editoriale di Dislocation

Su il sipario.

Anonima, in quanto normalità, certo, comune a tanti/e, normalità di miseria, d'immigrazione "interna", di bassa manovalanza, di dignità conquistata col lavoro.
Declinata al femminile, in aggiunta.

Negli anni Cinquanta, nel Nord Italia, neo-ricco, adagiato, nebbioso, tra le fabbriche dell'allora Triangolo Industriale, i porti, le colline e le pianure coltivate a vite, a mais, a grano, alla qualunque, non si aveva solo bisogno di mano d'opera nelle unità produttive, sulle banchine piene d'ogni bendiddio o nell'edilizia che esplodeva, c'era pure bisogno, tra gli strati più agiati della popolazione, di quelle che oggi chiamiamo collaboratrici familiari, che abbiamo chiamato donne di servizio ed allora chiamavano, crudamente, serve.
Perlopiù si attingeva dalle quasi inesauribili riserve delle giovani figlie di Sardegna e Veneto, incredibile a dirsi oggidì, oggi l'opulento, il ricco Veneto...
A Milano, Torino e Genova le signore della buona borghesia dicevano "Devo parlare alla sarda" od anche "alla veneta" intendendo alla colf, ecco, e lo facevano, forse, pure, senza malizia o disprezzo, si diceva così...
Tu, ecco, parliamo di te, occhi nerissimi e profondissimi, grandi e dolci, capelli corvini, lisci, tradivi così la tua provenienza isolana... Poi, portavi il nome della santa-bambina, vergine e martire, adorata nella tua provincia, quella santa festeggiata a fine settembre. Le signore del nord si stranivano, che razza di nome, ma vabbé, sei sarda...

Elegia della normalità. Quella normale.

A sedici anni, occhi neri e profondissimi, stralunata ma decisa e determinata, sbarcasti a Genova, prendesti il treno per scendere a metà della strada per Torino, alla stazione ti attendeva tua sorella maggiore, che già lavorava là da tempo e là ti aveva trovato un lavoro a casa del medico condotto, allora autorità riconosciuta, nei paesi contadini, col sindaco ed il prete.
Oh, già, l'italiano lo mastichi poco e qui parlan davvero strano... Ma mangiano tutti, e tutti i giorni, e tre volte al giorno, poi... E tutti hanno le scarpe, per il lavoro, per la festa, e le ciabatte per stare in casa, la sera...
Qui partì la tua "carriera" professionale, quella di una bambina con la quinta elementare già adusa a qualsiasi lavoro domestico, che si era tirata su quattro fratelli e sorelle, la mamma al lavoro duro nei campi e tu la vicemamma. E ti era servita,l'esperienza "domestica", al nord sapevi praticamente già tutto di come si conduce una casa, i tuoi padroni, come li chiamavi tu, ti volevano bene e ti avevano anche insegnato ad esprimerti in italiano corrente, loro che parlavano solo piemontese stretto, quello del Monferrato, ma tant'è...

Lavoro, lavoro ed ancora lavoro... Poi, un Natale, vacanza a casa, in Sardegna, un amico di famiglia ti presenta un suo amico fraterno, del tuo stesso paese. Bel ragazzo, conteso tra tante, gran lavoratore, all'estero, certo, il sorriso un po'sornione, clarcgheibol de noantri.
Tu, magra, occhi neri e profondissimi, il sorriso timido, sincero...
Bum.
In otto anni di fidanzamento l'avrai visto in tutto dieci volte, vi siete scritti, hai imparato a farlo benino, la grammatica è un po' così ma la grafia è bella, tonda, elegante. Vi siete sposati, chiesetta in riva al mare al vertice basso di quel Triangolo, vivete lì, lui operaio, tu operaia, sono gli anni del boom economico, qualsiasi cosa voglia dire, qualcuno fa il grano con facilità e con altrettanta facilità lo perde, alcuni scalano la società studiando (allora si poteva!!!), altri lavorano come muli dalle sette di mattina alle otto di sera e trovano il tempo ed il modo di far pure due figli, di comprare una televisione a valvole, di votare PCI quando si va a votare, di chiamare il padrone "datore di lavoro", di pagare un affitto per una casa dignitosa, in un quartiere pulito. Niente macchina, non scherziamo, a piedi od in autobus e via andare.


Canzonissima, passeggiate tutti insieme, la domenica pomeriggio, sul lungomare a parlar di quella cosa lì, di futuro, quel futuro d'ogni giorno, magari cinema, tre, quattro volte l'anno e ballo liscio alla Festa dell'Unità, vi guardano tutti, siete due assi, col liscio, col tango...
Coi figli sei, naturalmente, una gran mamma e sai ogni cosa che serva a tirarli su, tu che hai cresciuto i tuoi fratelli minori, comprendendo,ogni tanto, un manrovescio,secco, ben dato, preciso, non bisognoso d'ulteriori, particolari, spiegazioni.
Usava così.
Poi tanta fatica, finalizzata alla comprensione dei ragazzi, in questi tempi così diversi dai tuoi, da quelli della tua giovinezza, in gran parte negata dal lavoro e dalle responsabilità.
Sempre e comunque dolcissima, come sei sempre stata.

Ancora... Elegia della normalità.

I figli, terribili, ma studiano, fanno sport,sì, ma "Signorammìa, suonano in quei gruppi di gente strana , poi la politica, c'è bisogno di picchiarsi coi carabinieri per fare politica, signorammìa?"
Poi lui rileva una piccola attività e tu lo segui, poi tutto come tutti, i figli crescono, lui, "Gran lavoratore, signorammìa, e le donne, le donne gli son sempre piaciute, l'ho sempre saputo, ma me lo son tenuto lo stesso, e ogni sera torna a casa, sempre e comunque... Io? Bene, insomma, un po' di acciacchi, circolatori e cardiaci, a volte mi manca il respiro, anche se non lavoro più..."
Avete comprato casa, un po' fuori città, quartiere operaio, col mutuo, certo, dopo vent'anni di lavoro, in Sardegna non ci torniamo, che ci facciamo, ormai?

Elegia della normalità.
A tutti i costi.

Sipario.

Occhi neri. E profondissimi.
Li chiudi per sempre a cinquant'anni, lasci questa valle di lacrime, ti sei addormentata e non ti sei svegliata, con un mezzo sorriso sulle labbra, discreta come sei sempre stata, ai limiti della disperazione, come sei sempre stata, elargitrice d'affetto incondizionato, come sei sempre stata.
Dolcissima, come sei sempre stata.

Perché ti scrivo ora? Insomma, mamma, oggi è il tuo compleanno.

Auguri.

Un bacio.

 di più
editoriale di lector

La scuola, per come la conosco io, è finita una mattina di fine febbraio del 2020.

Avrebbe dovuto essere solo una chiusura per disinfestazione straordinaria causa covid. Ma tutti noi sapevamo, nel salutarci, che da quel momento il cammino si sarebbe fatto incerto. E, infatti, ho rimesso piede nella mia scuola solo a fine giugno, per quella roba che qualcuno ha voluto ostinarsi a chiamare “Esame di Stato”.

La scuola ha poi riaperto i battenti alla fine del settembre successivo, ma col 50% degli alunni in presenza, e li ha rapidamente richiusi il 16 ottobre: la Campania è stata l’ultima Regione a riaprire e la prima a chiudere.

A tutt’oggi non sono ancora rientrato in classe. Dal 26 aprile il sindaco di Avellino posticipa, con ordinanze a cadenza settimanale, il rientro a scuola per gli Istituti Superiori.

Si va avanti in DAD (o DID o qualunque altro idiotissimo acronimo l’ottusità burocratica voglia inventare). Da sempre nella scuola la parola d’ordine è “arrangiatevi” ed i matrimoni si celebrano rigorosamente con pizza & fichi.

In questo anno e mezzo la mia casella di posta è stata invasa da petizioni, richieste di adesione, lamentazioni, proposte, alti guai, peana, accorati appelli, richieste di aiuto, denunce piene di amarezza, cahiers de doléances…

Ho letto di tutto, credetemi, da chi si sentiva cavia di laboratorio a chi proponeva nuove rinascite e piani di ricostruzione fantascientifici, da chi pretendeva considerazione per un lavoro che, spergiurava, la DAD non aveva sminuito a chi riteneva la stessa DAD il vero futuro per l’insegnamento. Alla fine a dominare era sempre la paura: paura di dover tornare in classe senza le dovute rassicurazioni, paura di dover subire orari scaglionati e pomeridiani, paura di dover lavorare PURE D’ESTATE!! E tutte con allegata richiesta di firmare e di far circolare la petizione di turno.

E tutte con un solo grande assente: gli studenti.

Così alla fine ho fatto una cosa che non faccio mai: ho mandato una lettera di risposta.

----------------------------------------------------------------------------------------------

Get.le Scrivente

Una commessa di supermercato va a lavorare tutti i giorni ed è necessario che sia così: la chiusura dei supermercati comporterebbe problemi difficilmente risolvibili. A nessuno è venuto in mente di richiedere che l’apertura dei supermercati avvenisse solo dopo che si fossero assicurati trasporti sicuri e nessun assembramento fuori dei supermercati stessi (immaginate cosa gli sarebbe stato detto!), né tantomeno si è ritenuto di aprire una corsia preferenziale per la vaccinazione di questa tipologia di lavoratori. Per non parlare delle tabaccherie, la cui ventilata chiusura rischiava di provocare sommosse popolari.

Da questa banale osservazione traggo che:

  1. A quanto pare le commesse dei supermercati sono enormemente più utili degli insegnanti (e di questo i più convinti sembrano essere gli insegnanti stessi) per cui non capisco perché le stesse debbano, inoltre, essere pagate meno di noi.
  2. Fumare o portare a pisciare il cane sono libertà e diritti irrinunciabili (come fare la spesa come e quando ci pare) chiaramente prioritari rispetto allo studio, e che una generazione di bambini ben pasciuti – a quanto pare - sarà meno danneggiata di una di ragazzini semianalfabeti.
  3. La nostra irrilevanza sociale è un patrimonio a cui, noi docenti, siamo particolarmente affezionati.
  4. Non tutti hanno uguale diritto ad avere paura.

Inoltre, che fine facciano e che futuro si offra agli eventuali figli delle suddette commesse e dove vengano lasciati (specialmente se piccoli) quando le suddette commesse lavorano è – a quanto pare – problema solo delle suddette in questione (che si arrangino!)

Ora io, davvero, trovo che sia una gran vigliaccata continuare a nascondersi dietro la presunta difesa del benessere e della protezione quando sono decenni che, pecoroni silenti, lavoriamo in scuole che sono al di sotto di ogni standard di sicurezza degno di un paese civile. Abbiamo continuato a lavorare in ambienti, troppo spesso fatiscenti e malsani, in molti casi delle vere e proprie trappole in caso di incendio o terremoto, sempre sprezzanti del pericolo.

Evidentemente anche per le paure ci sono le mode.

In questi anni ci siamo fatti umiliare da scelte politiche e didattiche al limite dell’idiozia, abbiamo ingoiato riforme demenziali scritte da ottusi burocrati che non avevano mai messo piede in un’aula scolastica, con la bovina sopportazione di polli da allevamento. Al massimo con qualche borbottìo.

Ed ora eccovi qua, tutti a scrivere per difendere la DaD, a dire che “certo è una situazione di emergenza”, che “chiaramente la scuola in presenza è meglio” ma…

Ma, in fondo, il nostro lavoro lo facciamo lo stesso (anzi c’è persino chi giura di fare molto di più! Gente che scimmiotta riti e formule che erano già obsoleti in presenza, figuriamoci in DAD!), che i ragazzi non sono stati lasciati soli, che noi docenti abbiamo eroicamente e con spirito di adattamento fronteggiato una situazione assolutamente extra-ordinaria.

Solo che ci dimentichiamo che la scuola è (o dovrebbe essere) molto più di questo: è un presidio in zone (la Campania ne è piena, pensate anche solo al “Parco Verde” di Caivano) dove non arriva non solo lo Stato ma neanche la luce della speranza. In troppi posti chiudere la scuola è significato aprire le porte alla Camorra, allo spaccio, alla prostituzione minorile o alla semplice disperazione.

Solo un imbecille può credere che la DAD possa arrivare là dove è capace di arrivare la scuola. Ma solo quando è aperta.

I discorsi sulla scuola dell’inclusione con cui ci siamo riempiti la bocca per anni erano solo fuffa per i grulli, evidentemente.

E, comunque, la DAD è solo immondizia didattica. Lo è sempre, anche laddove le cose – apparentemente – funzionano.

Ma sono cose che sappiamo tutti, è inutile dilungarsi. Io, personalmente, in questo anno e mezzo ho perso sei alunni – Carmine, Davide, Annarita, Pio, Giuliano, Luana – sei persone, sei storie, sei futuri; scomparsi, ingoiati dalla DAD.

E’ un prezzo TROPPO ALTO!

Ma che io lo dica serve a poco.

E allora l’unica cosa che posso fare è chiedervi di non scrivermi più, di non chiedermi firme o adesioni, di cassarmi da newsletters, gruppi di discussione e/o di classe, contatti lavorativi e personali, liste di ogni tipo e quant’altro. Con questa mia intendo disdire ogni abbonamento a riviste e bollettini che mi aggiornano sul mondo della scuola e revocare ogni delega ed iscrizione a sindacati e gruppi di base (dove sarà necessario scriverò lettera formale).

Insomma lasciatemi perdere. Tenetevi le vostre petizioni. Non voglio avere più niente a che fare con voi.

Grazie (firma).

---------------------------------------------------------------------------------------------

Ogni tanto mi chiedo come mai ho così pochi amici tra i miei colleghi…

 di più
editoriale di Dislocation

Con colpevole ritardo vorrei sommessamente salutare il Poeta che accompagnò parte della mia stupida, incoerente, disperata e meravigliosa adolescenza, coi suoi versi crudi e terribili, asciutti e dolcissimi, in cui specchiavo la mia breve vita, da cui bevevo a sorsi esagerati quando avrei dovuto centellinarli a gocce, in cui cercavo me, stupendomi dell'evidenza che così bene egli mi conoscesse.
Mi sarebbe ricapitato, nella vita, solo con Sanguineti, con Caproni, con De Andrè, con De Moraes e un paio d'altri.
Sinfield mi graffiava a sangue la fronte e Vinicius da Rio me la tergeva, Giorgio il Livornese la medicava e Fabrizio d'Albaro la riapriva, con due soli versi, con un paio di rime. Bel gioco.

Poi, invecchiato, certo, lo vidi nella caldissima estate del 2010 al Festival della Poesia a Genova (grazie, Claudio, vecchio amico, già semidio della new wave genovese, poi Augusto Organizzatore, coi tre soldi che il Comune ti stillava, del Verso in piazza, sembrava tu scegliessi gli ospiti secondo i miei gusti...).

Grassoccio, no, grasso, sciatto, maglietta da tre lire e jeans gloriosamente stravecchi, pochi capelli e nessun'aura da Vate, semplice come un camallo in pensione e col sorriso sincero di chi apprezza l'amatissimo Shelley ma anche un buon bianco della Riviera, secco e amarognolo.

Ascoltava molto e tutti, rispondeva gentilmente, con quell'accento così scivoloso e londinese, gesticolava pure un po', per spiegarsi e parlava, con grande cortesia, lentamente, con pochissime parole ma tanti avverbi, aspettando sempre che tutti avessero capito.

No. L'aspetto del Vate non ce l'aveva, ma neppure l'aveva mai avuto, neppure da giovane, quando incideva i suoi versi sui miei polsi ed in quelli di tanti miei coetanei e sembrava, a guardarlo, un qualsiasi frequentatore di concerti rock, il bassista d'una band qualunque e prima di compiere trent'anni aveva già abbondantemente alimentato le fonti a cui abbeverarsi di poesia, di testi tra il sognante e lo psichedelico, tra artifizi visionari ed esoterismi arcani.

Pure profetico, a tratti... "Il seme della morte, la cupidigia dell’uomo cieco, poeti affamati, bambini sanguinanti... Non ha davvero bisogno di nulla di ciò che possiede l'Uomo Schizoide del ventunesimo secolo".

Buon viaggio, Poeta.

E scusa il ritardo.

 di più
editoriale di Falloppio

L'anno 2020 è stato un calcio sui coglioni per la musica indipendente. Poveri musicisti (la parola musicista forse è troppo per chi non suona per professione, più corretta la parola musicante). Poveri noi.
Suonare dal vivo una volta al mese per prendere quattro spiccioli e investirli subito per comprare della nuova strumentazione. E continuare a spendere in sala prove e in benzina per andare in giro a cercare altri locali.
Così l'anno della pandemia ha dato un bel colpo secco a tutto. Un colpo di spugna sul bancone per togliere gli aloni dei bicchieri della birra che chi suona, conosce bene.
Il musicante beve.
Chi suona ha sempre sete. Ricordo il mio chitarrista Francesco che dopo un concerto voleva andare a fare rissa con il gestore del locale perché non voleva pagare. Perché non ci paghi? Cazzo! Perché il tuo chitarrista ha bevuto 23 Ceres! Fra perché hai bevuto 23 Ceres? Perché avevo sete.
Se fai musica hai sempre la gola arsa. Qulacosa brucia dentro.
E nel 2020? Punto a capo. Cosi si può dire "C'era una volta". E come sarà il dopo? Quien sabe.
Certo che io dopo 14 anni di inattività decido di far uscire il mio disco il 15 marzo 2020. Lockdown. O come dicono i francesi "confinement', parola che spiega meglio il periodo. Stop. Tutti fermi. Tutti in casa. Via la musica, su la mascherina.
La voglia di suonare non è più una priorità. Almeno non lo è per gli altri. Gli artisti, quelli veri, con la diretta streaming. Gli altri, noi, con un disperato WiFi con il quale non riesci neanche a parlare con WhatsApp. Perché la voce va a scatti, le immagini si bloccano saltellando.
Una giusta selezione naturale. Chi ha i mezzi in qualche modo riesce ad andare avanti per gli altri buio pesto
Provo a immaginare un futuro prossimo. Ma faccio fatica. Si ricomincerà a suonare dal vivo, nei pub, nelle birrerie, ma sento che qualcosa si è spezzato, incrinato, un segnale distorto. Non si parla più di procedere in salita, questa è l'ora dell'arrampicata.
L'energia non c'è più. Consumata dall'omicidio dell'idea, della genialità, l'eliminazione dell'artista da strada
Non gliene frega un cazzo a nessuno della minoranza. Una minoranza di Rockers.
Cosa si può fare? Si ricomincerà senza strategie. Con tanta voglia di suonare. Perché musicante ha sempre sete.
Flavio ordina delle birre medie.
Chi vuoi bere? Questo giro lo offro io.

(Scritto a cazzo dal cellulare)

 di più
editoriale di Dislocation

Sei sempre stato silenzioso e riflessivo, fin da piccolo. Ma eri anche allegro, e sarcastico fino alla cattiveria, un po' vendicativo ma anche dolce ed estremamente empatico.

E con pochi amici, scelti e fedelissimi.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Mi faceva incazzare, la mamma, mi costringeva a portarti con me, quando uscivo. Ma fu così che scopristi la musica.

Odiavi quella che facevo io col mio gruppo, la new wave, ma amavi i dischi di Zappa e dei Beatles che ti passavo.

A quattordici anni ti sanguinavano le dita dopo le nottate passate a provare i passaggi e le svise di Jaco.

A sedici suonavi in un gruppo jazz dove gli altri componenti avevano tutti più del doppio della tua età.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Poi ti sei perso, poi la naja, poi non proprio una gran voglia di lavorare, perlomeno non di fare quel che non ti piaceva, perché i lavori che ti appassionavano li facevi benissimo, ci mettevi cuore e cervello, come in quei giri di basso velocissimi e vorticosi che facevano ammattire il tuo batterista, come il modo in cui ti prendevi le ragazze che volevi, solamente guardandole, quelle che volevi.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Abbiamo passato l'infanzia e l'adolescenza insieme, io che ti parlavo di tutto e non tralasciavo un particolare, tu che dicevi tre parole e ti esprimevi a meraviglia.

Poi ci siam persi di vista per quindici anni almeno e, quando sei tornato, abbiamo ripreso il filo da dove avevamo smesso.

Poi la tua malattia, le sacche di sangue, le flebo, il mostro che ti consumava, da dentro, le energie e la forza.

E poi quella mattina, dopo una notte di sofferenza, tu che ci dicesti, a me ed al nostro fratellino più piccolo: "Ciao, ragazzi, io vado...".

Una parvenza di sorriso, addirittura.

Mi manchi da diciassette anni.

Ciao, Marchino.

 di più
editoriale di algol

Affinchè la sofferenza di uno diventi il sollazzo di (spero) molti.

Per dare un senso più alto al Dolore e dar libero sfogo al sottile piacere per la disgrazia altrui, che in Germania chiamerebbero Schadenfreude.

Ma anche per turpe cazzeggio ecco a voi l'ode sull'emorroide, per elisione detta EmorrOde:

Percepisco dei tizzoni

Di severe infiammazioni

Ergo occorre prenotare

Ecodoppler transrettale

Contrastanti le emozioni

Già pregusto le intrusioni

E mucose esplorazioni

Meste le deflorazioni

Le mie terga non han pace

Come se cagassi brace

Il mio ano incandescente

Sembra un punto fluorescente

Tetra luce di una notte

Di dolore che m’inghiotte

Frizza, scotta, brucia e pulsa

L’esistenza rende insulsa

In balia del mio disagio

Risoluto eppure mogio

Lo sfintere assai dolente

Mi avvicino reticente

Allo studio ventisette

Con le chiappe belle strette

Orsù guarda l’orifizio

Poni fine tu al supplizio

 di più
editoriale di lector

E’ un mostro la Storia. Un drago a tre teste e, con le sue tre bocche, mastica e stritola il tempo e le ossa e le divinità coi loro simulacri.

Vola alto, troppo alto per ascoltare urla e bestemmie. Non sa delle vittime, non conta il tempo e si fa beffe della direzione del vento.

E se ne fotte dei fatti.

Coi fatti ci fai, al massimo, la cronaca.

Però certe volte scende a volare più in basso, si diverte a sfiorare i tetti e, se hai pazienza e scruti con attenzione, e stai attento ai segni, magari (dico magari!) la riesci ad intravedere.

Se la riconosci!

Ecco, in questi giorni, io sto qui e scruto dalla finestra e mi sento un po’ come quel topolino.

Quello di quella vecchia storiella….

Fuori dalla finestra c’è “La Grande Pandemia Del 2020” ed io lo so che, nascosta lì dietro, c’è anche la Storia.

Socchiudo gli occhi e mi sforzo di guardare.

Vedo la gente che canta dai balconi, le bandiere che sventolano, gli Inni.

I vip che lanciano richiami bonari, i potenti con lo sguardo smarrito e le mascelle serrate che prendono decisioni improrogabili.

Le immagini televisive di eroi sfiniti che combattono la battaglia in prima linea, di poliziotti impettiti, di commercianti smarriti, e di chi è costretto a lavorare, e di chi non sa se tornerà a lavorare.

I morti senza nome, le pubblicità televisive che continuano ad essere sempre le stesse, le file ai supermercati.

E la gente alle finestre che aspetta….

Ma questi sono solo fatti, cartoline, spettacolo.

E’ cronaca.

La Storia è altro. La Storia verrà dopo.

Perché “La Grande Pandemia Del 2020” come tutte le cose, ad un certo punto, finirà.

Gli scampati usciranno dai loro ricoveri. Intellettuali e pensatori, preti e politici, complottisti, poeti e scrittori, registi, astrologi, santi e buffoni ci spiegheranno cosa è successo. Ce lo racconteranno e riracconteranno e lo analizzeranno e ce lo sviscereranno.

E ci spiegheranno che dovranno esserci delle conseguenze.

Che “c’è stata la Grande Pandemia del 2020, non lo sai?” Che dovremo rimboccarci le maniche, che “uniti ce la faremo”, che “mica può essere di nuovo come prima?”, che non ci faremo ricogliere impreparati.

Ma il problema è che qualcuno ha dovuto tirare fuori i soldi e che – non ce lo ha detto – ma era solo un prestito!

Adesso tocca restituirlo.

Analisi e conseguenze saranno consegnate ai libri di storia. Studenti annoiati snoccioleranno cifre, date, teorie a professori altrettanto annoiati che assegneranno il capitolo sulla “Grande Pandemia Del 2020”.

Le strade saranno piene di reduci.

“E tu c’eri?”, “ Tu te la ricordi?”

“Te la ricordi “La Grande Pandemia Del 2020”?”

E così, io mi sforzo di interpretare i segni. Socchiudo gli occhi e scruto nella notte.

E mi sento come quel topolino.

Quello di quella vecchia storiella….

Si, la storiella è vecchia ma, magari, non tutti la conoscete.

E, insomma, c’è questo topolino affacciato all’ingresso della sua tana che scruta nella notte.

Ad un certo punto vede un pipistrello.

Allora tutto eccitato si precipita dalla mamma:

-“Mamma, mamma” – urla – “Ho visto un angelo!”

 di più
editoriale di Pustnic

Sono in cassa integrazione, hallelujah. Posso dedicarmi al mio passatempo preferito, che poi è quello che facevo anche prima: fare scorregge sul divano. Ultimamente ho sviluppato un tecnica che mi permette di frazionare una grande in tante piccole. Il mio record personale è di 9 e non riesco a superarlo da più di un mese. Eppure mi alleno con i fagioli, i lampascioni e Signorini in TV, ma niente, nulla da fare. La TV la devo guardare di meno sennò vado proprio a diarrea. Ieri c'era Mida di Amici che scoppia a piangere in diretta e su Rai 3 un gruppo di palestinesi impolverati che ridevano. Forse ridevano di Mida.
'Spè che ritento, magari lo supero...UHMMM...uno...due...t...t...tre....quattro..UHMMMMM...niente, non sono arrivato manco alla metà, a saperlo prima ne avrei fatto una sola, bella potente. Certe volte mi affaccio nelle sale d'attesa dei medici di famiglia. Le avete presente? Cinque o sei sedie, un tavolino anni 80 e un paio di riviste tipo Oggi, Grazia e Novella 2000. Quando ero piccolo e trovavo Novella 2000, senza farmene accorgere staccavo le pagine dove c'erano le donne con le tette di fuori. Quando qualcuno se ne accorgeva gli dicevo che avevo preso una ricetta per mia madre. Stavo dicendo, certe volte mi affaccio nelle sale d'attesa e mentre tutti i presenti sono in silenzio, senza farmi notare, nascosto dietro l'angolo, faccio un scorreggia potente che fa sobbalzare tutti dalle sedie. Insomma, anche fuori casa cerco di occupare al meglio la giornata. Quando mi stanco rientro e mi rimetto in mutande come Dalla, pronto a scorreggiare colla TV. Salendo le scale certe volte ne faccio una per gradino, cioè sei. Tante volte però non mi riesce, ma si sa, l'hanno detto avantieri su Rai Scuola, per raggiungere gli obiettivi bisogna impegnarsi. Non scoraggiatevi mai, se vi impegnate raggiungerete sempre gli obiettivi dell vita. Ora vado perchè sta iniziando l'Isola dei Famosi e oggi non sono ancora andato di corpo.

 di più
editoriale di kosmogabri

Il riferimento è la giovane donna rea confessa che ha partorito di nascosto e poi seppellito i corpicini di due neonati nel giardino di casa sua, a distanza di un anno uno dall'altro. A suo dire ha fatto tutto da sola. Ora, a prescindere dalle gravidanze che si vedevano o meno, da due parti in solitaria con annessi e connessi (dolori, sanguinamenti e il resto che non sto a descrivervi perché lo potete inmaginare da soli che gran schifezza sia un parto e che sporcizia si lascia dietro), da connivenze omertose, da un fidanzato ignaro, da genitori ciechi, da amiche superficiali, questa storia sta assumendo una dimensione sproporzionata all'effettiva, nuda e cruda realtà.
La narrazione di questo fatto perpetrata dai media, dalla tv e dai giornali cartacei o online, per non dire di quelli che sguazzano allegramente nelle storie di true crime su youtube, verte sempre su due assiomi: la "ragazza" e "madre". Fateci caso, ovunque, nessuno ma proprio nessuno, dai giornalisti agli psicologi, sociologi, avvocati, opinionisti, criminologi, nessuno dice la definizione tabù: donna infanticida.
Le parole sono importanti, diceva uno.

Dalla Pifferi alla Pannariello, dalla Franzoni alla Patti, ma quante sono le infanticide di cui abbiamo sentito la cronaca negli ultimi anni? No, per la cronaca sono povere mamme, "ragazze" depresse, donne labili se non deficenti, persone abbandonate dallo Stato, dai servizi sociali, dalla scuola, dalla famiglia, dai consorti o fidanzati, e chi più ne ha più ne metta.

Ma che ci siano donne che uccidono i figli anche per futili motivi è così inaccettabile?

La Mamma è Santa, guai a toccare questo concetto. La Mamma se uccide i propri figli deve per forza essere stata spinta da una dinamica esterna che elude la propria volontà. Non esiste che una Mamma uccida la propria prole anche solo per il piu banale dei motivi: liberarsene.

Guai a toccare la Mamma.

Le parole sono importanti, cazzo. Infanticida. E basta favolette.

 di più
editoriale di JonatanCoe

Come un carro senza nocchier sfidava tempesta, così un giano de carrozze sfasciate aprì de Gennaio la festa.

E non parea vero che il ver cerimoniere G, capo del sito, arrivò solo in Febbraio tutto stizzito.

E il Turco, ch'egli tutto tengon nascosto, solo al prio sole de Marzo accedette in codesto posto.

Alti membri della Mucca Sacra arrivarono in Aprile a fiotti, Almotasim, Lulù con Dsalva, ch'ogni cosa vedea complotti.

Il gran sultano Tia s'affacciò a fine Maggio, in compagnia di due fanciulle e Falloppio il suo paggio.

Giugno fu tutto un brindar senza fine attorno al grande tavolo, dove la facea da padrone Enea il Diavolo.

Quando infine a Luglio svuotarono tutti i tini, intrapresero la via del ritorno condotti da CAZpuntini.

A chiudere la carovana c'era Macmaranza, sotto il sol d'Agosto fritto come una paranza.

Ormai un ricordo lontano, Settembre ci consegna nuova stagione, con la maglia numero 7 del Bologna rigiocherà Gaston(e).

.Ottandro ed Ottobre va da se, e se non vi è chiaro non chiedetemi il perchè.

Novembre, da copione, regala la prima brina, è arrivata l'ora di riporrere nell'armadio la t-shirt e il cappello da pescatore Valentyna.

A Dicembre si fanno regali e promesse e la mia la faccio qui, Sfascia non mi freghi, il prossimo anno si riparte da G.

 di più
editoriale di Flo

"Le parole sono importanti", diceva quello là.

E io l'ho sempre pensato. Ho sempre avuto una piccola mania per le parole. Quand'ero piccola, ho imparato prima a parlare e poi a camminare, rivelando subito un'indole che più tardi si sarebbe affermata. Più avanti, non era raro che mi soffermassi a sfogliare il dizionario o l'enciclopedia per scoprire cosa si nascondesse dietro quei caratteri in neretto. E, col tempo, le parole hanno assunto un ruolo sempre più rilevante: ne ho fatto un culto, una piccola ossessione, una passione e, volendo, ne potrei fare una professione. Provo un fastidio viscerale quando vengono maltrattate e le coccolo e le vezzeggio sulle pagine di un blog e nei dibattii con gli amici.

Eppure, che ci crediate o no, io, con le parole, non sono per niente brava. Ne conosco la morfologia, la formazione, l'etimologia, la struttura (un po' meno la dizione), il corrispondente in altre due o tre lingue. Le catalogo con un'occhiata, le seziono e le scompongo nella loro minima parte e so come disporle in una frase. Ma mi manca riuscire a ordinare i pensieri per farlo, a mettere insieme il coraggio per buttarle fuori.

Un foglio bianco mi lancia nel panico, un "Questa cosa non mi va bene" mi resta incastrato in gola come un boccone amaro, mascherato da un sorriso imbarazzato ed esitante. Per non parlare di una frase take-away per sentimenti che provo col contagocce, come "Ti voglio bene": resta dubbiosa e sospesa tra le cose non dette, lasciando inattese le aspettative degli altri, che quelle stesse parole le usano come una cosa di poco conto, un oggetto usa-e-getta che si butta lì e prima o poi si dimentica.

Forse è per questa mia incapacità di usare le parole che le parole, nella mia vita, hanno assunto tanta importanza.

Ho aperto le orecchie per godermi il suono delle parole in sé, in italiano, in altre lingue, sviluppando una predilezione particolare per la musicalità fricativa del portoghese. Ho spalancato i timpani per tendere l'orecchio agli altri, diventando un'ottima ascoltatrice, ma una pessima consigliera, perché quello che penso raramente riesce a uscire dalle quattro pareti dei miei pensieri.

Nella mia crisi da adolescente incazzata col mondo, invece di tormentare i miei padiglioni auricolari con la rabbia del punk o del metal, l'ho fatto ascoltando un genere fatto praticamente solo di un flusso ininterrotto di parole (ebbene sì, ho ascoltato rap per anni).

L'ho abbandonato più avanti, quando ho scoperto chi alle parole sa affiancare anche la musica. Per lo più semplice, lineare: un giro armonico, un arpeggio di chitarra, le parole sempre al centro, cantate da una voce nuda e discreta. E non è raro che in quelle parole ci trovi pensieri che neanche io sapevo di pensare, perfette espressioni della mia solitudine.

Ho divorato libri per cercare qualcuno che riuscisse a esprimere per me quello che provavo, ma che non riuscivo a tirare fuori. In un certo periodo ho anche pensato di voler fare la traduttrice per prendere le parole altrui, toccarle, plasmarle, farle mie, per convogliare quelle parole a qualcun altro con il mio stesso deficit di parole. Ma forse l'idea non mi stuzzica più: ho troppo rispetto per le parole di chi le sa usare per trasformarle col mio tocco in un ammasso informe di caratteri nero su bianco.

"In principio era il verbo".

Alla fine, invece, non lo so.


 di più
editoriale di cofras

Mai avrei pensato che si sarebbe scatenato il debfinimondo con questa malsana idea (anche se poi la malsana idea è di ZiOn) del gruppo sulle copertine brutte!

Apriti cielo! Chi è rimasto destabilizzato e ha creduto fosse arrivata l’apocalisse come Dislocation, chi ha voluto essere cancellato come Valentyna, chi posta cose che ritiene brutte ma che fanno sorridere tipo Buckley, chi ci sguazza e propone orrori di qualunque tipo come Lector, chi ride, chi piange, chi non si è palesato e mantiene il riserbo, chi è favorevole e chi è contrario. Insomma non vi nomino tutti per abbreviare ma è un bel guazzabuglio.

Per non parlare delle sottocategorie che stanno emergendo: gli anni 60 italiani, le religiose, le pelose, le pruriginose, le animalesche e chi più ne ha più ne metta!

In Sardegna si dice 'centu concas, centu berrittas' e non credo ci sia bisogno di traduzione!

Mi corre il pensiero al fatto che #forse siamo lo specchio dei nostri tempi, un estratto abbastanza fedele della nostra cara italietta con tutte le sue contraddizioni. Ma non è #forse questo il bello del Deb?

Forse esagero ma la vedo come una piccola botta di vita o no? Mah, personalmente mi sono fatto parecchie grasse risate e devo dire che era da un pò che non mi divertivo così.

Chiedo umilmente scusa a coloro che ho inserito nel gruppo senza una richiesta diretta, così d’ufficio, a loro insaputa.

Mi piacerebbe, in ogni caso, sentire opinioni in merito, anche cattive, anzi molto cattive, e sono sicuro che qualcuno sta già affilando la tastiera.

A si biri chizzi

 di più
editoriale di ZiorPlus

.

Mia nonna, classe 1899, aveva una cura per tutto.

Una cura unica in realtà.

Il Fernet Branca!

"Nonna, ho mal di pancia". Non ti preoccupare un pò di Fernet-Branca poi ti stendi a pancia in giù sulla sedia e passa.

"Nonna sono caduto dalla bicicletta" Cosa vuoi che sia, prima di tutto un bicchierino di Fernet-Branca poi ci mettiamo un bel cerotto.

"Nonna ho fatto a botte col figlio di Tony Stralocio" (Tony lo strabico - Tutti i vicini di casa nel quartiere avevano un soprannome spesso legato all'aspetto fisico, alla provenienza, al carattere, ecc.) Non si fà siete due poco di buono tu ed anche il piccolo stralocio ma ho io quel che fà per voi, un goccio di Fernet-Branca e poi da bravi fate pace.

Così per tutto, dal mal di denti alle cadute accidentali passando per il sangue di naso ai brufoli insomma tutto ciò che non contemplasse qualcosa di più impegnativo.

Non era semplicemente il Fernet od il Branca o altro, NO, guai spezzettare ma era sempre tutto attaccato il Fernet-Branca, come fosse una formula tramandatagli da un qualche antico sciamano contadino che per dare il suo effetto massimo andava riportata tutta in una volta senza pause pena l'insuccesso.

Come il PaoloRossi dei mondiali di Spagna dell'82, tutto d'un fiato.

Lo chiudeva sotto chiave, il Fernet-Branca, dentro una vecchia credenza in legno intarsiato di quelle penge di una volta come unica depositaria del segreto dell'elisir della salute ritrovata che andava preservato da mani indegne.

O forse anche perchè in casa avevamo uno zio che non disdegnava affatto curarsi a quel modo, proprio per niente, anzi!

E la chiave nel reggiseno, lì, almeno per quel che era dato sapere, dalla morte del nonno nessuno aveva più messo mano, probabilmente il posto più sicuro di tutta la casa ed oltre.

Ricordo una volta che, nonostante fosse una roccia, l' hanno dovuta ricoverare in ospedale per un qualche problema in fase acuta. Era più il terrore di dove ed a chi lasciare in custodia la chiave che la preoccupazione della malattia in sè.

La nonna aveva altre piccole stravaganti manie tipo gettare un pugno di sale grosso sul fuoco della stufa a legna della cucina ogni qualvolta veniva a farci visita una zia non tanto ben vista che abitava in un paese vicino dicendo che così facendo la strega probabilmente avrebbe abbreviato la sua visita di cortesia all'essenziale.

In giro per casa zie e zii non mancavano di sicuro dato che sia da parte di madre che di padre erano circa una dozzina per ceppo familiare..

Tutti senza eccezione alcuna cresciuti a loro volta a Fernet-Branca.

Quando capita ogni tanto che ci ritorno col pensiero, nonna Assunta ha vissuto fino a 101 anni, mi ritrovo a chiedermi che fine possa aver fatto quella chiave.

 di più
editoriale di kosmogabri

E poi improvvisamente, una sera che rientri a casa e ti immergi nei social, leggi una notizia che ti gela il sangue nelle vene, non ci credi, non può essere vero, è così assurdo. Un figlio che uccide il padre, in quella villetta di periferia in provincia di Alessandria. Cerca di bruciarne la salma in giardino. Il ragazzo ha poi confessato. Poche righe su un portale di notizie che definiscono l'orrore più assoluto. Tu quel padre lo conoscevi. Anche se a distanza di chilometri su chilometri. Un'amicizia virtuale che durava da più di quindici anni. Che poi dicono di questi social, ma a volte sì, certe amicizie sono più inossidabili di quelle nella realtà. Come in un mondo parallelo ma non per questo meno importanti.

Tu quel padre lo conoscevi, quante volte avete parlato di musica, di libri, di cinema, qui su Debaser e su altri forum, e su facebook. Di emozioni, di piacere, di bellezza. Quante volte avete chattato raccontandovi le vostre preoccupazioni, i crucci, gli insuccessi. Quante volte quel padre ti ha consigliato o rassicurato. Una presenza costante, su cui fare affidamento. E i suoi messaggi di coraggio durante il lockdown, intrisi di pazienza. E i suoi ultimi post su facebook, quel libro che aspettava con impazienza. Niente faceva presagire la tragedia. Ma è avvenuta. Brutale, incomprensibile, atroce. Disumana.

Impossibile definire il turbinio che ruota vorticosamente nella tua testa. Vortice che che provoca solo vuoto. Un vuoto che mai più sarà colmato dalla intelligenza, cultura, signorilità, arguzia, curiosità, passione di questo padre. Altre parole non sono esprimibili.

Addio Voodoomiles.

 di più
editoriale di ZannaB

Spoiler alert: questo testo contiene parolacce. Se sei sensibile o anche solo sbucciafave, passa oltre, staremo meglio entrambi.


Prologo.
Possiamo suddividere le persone in categorie in base alle sigarette.
- A: non fumatori.
- B: fumatori.
A loro volta, A e B si dividono in due sotto categorie.
- A1: quelli che non hanno mai toccato una sigaretta. Sono i bravi, sono quelli che fanno la scelta giusta, quelli che non sbagliano mai. Sono bravi, cazzo! Solitamente si approcciano alla categoria B con un sagace "ma lo sai che fa male?"
- A2: quelli che hanno smesso. Fanno cazzate, ma almeno rimediano. Non saranno mai bravi, ma almeno ci provano. Solitamente si approcciano alla categoria B con un sorprendente "ma perché non fai come me?"
- B1: quelli che smetteranno. Non sono un gran che, ammettiamolo. Non sono bravi e non fanno nemmeno finta di esserlo. Diventeranno A2, questo sì, ma per il momento fanno un po' schifo. Quelli della categoria A che li approcciano gli stanno altamente sui coglioni.
- B2: quelli che non smetteranno. Almeno non prima di morire. Se ne fregano della puzza, della bronchite, del tumore e delle categorie. Fondamentalmente degli stronzi e sanno di esserlo.


Episodio 1: altruismo.
L'altruismo è una cosa strana. Certo, certo, l'educazione civica, il buonsenso, volemose bene, fai agli altri quello che vorresti venisse fatto a te...
Ma poi chi cazzo l'ha detto che gli altri vogliono la stesse cose che vuoi tu?
L'egoismo invece è molto più logico. Lo potete criticare, contestare, perfino cercare di combatterlo, ma non potete dire di non capirlo.
Occuparsi solo di sé stessi è quasi considerabile istintivo, qualcosa di animalesco, comprensibile da tutti. Sbagliato ma naturale.
Non so, forse l'altruismo piace perché fa rilasciare al corpo umano qualche endorfina di merda, ma anche mangiare il cioccolato lo fa e in più lascia un sapore migliore in bocca.
A questo punto meglio una tavoletta di cioccolato che 10 centesimi di endorfine da altruismo.


Episodio 2: bicicletta.
Avevo 5 anni (o forse 6?) ed ero terribilmente in ritardo. Gli altri bambini sfrecciavano sulle loro biciclette malamente colorate (sti di colori fluo di merda...) mentre io stavo lì con le rotelline manco fossi il cazzo d'Apollo 13 sorretto dall'impalcatura prima del lancio.
Tutti volevano aiutarmi ad imparare ad andare in bicicletta: i genitori, gli zii, i fratelli, gli amici dei genitori, i cazzo di passanti...
Così via le rotelline e tutti a dare una spinta, tutti a tenermi, tutti a toccarmi, le mani di tutto il mondo con i loro buoni proposti del cazzo, tutte insieme su di me a far pressione.
Ci fosse stato un solo stronzo capace di capire che quella pressione mi bloccava, che non avevo bisogno di spinta ma di tranquillità e che tutta quella gente attorno a me avrebbe ottenuto il risultato contrario a quello che sperava: un bel cazzo di niente.


Episodio 3: compleanno.
Le primavere passano inesorabili. Ti ritrovi vecchio, egoista, categoria B e pure un po' stronzo.
C'è qualcosa di più egoistico che radunare delle persone scelte da te per festeggiare te stesso? No.
Quindi chiami gli amici (che conti sulle dita delle mani, barando per poterle utilizzare entrambe) e via ai festeggiamenti!
E da bravo egocoso ricevi pure un regalo. Sembra la sagra dell'egoismo di Monte Coso.
Apri il regalo.
Un libro: "Smettere di fumare è facile".
Li guardi tutti, ridono felici.
Nel libro c'è una dedica: "fallo per noi".
Ridono. Puoi quasi sentire i loro 10 centesimi di endorfine tintinnare.
Li riguardi, ci sono tutte le categorie. A1, A2, B.
Qualcuno potrebbe anche essere B2!
E ti stanno aiutando a smettere di fumare.
Ti stanno aiutando, ti stanno sostenendo, ti stanno spingendo.
Ti hanno già tolto le rotelline...

Epilogo.
Apro gli occhi.
Sono a terra, steso sull'asfalto. La bicicletta, poco più in là, ha fatto la mia stessa ingloriosa fine.
Mi alzo, ho un ginocchio sbucciato. Vaffanculo la bicicletta.
Rientro in casa, mi chiudo in camera e accendo una sigaretta.
Il fumo riempie la stanza e offusca sia la vista che i pensieri, così finisco la sigaretta, mi alzo e apro la finestra.
Il fumo si dirada in fretta, la visuale migliora e ciò che vedo è di nuovo il ginocchio sbucciato.
Vaffanculo la bicicletta.
Accendo un'altra sigaretta e inizio a pensare.
Lo so che fumare fa male, non lo sanno mica solo quei coglioni della A1 che si credono stocazzo, c'è scritto su ogni pacchetto che compro, dovrei essere cretino per non saperlo.
Però se fa male, forse fumare non è così egoistico. Voglio dire, per un vero egoista forse è meglio restare in salute per continuare a rompere le palle agli altruisti. Cazzo avranno questi altruisti da aiutare uno stronzo egoista?
Accendo un'altra sigaretta.
...
Forse non sono così egoista.
Forse sono solo stronzo.
Magari pure B2.
E vaffanculo sta cazzo di bicicletta!

 di più
editoriale di Flo

Non c’è dubbio che io, a diciotto anni, fossi (già) una persona strana.

Per il mio compleanno, invece di feste con tanti invitati quanto potrebbero essercene a un matrimonio, mi feci regalare un viaggio a Lisbona con i miei.
Erano i primi di settembre, di certo non sapevo che quel viaggio, a posteriori, mi avrebbe segnata tanto.

Ma ricordo perché avevo scelto Lisbona: Pessoa, il suo Livro do Desassossego, il Libro dell’inquietudine tradotto da Tabucchi, aveva già scavato un solco nella mia adolescenza, nella mia anima e nelle mie tasche: me l’ero portato ovunque, era l’unico libro in italiano che mi aveva seguita nel mio anno in Norvegia, quando avevo diciassette anni, e ha ancora il suo posto d’onore sulla mia libreria, tenuto come un cimelio, neanche troppo spiegazzato.

Di quel viaggio ricordo tanto caldo e tanta pioggia.
Tantissima, come raramente ho visto piovere nella mia vita, tanta pioggia da costringerci, una sera, ad aspettare mezz’ora rintanati nel foyer del Teatro Politeama.
Ricordo anche tanta insonnia da crampi da disidratazione: le salite di Lisbona non perdonano.
Ricordo gli amici pigri e rompiscatole dei miei che viaggiavano con noi.
Ricordo un senso di incompleto, di amaro in bocca, di non visto che mi lasciò quel viaggio.

Soprattutto, ricordo una sensazione di meraviglia, la sorpresa per la luce accecante sul lastricato nel primo pomeriggio, l’incanto per la lingua meravigliosa e strascicata dei portoghesi, la grandezza dell’oceano di Cascais, il profumo di pesce e la puzza di baccalà, l’odore di dolci appena sfornati. Il fascino di quella decadenza malinconica che pervade ogni angolo della città e che ti entra dentro o ti ripugna.
Le stesse sensazioni che ho provato ogni singolo giorno quando a Lisbona ci sono tornata in Erasmus.

La voglia di tornare.

A Lisbona, poi, ci sono tornata in un altro viaggio, ci ho vissuto per cinque mesi, e sono castigata ogni giorno da quel sentimento pieno di sospiri che è la saudade, un sentimento tutto portoghese, di cui Lisbona rappresenta la concretizzazione.

Nella vita, io non mi sono mai innamorata, se non di Lisbona e del Portogallo. Del portoghese, a cui mi dedico da cinque anni e che mi hanno impedito di continuare a studiare, strappandomi un pezzettino di cuore. Di Pessoa e del suo Libro dell’inquietudine, quella reliquia della mia adolescenza su cui ho scritto pagine e pagine inutili di tesi.

Di quel viaggio a Lisbona conservo ancora un piccolo dettaglio, un libro che mio padre contrattò con il commesso di una libreria antichissima (l’ho scoperto dopo, detiene il Guinness come libreria in attività più antica del mondo), parlandogli in italiano.
Era un libro di poesie, un’antologia, ovviamente di Fernando Pessoa.
Sfogliandolo, ore dopo, scoprii con rammarico che era difettoso, che mancavano alcune pagine, rimaste bianche, e che non avrei potuto cambiarlo. Cercai comunque di comprenderne il contenuto, aggrappandomi ai pochi appigli che quella lingua che ancora non conoscevo mi offriva.

Mai avrei pensato che il futuro fosse scritto tra le pagine bianche di un libro stampato male.



 di più
editoriale di lector

Se c’è una cosa di cui è ancora lecito stupirsi è che in certe giornate, ubriache di sole primaverile, tutto può diventare bello: anche le erbacce che spuntano tra i marciapiedi come peli dal naso o dalle orecchie, anche le carrozzerie brilluccicanti delle macchine parcheggiate e persino questo orribile casermone che si erge per cinque piani qui a vicolo Scassacocchi, tra i rifiuti lasciati ad essiccare ed il piscio dei cani.
Una luce violenta e vitale penetra e stravolge gli anfratti, trasfigura le sagome e le cose e, i muri, denudati dal sole, si mostrano impudicamente all’occhio con gioiosa vitalità.

Allora diventa plausibile che persino questo lurido appartamentino, ricavato in un angolo del secondo piano, a qualcuno possa sembrare una casa dove poter vivere e che stranieri o studenti siano qui fuori a far la fila per entrare - come dice il padrone di casa - e che ci sia addirittura un cinese che ci vuol portare tutta la famiglia, moglie, figli e suoceri a carico, e che pagherebbe ben più di quel paio di centinaia di euro che, oltretutto, Ernesto non paga già da qualche mese.

Brutto vizio, quando si è lavoratori precari, il voler continuare a vivere, mangiare almeno una volta al giorno, vestirsi e voler avere finanche un tetto sulla testa. Anche quando il proprio contratto atipico è ormai scaduto già da un po’ e non si è neppure poi così giovani.
Eppure, forse rapito dal colore di quella luce straniante che, invadendo la stanza dall’unica finestra, illumina tutto quel luogo fino a poco prima così grigio, portando con sé un odore di fresco e di pulito, Ernesto si sente invaso da una strana calma.

Non si può odiare in una giornata così splendida di primavera.
Non si può continuare a piagnucolare quando la vita esplode tutt’intorno.

Perciò Ernesto prende una decisione: diventerà un supereroe.

A tutti piacciono i supereroi, anche a Ernesto piacciono i supereroi. Soprattutto gli piacciono i cattivi, perché li riconosci, lo vedi che sono cattivi: si vestono da cattivi, parlano da cattivi.

Beato il mondo che non ha bisogno di eroi, ma questo mondo fa schifo, fa così schifo che altro che eroi: ci vogliono i super eroi!

Quando hanno cominciato a piacerci così tanto i supereroi?
Semplice: quando hanno smesso di piacerci le idee.

Anche io quando ero giovane amavo le idee: erano belle, erano rotonde, erano lucenti le idee! Ed era cosi facile distinguere le idee buone da quelle cattive.
Le idee cattive si vestivano da cattive, parlavano da cattive, si capiva subito che erano cattive.

Poi le cose hanno cominciato a diventare complicate: belle idee producevano figli cattivi e altri figli cattivi facevano cose buone che poi diventavano cattive e dai semi di rose nascevano solo spine.

I supereroi non lo vogliono cambiare il mondo, sono le idee che si sono messe in testa di cambiarlo.
I supereroi – biff, pùm, spack. tong – picchiano i cattivi e, poi , tutto rimane come prima in attesa che arrivi un altro cattivo e, alla fine, è meglio così.

La verità è che un mondo migliore non fa per me: io finirei subito in galera in un Mondo Migliore.

Un tempo le idee erano un lusso che potevano permettersi solo i giovani, adesso sono un passatempo ozioso per i vecchi.

Ma a Ernesto tutto questo non interessa, lui pensa: “perché no? perché io no?”
Basta con le recriminazioni, l’odio, l’autocommiserazione, tutto questo non serve, tanto le cose non cambiano, bisogna offrirsi al mondo, agire, combattere il male, difendere e salvare la Vita.
Sì anche quella di quello stronzo del padrone di casa o di quelle ragazze così belle, i cui sguardi ti attraversano come se tu non fossi niente e che si chiederanno chi sia quell’eroe che le ha salvate e sogneranno di baciarlo, senza sospettare che dietro quella maschera ci sia quel tizio, strano e taciturno, che vive in una stanzetta di quell’orribile casermone a vicolo Scassacocchi.

Così, mentre strappa, ritaglia e cuce pezzi di vecchi abiti malmessi cercando di farsi un costume, a Ernesto - dopo tanto tempo - gli viene pure voglia di cantare.

Adesso che è pronto, così intabarrato, Ernesto si sente finalmente un altro.

Ora si tratta di arrivare in cima al tetto senza essere visto: sarebbe imperdonabile farsi scoprire proprio la prima volta.
Poi Ernesto sorride di sé: già da tempo sa di essere invisibile.
Così si inerpica con ostentata tranquillità su per le scale e gli androni di quel palazzone che tra sottoscala e superfetazioni è quasi un mostruoso formicaio, monumento all’abuso edilizio. Nessuno lo vede, tranne Aniello, il bambino del quarto piano che gioca, come sempre, sul pianerottolo dove la madre, che lavora di notte, lo deposita ogni mattina per poter dormire un po’.
Aniello lo guarda con uno strano sorriso, poi torna a giocare.

Ora è sul tetto, può vedere i barbaglii delle onde di quello spicchio di mare che si riesce a sbirciare al di là di tutte quelle case che si mangiano l’orizzonte.

Che giornata splendida!

Per un attimo i rumori si acquietano e si riesce a percepire il suono di una brezza leggera e sentire l’odore lontano di un qualcosa che non c’è più. Una consapevolezza gli trafigge il cervello: la bellezza avrebbe potuto salvarci.

Ma è un attimo.

Adesso è tardi, c’è altro da fare.

Ernesto si calca la maschera sul viso, flette i muscoli, prende un profondo respiro e si lancia nel vuoto.

Libero.

Finalmente libero.


 di più
editoriale di Taurus


Non sono portato per carattere agli strombazzamenti e ai facili ammiccamenti, odio i selfie allo specchio e quelli con la bocca a culo di gallina, i like tattici su Facebook e gli atti di reciproco onanismo consuetudinario perché lo richiede la prassi. Però riflettevo su un po’ di cose ed è arrivato il tempo di renderle pubbliche.
Sono circa 10 anni che partecipo più o meno attivamente a Debaser, sono più giovane anagraficamente dell’80% dell’utenza del sito, ma sono più vecchio di molti di voi debaseristicamente parlando.
E allora cosa mi spinge a rimanere ancora attivo dopo tanto tempo? Si potrebbe dire che la genuinità di Debaser, nel bene e nel male, rimane ancora oggi insuperabile. E da un punto di vista qualitativo Debaser non ha nulla da invidiare ai “professionisti della critica musicale” dei vari Ondaclock e webzine digitali concorrenti. Del resto mi fido molto di più di un recensore amatoriale, che di qualche editorialista o caporedattore un po’ furbetto che riceve accrediti e pile di dischi in omaggio ogni settimana. E ai recensori per la maggior parte, i cui molti nickname meritebbero un altro editoriale a latere, competenza e preparazione non sono mai mancati, ma è la passione l'elemento fondamentale che non manca mai a chi dedica spazio e tempo per dare il proprio piccolo contributo per arricchire sempre di più il sito.
E poi il cuore pulsante di Debaser, la sua fenomenologia antropologica è sempre stata scritta nello spazio dedicato ai commenti: un tempo anche anonimi, hanno rappresentato un gran punto a suo favore. E se all’anarchia e al goliardismo ricettistico sotto i pluridoppioni dei tempi andati si è sostituito una sorta di ‘volemose bene’, i commenti rimangono un irrinunciabile strumento di confronto, civiltà (si narra però che il tempio di Deb sia stato costruito sugli antichi resti di un'arena fatta di sangue, polvere e lacrime) e discussione con cui poter interagire con altri utenti e generare discussioni circa l’opera, l’artista o lo scritto.
Avete mai visto cosa succede su Ondaclock quando provano raramente e sciaguratamente ad attivare i commenti per le recensioni? Di musica si deve discutere democraticamente, non è un monologo. Tu scrivi, io ti leggo e ho il diritto di poter intervenire. Tu decidi che hai qualcosa di interessante da dire, io ti dedico del tempo aprendo la tua pagina, è un gioco reciproco delle parti. Ecco dove sta la bellezza di Debaser: non si ammettono monologhi senza contraddittorio. Se dici una cagata, affermi un’inesattezza non puoi disattivare i commenti e nasconderti. Probabilmente venisse soppressa la sezione dei commenti, credo smetterei di scriverci.
Aggiungiamoci alla discreta fetta di utenza attiva una notevole ed eterogena offerta musicale ed extramusicale che ha veramente poco da invidiare a quella di altri siti web. E soprattutto la libertà di poter recensire il disco dei tuoi sogni (o dei tuoi incubi) liberando la fantasia e utilizzando gli approcci preferiti come meglio credi (magari non parlando per niente del disco e divagando? Yeah!), e quanto meglio credi senza scadenze temporali.

E adesso tutti in coro: La mucca è morta, viva la mucca.

 di più
editoriale di Caspasian

La distruzione sistematica dei valori che sempre più ci travolge passa anche dalla chiusura dei negozi di dischi. Le fonti e i luoghi di aggregazione senza fini di lucro (specialmente psichico) devono essere eliminate per espandere a tappeto un controllo totale del "consumatore".

Tutte quelle situazioni accomunanti che creavano incontri, discussioni, confronti sono ormai bandite. Il grande inganno della tecnologia come evoluzione dell'essere umano è stata implementata, la ciliegina sulla torta sarà il microchip.

La peste ha contagiato tutti e tutti sono "felici" di essere assistiti financo nell'atto dell'andare di corpo. Non si è capito che quel buco serve solo per evacuare e non per "accogliere", ma usando quell'entrata le agevolazioni ce lo mettono letteralmente nel culo.

Chi è nato già "tecnologico" non immagina le sensazioni da essere umano che si potevano avere quando quei sabati pomeriggio "si partiva alla caccia", con due soldi in saccoccia ma pronti a tutto.

Sostanzialmente era il viaggio l'essenza di tutto. Arrivati poi al negozio non importava se compravi qualcosa, se avevi i soldi, se non trovavi quello che avevi in mente di prendere, ormai eri lì, inattaccabile, eri arrivato, ce l'avevi fatta... Eri nella tua isola e spaziavi libero senza catene, eri in compagnia nella tua solitudine.

Tra il nuovo e l'usato ti sbizzarrivi nella tua assenza, non c'erano più confronti, il senso di unità ti apparteneva e ti sentivi bene lì dove c'era posto per tutti, dove tutti erano nella stessa barca, dove tutti tifavano una sola squadra.

E non mi si dia del patetico, qui non ci si piange addosso, sto solo constatando una cosa: eravamo felici!

Un utente nel 2007 su un blog sintetizza l'inevitabile, ma attenzione, i nuovi giovani transumanesizzati non butteranno solo i CD dei padri...

Argonath scriveva: "Disfunzioni... che bei tempi... c'annavo du' vorte a settimana tra er '90 - '92 a sbavà sui ciddì che numme potevo comprà; già manco quelli... vicino all'università c'era un negozzietto andove i ciddì se potevano affittà e io meli scopiazzavo su musicassetta.... poi ho fatto i sordi e mò sò pieno de ciddì che le mie figlie tra 15 anni butteranno ar cesso...
Ammazza che traggedia."

 di più
editoriale di Pinhead

Negli ultimi anni avevo cominciato ad acquistare dischi su siti di e-commerce, sempre più spesso in formato mp3, per ragioni di spazio ma anche perché più economici.

I negozi di dischi li frequentavo raramente: per dire, nel 2017 ci sono entrato quattro volte, in media fanno una volta ogni tre mesi.

Sempre Hellnation, sulla via Nomentana a Roma.

Hellnation aprì i battenti all’inizio degli anni ’90, prima si chiamava Banda Bonnot, ci andavo molto spesso perché vendeva dischi favolosi e stava a due passi dall’università che frequentavo, compravo qualcosa o semplicemente passavo il tempo a smanettare tra i vinili e sentire ottima musica.

Pochi minuti fa sono entrato nella mia pagina Facebook e ho trovato una notifica da Hellnation: un post dove il titolare annuncia la chiusura del negozio, il 31 dicembre scorso.

Mi dispiace molto più di quando chiuse i battenti Disfunzioni Musicali, forse perché mi è venuto il dubbio, o forse è una certezza, di aver contribuito nel mio piccolo alla chiusura di Hellnation.

Ora come ora, penso che smetterò di comprare musica “immateriale”.

 di più