero qualcosa da raccontare, niente a che vedere con i tempi in cui ci si metteva sul divano con il papà o con il nonno ad ascoltare con pazienza veri e propri racconti di vita, o con i tempi in cui si acquistava un rullino e ci si portava la macchina fotografica soltanto quando si partiva all’avventura e bisognava scrivere la storia di quel viaggio o di quell’esperienza; si facevano poche foto ma che avevano qualcosa da dire e da raccontare, chi si metterà più a riguardare le migliaia di foto che facciamo invece oggi?! Queste stories il più delle volte sono semplicemente sterili book fotografici prodotti in un momento di noia o spesso anche in questo caso per rompere il silenzio e riaccendere i riflettori su di sé per paura che si spengano per sempre.

Ma poi non capisco questo continuo proliferare di social network, abbiamo Twitter, Instagram, Snapchat, TikTok quando ne bastava UNO (Facebook) che era unico e completo di tutte le funzioni. Facebook ha tutto, stati, foto, video, note (funzione corrispondente al blog mai troppo valorizzata), giochi, sondaggi, domande, link, eventi, gruppi di discussione e quant’altro. Non capisco che bisogno ci fosse di spostarsi su una versione discount del social fatta solo di foto e video, con soli tre formati disponibili, con un massimo di solo 10 foto per volta non organizzabili in album e di 1 minuto per i video in bacheca. Ma credo di aver capito anche questo: la gente oggi non ha pazienza di ascoltare, non è interessata né curiosa, quante volte vi sarà capitato di cominciare un discorso e di venire interrotti, a volte dopo un po’ perché vi stavate dilungando o addirittura subito perché l’argomento non era interessante o peggio era scomodo, sembrano tutti sempre in preda alla paura di perdere tempo da spendere in cose migliori da fare quando in realtà di concreto da realizzare non hanno nulla perché oltre al tempo non hanno nemmeno la fantasia per realizzarlo; oppure a far paura è la verità, quella verità che potrebbe spegnere le illusioni. Lo sappiamo, la gente non vuole sentire altro che quello che vorrebbe sentirsi dire, quindi non vuole leggere stati e notizie che esprimono opinioni contrarie su qualsiasi argomento, non vorrebbe vedere l’articolo che rinfaccia la verità sul fatto che il mondo rischia il cataclisma oppure il post di quello antipatico, accettato fra gli amici per compassione, che rinfaccia la verità su quanto appunto il mondo sia falso, ipocrita e vuoto. C’è poi un altro elemento vincente, la mancata reciprocità delle amicizie, su Instagram si può seguire qualcuno senza che necessariamente l’altra persona lo faccia a sua volta; questo alla gente piace, piace essere guardata senza voler guardare gli altri o viceversa piace guardare gli altri ma pretende che l’altro tenga gli occhi a posto (come si spiegherebbero i numerosissimi profili privati?), non credo sia un caso se su Instagram non si è ancora creato un fenomeno “rimuovi dagli amici”; triste verità, la gente non è per lo scambio, non è per il confronto. Solo in un contesto così frettoloso e vacuo poteva avere successo un social network così immediato e povero di contenuti.

Qualcuno invece si lamenta semplicemente del fatto che Facebook è diventato un puttanaio, un elenco di post ingestibile e confusionario causato dalle continue modifiche all’algoritmo (che pretende di decidere per noi cos’è importante) ma se ci pensiamo siamo stati proprio NOI a renderlo invivibile; circa una decina d’anni fa esisteva la cronologia dei post in tempo reale, qualsiasi cosa veniva postata in quel momento da un amico o da una pagina veniva fuori, ma noi ne approfittavamo condividendo la minima cazzata, tonnellate di link mielosi o pseudo-satirici che intasavano letteralmente la home, poi ci iscrivevamo a tutti i gruppi possibili ed immaginabili creati per noia a rappresentanza di ogni singolo spostamento d’aria della nostra vita, roba del tipo “quelli che la mattina aprono la finestra” o “quelli che la sera dopo cena prendono il caffè”; se forse all’epoca ci fossimo limitati a postare solo quando avevamo davvero qualcosa da dire, non avessimo inviato richieste d’amicizia anche all’amico dell’amico dell’amico dell’amico visto una volta sola ad una festa o messo like a centinaia di migliaia di pagine forse Facebook sarebbe ora un luogo molto meno caotico e magari non avremmo costretto Zuckerberg a modificare l’algoritmo nella maniera più improbabile e dittatoriale e sarebbe ancora il re indiscusso dei social…

Per me Facebook resta il social per eccellenza, unico e completo, per il resto sono uno di quelli a cui piacerebbe ogni tanto ancora vedere la meritocrazia e le cose al posto giusto e pertanto penso che Instagram doveva rimanere una vetrina per fotografi con la passione vera per la fotografia e non per pseudo-influencer.

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editoriale di splinter

Lasciamo perdere il Milan di adesso e facciamo un salto nel glorioso passato, per l’esattezza al Milan Campione d’Europa nel 2003, per parlare di una convinzione palesemente errata che difficilmente si schioda dalla testa dei non milanisti.

Ho sentito più volte affermare a interisti e juventini (e non solo) che quel Milan vinse la Champions League “con i pareggi”… Una volta chiesi al mio professore di religione (sì, facevo religione a scuola, pensa un po’) se fosse più meritato lo scudetto del 2003/2004 o la Champions della stagione prima, lui rispose senza esitazione lo scudetto perché la Champions fu vinta con una serie di fortunati pareggi; al Processo di Biscardi il romano Franco Melli affermò in faccia al milanista Tiziano Crudeli che il Milan “si è inventato le vittorie con i pareggi”; il PR di fiducia della nostra compagnia ai tempi delle discoteche, juventino, dopo la vittoria del Portogallo caratterizzata da una sola vittoria ai 90 minuti scrisse su Facebook “ho visto anche il Milan vincere una Champions senza mai vincere” e sicuramente chissà quanti avranno azzardato questo fasullo paragone; non parliamo poi di quanti interisti che ci rinfacciano frasi del tipo “avete vinto con due pareggi e con una vittoria al 91esimo”. Triste verità, in tanti sono convinti che il Milan vinse quella Champions grazie ai pareggi, la domanda di fondo è: ma questi sono mai andati a vedere il cammino del Milan risultato per risultato?

Tralasciamo il turno preliminare e soffermiamoci piuttosto sulle due fasi a gironi (quella fu l’ultima Champions League ad avere una seconda fase a gironi, poi fu sostituita dagli ottavi di finale, personalmente rimpiango la vecchia formula). Il sorteggio della prima fase pose il Milan davanti a Bayern Monaco, Deportivo La Coruña e Lens. I francesi del Lens, oggi in Ligue 2, potevano essere considerati la cenerentola del girone ma erano comunque reduci da una Ligue 1 dominata e da uno scudetto regalato al Lione proprio nello scontro diretto all’ultima giornata, evidentemente così scarsi non erano. Il Deportivo ai tempi era una delle squadre più forti di Spagna, reduce da uno scudetto e due secondi posti. Il Bayern Monaco invece non ha bisogno di presentazioni, era e continua ad essere la prima potenza di Germania nonché una delle maggiori forze europee, aveva anche battuto il Milan in un’amichevole estiva. La stampa parlò senza dubbio di “girone di ferro”, qualcuno si chiedeva se il Milan sarebbe stato in grado di superarlo, dato che le ultime due stagioni del Milan si erano rivelate decisamente sottotono. Il Milan invece stupì tutti vincendo le prime quattro partite di fila e qualificandosi con addirittura due giornate di anticipo, perdendo ininfluentemente le ultime due. Non si trattò di vittorie qualsiasi, fra queste spicca un pesante 4-0 sul campo del Deportivo La Coruña, sì, proprio così, un 4-0 in trasferta contro una delle squadre all’epoca più forti di Spagna, ad interisti e juventini viene molto più facile ricordare quello che accadde l’anno successivo, quando i galiziani si vendicarono restituendoci quel 4-0 e sbarrandoci la strada verso un secondo trionfo consecutivo altrimenti quasi certo, ma questa vittoria incredibile propiziata da un Pippo Inzaghi incontenibile non la ricordano mai o fanno finta di non ricordarla. Da sottolineare anche il doppio trionfo per 2-1 contro il Bayern Monaco, specialmente quello in trasferta, non credo proprio che vincere a Monaco di Baviera sia mai stata un’impresa alla portata di tutti.

Un girone di ferro capitò al Milan anche nella seconda fase, dove oltre alla rivelazione Lokomotiv Mosca toccarono il Borussia Dortmund e il Real Madrid, i campioni in carica di Germania e soprattutto i campioni d’Europa in carica, saranno forse squadrette? Il Milan qui si ripete vincendo le prime 4 partite di fila, tutte per 1-0, e perdendo senza conseguenze le ultime 2, gli interisti e gli juventini si sono forse dimenticati del trionfo in trasferta contro il Borussia Dortmund (che solo una manciata di mesi prima aveva inflitto ai rossoneri un netto 4-0 in semifinale di Coppa Uefa) ma soprattutto della vittoria a San Siro contro il Real Madrid in una partita che il Milan dominò e che poteva vincere pure più largamente.

Ma dato che qualcuno ha tirato in ballo il Portogallo campione d’Europa nel 2016… vi ricordate come quel Portogallo vinse l’Europeo? Passò il girone qualificandosi terzo solo grazie al nuovo regolamento, con tre pareggi contro avversari mediocri come Islanda, Austria e Ungheria, ha battuto la Croazia soltanto ai supplementari, la Polonia soltanto ai rigori, un’unica vittoria ai 90 minuti contro il Galles e una vittoria ai supplementari contro la Francia in finale. Ma di cosa stiamo parlando? Ma vi rendete conto del paragone assurdo che state azzardando? Da una parte due gironi di ferro passati con due giornate d’anticipo, vittorie in trasferta contro squadre di un certo calibro e una vittoria contro i campioni in carica con tanto di primato nel girone, dall’altra una serie di pareggi con squadre per lo più modeste, ai numeri si contano 10 vittorie nei 90 minuti del Milan contro UNA sola del Portogallo. Come si può anche solo alla lontana paragonare il cammino di quel Milan a quello del Portogallo? Bisogna davvero essere pazzi, non c’è altra spiegazione!

Poi per carità, è vero che il Milan ha battuto l’Ajax soltanto all’ultimo respiro, che ha eliminato l’Inter con due pareggi, che in finale ha battuto la Juve soltanto ai rigori, risultati anche frutto di un generale senso di stanchezza che è assolutamente normale ad un certo momento della stagione, cosa che lo juventino o l’interista frustrato ignora o finge di ignorare; ma rinfacciare polemicamente questi risultati ignorando le gesta delle fasi a gironi è da persone che parlano senza sapere le cose o sapendole solo a metà soltanto per il gusto di sfottere il rivale senza riconoscerne i meriti oggettivi. Le prestazioni di quel Milan infatti finirono inevitabilmente all’attenzione di molti giornali ed esperti televisivi, soprattutto nelle prime battute della stagione si parlò di un nuovo grande Milan, di Milan spettacolare, inevitabili furono i paragoni con i Milan di Sacchi e Capello, molti già sostenevano che il Milan potesse aprire un nuovo ciclo già a partire da quella Champions; Milan che poi si ridimensionò divenendo squadra più normale ma sempre dotata di un organico di alto livello in grado di vincere tutto; infatti il Milan vinse anche una Coppa Italia che mancava addirittura dal 1977 e poteva vincere anche il campionato e fare il triplete se non avesse avuto un drastico calo di rendimento nel girone di ritorno e se non avesse subito numerosi torti arbitrali accompagnati da altrettanti episodi favorevoli alla Juve.

Tuttavia a questo negazionismo si aggiunge anche una fastidiosa tendenza a cercare il pelo nell’uovo per screditare il rivale, per delegittimare la sua impresa, talvolta con affermazioni discutibili o addirittura infondate. Qualcuno si è persino inventato che nell’azione decisiva del 3-2 contro l’Ajax Tomasson fosse in fuorigioco sul pallonetto di Inzaghi, falsità assoluta dato che basta andare a rivedere il replay per rendersi conto che Tomasson è non solo dietro al difendente ma addirittura dietro la linea del pallone. Lo juventino invece fa leva sull’assenza di Nedved in finale, ignorando che lì davanti c’erano i colossi Nesta e Maldini e che le due sfide di campionato, con Nedved in campo si erano chiuse 2-1 per la Juve a Torino e 2-1 per il Milan a San Siro, parità assoluta.

Al negazionismo dei meriti altrui si aggiunge poi quello dei demeriti, delle figuracce, dei risultati non entusiasmanti e dei favori ottenuti invece dalla propria squadra. Per esempio, i cari juventini che criticano il cammino del Milan si ricordano del proprio? La Juve passò la seconda fase a gironi con la miseria di 7 punti battendo il Deportivo La Coruña solo all’ultimo minuto, e ai quarti di finale fece due pareggi contro il Barcellona vincendo solo ai supplementari, menomale che era soltanto il Milan quello che vinceva all’ultimo o passava con i pareggi… Gli juventini si ricordino poi di come vinsero lo scudetto quell’anno… Gli interisti invece non ricordano di come eliminarono il Valencia ai quarti, facendosi letteralmente dominare dall’avversario nella gara di ritorno e puntando tutto sullo stato di grazia di Toldo ma anche grazie ad un clamoroso rigore negato al Valencia sul 2-1 (che voleva dire eliminazione). Magari si ricordino anche di come loro hanno vinto poi la Champions sette anni dopo: i 4 rigori negati al Chelsea fra andata e ritorno, i furti contro il Barcellona (il goal di Milito in fuorigioco, il rigore di Sneijder su Dani Alves, più nella gara di ritorno il goal decisivo annullato per uno stop di mano attaccata al corpo che probabilmente nemmeno c’era) e la manina di Maicon sullo 0-0 in finale; interisti che ce la menano pure per la deviazione di omero di Inzaghi (perfettamente aderente al corpo) nella finale del 2007 ma per loro è tutto regolare quando a segnare di mano è Adriano nel derby…

Morale della favola: quando si tratta di sfottere l’avversario sportivo ogni affermazione è buona, per farlo si arriva perfino a negare i suoi meriti oggettivi, infangarli proprio, negare i propri demeriti, ricordare ciò che fa più comodo, ricordare i pochi aspetti negativi dell’operato dell’altra squadra e fingere di non ricordare tutto il resto, così come dimenticare le cose non proprio belle della propria squadra. Per la verità io capisco anche gli interisti e gli juventini, la frustrazione per essere usciti con due pareggi e per non riuscire a vincerla da quasi quarant’anni, così come il rammarico per aver perso l’ennesima finale, oltretutto ai rigori, ma bisogna imparare ad essere sufficientemente maturi per poter ammettere i meriti altrui, e se proprio si vuole sfottere l’avversario per le sue sconfitte o vittorie immeritate (cosa che ci sta nel tifo calcistico, sarebbe da moralisti negarlo) almeno scegliete argomentazioni fondate e non sparate puttanate!

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editoriale di splinter

Premessa: sì, lo so, i problemi della vita sono ben altri, ma ogni tanto bisogna trovarsi qualche finto problema su cui dibattere, il fascino del porsi interrogativi e cercare di dare spiegazioni è uno dei piaceri della vita. Per esempio...

Tutti ce la siamo fatta una partita a UNO, il celeberrimo gioco di carte colorate e numerate di casa Mattel, e lo abbiamo fatto nelle occasioni più disparate, in famiglia, a scuola nelle ore buche, a Natale al posto della noiosissima tombola, in spiaggia, alle grigliate.

Però… c’è un però…: praticamente nessuno calcola il punteggio come da regolamento, giuro, non l’ho visto praticamente fare a nessuno, qualsiasi gruppo che ho visto giocare si limitava semplicemente ad assegnare un semplice punto di chiusura a colui che esauriva per primo le carte. Ci ho giocato più volte con gli amici e con i compagni di scuola ma ho partecipato senza troppo entusiasmo proprio per questo motivo; una volta ad una grigliata ho detto “raga però si gioca con i punti!” e la risposta che ho ottenuto è stata un secco “ma quali punti, chi chiude un punto!”, un’altra volta, l’unica in cui io ed un mio amico siamo riusciti a far applicare il punteggio, l’altro amico diceva “ah perché esiste un punteggio?”, ma anche su YouTube si trovano diversi challange e praticamente tutti si concludono senza calcolo del punteggio, persino su Yahoo Answer ad un quesito su quanto valessero le carte al fine del calcolo del punteggio c’è chi ha avuto il coraggio di rispondere “non c’è nessun punteggio, chi vince ottiene un punto”, ma pure le versioni che giocavo anni fa su Facebook non lo applicavano.

In sostanza il punteggio non è mai entrato nell’immaginario collettivo dei giocatori di UNO, sembra siano in pochi a sapere che quando un giocatore chiude si prendono le carte rimaste in mano agli avversari e con esse si determina il punteggio, quindi che le carte numerate dallo 0 al 9 hanno il valore riportato sulla carta mentre quelle speciali colorate (SALTO, CAMBIO GIRO e PESCA 2) hanno valore 20 punti e i due jolly (CAMBIO COLORE e PESCA 4) hanno valore 50, e che vince chi arriva prima a 500 (oppure si può fare come a Scala 40, calcolando quanti punti rimangono in mano a ciascun giocatore ed eliminando chi man mano arriva a 500).

Per quanto mi riguarda trovo le partite a UNO senza punteggio vero e proprio assolutamente insulse, il gioco sembra proprio non avere un senso, uno scopo, se non quello di cazzeggiare, il gioco è assolutamente piatto e privo di imprevedibilità e veri e propri colpi di scena, viene meno persino il vero valore e la vera potenza delle carte speciali… Dove sta il coinvolgimento emotivo nel sapere che dopo una manche movimentata il fortunato vincitore si beccherà un misero punto? Non è più bello sapere che il vincitore potrà incassare dalla miseria di pochi punti fino a qualche centinaio avvicinandosi alla vittoria? Non è più coinvolgente cercare di sbolognarsi le carte più valorose per non lasciare punti agli avversari? Non dà più soddisfazione vedere che l’avversario è rimasto con un sacco di carte in mano (magari fatte pescare proprio alla fine del gioco) e che alcune hanno anche un certo valore piuttosto che dire semplicemente “chiuso” e beccarsi un misero punto? Non vi piace l’idea che da una manche all’altra tutto si possa ribaltare, l’idea di poter innescare un meccanismo di inseguimenti, di distacchi e rimonte come in una gara di motociclismo? Sincero, non vi capisco!

Però ho provato a fare delle ipotesi sul perché calcolare il punteggio a UNO non è prassi come dovrebbe. Vediamo. Potrebbe darsi che molti, dopo aver comprato la scatola di carte da gioco, non abbiano mai davvero letto, forse nemmeno cagato di striscio, il bugiardino in essa contenuto, che conoscano le regole soltanto perché tramandate di amico in amico, chissene se spesso inesatte; infatti si noti come oltre alla presunta inesistenza di un punteggio da calcolare si siano diffuse anche altre regole non previste dal regolamento ufficiale ma spacciate per basilari; una su tutte quella della possibilità di cumulare le carte di pesca, quindi di ribattere un PESCA 2 o un PESCA 4 facendo pescare all’avversario un numero spropositato di carte (6, 8, 10, 12) anziché pescare semplicemente le carte e saltare il turno come si dovrebbe, una regola che tutto sommato può anche essere divertente ma è bene sapere che si tratta di una variante, una regola peraltro recentemente sconfessata dalla stessa pagina Twitter del gioco con un tweet molto chiaro; molti pensano poi che non si possa né cominciare né chiudere con una carta azione, falsissimo, basta leggere il foglietto per scoprire che l’unica carta che non può aprire il gioco è il PESCA 4 e che se si chiude con una carta di pesca il giocatore successivo deve comunque prendere le carte, che contribuiranno anch’esse a formare il punteggio; o anche la totale libertà con cui viene giocato proprio il PESCA 4, ignari del regolamento che ne consente lo scarto soltanto nel caso non si abbiano carte dello stesso colore dell’ultima giocata, nonché della possibilità del giocatore condannato alla pesca di poter contestare la giocata, con tutte le conseguenze del caso…

Un’altra ipotesi potrebbe consistere nella natura spesso totalmente informale, leggera e scazzata del gioco, basti pensare ai contesti e alle modalità con cui solitamente si svolgono le partite: si gioca su un telo da mare, su uno striminzito tavolino da spiaggia o da pic-nic, su banchi di scuola uniti, su letti di hotel sgangherati, in momenti spesso morti e ristretti, il gioco viene poi organizzato in maniera assolutamente disordinata, con i giocatori disposti in maniera spesso non lineare e persino in posizioni scomode, persino il modo in cui viene trattato il mazzo degli scarti è discutibile, i giocatori scartano le carte allungando le braccia e gettando letteralmente la carta sul mazzo che dopo pochi scarti diventa un qualcosa di simile ad una discarica, un mucchio selvaggio che rende persino difficile capire qual è l’ultima carta giocata, manco si riesce a trovare quel nanosecondo necessario per sistemarlo (figuriamoci per calcolare il punteggio)… Sembrerebbe quindi che il gioco sia visto più come un semplice modo per ammazzare il tempo che un vero e proprio gioco in cui mettere impegno e concentrazione; infatti il gioco è accessibilissimo a tutti, facile da imparare e non comporta particolari strategie di gioco per vincere, non serve essere giocatori esperti o abili strateghi per vincere, vince semplicemente chi ha la fortuna di ricevere le carte giuste, non è come giocare a scopone o a briscola, dove bisogna metterci testa ed analizzare l’andamento del gioco e l’operato degli altri giocatori; non è un gioco per veri appassionati di giochi di carte, chi ama davvero i giochi di carte predilige le partite a burraco, a scala 40, a bridge o a poker e ci mette il 101%, si metterebbe quasi a ridere a sentire che vi state ritrovando per una partita a UNO; da sottolineare che il gioco è prodotto dalla Mattel, una casa che produce giocattoli, non certo specializzata in giochi di carte, non è la Dal Negro o la Modiano, ciò suggerisce che in pratica UNO non è nemmeno un gioco di carte ma più un gioco di società basato sulle carte, ma forse è addirittura un vero e proprio giocattolo che viene di fatto trattato come tale, non seriamente. Alla luce di ciò si direbbe quindi che il calcolo del punteggio verrebbe considerato dai più una perdita di tempo o renderebbe troppo seria una situazione che invece non lo è, inoltre la cifra di 500 punti (e qui mi riferisco a chi in qualche modo sa qualcosa a proposito del calcolo del punteggio) risulta probabilmente troppo alta e lunga da raggiungere agli occhi di ha deciso di cominciare una partita giusto per vincere la noia, preferisce quindi assegnare un punto al vincitore della manche e non fissare nemmeno un punto di arrivo in modo da poter interrompere il gioco non appena stufi… In un mondo fatto di spot dove non si ha pazienza e propensione all’ascolto e domina l’astio verso le cose lunghe capisci che un gioco che prevede di arrivare a 500 punti può risultare troppo lungo e anacronistico…

Ma sono tutte supposizioni che trovano il tempo che trovano, considerazioni che mi sono semplicemente venute in mente e che ovviamente non si pongono come verità assolute, non mi dispiacerebbe sentire il parere degli altri utenti in merito a questa questione. In ogni caso sappiatelo: se volete tirarmi in ballo in una partita a UNO, il punteggio si deve applicare, altrimenti cercatevi qualcun altro…

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