editoriale di zaireeka

Il mio colore preferito è il verde.

Lo è sempre stato, da che io ricordi.

Ricordo che da bambino mia madre un giorno comprò un lenzuolo copriletto, verde, per il letto matrimoniale.

Appena lo stese, entusiasta, mi sdraiai sul letto e mi rotolai sopra, in preda a un piacere fisico, quasi panico.

Incomprensibile ed esagerato forse, ma la sensazione tattile, oltre che visiva, del fresco, di quel verde del lenzuolo, ancora lo ricordo dopo ben più di quarant’anni.

Lo stesso era con i pastelli, amavo in particolare quello verde, e con una macchinina, quella verde acido.

Da quando sono un po' cresciuto, fino al giorno d'oggi, mi sono innamorato spesso di copertine di album musicali verdi, di tutti i tipi, di tutti i generi, di canzoni sugli occhi verdi, e purtroppo ultimamente non disdegno album i cui titoli hanno a che fare con il verde (già qualcuno mi ha criticato a riguardo …).

Alcuni scienziati/filosofi, Daniel Dennett in primis, sostengono con grande convinzione che i colori, come tutti i qualia del resto, non esistono.

Quello che noi percepiamo come un colore nel mondo esterno e’ solo l’eco interiore della reazione primigenia, della nostra risposta emotiva, al contatto, la prima volta, con una proprietà ineffabile del mondo esterno con cui non avevamo mai avuto a che fare.

Per me forse poteva essere qualche strana proprietà comune a un prato, o un albero, che io ora, a partire dal momento in cui mi hanno suggerito il nome, chiamo verde.

Da circa un mese in casa mia e’ arrivato un nuovo abitante, un parrocchetto Monaco, verde.

Mia moglie e mia figlia lo chiamano Locky, non so se in onore del filosofo.

Io lo chiamo pistacchio: il gusto di gelato preferito da mio padre, dal colore verde.

Mi sono documentato sul parrocchetto Monaco.

Secondo certe fonti la vita media va da 25 a 30 anni, ma può anche arrivare a 45.

Ogni mattino mi alzo, mi lavo, e poi, cercando di fare in silenzio, vado in cucina dove ha passato la notte all’interno della sua gabbia.

E penso: “Buon mattino parrocchetto”, un po’ come il mio amico Mark con il ragno.

Mi fa paura pensare che mi potrebbe anche sopravvivere.

Mi sembra di aver fatto entrare in casa mia qualcosa forse destinato, in maniera assolutamente inaspettata e non voluta, a diventare un pezzo troppo grande della mia vita, anzi, qualcosa (o qualcuno?) che farà sì che diventi io nient’altro che un pezzo della sua, di vita.

Se dovesse succedere, voglio che il giorno del mio funerale venga a salutarmi per l’ultima volta.

E mi sussurri in un orecchio (a breve potremo iniziare ad insegnargli qualche parola, poi andrà avanti da solo..) perché proprio il verde, casualmente il colore del suo manto, è il mio colore preferito.

Cosa provai quella prima volta.

Dove ero, con chi ero.

Cosa avevo visto.

E poi ce ne voliamo via per sempre, lui da una parte sbattendo le sue ali verdi, io da un'altra.

Forse.

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editoriale di ALFAMA

Capitolo 12

VORREI UCCIDERTI

Capitolo 9

Nel silenzioso Buio dei miei pensieri, l'interferenza sul rumore di fondo della mia mente. Invisibile, la scintilla di un pensiero inafferrabile, non esisti ma sempre presente.

Ti sento nel cuore. Macchia di sangue. Quante vite hai succhiato? Quanti silenzi hai interrotto ? Sei un ronzio nella mente,un peso sull'anima.

Capitolo 7

Non pensare di essere inutile. Devi esistere per essere spiaccicata su una bianca pagina di un libro senza una storia da raccontare.

Di te rimane solo una macchia di inutili parole, parole da inventare, parole che non esistono.

Capitolo 1

Eppure ti vengo a cercare.

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editoriale di CosmicJocker

Tra le altre cose scarico farina nelle pizzerie.

Pochi giorni fa, dopo aver espletato le mie funzioni e mentre il mio capo persuadeva il titolare del locale della necessità di un aumento dei prezzi, io nel retrobottega mi fumavo con Ashur una deliziosa sigaretta post-pranzo.

Ashur è un ragazzo egiziano sui trent'anni, di cui una decina in Italia. Pizzaiolo più per necessità che per vocazione ha in carico una famigliola numerosa tra moglie, figli, suoceri e persino un paio di cugini.

Ashur è sempre in pizzeria, a pranzo e a cena, nei giorni feriali e festivi (ormai sono sempre di più le pizzerie che non fanno giorni di chiusura) e, per garantirsi il permesso di soggiorno, ha accettato un contratto capestro in cui gli si garantiscono 600 euro al mese per una quindicina di ore di lavoro al giorno.

Ashur è preoccupato.

Pare che un altro pizzaiolo, pakistano, stia trattando col padrone per avere il suo posto chiedendo un centinaio di euro in meno al mese.

Saluto Ashur e mi rimetto sul camion.

Signore e signori, il libero mercato.

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editoriale di andisceppard

A volte, le parole, sono davvero inutili. Basterebbero due foto. Tipo: avete presente i Beatles? (ne avete sentito parlare?). Ogni tanto arriva qualche ragazzino, qua sul debasio. E chiede.

Dice ma i Beatles perché?

Erano i migliori? No.

Miglior cantante? No.

Miglior chitarrista? Ahahahah no!

Migliore gruppo? No.

Migliori canzoni? No.

Basterebbero due foto, per rispondere. Poi uno si fa la sua idea. Giusta o sbagliata. Però se la fa.


Colin nasce a Milwaukee. Il 3 di novembre del 1987. Milwaukee, per chi non lo sapesse - e difficilmente glielo perdono - sta in alto a destra. Molto in alto. Quasi Canada. Fa freddo. Un freddo cane. Ed è la città di Richie Cunningham. Quella di Happy days. Richie andava in giro con un giubbino. La M di Milwaukee scritta sopra.


Nasce nel 1987. Sul serio, lui è uno di quelli che te lo chiederebbe: scusa ma i Beatles? E te - magari - ci perdi tempo a cercare di spiegarglielo. Che sei stupido. E te la dimentichi - questa cosa - che le parole, alle volte, sono davvero inutili. Basterebbero due foto. Ma non ti viene in mente. Colpa dei tuoi maestri, di sicuro. Ti hanno inculcato categorie che hanno poco senso.


Colin - a Milwaukee, la città di Richie Cunningham - viene su. Ed è un bel ragazzone. Lo vedete nella foto (le parole sono inutili, bastano le foto, si sa). Un metro e novantasei. Cento e qualcosa chili. Una faccia da ragazzo intelligente. E per bene.


Colin nasce a Milwaukee. E Milwaukee è negli Usa. E - siccome è un bel ragazzone, con un bel sorriso - può scegliere di fare cosa vuole (è the land of the freedom, the home for the brave). Lui sceglie una cosa. Giocherà a football. No, non a calcio, non fate i provinciali. A football. Quello strano sport con la palla ovale. E - in quel gioco - farà il quarterback.


Ora, se non lo sapete (e difficilmente ve lo perdono) il football è un gioco un po' diverso dal nostro calcio. Ha le sue regole (per qualcuno complicate) le sue storie, i suoi ruoli.

Ed è - unico sport che io conosca ad averlo - un gioco in cui c'è un ruolo che vale più di tutti gli altri. Quel ruolo è quarterback. Proprio quello che sceglie il nostro amico Colin, da Milwaukee, come Richie Cunningham.


Qaurterback vuol dire che sei il più figo. Punto. Il numero uno. Quello che comanda. Vuol dire che ogni ragazza sogna di venire con te.

Poi - è chiaro - dipende da quanto sei bravo.

Da quello dipende se con te vuol venire ogni ragazza di un quartiere di Milwaukee, ogni ragazza del tuo Stato, ogni ragazza del mondo. Ma quello è il ruolo. Entri in campo e tutti guardano te. Solo te. Ci sono - davanti a te - almeno sei ragazzi - grandi due volte te, che si fanno menare per tutta la partita. Solo perché tu possa stare tranquillo. Succede. A Milwaukee, come in tutti gli altri cazzo di paesi degli Usa. Ci sono i tuoi avversari che non vedono l'ora di toglierti dalla faccia quel cazzo di sorrisetto. E tutto il tuo sentirti uno bravo. Cercano te. Tu - invece - hai in mente qualcosa d'altro. Hai in mente che la squadra è in mano tua. E se si vince o se si perde allora sei tu. Che la squadra sei tu. Che se sbagli una cosa le ragazze te lo perdonano (che siano quelle di un quartiere di Milwaukee, o di uno stato, o di tutto il mondo dipende da quanto sei bravo). Però te, quei sei ragazzi - davanti a te, più grossi di te - che si sono fatti menare per darti la possibilità, non hai il coraggio di guardarli in faccia. Che se invece fai una cosa bella tutti dicono merito tuo. E te invece lo sai. Che non è mica solo tuo. E vai da ognuno di quei sei. E gli dici volevo essere insieme a voi. Ero insieme a voi.


Oppure no. Sei stronzo, e te ne freghi. Dipende. Sono cose di carattere. Le parole - già ne ho scritte tante - sono inutili. Guardate la foto. Decidete voi.


Colin gioca quarterback. E' un ragazzone, con la faccia simpatica. E vive negli Usa. All'università va a Nevada. Insomma, come dire, rispetto al livello di quante ragazze verrebbero con te siamo già a livello di fan club. Quelle cose tipo beh, sì, ha personalità, può piacere.

La gente tosta va a Michigan, per dire, o a Tascaloosa, o in Texas, o addirittura in Oregon (lì sono matti per il football) e della California ve ne devo parlare? Lui no. Reno, nel Nevada. Non proprio pieno di ragazze, diciamocelo.


Sia come sia finisce i quattro anni. Lo scelgono i professionisti. Lo sceglie San Francisco.

San Francisco - una volta - quando ero giovane io, era una squadra fortissima. Più che fortissima. Era una squadra bellissima. A livello dell'Olanda di Cruyff. Una roba così. Una roba che dici che bello è che ci sia uno sport del genere e - dentro a questo sport - chi ti sa dire cos'è la fantasia. E che la fantasia vince.


Passati gli anni che ero giovane io - per regole chiare dell'economia di questo sport (sapete, mica siamo in Italia, lì vige il mercato, quello che fa vincere il migliore) - SF diventa una squadra scarsolina. Per parecchi (dolorosi) anni. E lui lo scelgono, e lo scelgono per fare la riserva.


Fa la riserva di Alex Smith. Alex Smith è un bel ragazzone (oh, sei quarterback, quello è il ruolo) che viene da Seattle. Proprio carino. Bello, biondo, preciso. All'università è andato a Utah (gente seria).


Gioca lui quarterback a Frisco. Lui guardano le ragazze. E ci mancherebbe. Boh, dai, Colin, intanto siamo qui. La California non è esattamente Cinisello Balsamo, qualche ragazza bada anche al quarterback di riserva. Ce ne sono tante, e sono generose.


Nel frattempo pensa a fare quello che fanno i ragazzi - pirla - di quegli anni lì. Si tatua. Ovunque. C'ha mica tanto da fare.


Ad accendere la miccia ci pensa un altro personaggio. Uno davvero mitico. Si chiama Jim Harbaugh. In quel momento è l'allenatore dei San Francisco 49ers.


Jim Harbaugh - cosa ve lo dico a fare - da ragazzo ha giocato. Ha giocato quarterback (lo sapete quel ruolo? Quello che tutti guardano te?). Lui ha giocato a Michigan (e voi non potete immaginare che cosa possa voler dire giocare quarterback a Michigan). Poi ha fatto la sua carriera da professionista, che pure ci sarebbe da raccontarne, e adesso fa l'allenatore. E' del 1963. E' uno tosto, Jim. Uno che fa il quarterback. Che sa che tutti guardano lui. Che da lui dipende tutto. Uno anche che se la tira (eh, vedi te... ha visto cose che voi umani...). Voleste immaginarvelo, senza guardare su google, pensate a un giovane Clint Eastwood (a proposito: buon compleanno!).


Jim smette di giocare e diventa allenatore. E' un piccolo Clint Eastwood a bordo campo. Uno tosto. Uno che ha visto cose. E - sia come sia - arriva a San Francisco. Che è stata una squadra fortissima, ma che adesso è di fondo classifica. Adesso, a San Francisco, il quarterback, quello che tutte guardano, si chiama Alex Smith. E San Francisco va mica troppo bene.


Un giorno, un giorno che probabilmente c'ha le palle girate, Jim ne fa una delle sue. Entra in campo. Prende - di peso - Alex Smith (pesa 93 chili, fa niente). Lo trascina fuori dal campo. Gli dice: hai rotto il cazzo. Con me non giochi più. Glielo dice a un centimetro dalla faccia. Gli dice: piuttosto che far giocare te faccio giocare il primo che passa.

Il primo che passa è Colin.


Colin - diciamocelo - Colin da Milwaukee, è meno bravo di Alex. Meno bello, meno biondo. Però lo sa. E' uno che sa che mica è unto dal Signore. Che non è la mano di Dio quella che lancia quei palloni. E' solo la sua. Uno che sa che - per dire - per farti guardare da una ragazza te lo devi meritare.


Ecco, Colin entra in campo, per la mia squadra preferita, e gioca così. Come uno che sa che non è mica la stella. Non uno che hai pagato il biglietto per lui. Però due robe le sa fare. E poi, poi prende fiducia. E le cose vengono bene. E nessuno si aspetta quello che fa. Per forza. Non se lo aspetta nemmeno lui.


San Francisco comincia ad andare bene quell'anno. E io - non l'aveste capito - a San Francisco ci tengo. Da sempre. Da quella squadra che non era solo forte, era bellissima. (bella come una ragazza italiana che ti sorride? Ah, no, scusate, sbagliato leitmotiv).


E Colin gioca. E' il quarterback, questo strano ruolo che ha solo questo strano sport. E gioca a modo suo. Fa a cazzotti. Le becca, anche. Ogni tanto fa delle cose belle. Ogni tanto due cazzate. Quei sei ragazzi, davanti a lui, hanno delle facce che dicono una cosa molto chiara. Per te ci facciamo menare. Per il biondo no.


Oh, succede il miracolo. San Francisco, quell'anno, arriva in finale. E pure lì ci sarebbe un mare di storie da raccontare. La prima è che Jim (vi sarete mica dimenticati?) arriva in finale. E l'allenatore della squadra avversaria è suo fratello. Che non ha mai giocato, mai fatto il quarterback. Ma che è più intelligente. Mica è un bulletto come Jim, John (il fratello). Nono, è uno che sa il fatto suo. Mica si inventa come si fa l'allenatore. Mica che tira fuori prendendoli per le spalle i quarterback.


Poi - davvero - ne succedono di tutti i colori. Tipo che c'è un blackout. Ma davvero, basta parentesi. Finisce che - per un pelo - Colin e
Jim non ce la fanno. Perdono. Di un soffio. La rimonta non gli riesce. Fa niente, dice Jim. Fa niente? Anzi grazie, dice Colin. Arrivare fino a qui non avevo mai osato nemmeno sognarlo! Incidentalmente - molti anni prima - la stessa cosa era toccato dirla a Jim. Che - tra i professionisti - ebbe una buona carriera. E arrivò a un lancio dall'entrare nella leggenda. Quel lancio andò male. Lui disse: io sono fortunato. Da bambino non avrei mai chiesto una cosa così grande come poterlo tirare quel lancio. Forse è anche per questo che Jim Harbaugh, che è un po' bulletto, un po' Clint Eastwood a me sta così simpatico. Forse non è nemmeno un caso che le squadre a cui tengo hanno la antipatica abitudine di arrivare seconde. In ogni caso finisce così, quell'anno. San Francisco ritornata grande, ma seconda. Colin che ha il posto di titolare. Risulterà ottantunesimo tra i cento migliori giocatori della lega.


L'anno dopo ricomincia da dove ci si era fermati. Jim in panchina, Colin in campo. Io che tengo a San Francisco. No, in realtà, si ricomincia quasi da dove si era finito. E anche qui serve una foto. Che non mostra (purtroppo) i tatuaggi che si è fatto durante l'estate. Però - me lo ricordo come fosse oggi - mi fa venire un dubbio. E - subito - per quel dubbio, mi dico quanto sei scemo. Il dubbio, non lo so, ma forse è venuto anche a voi. Ma è NERO? Che dubbio scemo, a pensarci. Che cavolo significa? E' come è. Viene da Milwaukee. Sua mamma ha origini italiane. Suo padre nero, anche se quasi non l'ha mai visto. Lui - in realtà - da piccolo è stato adottato. Americano. Anche quella cosa di dire afro americani non l'ho mica mai capita. Perché Jim Harbaugh cos'è? Euro americano? Dell'Europa non sa niente. Manco mai vista. Come Colin dell'Africa. Dovessimo tornare indietro, nell'albero genealogico del primo forse troveremmo qualcuno che l'Africa l'ha vista. Ah. Bene. Importante. Sempre queste strane, stupide categorie che ci hanno insegnato. E che ci fanno dire stupidate. Se vedo una ragazza di Palermo, bionda, la chiamo Normanno siciliana? Se - per caso - scorrendo il mio albero genealogico, trovassi un lontano parente nero sarei afro italiano?

Boh, strane cose. Colin, Colin di Milwaukee, Wisconsin, forse, come un po' tutti noi è mille cose. Un quarterback, un ragazzo con l'aria intelligente e simpatica, da giovane giocava anche a baseball. Poteva essere mille cose. E' un bel ragazzone, simpatico e intelligente. E vive nella home of the brave.


L'anno, comunque, ricomincia dove era finito quello precedente. San Francisco è tornata forte. C'è sempre Jim in panchina, un piccolo Clint Eastwood, e Colin in campo. Uno che è 81esimo tra i primi 100 giocatori. E tra gli 80 davanti ci sono certamente tanti quarterback. Ma lui lo è, un quarterback. E' uno che sei ragazzi, grandi e grossi, si fanno menare per lui. E lui gioca anche per loro. A modo suo. Un modo un po' strano.


Poi succede una cosa.

Jim, mio preferito, ne fa un'altra delle sue. Ha appena vinto una partita. Di quelle vinte all'ultimo secondo. La Lega prevede che a fine partita gli allenatori delle due squadre si stringano la mano. E lui ci va. Però - appena gliel'ha stretta - sarà per l'adrenalina, sarà perché è un po' scemo, si mette a girellare per il campo facendo gesti. Di quelli che porti entrambe le mani sotto la cintura. Tipica esultanza... La Lega mica lo perdona. Va bene che prendi a sberle i quarterback belli e biondi, va bene che sei un bulletto. Ma questa cosa - in mondovisione - no. Jim perde il posto. Oggi allena Michigan. E' tornato a casa. Cosa voglia dire allenare quell'università lì, che è anche stata la tua, voi non lo immaginate nemmeno. La allena, come sempre, a modo suo. Un po' da bulletto. Un po' da uno che è nato quarterback. Colin, basta cercare su internet, Colin e lui si sentono ogni giorno... Cazzo si dicono? Boh, robe loro, robe da quarterback...

Quello che succede poi è storia.

Anche qui basterebbe una foto. Le parole, quelle sono sopravvalutate. E spesso inutili. Come chi ti chiedesse chi erano i Beatles. Io penserei a due foto. Bastano quelle. E se poi - in più - uno volesse sapere di cosa parlavano, ne basterebbero altre due.

E' un giorno come un altro, al Candlestick Park di San Francisco. E suonano l'inno. L'inno americano. The land of the freedom. The home of the brave. Colin che - l'avrete capito - di cognome fa Kaepernick, che certo non è un cognome da nero, ma è il suo cognome da adottato, se dovesse tenere il suo cognome farebbe Russo, perché l'unica che ha conosciuto era la mamma, italiana di origine, decide che basta. Decide che non si alza. Rimane in ginocchio. Non fraintendete. Da noi - inginocchiarsi - è segno di devozione. Per un giocatore di football, con tutto l'armamentario addosso, sedersi è difficile. La posizione di riposo è in ginocchio. E Colin, Kaepernick, da Milwaukee, quarterback, così rimane. In testa una pettinatura decisamente afro. Basterebbe la foto, l'ho detto. Perché? Perché non si alza? Perché sente le radici? Il sangue? O forse è solo che ne ha viste e sentite abbastanza? E che dice andate a raccontarla ad un altro quella favoletta lì? Sta di fatto che non si alza. E poi - cosa ci volete fare - lui è quarterback. Subito ci sono altri, di fianco a lui. Che si inginocchiano. Non si alzano.

Quello che succede poi lo avrete sentito raccontare.

La Lega si incazza. Da allora - credetemi - non c'è mai più stata una sola partita in cui ti facessero vedere l'inno. Cominciavano dopo. Pubblicità, prima. Trump si incazza. Platealmente. Pubblicamente. Gli dice sei un rivoluzionario da salotto. Sei un radical chic. Un privilegiato. Nei tuoi quartieri la polizia non fa così. Ti stai solo facendo pubblicità. Ma non sai che cos'è la vita vera. Questo gli dice Trump. E Trump non fate mai l'errore di considerarlo stupido. Solo che... Solo che - ed è strano - non conosce il football. Quello che noi qua chiamiamo football americano. E non sa - evidentemente - che in quello sport lì c'è un ruolo, che c'è solo in quello sport. Il ruolo di quarterback. Che è un privilegiato. Però - se è bravo - e lo puoi essere anche se sei l'81 esimo su 100, tu sei tutta la squadra. Tutta. Anche quelli che la palla non la vedranno mai. E che per tutta la partita si fanno menare per te. E se sei bravo, anche se sei 81 su 100, loro sanno che tu sei uno di loro. Il migliore di loro.


Colin perde il posto. Non viene licenziato. Semplicemente nessuna squadra gli offre più un contratto. Gli dicono hey! sei solo 81 esimo su 100, c'è un sacco di gente meglio di te. Per carità, guadagna anche uno spot della Nike, che sono certamente soldi. Però un posto non glielo dà più nessuno. Ragazzoni grandi e biondi (o anche neri, né, per carità) più forti di te ne abbiamo!

Ci ritenta ancora all'inizio dell'anno. Chiede alle squadre, potrebbe giocare. Gli dicono che non hanno posto, che non è un granché. Allora lui - gli Usa sono davvero un posto strano - ottiene una roba. Una prova. Dice io e altri 3 che giocano quarterback. Su un campo. Proviamo. Vediamo se lancio proprio così da schifo. Vediamo chi lancia meglio.

Come va a finire è semplice. La prova la accettano. A ricevere i suoi lanci si offrono volontari i 5 migliori ricevitori di tutta la lega. Neri. Oh, cazzo, i lanci degli altri non riescono proprio a prenderli! I suoi sì. Il football è un gioco strano. E dentro a questo gioco un ruolo strano. Non ce l'ha nessun altro. Sei un privilegiato. Eppure - se sei bravo - trovi sempre chi è disposto a farsi menare per te. No, insieme a te. Che questo è il segreto. Anche se sei il numero 81 su 100. La prova - ovviamente - la vince. Nessuna squadra gli offre un posto. Numero 81 su 100, dai. A chi serve Colin Kaepernick di Milwaukee Wisconsin?

Non lo so a chi serve. E non so nemmeno se ho raccontato bene questa storia. Che le parole sono davvero sopravvalutate. E che il mio scopo era quello di raccontare una cosa che in gran parte non so. Come una storia intima. Che non è trovare le proprie radici. Ma un'altra cosa. Una cosa più strana. Però - io - ogni volta che lo sento nominare, quel Colin lì, da Milwaukee come Richie Cunningham, che poteva essere ogni cosa, io mi alzo in piedi. Cosa ci volete fare, è un quarterback.

Forse anche per questo le foto, quelle di cui parlavo, nemmeno quelle dei Beatles, non ve le metto...

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editoriale di iside

Essere capaci di scrivere "cose" non è semplice, le parole si attorcigliano e sembrano inutili.

Scrivi, rileggi, cancelli.

Riscrivi, rileggi e ricancelli.

Le cose migliori le ho sempre dette "a braccio", scrivere non è proprio cosa per me.

In quest'epoca di folle corsa trovi sempre qualcuno che le "cose" riesce a dirle meglio di te.

La danza degli obblighi ( di Silvano Agosti)

Ci sarà pure qualche barbaro un po' meno barbaro tra coloro che hanno la responsabilità di organizzare le istituzioni o comunque di influire sul destino della gente.
Qualcuno cui riferire l'assoluta disorganizzazione e le umilianti quanto inutili costrizioni cui vengono sottoposti ogni giorno gli esseri umani.
Per non dire della violenza fortemente improduttiva che costringe i più a lavorare tutto il giorno, invece che dividerlo almeno a metà, riservando una parte della giornata al lavoro e l'altra alla vita. Su tutti pesa comunque lo spettro spietato dell'Obbligo.
Ormai si sa bene che l'Obbligo è una sorta di ruggine dei sentimenti, che finisce per corrodere e guastare ogni rapporto con se stessi, con i propri simili e più in generale col mondo.
Così, allo sguardo limpido di un bambino, oltre alla nudità del re, appaiono, uno dopo l'altro, gli Obblighi che pesano sulla realtà.
Dalle sette e quarantacinque alle otto e quarantacinque circa, i vagoni della metropolitana sono stracolmi, al punto da fondere umori e sudori in un magma di irritazioni e di sguardi obliqui.
Passeggeri stipati, da quelli che hanno l'Obbligo di recarsi al lavoro tutti alla stessa ora, a quelli che hanno l'Obbligo di andare a scuola, tutti con lo stesso orario, e lì, nella prigionia del banco, dominati dall'Obbligo di ''studiare'' e cioè immagazzinare nozioni non desiderate, invece di dare risposta a curiosità naturali sul proprio corpo, sull'ordinamento sociale, sull'assurdità degli obblighi.
Intanto nel centro della città, muovendosi a una velocità media di gran lunga inferiore a quella di un pedone, file interminabili di auto arrancano sui tracciati che conducono agli uffici, alle officine, ai negozi etc., ogni mattina rimanendo intasate per almeno un paio d'ore.
Perché tutti costoro ogni giorno si sottopongono a una pratica tanto asfissiante (in tutti i sensi, dato che queste diecine di migliaia di automobili emettono una spessa nube di ossido di carbonio)?
Apparentemente non c'è risposta, ma uno sguardo attento, dietro i vetri che li imprigionano, scorge sui loro volti rassegnati, un barlume di adesione a quell'innaturale procedere a due chilometri l'ora, espressa da un pensiero: ''Comunque, meglio qui incastrati nel traffico che in quel maledetto ufficio dove ho l'Obbligo di passare la mia giornata, anzi, tutta la mia vita.''
Come dar loro torto?
Ma dalle dieci in poi le strade della città si svuotano, le metropolitane viaggiano quasi senza viaggiatori e gli esseri umani si ricompongono nella disperazione degli obblighi quotidiani.
è immediato e semplice il pensiero che, scaglionando gli orari di lavoro, questo piccolo inferno cesserebbe di esistere.
Lo stesso dramma si ripropone la sera, quando il ritorno dalle otto o dieci ore di lavoro ridiviene privo di qualsiasi buon senso organizzativo.
Sfilano i volti esausti che compongono questo fiume di destini negati. Perché tutta questa gente ha dimenticato che si vive una sola volta nell'arco estremo dell'eternità? Cosa si può fare perché divengano coscienti della ferocia che li domina?
Forse sarà la Poesia a togliere agli uomini l'imbarazzo di una vita non vissuta. Sui luoghi di lavoro e sui mezzi di trasporto dovrebbero essere scritti questi versi:

''A voi, che dall'albero della vita cogliete le foglie e trascurate i frutti.''

Una canzone Bertoli

Il discorso tipico dello schiavo

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editoriale di zaireeka

Oggi sono stato, come ogni sabato, al cimitero a trovare mio padre e mia madre.

Forse sono ancora uno dei pochi che ci crede, era una nevrosi collettiva, ora forse è solo mia e di pochi altri, a giudicare dalla poca gente (viva) che si vede in giro.

All’uscita ho trovato un tipo con cui ho avuto a che fare tempo fa per faccende sempre legate a mio padre e mia madre ora che sono qui, in questo posto.

Era depresso, si lamentava dell’Italia, così ha esordito, tanto per essere originale.

Poi ho capito subito perché.

Tempo fa un altro addetto mi aveva raccontato di come non ci sia più il due novembre di un tempo.

Con traffico nei pressi del cimitero e ai banchi dei fiorai.

Che ormai le inumazioni sono una cosa che sta passando di moda, le sepolture diminuiscono, e quindi i visitatori del cimitero.

Nell’era materialista in cui l’uomo non è altro che il suo corpo e l’anima non esiste, il suo corpo ha perso qualunque valore.

Tutti vogliono essere cremati.

Un’urna cineraria da tenere a casa, accanto al televisore.

Niente più viali alberati con pietre marmoree con sopra foto e nomi di sconosciuti, da osservare, da leggere, da incontrare, sempre quelli, per abitudine una volta a settimana, una volta al mese, una volta all’anno, che divengono familiari pur rimanendo estranei come succede con i vivi nella vita reale, su cui immaginare storie aiutati dagli epitaffi, come Totò o Edgar Lee Masters.

Niente più la voglia ed il bisogno per i congiunti di lasciare alla memoria degli altri un’immagine, anche se solo di un umile netturbino, su cui mettere un fiore, passeggiando su un viale alberato.

Niente più il bisogno di scrivere il ricordo di un amore perduto su una lapide in un campo fiorito sotto i raggi del sole e gli occhi degli altri.

L’ultima vittima di Internet.

Era lasciare una traccia del nostro passaggio e di quello dei nostri cari, sul suolo terrestre, sotto gli occhi di tutti, uno dei più intimi bisogni umani, in attesa del giorno del giudizio dell’Altissimo e della resurrezione dei morti dalle loro tombe.

Ora non più.

“Ed il giorno del giudizio l’ultimo Internauta prenderà le migliori nostre vite prese dal web e da whatsap, ci scriverà un romanzo pieno di citazioni, e il mondo avrà un nuovo inizio”.

La nuova resurrezione dei morti.

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editoriale di mrbluesky

Un giorno di pioggia
uno come tanti
di quelli che esci e ti incammini alla fermata

capannello di gente

a bordo l'aria pesante,pozze sotto agli ombrelli
ragazzi che scrivono sui vetri
chi sottolinea una pagina

poi a piedi,sotto i portici
i libri sotto il braccio
gente nei bar

passi oltre,una leggera inquietudine


Oggi piove,un giorno come tanti
il cane riposa,sa che non uscirà
un paio di impegni,una telefonata

voglia di nulla

passo una mano sul vetro
fuori sembra tutto uguale.

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editoriale di Kiodo

Ciao, scrivo a te perché la stima che nutro nei tuoi confronti mi spinge a farlo. Stima e rispetto per la forza con la quale esprimi il tuo parere ed il tuo supporto ad Achille Lauro. In questa settimana in cui gli sta piovendo addosso di tutto tu sei lì in prima fila, guidato da autentico trasporto e sincera partecipazione e senza mai scadere nelle volgarità, fatto non comune in questo contesto sociale caratterizzato da slogan ruttati.

Ti scrivo perché tu, come moltissimi altri in questi giorni, mi stai letteralmente fracassando i maroni via social con Achille Lauro, solo che tu, a differenza di troppi, hai quel non so cosa a livello di comprensione del fenomeno del momento che purtroppo manca a me, troglodita cibernetico che ha appena messo il pollicione del piede fuori dall'uscio dalla sua caverna.

Bene, fine della premessa.

Ricordi la canzone di Valerio Scanu? "In tutti i luoghi e in tutti i laghi"? Ottimo, quel brano porta la firma di un ragazzo del quale so ancora meno di quanto non sappia a proposito di Scanu, tale Pierdavide Carone, che se non ricordo male venne escluso dallo scorso festival di Sanremo perché il pezzo proposto non venne ritenuto adatto, trattando di storie di abusi realmente accadute o solo presunte, ma tristemente attuali, su alcune bambine.

Ora, dalla finale della scorsa edizione del festival é passato meno di un anno (364 giorni, il 2020 é pure bisestile ma non credo c'entri granché) e tu vorresti seriamente farmi credere che ti é bastato così poco tempo per diventare sensibile su certi temi?

E quando dico TU, non mi rivolgo specificamente a te, parlo di noi. Davvero é servito Achille Lauro a svegliarci tutti?

"Eh ma lui ha la tutina", "si é spogliato di tutto", "fa l'ambiguo", "sta un passo indietro", "canta al femminile". E sticazzi? Stai dicendo che uno vestito in maniera per così dire tradizionale, messo sul palco con un brano di musica per così dire leggera, magari pure in grado di cantare, non avrebbe lo stesso potere comunicativo di un saltimbanco? Che mancherebbe di forza e credibilità una volta messo lì, sullo stesso palco dal quale Lauro biascica le sue 4 banalità, con una canzone che denuncia le medesime brutalità?

É questo che io onestamente non comprendo, in tutta sincerità credo che non ci serva Achille Lauro.

Non solo, ho seri dubbi sul fatto che sia così avanti. Per esempio, prendi "Me ne frego" e mettici su la voce di Gianluca Grignani. Cazzarola, che svolta! La verità é che l'industria culturale é satura, i modelli positivi oggi devono essere camuffati così da provocare avversione. Di questo Achille non ha colpa, tu stesso non hai colpa. Peró, invece che plaudire al miracolo artistico che aspettavamo da decenni (???), dovremmo tutti interrogarci su come siamo arrivati al punto di essere ricettivi solo quando ci provocano. Il fatto di aver assunto le sembianze di tutto quello che ci spaventa non fa di Lauro un genio nemmeno per sbaglio, la provocazione é fine a sé stessa e non porta con sé nessun contenuto di particolare rilevanza:la lotta per il rispetto delle diversità andrebbe presa sul serio e, purtroppo (a causa tempistiche eccessivamente dilatate, un po' per la tendenza tutta italiana a procrastinare ed un po' per mancanza di cultura), combattuta in campo neutro. Il buffone che si presenta in tutú su di un palco, giocando con un'ambiguitá che Mario il benzinaro con la terza media può solo che attaccare, non serve assolutamente a perorare la causa.

Achille Lauro é il Marilyn Manson che non abbiamo avuto nel bel paese e come tale finirà nel dimenticatoio. Disinnescato, innocuo, grasso e calvo.

E per allora, nessuna delle sue trovate ci avrà salvati dallo squallore umano al quale siamo destinati.

Achille Lauro non é avanti, é oltre. É superato, pur essendo arrivato tardi.

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editoriale di Fratellone

404.892 bambini nati in Italia nel 2020. Una prima stima per il 2021 porta ad una diminuzione di tale cifra per circa 15.000 bambini. Altri dati: tasso di fecondità pari a 1,24, età media al parto 32,2 anni.

Un calcolo semplice, la vita media è di 82 anni (79,7 per gli uomini e 84,4 per le donne), per cui tra 80 anni in Italia la popolazione sarà di poco superiore ai 30 milioni. La metà rispetto ad oggi… L’immigrazione , l’emigrazione, il trend (in calo) delle nascite non li considero, rimane un dato spaventoso: la metà della popolazione attuale.

Quali conseguenze ci saranno? Piccoli esempi:

In Italia abbiamo circa 17.300 scuole elementari, 8.800 medie ed altrettante scuole superiori. Se divido i nati per il numero delle scuole elementari ottengo che tra sei anni 23 bambini in media si iscriveranno in prima elementare per ogni istituto. Tra 11 anni ogni scuola elementare avrà in media 115 bambini nelle 5 classi. Quante scuole dovranno chiudere?

Di questi 400.000, circa il 70% otterrà un diploma e il 21% una laurea.

Piccola curiosità i laureati in medicina rappresentano circa il 12% del totale, per cui con un semplice calcolo avremo 10.000 medici, 3.300 farmacisti, 2.200 agronomi…

Le conseguenze sul sistema pensionistico, basato sul patto generazionale in cui i lavoratori attuali con i propri contributi pagano le pensioni agli attuali pensionati, saranno inimmaginabili.

Potrei continuare per ore ed ore, ma il discorso, anzi la domanda che voglio porvi è la seguente:

Di chi è la colpa?

La risposta, cari 50/60 enni è semplice:

Nostra.

La vita è così, più o meno una vita vale l'altra, dopo un po' ci si abitua a tutto.
Il mondo perde di fascino, ed è naturale ritrovarsi a guardarlo con un certo distacco.
Anche i più entusiasti, come me, a una certa età finiscono col non stupirsi più di nulla. (G. G.)

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editoriale di luludia

Se penso a Iggy mi vengono in mente due cose: una notte d'inverno del 77 e un suo concerto a Parma nel 79...

Che poi, a dirla tutta, le cose sarebbero tre, ma facciamo che l'ultima me la tengo per il finale.

Il concerto di Parma avevo sedici anni e fu una storia del tipo “allora il rock'n'roll esiste davvero”.

Che poi, con mio grande stupore, scoprii che esistevano pure i punk, quel posto ne era pieno.

I punk, figuriamoci...io venivo dal paesello...

Beh, fu un concerto favoloso. Con un sacco di pezzi degli Stooges.

E, se si parla di un certo tipo di rock tra garage e punk (più garage che punk), i primi due album degli Stooges fanno il culo a tutti, Non ce n'è per nessuno. Per nessuno...

Oscura , oscurissima,energia primordiale..

E, ok, , avevo detto che me la tenevo per il finale, ma ci sta bene qui: “IL SUONO CHE INGOIA LA SOFFERENZA TUTTA INTERA”, una frase che il nostro ha detto una volta, chissà dove e chissà a chi...

E poi mi ricordo i suoi occhi, non ho mai visto occhi più folli e penetranti...ed era posseduto già un decimo rispetto a quando era folle davvero...

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La notte d'inverno del 77. invece andò così..

Una cameretta (la mia ) e una radiolina gracchiante (mia pure quella).

Con un tizio collegato da Londra che raccontava del ritorno sulle scene di un certo Iggy Pop. Non prima o dopo il concerto, durante... E un torvo rumore di sottofondo ne era la prova.

Iggy Pop, che nome del cazzo pensai subito...

Era quella, infatti, la prima volta che lo sentivo nominare.

Però ero fresco dell'acquisto di “Low”. Che c'entra? C'entra. Uno, ero fiero dell'acquisto, e due...

E due dobbiamo tornare alla radiolina e alla cameretta...

Che, improvvisamente, quello speaker disse che il duca (il duca?), si il duca, era il tastierista del gruppo di quel tal Iggy, e mica solo per quella sera, ma per tutto il tour...

Cosa???? Cosa??????????????????????????

Non solo, il tizio, quasi a calcare quella che a me sembrava una cosa incredibile, se ne uscì, petto in fuori e mano sul cuore, con una frase del tipo “Mr Bowie suona nell'ombra” Inutile dire che all'epoca l'ombra aveva una certa importanza...

Beh signori, quella radiolina collegata col centro (del centro) del mondo è uno dei miei ricordi musicali più preziosi. Anche se è una cosa da niente. Ma col niente o col poco le facoltà immaginative viaggiano a mille.

Non ci misi molto a mettermi in pari e, ben presto, il signor Iggy divenne membro del sacro quadriunvirato dell'epoca.

Iggy, Jim, Lou e David...

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Questo breve scritto è nato dall'aver scovato sul tubo la registrazione di un concerto di Iggy Pop, proprio del 77, proprio a Londra, proprio in inverno...

Chissà magari è lo stesso di quella notte alla radio...

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editoriale di zaireeka

Ieri Battisti è tornato in Italia.

Mi ha risposto mio fratello maggiore: "Il cantante?".

No, non Lucio, Cesare.

E' intervenuto il mio bisnonno, che non ho mai conosciuto: "Chi, il patriota irredentista?"

No, il terrorista anni 70 ...

Oggi ho letto su un giornale di un articolo di Adriano Sofri.

Riporto sotto un piccolo frammento che mi ha particolarmente colpito:

"(...) la galera, chi la conosca da carcerato o da carceriere, e resti umano, nobilita il prigioniero (...)".

Il giorno 11 gennaio 2019, venerdì scorso, sono passati esattamente due decenni da quando Fabrizio De Andrè se ne è andato a cantare in paradiso.

Nessun si è fatto mancare l'occasione di celebrarlo, persino il nostro ministro dell'interno, sempre lui, con un tweet dedicato in cui citava alcune parole dalla sua "Il pescatore".

C'è chi lo ha attaccato per questo, rinfacciandogli la sua ostilità ai migranti, asserendo implicitamente quanto questa cosa fosse ridicola ed in contrasto con altre parole della canzone di De Andrè ("Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno, non si guardò neppure intorno ma versò il vino spezzò il pane per chi diceva ho sete ho fame").

Siamo tutti un po’ gelosi di Fabrizio De Andrè, ma la sua grandezza è che appartiene a tutti, pure a Salvini (sorprendente, vero?), ognuno interpreta le sue parole e si riconosce in esse come vuole.

Personalmente ritengo che chi legge in "Il Pescatore" una sua presa di posizione a favore degli immigrazione, sempre e a prescindere, è libero di farlo, ma non penso che De Andrè la abbia scritta con quella idea in testa, del resto l'epoca era diversa ...

Piuttosto ritengo, dopo aver letto alcune cose, che sia piuttosto ispirata alla vita di Riccardo Mannerini, suo amico, coautore de "Il cantico dei drogati".

Un personaggio difficile, morto suicida, che era solito, a quanto ho letto, ospitare e nascondere in casa sua, per puro spirito evangelico (quello vero), rifiuti vari della società, fuggiaschi in fuga “dai gendarmi” di ogni tipo e natura.

De Andre’ ha cantato gli ultimi e per gli ultimi, ma gli ultimi veri, quelli dimenticati, quelli esclusi, sopratutto quelli di cui non si parla.

Gli ultimi stanziali (ripeto, stanziali) nella nostra società, perseguitati (oltre ovviamente a quelli non solo perseguitati ma anche cancellati dalla storia, vedi gli indiani di America, ma questa è un'altra storia).

Di tutti coloro, la loro umanità, nonostante tutto.

Questo è Fabrizio De Andre’, per me.

Detto questo, cosa c'entra tutto ciò con Battisti?

De Andrè mi ha rovinato, da quando ho imparato a prendere un po' troppo sul serio il suo pensiero e le sue parole (da un po' ormai), provo compassione anche per coloro per cui non dovrei provarne.

E a trovare bellissime le frasi come quelle di Sofri riportata sopra.

E a pensare che qualunque uomo, anche il peggiore, possa sempre riuscire un giorno, se il "buon Dio" (quello cantato in "Preghiera in gennaio") lo vuole, a "consegnare alla morte una goccia di splendore" (quella cantata in "Smisurata preghiera" e presa in prestito da Mutis).

E a provare compassione e pietà anche per uno come Cesare Battisti, ora già in carcere a scontare la sua giusta condanna, e le sue lacrime al momento della cattura (così dicono), .

E ad avere problemi a dirlo in giro, in questi giorni, tranne che qui.

Sai che ti dico, De Andrè?

Fanculo, maledetto il giorno che ti ho incontrato.

Almeno per me, hai fatto più danni di Gesù.

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editoriale di macaco

Un recente fatto di cronaca italiana ha chiamato la mia attenzione tanto da spingermi a riportare la vicenda in questo editoriale. Ci che é successo si inquadra, a mio avviso, in una discussione recentemente affrontata in singolar tenzone da due nostri cari DeAmici. Un tema complesso e ampiamente studiato, che peró ha bisogno di nuove riflessioni visto che le strutture di comunicazioni sono assai diverse dal passato e in continua mutazione.

I fatti.

La settimana scorsa, il prof. Emanuele Castrucci é stato massacrato su tutti i fronti a causa di alcuni suoi tweet, definiti come filonazisti e antisemiti. Il prof. Castrucci é un docente di fama internazionale con moltissimi lavori pubblicati, in particolare sulla figura di Carl Schmitt. Nonostante ció il rettore há deciso di sospenderlo dalle attivitá universitaria, appellandosi alla legge Fiano che prevede il reato di negazionismo di genocidi e crimini di guerra

I tweet

https://www.huffingtonpost.it/entry/non-solo-il-tweet-su-hitler-ecco-tutti-i-tweet-antisemiti-del-professore-emanuele-castrucci_it_5de62943e4b0d50f32a83fdc

Il contenuto dei tweet potrebbe anche dare origine ad una discussione interessante e piuttosto accesa, degna di portarci a qualcosa di cui forse non sospettavamo. In particolare il tweet incriminato che recita: Ti hanno detto che sono stato un mostro per non farti sapere che ho lottato contro i veri mostri che oggi ti governano. Con la foto di Hiler in basso. Giudicate voi, io ho giudicato e non menzioneró il mio pensiero, non essendo questo il punto cruciale della questione.

Paolo Becchi

Il prof. Paolo becchi ha scritto un´articolo sulla vicenda. Egli conosce il prof. Castrucci e ne prende le difese... anzi no, prende le difese esclusivamente delle sue opere, condannando i messaggi contenuti sui tweet. Sostanzialmente sostiene che non si puó gettare discredito sull´opera di uno studioso di reputazione che ha un centinaio di pubblicazioni serie sulle spalle, solo per dei tweet.

https://paolobecchi.wordpress.com/2019/12/04/non-si-distrugge-la-reputazione-di-un-prof-per-dei-tweet-sbagliati/

Recentemente il prof. Becchi si é visto cancellare una conferenza alla quale era stato invitato senza un ben specificato motivo, evidentemente per causa del suo articolo, unico movente possibile. Il che fa riflettere su tutta una serie di questione relazionate all´etica, al giudizio, alla condizione di distacco sul giudizio morale di un opera e del suo esecutore. Ma forse il punto centrale non é neppure questo, forse dovremmo riflettere sui meccanismi che i nuovi mezzi di comunicazioni usano per creare il pensiero unico dominante, dove le ideologie sono utilizzate, ossia non é piú l´ideologia che si genera da un consenso e porta all´azione, ma diventa essa stessa lo strumento di controllo del pensiero unico.

Infine

Il potere giuridico che ancora esiste nello stato di diritto sembra essere stato messo in seconda posizione, l´infangamento é l´arma definitiva del discredito e messa al bando, indipendentemente delle sentenza giudiziarie. Paradossalmente con i politici non funziona perché essi stessi sono in primis gli artefici mediatici, nella loro rappresentazione della negazione del tutto e sempre.

Per gli altri non c´é appello.

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editoriale di CosmicJocker

L'ironia è il male dei nostri giorni.

L'ironia, checché se ne dica, è un male borghese.

Panza piena e un tetto sopra la testa.

L'unica speranza è nei depressi e nei violenti.

Depressi e violenti, gli unici con i canini ben acuminati.

Alla trattoria Achilli è tutto molto chiaro.

Si può anche ripiegare sul sarcasmo.

Ma solo per sfociare altrove.

L'ironia è l'ultima maschera.

Toglietela.

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editoriale di macaco

Solta a pipa menino...

Eccoli i bambini, che delicati lo rincorrono in lieti idilli primaverili, inebriati dalle fragranze della vita che tenera si rincorre nei prati...

Ninguem!

Nessuno li rincorre piú; strade strette, marciapiedi con fili tesi a connettere l´impossibile.

Trovare la breccia sub-urbana verso l´azzurro é il cammino verso un piccolo sogno di libertá.

Uma palha de coqueiro, fio de nylon e uma sacola de plastico.

Il necessario per fare un aquilone.

Sei povero, nato in un posto orrendo, circondato da persone volgari e il tuo futuro piú prossimo é un revolver.

A inocência está perdida.

Il filo é ormai pregno di cerol: polvere di vetro con colla.

Gli imbratta il nylon ormai tagliente, come ghigliottina pronta a decapitare altri perversi aquiloni.

Soddisfatto é il ghignare di occchi trionfanti che scrutano la vittima volteggiare, cadendo, verso il grigio polveroso del cemento.

E quando il destino traccia il piú macabro disegno eccolo fuori controllo.

L´aquilone plana svolazzando sull´ asfalto e scende ad accarezzare il collo d´un ignaro motociclista.

Piccolo sogno di libertá in una pozza di sangue.

“ ...Ed ecco ondeggia, pencola, urta, sbalza,
risale, prende il vento; ecco pian piano
tra un lungo dei fanciulli urlo s'inalza.

S'inalza; e ruba il filo dalla mano,
come un fiore che fugga su lo stelo
esile, e vada a rifiorir lontano.

S'inalza; e i piedi trepidi e l'anelo
petto del bimbo e l'avida pupilla
e il viso e il cuore, porta tutto in cielo.

Più su, più su: già come un punto brilla
lassù lassù... Ma ecco una ventata
di sbieco, ecco uno strillo alto... - Chi strilla?... ”

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editoriale di sotomayor

Quando ero bambino, mio padre lavorava in fabbrica a una macchina a controllo numerico. Ricordo che qualche volta succedeva, in occasione dei periodi natalizi, che i genitori potevano portare la propria famiglia e i propri figli in fabbrica: questa organizzava degli eventi attraverso il cral aziendale in cui era data la possibilità di accedere a degli sconti per chi volesse comprare determinati regali per i figli in occasione delle festività. Organizzavano allora una specie di festa e un allestimento. Ricordo questi grandi capannoni addobbati per l'occasione: nel complesso, ripensandoci, mi sembra tutto molto 'povero'. Era sicuramente tutto molto grigio e ricordo sempre che faceva freddo, però allora bastava la magia dei giocattoli a dare quel colore che significava qualche cosa di speciale.

Devo dire che mio padre non amava particolarmente quelle iniziative. Ricordo che organizzavano, sempre secondo le stesse modalità, ad esempio anche la colonia estiva e mio padre non volle mai mandare me e mio fratello più piccolo, il terzo invece non era ancora nato in quegli anni, perché diceva che non avrebbe mai e poi mai lasciato i suoi figli in ostaggio nelle mani del padrone.

Comunque io queste visite me le ricordo bene ancora oggi, ma ricordo che quello che mi interessava veramente era vedere dove lavorava papà.

Io volevo essere come mio padre, il mio unico grande sogno, l'unica cosa che ho sempre voluto essere è stata diventare un operaio come mio padre prima di me. Magari potere un giorno lavorare alla macchina accanto alla sua.

Era la fine degli anni ottanta. Vedevo poco mio padre durante gli anni dell'infanzia. Un po' perché faceva i turni in fabbrica; un po' perché il sindacato, era nel comitato centrale, la politica... tutte queste cose lo tenevano spesso lontano da casa.

Praticamente posso dire che io e mio fratello siamo stati cresciuti solo da mia madre e per questa ragione, come io volevo essere come lui, ricordo che dormivo con martello, pinze, cacciavite... sotto il cuscino, allo stesso modo mio fratello (due anni più piccolo di me) aveva per lui una specie di venerazione. Tanto che mia madre a lungo si domandava se per caso sbagliasse qualcosa nel comportamento nei suoi confronti. Ma la verità era semplicemente che, poiché lui non c'era mai, quando c'era, la cosa acquistava un significato speciale per noi e per mio fratello, più piccolo di me, la cosa lo era ancora di più. Del resto sul piano affettivo (come sotto ogni altro aspetto) non ci ha mai fatto mancare nulla.

Poi a un certo punto tutte le cose sono cambiate.

Mio padre ha chiuso con la fabbrica. Mio padre ha chiuso per sua decisione con il sindacato e con la politica, del resto non era più un operaio metalmeccanico e democrazia proletaria (cui era stato tra i fondatori, dopo l'esperienza in avanguardia operaia) concludeva la sua esperienza politica confluendo in buona parte in rifondazione comunista. Cui non volle mai aderire. Del resto aveva già avuto Bertinotti come 'capo' al sindacato e averci a che fare in quel contesto gli era bastato. Nonostante il 'compagno' Fausto fosse per lo più assente e poco interessato a adempiere ai suoi impegni di rappresentante capo del sindacato dei metalmeccanici e impegnato a diffondere il verbo da qualche altra parte non meglio precisata, il fatto che mio padre non fosse allineato al pensiero massimalista del pci gli comportò nel tempo un certo ostracismo, se non - molto peggio - degenerazioni e minacce degne di una certa altra parte politica della direzione opposta e che, va detto, senza denigrare un pezzo importante della storia di questo paese, non mancarono tuttavia nel corso degli anni della storia del partito comunista italiano.

Questo succedeva più o meno in coincidenza con la caduta del muro di Berlino: come se quel determinato momento storico avesse segnato il crollo di tutte le mie certezze in una maniera che ancora oggi a distanza di tanti anni, mi appare irreversibile.

È come se quel muro in un certo senso mi sia crollato addosso.

Appena mi sono diplomato, oltre dieci anni dopo, ho fatto subito domanda per entrare in Alenia Aeronautica, ma non mi hanno mai risposto.

Lo sapevo che sarebbe andata così, figuriamoci, ma provare non mi costava nulla.

Nel frattempo comunque mio padre aveva avviato una sua attività e - come naturale - avevo cominciato a lavorare con lui già prima del conseguimento della maggiore età. Del resto aveva comunque bisogno di una mano e sembrava naturale che fossi io ad aiutarlo. Ma la cosa non mi è mai dispiaciuta: mi sono sempre offerto volontario.

Sono passati quindici-venti anni e non ho mai smesso di fare quel lavoro, una attività che padroneggio con l'esperienza di un veterano e molto meglio di colleghi più attempati e con anni e anni di esperienza alle spalle (che poi a questo punto non sono più tanti dei miei), e l'unica ragione per cui credo di avere cominciato e di avere continuato a farlo sia stata in parte la realizzazione della stessa che quando ero bambino mi faceva sognare di lavorare a una di quelle gigantesche macchine.

Infatti sono riuscito, se vogliamo, a lavorare con mio padre (ma vi posso garantire che nonostante l'ottimo rapporto, un rapporto molto intenso e speciale, questo non sia stato facile a causa del suo carattere diciamo particolare). Ma mi manca qualcosa.

La fabbrica.

Qualche anno fa cercai curiosamente di riempire questo grande vuoto proprio a Berlino, dove cercai l'amore disperatamente rincorrendo fin lì la donna della mia vita. Ma io non ero l'uomo della sua vita e così, ironia della sorte, mi ricordai d'un tratto, proprio lì, davanti ai resti del muro, che io stavo ancora lì: sotto quel cumulo di macerie.

In un certo senso sento di non essere riuscito a combinare niente nella mia vita. Tutto quello che ho fatto è stato seguire la scia di mio padre. Ma mi manca qualche cosa e negli anni ho cominciato a avere dei problemi di salute e quando anche la sua è peggiorata, per motivi diciamo fisiologici dato il raggiungimento di una certa età, penso di avere definitivamente realizzato che quel sogno così tanto lontano sia rimasto incompiuto e che forse dentro c'era qualche cosa di più che potere fare lo stesso lavoro di mio padre e essere come lui.

Dentro quel sogno c'era quella voglia e quel bisogno di fare parte di qualche cosa di grande e che se da una parte mi avesse avvicinato a mio padre, come pure volevo del resto, dall'altra mi avrebbe anche dato una definizione e un ruolo riconoscibile all'interno di un gruppo e di una comunità di persone. Avrei fatto parte di qualche cosa.

Volevo lavorare in fabbrica perché così non sarei mai stato solo.

Ogni giorno che passa, adesso, invece, sento che sono sempre più solo e che questo grande buco che ho dentro non riesco a riempirlo e nonostante io ci abbia provato con metodi che definirei 'sani', come cercare di coltivare amicizie o una relazione sentimentale, ve ne ho parlato prima in poche righe, senza esito; che insani. Facendomi del male.

Forse il grande sogno di lavorare in fabbrica, penso qualche volta a Gaber quando diceva che 'Qualcuno era comunista perché si sentiva solo,' ecco, forse anche quello era solo una grande illusione. Ma, sapete, ci sono bambini che sognano di fare qualche cosa di avventuroso come il pilota oppure il pompiere oppure qualche cosa di ancora più difficile come l'astronauta o lo scienziato; altri invece hanno ben chiaro sin dalla più tenera età di voler fare il medico oppure l'avvocato oppure l'architetto...

Io volevo solo fare l'operaio e costruire gli aeroplani: questo era l'unico modo con il quale mi sarei potuto staccare dalla terra e avrei potuto spiccare il volo. Solo che invece sono rimasto con i piedi attaccati al suolo e ogni volta, alzo gli occhi al cielo e vedo gli aeroplani volare e mi sento vuoto e come se la mia vita non avesse alcun senso.

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editoriale di Trofeo

La musica ha tanti pregi ma il più grande è saper vincere sempre la lotta contro il tempo. E il tempo si sa, è spietato e non si riesce a sopraffarlo se si è impreparati. Gli anni passano, le persone e i gusti cambiano ma la musica, quella è per sempre. Sembra una banale ed efficace frase ad effetto ma è la sintesi di tutto.

Chester Charles Bennington ha lottato tutta la vita con il tempo, provando a renderlo più tollerabile, mentre teneva a bada i demoni e l’onda anomala del successo.

Una madre infermiera, un padre poliziotto, che lottava quotidianamente contro gli abusi su minori e due fratelli. Una famiglia apparentemente felice, poi il divorzio, i figli affidati prima a un genitore poi all’altro e la totale perdita di riferimenti. Droghe di ogni tipo e colore, alcol a fiumi e sei anni di abusi sessuali perpetrati da un coetaneo, a sua volta seviziato dal padre. Chester non denunciò, nonostante suo padre avrebbe potuto aiutarlo fin da subito, proteggendolo e custodendo il suo segreto e le sue paure.

Già tutto questo peso sulle spalle a soli tredici anni di età. Un lungo passaggio all’inferno, dall’infanzia all’adolescenza, insieme al bullismo, alle percosse e alla poca voglia di dare un senso alla propria esistenza.

Ci furono le poesie, i disegni e le canzoni. Un rifugio sicuro e stimolante, quando lo sballo era diventato troppo. C’era la musica e con lei le immagini che evocava, una passione irrefrenabile sempre presente negli attimi più bui. Il tutto come ancora di salvezza. Chester, tra gli altri, adorava gli Stone Temple Pilots e consumando a suon di ascolti quelle musicassette, sognava un giorno di far parte della band di Scott Weiland. Ancora non sapeva che in un futuro non troppo lontano avrebbe addirittura preso il posto vacante di Scott, il piccolo Chester.

Nel 1993, partendo dalla stanzetta di una piccola casa in Arizona, con in mano una manciata di idee, Sean Dowdell convinse l’amico a fare le cose sul serio. “Sean Dowdell an His Friends?” sarà il nome dato al duo ma anche al grezzo EP a tre tracce, pubblicato quasi per gioco. L’anticamera del sogno, la zattera per l’isola che non c’è. Mentre la violenza e il turbamento asfissiavano la mente e le paure tessevano una fitta e resistente trama, la musica provava a fare da anestetico.

L’autostima cresceva di pari passo con la consapevolezza dei propri mezzi. Quelle corde vocali erano divenute il tramite più consono per sfogare la frustrazione e dare un suono alla rabbia. Un modo per urlare senza freni al mondo il profondo disagio interiore di un ormai annunciato astro nascente.

Le tre tracce divennero un demo e il duo divenne una band, i “Grey Daze”, con l’arrivo di Jason Barnes alla chitarra e Jonathan Krause al basso. Poi si iniziò a fare sul serio, un primo album “Wake Me” nel 1994 e poi un secondo e ultimo, “…No Sun Today”, nel 1997. Quella prima iniezione di fama non fu sufficiente, i demoni iniziarono a presentare il conto.

Tra vagabondaggio ed espedienti, il sogno rischiò di finire risucchiato in una spirale vuota. Fu Jeffrey Blue, vicepresidente A&R alla Zomba Music e prezioso supervisore, ad evitare che questo accadesse. Passò tutto attraverso un’audizione e una mancata festa di compleanno. Gli Xero cercavano una voce da affiancare a quella del Maestro Cerimoniere Mike Shinoda. Jeff Blue ci mise lo zampino, gli Xero divennero Linkin Park e ciò che accadde dopo è stato ormai da tempo consegnato alla storia.

Con “Hybrid Theory”, primo full length ufficiale e ad oggi disco più venduto del secolo in cui è stato partorito, è avvenuta la totale consacrazione. Le dodici tracce racchiudono l’intera esperienza di vita di Chester fino a quel momento.Ventiquattro anni vissuti in preda alla frustrazione generata dai ricordi ossessivi, tra abuso di droghe e una costante ed ininterrotta battaglia interiore. Il successo immediato e inaspettato fu anche e soprattutto merito di quei testi urlati, di quelle melodie che sembravano voler placare l’affanno di un’anima già molto stanca.

Negli anni in cui quello strano sottogenere musicale, fatto di metallo e rime, si avvicinava al fuorigiri ma dava il suo meglio senza farsi troppe domande, un ventenne trovava il suo posto sicuro nel mondo. Un angolo di paradiso condiviso obbligatoriamente con l’inferno, come in un bizzarro ed anomalo girone dantesco.

Sette album di successo, altri tre con i due progetti paralleli (Dead by Sunrise e Grey Daze) una breve militanza negli amati Stone Temple Pilots e un EP con loro, decine di collaborazioni e attestati di stima, che hanno portato il fragile e rachitico ragazzino di Phoenix nel cuore e sulla bocca di tutti.

È stato questo il successo per Chester Charles Bennington. Non una gabbia ma una prigione dorata, fatta di spesse sbarre lucide e morbide al tatto, dalle quali poter fuggire di tanto in tanto. Un’illusione di libertà, accompagnata dall’amore genuino dato e ricevuto dai membri della sua grande famiglia, che lo aspettavano a casa ma anche nello studio di registrazione. Ma anche un fantastico viaggio, seppur breve, in compagnia dei milioni di fans sparsi per il mondo e del loro affetto. Tutti sempre presenti e pronti ad acclamarlo, uniti in un unico coro durante i concerti dei suoi Linkin Park. Come in quella maledetta estate del 2017, quella che alla fine ce l’ha portato via, subito dopo l'amico fraterno Chris Cornell. Le immagini sono ancora nitide. Quell’istantanea, consegnata all’eternità, è stata scattata durante la data italiana del One More Light Tour. Le mani dei presenti a sorreggere il loro beniamino, creando un'intensa connessione e migliaia di voci avvolte in un firmamento di luci, per un’atmosfera da brividi. Le note della canzone che ha dato il titolo all’ultimo disco, a fare da tappeto a un testo poco considerato fino a quando il suo reale significato è venuto a galla.

Un ultimo bagno di folla, un ultimo saluto, non più una richiesta di aiuto.

Un’altra luce. E un’altra ancora. Come quella che si è spenta ai nostri occhi ma rimarrà accesa per l’eternità nei nostri cuori.

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editoriale di macaco

Mio nonno si sposó con la camicia nera.

Non era fascista.

Tutti i parenti democraticamente cristiani.

Le suore ci proteggevano dai mangiabambini con lo scudicrociato.

Le maestre comuniste ed il prof. di italiano col gilet rosso.

Disegna una falce e un martello sul quaderno scolastico, mio zio mi disse in tono beffardo.

Da ragazzino, mentre strappavo Sorgo Halepense tra le file di granoturco, pensai che il socialismo fosse una buona cosa.

Mia nonna guardando la tv disse che Craxi era un bell´uomo.

I miei voti andarono tutti a rifondazione, rifugiandomi nella certezza che mai avrebbero vinto.

Le ideologie sono belle fino a quando si applicano, o fino a quando non si applicano.

Le ultime illusioni si spensero fra il brindisi di Dario Fó e quel “ma fate qualcosa di sinistra!” di Nanni Moretti.

Dire di essere di sinistra é rimasto cool, nonostante tutto.

Fascisti veri non li ho mai conosciuti, forse si vergognano, giustamente.

E mentre giochiamo al rosso contro il nero, lassú mescolano sangue e carbone guidati dall´ideologia del Dio mercato.

Ideologia, ne voglio una per vivere?

No grazie, mi bastano i princípi immanenti alla mia co-scienza la cui applicazione dipende solo dalla mia determinazione. Le ideologie dovrebbero essere un effetto naturale conseguente di una coscienza collettiva e non la causa che le forma.

Invertire le premesse é un esercizio da considerare sempre.

CAZUZA

Ideologia

Meu partido
É um coração partido
E as ilusões estão todas perdidas
Os meus sonhos foram todos vendidos
Tão barato que eu nem acredito
Eu nem acredito
Que aquele garoto que ia mudar o mundo
(Mudar o mundo)
Frequenta agora as festas do "Grand Monde"

Meus heróis morreram de overdose
Meus inimigos estão no poder
Ideologia
Eu quero uma pra viver
Ideologia
Eu quero uma pra viver

O meu prazer
Agora é risco de vida
Meu sex and drugs não tem nenhum rock 'n' roll
Eu vou pagar a conta do analista
Pra nunca mais ter que saber quem eu sou
Pois aquele garoto que ia mudar o mundo
(Mudar o mundo)
Agora assiste a tudo em cima do muro

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editoriale di zaireeka

Giuro che volevo scrivere qualcosa di molto divertente, questa volta…

Avevo ad esempio pensato a come sarebbe venuta fuori "La canzone di Marinella" se De Andrè la avesse scritta in questi tempi di Crusca andata a male...

"Questa di Marinella è la storia vera

Che scivolò nel fiume a primavera

Ma il vento che la vide così bella

Dal fiume la salì sopra una stella …"

Poi però mi sono reso conto che oggi è l’ultima volta in cui avrò 53 anni, e allora...

Ieri ho comprato ad un prezzo stracciato Duke dei Genesis.

Io i Genesis li ho conosciuti nell’83 circa, ero al primo anno di università, un collega (sempre sia lodato) mi convinse a comprare il loro "Selling England by the Pound".

Io, che in quel periodo ascoltavo quasi esclusivamente musica italiana, cercavo qualcosa che assomigliasse come composizione a "La Donna cannone" di De Gregori, lui un accanito fan Genesis di corrente Gabrieliana (anche io lo sono diventato), mi convinse a comprare questo album.

Perché vi racconto questa cosa? Semplicemente perché ieri ho comprato Duke.

Non so se a voi ogni tanto capita di andare alla ricerca di vecchie classifiche ed hit parades di anni passati per cercare la musica che girava intorno in determinati periodi della vostra vita.

Quando uscì Duke avevo quindici anni.

Allora non sapevo nemmeno chi fossero i Genesis.

La percezione è una cosa strana. Può capitare ad esempio di sentire all’improvviso il suono di una campana e poi rendersi conto a posteriori di averne in verità sentiti altri undici, quando ormai sono passati, che nel frattempo è arrivato mezzogiorno.

Non ho ricordi delle note di Duke che giravano nelle radio, eppure ebbe un certo successo allora.

Ero un Bennatiano, "Sono solo canzonette" era tutto per me. Anche "The Wall" me lo ricordo, ma non Duke.

Ascoltandolo oggi mi sforzo per fare in modo che Duke diventi come uno dei rintocchi sfuggiti di quella campana.

Vorrei ad un certo punto dire e sentirmi dire: "Ah, ma eri tu??!".

Chissà cosa mi può ancora riservare la vita.

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editoriale di zaireeka

C’erano tre bambini che si persero nel bosco tanti anni fà.

Erano praticamente coetanei, il più piccolo aveva circa due anni meno del più grande.

Non si conoscevano fra loro.

Arrivarono nei pressi di una caverna.

Una fata parlò:

“Esistono tre destini che vi aspettano, non dico quali, non dico per chi”.

Mi piacciono i maghi, i gatti, le fiabe, vorrei un giorno scriverne anche io qualcuna, quando sarò grande.

Io voglio essere felice, o almeno sereno, imparare a suonare la chitarra, quelle belle musiche che suona mia madre sul suo pianoforte.

A me non importa niente, anche a me piacciono i maghi, ma in fondo voglio solo essere spensierato, voglio imparare a ballare e a cantare.

“Va bene bambini, avrete quello che desiderate, ma attenzione..”

“Dovrete riuscire, tutti voi, senza nessuna eccezione, ad uscire da questo bosco, un giorno, senza mai voltarvi indietro e senza avere paura di quello che vi aspetta lì fuori”.

“Se non lo farete, uno di voi lo terrò per sempre con me, degli altri due deciderà il bosco”.

I bambini salutarono la fata e si incamminarono per fare come lei aveva detto.

Il bosco era vasto, lungo anni, uno dei bambini, quello a cui piacevano le fiabe, dopo un po’ di tempo, non visto dagli altri, si fermò un attimo a riposare, e a riflettere:

“Certo era bella la fata, mi piacerebbe tornare da lei”.

Gli altri due, che non si erano accorti di nulla, continuarono a camminare nel bosco.

Ad un tratto uno di loro, quello più taciturno, si accorse che il bambino alla sua sinistra mancava.

Si voltò guardando all’indietro, una grande malinconia lo colse, pensava alla fine del bosco quando sarebbe arrivata.

Senti’ le foglie del bosco che lo chiamavano.

Decise di fermarsi lì.

L’ultimo bambino camminava allegro pensando a quanto fosse bello il bosco e a quanto ancora sarebbe durato, senza pensare a quello che sarebbe venuto dopo.

Il bosco invidioso si voltò indietro e finì all’improvviso.

Dedicato a Syd Barrett, Nick Drake, Marc Bolan.

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editoriale di perfect element

Djianhe si aggiustò la mascherina, con un riflesso spontaneo la alzò sul viso e la strinse attorno
al naso.
Un odore rancido di vecchio cibo incrostato e muco gli avvolse la gola, non si era mai abituato a
calzare quella pezza di carta e cotone, ma, come tutti, non se ne lamentava e si convinceva che
fosse indispensabile.
Il caldo di maggio gli imperlava la fronte e l'eccitazione del momento faceva sudare anche
buona parte del resto del suo corpo.
Alzò lo sguardo sul bel palazzo che gli stava di fronte, cinque piani candidi di intonaco coloniale,
intasato di vecchi fregi, balconate vuote e stucchi eleganti.
Attraversò la strada deserta, solo una vecchia con una logora borsa ricavata da un tappeto da
preghiera s'allontanava da un lato.
L'androne odorava d'alcool denaturato e di stracci vecchi d'ammoniaca, non un granello di
polvere copriva il bel pavimento di marmo e, alla sua destra, una lucida e maestosa scalinata,
incorniciata da una ringhiera di ferro, muta saliva con dolcezza verso i piani superiori.
Djhanhe sentì il suo cuore perdere un battito e avvertì un tremore alla mano destra, non si spaventò, gli capitava sempre quando aggiornava il software che il Buon Pastore aveva
pensato per lui e per tutti; anzi era un effetto collaterale piuttosto comune ed era un piccolo
disagio che tutti tolleravano senza troppo interrogarsi.
Riprese fiato, abbassò la mascherina e l'odore d'alcool e ammoniaca sembrava quasi migliore
del lezzo di capra cotta del cotone marcio che era obbligato a tenere sul muso.
Con coraggio prese le scale ed iniziò a salire con passo costante. Occhi lo guardavano dalle
porte chiuse, ma non se ne curava, nessuna macchina del Buon Pastore l'aveva seguito o
ammonito per strada, e anche all'interno del bel palazzo nessun drone, volante o strisciante,
l'aveva disturbato.
Si convinse, una volta di più, che la Super Intelligenza che tutti seguivano, di cui si fidavano
ciecamente e che amava farsi chiamare Buon Pastore, stava benedicendo i suoi immacolati
sentimenti.
Djianhe non dovette nemmeno bussare alla porta, lei gli aprì nel momento esatto in cui lui
appoggiava i piedi sullo zerbino consunto che un tempo era stato un bel tappeto.
Entrambi non ricordavano più come avessero fatto ad arrivare fino a quel preciso istante, e non se
ne curavano affatto.
Forse una noiosa ora passata in coda a distanza legale per comprare un po' di caffè, forse lui
aveva timbrato una giustificazione per lei, o aveva atteso di poter pagare un conto allo
sportello in cui lei lavorava; non era più importante, tutto il tempo e il mondo era solo lì, adesso.
La pelle bianca di lei rifletteva la bella luce di Maggio, mentre quella nera di lui la assorbiva con
la stessa grazia.
Entrambi brillavano di nervoso sudore.
Djianhe sentì per la prima volta dopo tanto tempo quella scossa elettrica che dalle base della spina dorsale passa
sotto i testicoli e fa fiottare il sangue ossigenato in avanti e che gli provocò un'erezione; era
felice.
La sensazione durò poco e la sua mano destra iniziò a formicolare, scoppiò in lacrime mentre
proprio quella mano si alzò sulla gola di lei, strinse e pianse e cercò di non pensare.
Quando la vide a terra senza respiro, la stessa mano gli si calò dolce sul viso, le lacrime erano
finite e la mano, indipendente dalla sua volontà, si alzò sulla fronte e, come due entità separate,

ballarono all'indietro fino alla bella balaustra di ferro battuto del pianerottolo.
Si appoggiò sereno sul marmo dopo dodici metri di volo, pensando a lei e a quanto fosse bella.
Solo pochi secondi di ronzio dei ragni pulitori del Buon Pastore turbarono la sua ultima visione del paradiso.

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