Lubricated Goat - Play the Devil's Music (1987) [full album] il blues oltre il Diavolo....l'Australia .
 
Genesis - More Fool Me La canzone più brutta di ogni disco dei Genesis, anche di quei dischi dove "più brutta" sarà un termine molto relativo per dire "quella leggermente meno stupenda delle altre", altrimenti che gusto c'è. Be, devo anche giustificarla ?
 
The Tell-Tale Hearts: "(You're a) Dirty Liar" (Calhoun/Stax) 1983 demo.

Un branco di ragazzacci con grandi nasi e facce da pizza.

La definizione è di Gwynne Kahn, all’epoca tastierista nelle Pandoras.

In realtà si trattava della migliore mid-80’s garage band dell’area di San Diego. Lontano dall’oltraggioso teen-punk dei Gravedigger V e dalla demente violenza dei Morlocks, i Tell-Tale Hearts erano nati per soddisfare l’esigenza di Mike Stax di suonare come i Pretty Things di Get the Picture?.
E fu esattamente così che per tre anni e mezzo questi cinque figli di puttana riuscirono a suonare, uno stordente cocktail a base di Pretty Things, Q65, Outsiders e Shadows of Knight e di altre lordure R ‘n B assortite, una full immersion dentro una selva di maracas, armoniche blues che tagliano come lame e riverberi da caverne troglodite che appagavano quel bisogno che Mike sentiva montare sin dai vecchi noiosi pomeriggi inglesi, appena mitigato dall’esperienza con i Crawdaddys e condiviso con Ray Brandes e il compagno di classe di quest’ultimo (nonché boyfriend della di lui sorella, NdLYS) Bill Calhoun. Non erano le uniche cose che Bill e Ray condividevano: c’era di mezzo pure lo stesso gruppo, una delle tante retro-bands che stanno popolando il paese in quegli anni e chiamati Mystery Machine.
È da quella batteria che fanno scendere David Klowden, per sederlo sullo sgabello del nuovo gruppo.

Eric Bacher era invece un perditempo che si dilettava a suonare negli sconosciuti Freddie & The Soup Bowls e che da un po’ di tempo aveva preso a frequentare con insistenza il 2378 della Presidio Drive, villetta uguale alle mille altre piazzate a schiera in uno dei quartieri residenziali della città. È lui il quinto uomo per quella che diventerà la band del “cuore rivelatore”, nome razziato dal libro di Poe in cui Stax annega la frustrazione per lo split dei Crawdaddys. Un gruppo dalle potenzialità enormi ma anche con troppi vincoli e regole da rispettare.

La nuova band sceglie di averne una soltanto: non averne alcuna.

Quando salgono sul palco, i Tell-Tale Hearts sono un branco. Con Ray intento a latrare come un cane e scuotere come un ossesso le sue maracas, Bill che spesso abbandona l’impalcatura arrugginita del suo organo VOX per lanciarsi in urticanti fraseggi di armonica blues, Eric alle prese col suo jungle-beat affogato nel fuzz, l’efebico Mike con la sua collezione di bassi vintage e i suoi urli da caveman in calore, David perso dietro un minuscolo kit di batteria, a pestare come piedi di contadina in un mortaio.

Tutti ugualmente indispensabili.

Cinque ragazzini infoiati con una vanga da becchino nascosta dentro le mutande.

È con quella che spaccano la crosta molle del rock da Odissea per calarsi nei cunicoli che li portano al cuore delle minuscole garage bands degli anni ‘60. È da lì che si inizia, registrando una demo presso lo Studio 517 di San Diego con pezzi rubati dai polverosi 7” collezionati da Mike. Il primo pezzo autoctono è firmato Stax/Calhoun e si intitola Dirty Lia
 
Emerson, Lake & Palmer - Lucky Man Gli Emerson, Lake & Palmer che non mi (ci ?) sfracellano i coglioni. E questa è la terza gemma dal primo disco, ovviamente. Un evergreen immortale che inaugura la serie di canzoni (semplicemente canzoni) bellissime sparse da Gregorio Lago nei vari dischi del trio. Non gli si può dir nulla, gran pezzo.
 
Gente Di Mare

#canzonisottolanaja

Ricordi di un mondo che non c'è più
15/18
 
The servant - Joseph Losey (1963)

"Il servo"
di Joseph Losey (1963)
 
Abdullah Ibrahim - Nisa

Abdullah Ibrahim (Dollar Brand) (8 di 10)
"Nisa" from: No Fear, No Die
1993 (enja)

#jazzlegends
 
.:. Alessandro Baricco ricorda Carmelo Bene .:.

Me l'ero immaginato definitivamente ingoiato da una vita quotidiana inimmaginabile, e triturata dal suo stesso genio, portato via su galassie tutte sue, a doppiare pianeti che sapeva solo lui.

Perduto, insomma.

Poi ha iniziato a girare con questo suo spettacolo anomalo, una lettura dei "Canti Orfici" di Dino Campana.

L'ho mancato per un pelo un sacco di volte, e alla fine ci sono riuscito a trovarmi una poltrona, in un teatro, con davanti Lui.

A Napoli, all'Augusteo.

Scena buia, solo un leggio.

Lui, lì, con una fascia sulla fronte alla McEnroe, e dei segni di cerone bianco sotto gli occhi.

Un microfono davanti alla bocca, e una luce addosso.

Cinquanta minuti, non di più.

Non so gli altri: ma io me li ricorderò finché campo.

Non è che si possa scrivere quel che ho sentito.

Né cosa, precisamente, lui faccia con la sua voce e quelle parole non sue.

Dire che legge è ridicolo.

Lui diventa quelle parole, e quelle non sono più parole, ma voce, e suono che accade diventa ciò-che-accade, e dunque tutto, e il resto non è più niente.

Quando sono uscito non avrei saputo dire cosa quei testi dicevano.

Il fatto è che nell'istante in cui Carmelo Bene pronuncia un parola, in quell'istante, tu sai cosa vuol dire: un istante dopo non lo sai più.

Così il significato del testo è una cosa che percepisci, si, ma nella forma aerea di una sparizione, senti il frullare delle ali, ma l'uccello non lo vedi: volato via, così, di continuo, ossessivamente, ad ogni parola.

E allora non so gli altri, ma io ho capito quel che non avevo mai capito, e cioè che il senso, nella poesia, è un'apparizione che scompare.

Se senti Carmelo Bene capisci che il suono non è un'altra cosa dal senso, ma la sua stagione estrema, il suo ultimo pezzo, la sua necessaria eclisse.

Ho sempre odiato, istintivamente, le poesie in cui non si capisce niente, neanche di cosa si parla.

Quel che bisognerebbe saper scrivere sono parole che hanno un senso percepibile fino all'istante in cui le pronunci, e allora diventano suono, e allora, solo allora, il senso sparisce.

Tu senti Carmelo Bene e il poeta sparisce, non esprime e comunica niente, l'attore sparisce, non esprime e comunica niente: sono sponde di un biliardo in cui va la biglia del linguaggio a tracciare traiettorie che disegnano figure sonore: e quelle figure, sono icone dell'umano.

Non spiega quasi nulla, Carmelo Bene, durante lo spettacolo.

E quando lo fa lascia il segno.

Dice: leggere è un modo di dimenticare.

L'avevo anche già sentita: ma è lì, che l'ho capita. Scrivere e leggere stretti in un unico gesto di sparizione, di commiato.

Allora ho pensato che poi uno nella vita scrive tante cose, e molte sono normali: cioè raccontano o spiegano, e va bene così, è comunque una cosa bella, scrivere.

Però sarebbe meraviglioso una volta, almeno una volta, riuscire a scrivere qualcosa, anche una pa
 
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COELUMBIA
[Ciak si storpia!]

Episodio [14x 30]
 
Car Seat Headrest - How to Leave Town [2014.10.31] (Full Album) gran bel lavoro #lofi con un velo di malinconia . Consigliato
BUONANOTTE
 
Beneath the Remains

Boh, io nel dubbio vado liscio.
 
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COELUMBIA
[Ciak si storpia!]

Anteprima [14x 30]
Associato LP del 1972
 
I thought it over The Zantees.

Il 4 luglio del 1976 Miriam Linna arriva da Cleveland a New York dopo un breve soggiorno a Londra. Gira nei club dove suonano le minuscole band di cui legge su Bomp! finchè non si imbatte nella coppia più bella che abbia mai visto. Si chiamano Erick Lee Purkhiser e Kristy Marlana Wallace e stanno cercando qualcuno per sostituire la batterista della loro disastrosa band di rockabilly: Miriam prenderà il posto di Pam Balam dietro i tamburi dei Cramps dal settembre di quell’anno fino a quello successivo.

L’incontro con quello che diventerà l’uomo della sua vita avviene proprio in quel periodo: lei è una fanatica di riviste e dischi rock ‘n’ roll. Lui, pure. Lei cerca una copia di You Must Be a Witch. Lui ce l’ha. Gliela vende o forse, chissà, gliela regala. Ma da quel momento Miriam e Billy Miller diventano un corpo e un’anima. Ascoltano, suonano, vendono, scrivono, stampano un sacco di roba. Fonderanno un negozio di dischi e un mailorder strepitosi, allestiranno la più grande concorrente della rivista Bomp! di Greg Shaw e metteranno in piedi delle band scalcagnate, prima fra tutte gli Zantees, un quintetto che suona come i Cramps che pensano di suonare come i Blasters. Riuscite ad immaginare?

Gli Zantees nascono in quell’ultimo spicchio d’estate del ’77, come band improvvisata per aprire una data dei Fleshtones. A metterseli in casa per tirarci fuori un disco ci pensa proprio Greg Shaw che alla Linna aveva già affidato la direzione del Flamin’ Groovies Monthly. Il risultato viene pubblicato nel 1980, quando la band ha affinato le sue capacità tecniche passando dal livello base al livello “base. Ma a tempo”. Alle chitarre vengono reclutati i fratelli Statile mentre il ruolo di bassista viene coperto part-time da Rob Norris, l’ultimo chitarrista dei Velvet Underground. Al piano, anche lui part-time, Peter Holsapple dei dB’s.

Gli Zantees non vestono ridicole divise da rockabilly, non hanno ciuffi impomatati ne’ scarpe di vernice. Sono, semplicemente, lo spirito del rock ‘n’ roll più autentico, quello dei rockers di serie B mai finiti in tv e del cui anno di naja nessuno ha mai documentato un solo giorno. Gente come Jimmy Carroll o Bill Allen o Leon Payne. Le cui canzoni finiscono qui dentro, in un rockabilly malmesso che non è stato imbalsamato con la brillantina ma che continua a friggere come i primi amplificatori per chitarra e le mutandine delle teenagers degli anni Cinquanta.

Thank Reverendo…