editoriale di Dislocation

Ma... avete notato quante recensioni di DeUtenti che non postano mai un ascolto, neanche morti, né nient'altro?
Solo recensioni, perlopiù di prodotti di ultra-nicchia, spesso nuovissimi, quasi sempre, almeno, ma, appunto, di ultra-nicchia...
Conseguentemente si nota, ditemi se sbaglio, un tenore bassissimo del "groove" delle recensioni stesse, tutte scritte in un buon italiano ma senza tensione né una "storia" da raccontare, quasi tutte intese ad una mera descrizione delle caratteristiche della band o degli augusti componenti, con accenni al famigerato track-by-track e poco altro, molto poco.
E nessun sentimento.
Certo, meglio delle recensioni del demente di turno che si finge femmina adolescente e che scrive come una dodicenne del 2002, con la K al posto del CH e la X all'inizio di "perché"...
O quell'altro decerebrato che ci tiene a farci sapere quant'è esperto nella descrizione e nella sistemazione delle sette note sullo spartito, ma che denuncia chiari limiti espressivi quanto creativi, nonché una mezza dozzina di patologie psichiatriche,tutte, peraltro, perfettamente curabili, anche dal SSN che ha istituito, decenni fa, moltissimi Centri di Salute Mentale dove esperti del settore possono prendersi cura di loro e delle loro paturnie, praticamente gratis.
Ma... Torniamo al dunque...
Che il DeB sia caduto in un golpe strisciante di DeRecensori di professione?
Che il prode @[G] abbia appaltato ad esperti testacchioni la Noble Art della recensione, magari stufo di veder recensito "The Dark Side Of The Moon" per la --esima volta?
Il dubbio m'attanaglia.
Il sospetto mi sconvolge.
L'evidenza mi amareggia.

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editoriale di Bubi

Che "Tom Greasy Thumb" ed io non eravamo fatti l'uno per l'altro, lo capii fin dal momento che lo conobbi. Di lui non mi piaceva il suo modo di fare, di lui, non mi piaceva niente. E poi, era un negro, 120 chili di negro sempre incazzato. Non mi piaceva neanche Lory, quella con la cicatrice sulla spalla, la regina dello spaccio delle Spice drugs a Tribeca. Non parlava molto, ma guardava... guardava me. Chissà perché, ma avevo sempre l'impressione che pensasse: «che razza di idiota.» A me piaceva Betsy, Betsy dal corpo minuto e ben proporzionato, Betsy senza arte né parte. L'altra notte, dopo aver passato qualche ora seduti al bancone del Coconut Club, ci ritrovammo, al ritorno, a vagare senza meta per i vicoli deserti di Riverside. Il negro s'era accovacciato sul margine del marciapiede, Lory mi prese di mano la bottiglia e gli sedette vicino. Betsy mi stava accanto tenendomi per mano, disse: «Tom mi fa paura!» La strinsi tra le braccia sfiorandole le labbra col naso. «Perché hai paura se sono qui con te»? Dissi, «Non devi aver paura, Tom è un morto che cammina». I suoi occhioni si rasserenarono. Meno male.

Adoravo starle vicino. Il suo corpo non suggeriva pensieri casti. Era asciutto, flessuoso, caldo, carne che inebriava più dell'alcol che avevamo ingollato. Un brivido la percorse. Ci adagiammo sul cofano di una Rambler e facemmo l’amore. «Non senti anche tu questa musica»? disse.«Esce da ogni porta, da ogni fessura». Era una notte di magia, una notte di sogni e di mistero, la realtà si confondeva con l'immaginazione. Alzai lo sguardo e vidi una luce che illuminava il vicolo. La musica si fece più vivace, divenne frenetica, una ballata tzigana. Zingari uscirono dall'ombra, suonando e ballando. Dando forma ai loro profili in quel magico chiarore. Non sentivamo più il fetore della spazzatura e della sporcizia sparsa nei dintorni, la magia di quella notte ci aveva trasportati lontano da ogni miseria. Tom sanguinava e non si poteva vedere. Appoggiato ad una vecchia Chevy, fumava e ci osservava. Lory gli stava vicino con l'avambraccio calato sulla sua spalla. Ci guardava con espressione indecifrabile, tenendo la bottiglia ciondoloni appesa a un dito. Tom era il tipo che se diceva: «Ehi tu, dammi una sigaretta,» ogni ragazzo cercava il suo pacchetto. Questo era Tom "Greasy Thumb", tutti i piscioni volevano essere come lui. Sputò per terra e scagliò una bottiglia contro il furgone del latte. E rideva. Ma sanguinava e non si poteva vedere. Mi afferrò per il collo, mi sbatté contro un'auto e mi schiacciò la sigaretta accesa sulla mano, disse: «Il vostro posto è nel bidone della spazzatura».

Oh sventura, l'incantesimo s'era rotto, gli zingari smisero di suonare e rientrarono nell'ombra. Riuscii ad estrarre la mia vecchia Glock e svelto svelto feci un buco in mezzo alla fronte di Tom. Barcollando, riuscì a fare ancora tre o quattro passi. Tornò verso me e m'abbracciò per sostenersi prima che le forze l'abbandonassero del tutto. Dopo aver sparato in faccia al negro, feci un cenno a Lory e dissi: «È stato dimostrativo». «Cosa»? Rispose inorridita. «L'ho fatto per te». Confermai. «Cosa»? Ripeté tremando: «È per te che gli ho sparato in faccia. Di certo hai virtù nascoste se sei la numero 1 per le Spice drugs in gran parte di New York. Ma questo è un altro discorso. È importante che d'ora in poi, ogni volta che mi vedi penserai che sono capace di ammazzare qualcuno senza alcun ripensamento. Per te l'ho fatto, per avere il tuo rispetto. Il mio ce l'ho, il suo no, ma ora non me ne frega più un cazzo, è il tuo che voglio e l'avrò. Anche se lo sembri, non sei stupida, hai capito bene cosa voglio, Lory».

Tom era morto e il suo abbraccio si faceva meno asfissiante. Stava allentando la presa e pian piano scivolava verso il basso. Goccia a goccia, il sangue colava dalla piccola apertura sulla sua fronte insozzandomi la faccia, i vestiti, arrivando fino alle scarpe. Di lì a poco il sole avrebbe soffocato Riverside con onde di calore. Avrebbe illuminato tutto. Il negro steso al suolo. Il liquido rosso ancora vivo, che scendeva in piccoli rivoli andando a formare una pozzanghera scura. Lory, che s'era incamminata mestamente verso Tribeca continuando a trastullarsi con la bottiglia ed i suoi pensieri sconosciuti. Betsy, che si era seduta a terra e abbracciava la mia gamba. Me, che ripetendo mentalmente il meraviglioso e ossessivo battere sui tasti di "Misterioso", osservavo il morto e pensavo: «Ora stai bene Tom, nemmeno sanguini».

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editoriale di ilfreddo

Lo zaino è fottutamente pesante: la vetta di oggi si chiama Presanella e a 3558 metri sul livello del mare il meteo può cambiare in un amen. Nonostante il clima tropicale ho portato oltre al telo termico e kit di emergenza, picozza, ramponi, scarpe da trekking, casco e scarponi pesanti. Parto da casa alle 3.30 del mattino con il paese che dorme silenzioso. I primi due passi li faccio alle 5 quando la fioca luce che precede l'alba prende pian piano vigore, gli ultimi alle 16 con i piedi che fumano e trovano ristoro nelle fresche acque del Sarca. La Val di Genova è meravigliosamente selvaggia ed intonsa. E' nei pressi delle Cascate del Nardis che parte questa traccia amena che pochissimi percorrono, vuoi per il dislivello impressionante, vuoi per l'assenza di rifugi o malghe. Il solo bivacco Berti posto a 2.200 viene utlizzato per quei pochi che decidono di intraprendere l'escursione in due giornate. Mi piace venire in questo posto una volta l'anno e mentre prendo quota penso che sarebbe emozionante vedere un capriolo, un camoscio o magari, perché no, un orso bruno che passa e non mi degna di uno sguardo mentre, rispettoso, lo ammiro in silenzo percorrere il suo salotto di casa.

Arrivo al Berti alle 7 circa. Il bosco è 400 metri più sotto e lascio al bivacco le scarpette da trekking e le birre che ho cura di mettere in un catino dove c'è la pompa dell'acqua. Qualcuno che è già salito da almeno due ore ha lasciato il fornelletto a gas e così mi concedo un caffé insperato che è una gran goduria. Caldo! Grondo come in sauna: sembra la fine dell'estate non inizio luglio. Il fiume Sarca in questo periodo solitamente è impetuoso e oggi la portata è ridicolmente bassa. Affronto la morena e mi si para davanti uno spettacolo drammatico. Le Lobbie, l'Adamello, il Corno di Cavento, il Caré Alto, Cima Presena tutte praticamente senza coltre bianca. La neve dell'inverno è già quasi sparita su tutte queste cime ampiamente sopra i tremila e i ghiacciai sono completamente aperti e pieni di rughe (crepacci) con un colore grigio scuro che mi lascia senza fiato. La picozza e i ramponi sono praticamente inutili proprio come temevo. Il versante sud della Presanella che sto affrontando è quasi senza nevai e quel sottile manto che trovo si lascia modellare dal mio scarpone senza che debba utilizzare la "picca". Solo immensi cumuli di granito mi separano dalla vetta che raggiungo rapidamente e senza quasi difficoltà tecniche.

Alle 10 sono in cima e l'aria è così calda che il berretto, i guanti, il piumino non servono. E' sufficiente una banale giacca a vento e rimango lì, per una buona mezzora, a guardare questi ghiacciai agonizzanti mentre mordo un panino, mi idrato e mi riempio di crema 50. Dovrei essere felice per la faticata e la buona forma, nostante abbia passato gli anta e smesso di fare gare da dieci anni, ma vedere tutto questo grigiume mi lascia basito, perplesso con un magone che mi serra il fiato e mi si attorciglia addosso. Mio figlio forse non lo vedrà più un ghiacciaio alpino ma solo una stinta e stretta lingua.

Sono lì che bevo due birre immerso tra i miei pensieri quando il mio amico che lavora al soccorso alpino mi manda un messaggio. "Dimmi che non sei sulla Marmolada! ******** è venuto giù un seracco sotto Punta Rocca!!!"

Quel video che ritrae un fiume di pietre e ghiaccio scendere a valle con una potenza devastante portandosi via decine di vite (16 sono le macchine ancora ferme al Passo Fedaia) mi ha destabilizzato e non solo per le famiglie distrutte. Mi sembra che sia una fotografia della nostra situazione attuale: una biglia che inesorabile scorre veloce su un piano inclinato e ci travolge, ci frana addosso. E' come se i problemi irrisolti accumulati per decenni e rimasti in pericolante equilibro fossero caduti trascinandosi a vicenda in un rotolio infernale senza fine. Vedere quel buco nella seraccata della Marmolada, una montagna che ho scalato enne volte, mi ha lasciato "in sospeso" come questi puntini...

Realizzo che in un contesto drammatico di crisi globali come quella ecologica, economica, sociale, geopolitica non ci sono nemmeno le mie adorate montagne locali a cui mi possa aggrappare per avere un minimo di sicurezza. Uno pensa vigliaccamente sempre solo al proprio orticello del cazzo ed in maniera ignobile fa lo struzzo pensando "fortunatamente non mi riguarda direttamente! Non ancora". Quel buco in mezzo alla Regina delle Dolomiti mi riguarda e non posso fare a meno di chiedermi quanti schiaffoni in faccia, quante pedate nel culo e quanti pugni sul grugno dovremo prendere ancora? Ovviamente non parlo solo di clima.

Poi leggo che adesso arrivano i No-Sic, che negano la siccità, e penso che siamo tornati all'oscurantismo del Medioevo. E allora torno adolescente e mi monta addosso un ribollio sì acuto e velenoso che mi fa pensare ad una cosa talmente orrenda e oscena che no, non la scrivo. Ma la penso, Dio se la penso!

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editoriale di Bartleboom

Di notte, in ospedale, non si riesce proprio a dormire.

Il campanello suona in continuazione, le infermiere parlano ad alta voce per tenersi sveglie, c’è uno, nella stanza a fianco, che chiama la moglie perché vuole andare a casa. A te hanno dato una sedia su cui dormire e porca la miseria averlo saputo almeno mi portavo un cuscino per appoggiare la testa.
Hai i piedi gonfi per la giornata appena trascorsa.
Gli occhi stanchi per dovere stare al buio.
Il caffè della macchinetta ti fa capire che no, non hai risolto del tutto quel problema di reflusso.
E di uscire a fumare non se ne parla, perché se magari “lui” o “lei” si sveglia, vuoi essere lì.
Mica che succede qualcosa…


E allora, di notte, in ospedale, cammini. Cammini nella stanza, intorno ai letti. Conti i passi dalla porta alla finestra.
Cammini nei corridoi, passando davanti agli ascensori, intercetti le chiacchiere delle infermiere
E speri che il tempo passi in fretta.
E di solito no, non passa in fretta.

Di notte, in ospedale, conosco Antonio, un signore non esattamente distinto, sulla cinquantina, che mi risulta subito simpatico quando, al momento delle presentazioni, si gioca il tutto per tutto con un: “Dammi pure del tu, che tanto siamo praticamente coetanei”.

E’ lì per sua madre, a suo dire “una cacacazzi pluridecorata”, di quelle che dormono 10 minuti alla volta, solo per il gusto di svegliarsi e lamentarsi per il caldo/freddo/fame/dolore/noia/stanchezza, con una brutta tosse che mi sa tanto che nasconde qualcosa di ancora più brutto.

Fin dalla prima sera, io e Antonio chiacchieriamo un sacco, ma è lui quello che ha più urgenza di parlare.
E così, in circa due settimane, da mezzanotte alle sei, Antonio mi racconta di fatti, persone, case e cose talmente belli che non possono non essere veri.
Mi parla di un viaggio a Parigi fatto a vent’anni, che gli ha cambiato la vita perché “c’eravamo noi che puzzavamo di pasta al sugo cucinata da mammà e c’erano tutti sti ragazzi di 17, 18 anni che vivevano in 6 in un sottotetto pur di andarsene da casa”.
Mi racconta della Milano da bere degli anni ’80, di un frego di soldi persi al gioco, di vacanze sulla barca del suo amico figlio di cotanto padre, di cene in ristoranti di lusso che oggi nemmeno esistono più. Non mi parla quanto vorrei dei due anni vissuti da single con due hostess per vicine di casa.
Mi parla di una donna con cui è stato fidanzato 10 anni, di quando l’ha lasciata, e di come, dopo solo pochi mesi, si è messo con quella che, oggi, è sua moglie e la madre di sua figlia.

Mi parla di suo padre.
Mi dice che non si rivolgevano la parola da un sacco di tempo. Da anni, addirittura.
Finché al suo vecchio non hanno diagnosticato un male di quelli brutti e ad un certo punto i dottori gli hanno detto “Forse è il caso che vi salutiate come si deve”.
E allora padre e figlio hanno ricominciato a parlare.
E a camminare insieme.

Perché il padre di Antonio aveva una specie di infezione alla gamba e l’unico modo per avere un po’ di sollievo era camminare.
E visto che le forze poco alla volta lo stavano abbandonando, Antonio se lo prendeva sottobraccio e lo accompagnava in giro per i corridoi dell’ospedale.
Di notte, soprattutto.
Che tanto di dormire, la notte, in ospedale, proprio non se ne parla.

Finché, un giorno, Antonio non ce l’ha fatta più.
Perché di notti, in ospedale, non ne puoi mica fare tante, a rischio di crollare e di lasciare indietro la tua, di vita.

E allora Antonio mi racconta di Italo, un ragazzo sui vent’anni, studente di chissà quale facoltà, che per pagarsi i libri assisteva gli anziani di notte.
E io Italo me lo immagino come uno sfigatone pazzesco, di quelli che non parlano mai, con la faccia da babbazzo e i baffetti puberali pure a vent’anni. Ma buono.
E mi immagino che, col tempo, abbia preso la laurea e sia diventato un professionista affermato e apprezzato, magari ricco e magari con la moglie figa. Ma comunque buono.

Antonio mi dice che una volta, sarà stata l’alba o giù di lì, se ne stava a casa, nel suo letto, ma proprio non ce la faceva a dormire. Manco fosse in ospedale.
E allora s’è vestito ed è andato a vedere come stava suo padre.
Entrando nella stanza, lo ha trovato piegato in due dal dolore, con le mani strette intorno alla gamba malata. E, in un angolo, seduto tutto storto su una poltrona, il buon Italo che se la dormiva della grossa.

E Antonio s’è subito incazzato, è partito come un missile pronto ad indorare il culo del povero Italo con un rosone di calcinculo eccheccazzotipaghiamoafare.

Ma subito suo padre lo ha fermato.
“Lascialo stare, Antò… Hai visto come dorme bene? Se lo guardo non mi sembra nemmeno di stare in ospedale…”



Immagine: "Uncomfortable sleeping position" di Julia Boersma;

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editoriale di luludia

Beh, quando ho visto questo fotomontaggio, ho sorriso.

Patti Smith, che questa è la copertina di "Horses", il suo capolavoro.

E Frida Khalo che presta il suo bel faccino alla poetessa rock, alla fanciulla maschiaccio, a colei che in gioventù ci insegnò tante cose.

Un'assurdità? Oh, no...

Che, in fondo, questo freak un pochetto inquietante saltato fuori mischiando le carte la sua ragion d'essere ce l'ha,

Ce l'ha eccome...

Che anche Frida era una fanciulla maschiaccio,...

E entrambe hanno imparato la poesia (o lo specifico artistico) da malattie infantili che ne avevano modificato lo stato percettivo....

Per non parlare della abilità nel creare da sole la propria leggenda...

Però ora Patti lasciamola da parte...

Qui si parla di Frida...

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Io sono nata due volte...

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La storia di Frida Khalo la conoscete tutti, vero?

La poliomelite a sei anni, il terribile incidente che da ragazza la costrinse per molto tempo a letto e la rese poi invalida per sempre...

L'impegno politico, l'amicizia con Tina Modotti, l'amour fou con Diego Rivera, la storia con Trotsky, la bisessualità....

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Ma quando penso a Frida, la prima cosa che mi viene in mente è “Alice nel paese delle meraviglie”.

Con Alice/Frida che alita sul vetro della finestra del salotto e che sul vapore disegna una piccola porta.

E che da quella porta si ritrova sottoterra dove incontra una bambina che sorride e fluttua leggera nell'aria...

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Ecco, a una storia di questo genere potremmo anche non credere, oppure non prenderla troppo sul serio..

Ma come si fa, è quel tipo di storia che è il mio pane!!!

E poi qui siamo di fronte all'origine della immaginazione figlia di mancanza.

A quel luogo dove questa immensa artista incontrava se stessa e dove noi oggi incontriamo lei...

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"Per quanto tempo restavo con quella bambina? Non so. Forse un secondo, forse mille anni. Quel che so è che al ritorno ero sempre felice. Cancellavo la “porta” con la mano e, col mio segreto, correvo sotto un albero di cedro. E, sorpresa di essere sola con la mia gran felicità, gridavo...gridavo e ridevo...

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Poi un giorno il nostro maestro ci diede quel tema. "Raccontate la vita della famosa pittrice messicana Frida Khalo"

Giannino scrisse:

"Aveva gli occhi neri,...

Di quegli occhi che se li guardi nelle foto ti sembra che la foto stia parlando con te...,

Ciao io mi chiamo Frida e tu...tu come ti chiami?"

Bortolo scrisse:

"Il maestro ci ha detto che Frida non era una sola tante...Io non lo so mica bene cosa vuol dire...però se davvero le Fride erano tante a me quella che mi piace è la “Frida bambina”...

Quella che il suo babbo diceva alla mamma “tu vuoi che le tue figlie sian dei soldatini, ma Frida è diversa”

Merdina scrisse:

"Frida era sfortunata, da bambina camminava male...poi da ragazza si fece ancora più male...

Era in autobus col suo fidanzato...e quell'autobus andò a sbattere...

Allora Frida fece un urlo, un urlo che una volta l'ho fatto anch'io...che quando mi son svegliato c'era la mamma...

Accanto a Frida invece c'era la morte...

Ma la morte fece esattamente quel che fece la mia mamma...

Accarezzò la sua bimba...poi...poi se andò via scodinzolando."

Non era ancora il momento...

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E quindi Frida si ritrovò col corpo spezzato, ricucita e ricomposta come un puzzle i cui pezzi non coincidono mai...

Conobbe l'immobilità e le notti insonni, il tormento di un anima quando il tempo scorre a vuoto...

Quando ogni cosa appare uguale e diversa, più grande più piccola più questo più quello più tutto più niente...

Quando non puoi far altro che venire a patti col cane scodinzolante che in ogni momento ti abbaia in faccia la tua inadeguatezza...

E il patto di Frida fu guardarsi allo specchio e raccontare il dolore facendolo diventare qualcosa di grandioso...

Qualcosa di potente...

Così dipinse gabbie, corone di spine e piccoli chiodi su ogni parte del corpo...

La terra riarsa e secca con le radici che chissà come uscivano dal suo stesso corpo. (Il corpo di Frida)

E un cerbiatto ferito, una bimba sperduta allattata da una balia col volto lontano di maschera...

E l'amore...il suo piccolo uomo rospo...il suo piccolo uomo bambino...

Poi, in un certo senso, diventò quasi una principessa. Una bambolina dai mille colori e dagli occhi di fuoco...

Diventò Frida Khalo...

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Frida Khalo, la madonna messicana con le scimmiette al posto degli angeli...

O forse (chissà?), forse semplicemente prese in prestito gli occhi di una delle sue dee messicane, una di quelle che con un battito di ciglia spostano le montagne...

Un trucchetto niente male se ci pensate, una piccola ragazza messicana con gli occhi di una dea...

Ma quelle scimmiette, oh quelle scimmiette ci ricordano che, appunto, era solo una ragazza...e son tristi come lei..o forse no...forse non son tristi per niente e son solo come devono essere...

Perché c'è una Frida che soffre e una Frida che ti guarda...

E quella che ti guarda ha gli occhi di una dea ed è esattamente come deve essere, persa com'è in un abbraccio che la notte concede sempre a chi, nel chiuso di una stanza, è sola con se stessa...

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Frida è famosissima, essere una bambolina paga sempre...

Frida è un gadget, un pupazzetto e il mio lato snob un po' se ne dispiace...

E però...però...

La sua è un'arte popolare e raffinatissima a un tempo...e non è strano che piaccia un po' a tutti

Un'arte intima e raccolta, ma esplosiva.

Istintiva, ma anche capace di cogliere quanto di meglio offrivano le avanguardie europee.

Imbevuta di mitologia centroamericana, di filosofia orientale, di pittura religiosa (Ex voto).

Il tutto piegato però a un linguaggio che risulta essere sempre personalissimo oltre che immediatamente riconoscibile...

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Frida in fondo é come Emily Dcikinson, il lupetto impazzito che canta con voce di vetro nel chiuso di una stanza...

Tra Frida e il muralista Diego Rivera, passa la stessa differenza che c'è tra la Dickinson e Walt Whitman....ovvero l'arte della notte e l'arte del giorno...

Ma finito il chiasso, finito lo strepito (in questo caso il novecento e le sue rivoluzioni) l'arte della notte ridicolizza quella del giorno...

E quel che è intimo e raccolto (anche se comunque pieno di colore) continua a spaccare l'anima...

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Alla rivoluzione però Frida aveva creduto...

Al punto che diceva di essere nata nel 1910 e non nel 1907...e mica per calarsi gli anni...

Ma perché nel 1910 scoppiò la rivoluzione messicana

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Io sono nata due volte: la prima volta con la rivoluzione, la seconda con un grido...

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Sarebbe finito, ma aggiungo ancora qualcosa...

Frida era affmata di vita, Frida mordeva la vita...e, forse, da quanto scritto finora questa cosa non si capisce abbastanza...

Nonostante le sofferenze indicibili Frida era allegra...

Si, era allegra e chiamava se stessa la grande ocultadora...

Nascondeva il dolore e la morte col suo essere una intensa fanciulla messicana...

Con una energia che era una specie di miracolo....

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Ecco, adesso, ho davvero finito...

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editoriale di zaireeka

"Esistono due momenti fondamentali nella vita.

Uno in cui l'Universo viene a noi, ed uno in cui noi andiamo all'Universo.

In mezzo c'è solo la Poesia del Tutto" .

Stasera, guardando il cielo al tramonto sopra i palazzi, ripensavo al fatto che in tutto l'Universo non esiste un punto che possa essere definito il suo centro.

Lo dice la scienza, da un po' di tenpo a questa parte.

L'unico punto che può essere definito tale alla fine, almeno per me, è quel punto speciale da cui lo osservo io, l'Universo.

Anni fa, quando mia figlia era molto piccola le chiesi (è una storia vera):

"Tesoro, la vedi la luna? Di chi è la luna?"

"Mia" mi rispose veloce.

Qualche mese dopo le feci la stessa domanda.

"Del cielo" mi rispose.

Un anno dopo le feci di nuovo la stessa domanda.

"Di tutti" mi rispose.

"Benvenuta su questa terra, tesoro mio" le dissi, senza farmi sentire.

Non so a quanti di voi è capitato uno di quegli episodi in cui vi siete trovati ad essere sovrappensiero ed avete effettuato azioni di cui un attimo dopo non ricordate nulla.

Un caso tipico è quando non ricordate se avete chiuso la macchina, o la porta di casa, tornate indietro e scoprite inesorabilmente che la macchina, o la porta di casa, è perfettamente chiusa.

Non potreste mai immaginare che in quei pochi attimi siete stati, una delle poche volte nella vita da svegli, davvero parte dell'Universo.

Di solito siamo chiusi in una gabbia illusoria, chiamata coscienza, a guardarci allo specchio.

Secondo certe correnti di pensiero la coscienza umana è solo un incidente nel percorso evolutivo della razza umana.

La nostra vera natura finale, quando l'Universo avrà finalmente imparato davvero a badare a se stesso, è essere dei robot senza coscienza al Suo servizio, al servizio della Natura, del Tutto.

Cosa possiamo fare nel frattempo?

Trovare un’alternativa.

Aiutare l’universo che si riflette in noi, senza mai poter essere afferrato, a ricostruire la sua perduta unità senza necessariamente, un giorno, farci chiudere gli occhi per sempre.

Riappropriarci della luna.

Tutto e' metafora.

Se non ci fosse metafora non ci sarebbe significato, come dice Hofstadter.

Se non ci fosse la metafora non ci sarebbe la poesia.

La Poesia del Tutto un giorno ci aiuterà a capire l’Universo, a capirne il significato, a ritrovarne l’Unita’.

"Il rombo di un’orchestra è il pieno orchestrale di un aereo che decolla"

"Le battute dalla duecentoventicinque alla duecentotrentanove (*) del primo movimento del secondo concerto per pianoforte e orchestra di Sergei Rachmaninoff contiene il battito di ali di un uccello che cerca di spiccare il volo contro un vento in tempesta".

"C'è un elefante che volteggia nel cielo".

Ma, se è così, la mia vita, tutte le mie parole, tutte le nostre parole, di cosa sono allora la metafora, di cosa il verso, se non dell’Uni-verso?

(*) Minuto 5:20 https://www.youtube.com/watch?v=x8l37utZxMQ

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editoriale di MauroCincotta66

Rischiarati da una luce azzurrognola tre piccole creature dalla testa enorme stanno appollaiate ai tre lati di un enorme tavolo triangolare, le scosse elettriche degli abitanti degli abissi marini che si vedono oltre le belle vetrate con motivi goticheggianti, lanciano flash che proiettano lunghe ombre nell’enorme stanza disadorna e luccicante di metalli pesanti rendendo l’atmosfera ancora più sinistra.

Il confronto è alquanto acceso, lo si capisce dalla frequenza del ronzio che caratterizza il modo di comunicare di questi assurdi alieni, ogni livello di incazzatura in più corrisponde ad una tacca dell’interruttore del frullatore. Adesso Alcor è arrivato alla tacca III (penultima dei comuni frullatori) e sta inveendo contro Callipo: “… ma no ma no ma NOOOOO! Callipo non si può attaccare adesso! Sono ottomila anni che aspettiamo pazientemente, vabbè che per noi sono solo dodici ma, anche per noi, non è poco e non è il caso di rischiare di mandare tutto a gambe all’aria!”

Callipo è il generale a capo delle forze armate presenti sulla Terra e, chiaramente ed ovviamente, ascrivibile a quella fronda che, noi terrestri, abbiamo convenzionalmente definito “falchi”. Le sue considerazioni non muovono, peraltro, dalla voglia di metter mano alle armi, anche se sono ottomila (o dodici) anni che continua a lucidare la ferraglia di distruzione: vuole attaccare perché è convinto che i terrestri a breve distruggeranno il loro bel pianeta con tutte le risorse preziose che hanno portato gli alieni a risiedere in pianta stabile in questa periferia dell’universo, così lontana dalla loro galassia che si può tornare in famiglia solo per le feste comandate (Mattanza spaziale e Commemorazione del Rais galattico) un anno si e uno no.

Ritrovando la calma necessaria che un dignitario del rango di Alcor deve avere (è discendente diretto dell’Entità Generante Bigtunafish e cugino di primo grado dell’attuale signore assoluto del loro pianeta, il divino Tsukiji), abbassando il ronzio alla tacca II del frullatore continua: “Che poi, cosa vuoi che succeda? Sono così stupidi che non si sono accorti della nostra presenza. È stato sufficiente costruire il nostro rifugio a soli 11 km dalla superfice e loro che fanno? Continuano a sondare l’universo profondo con i loro ridicoli trabiccoli e noi siamo sotto il tappeto che gli succhiamo idrogeno abbestia ahrgh ahrgh ahrgh! Sarà sufficiente, come fatto finora, monitorare le radiazioni nucleari e, in caso, intervenire immediatamente. Al limite ci giochiamo la Russia e/o gli USA, poco male”.

Compostamente accucciato sul suo lato di tavolo e per nulla turbato dal ronzio scatenato dai due convitati, la “colomba” Riomare è persa nei propri pensieri. Sono ottomila (o dodici) anni che ciclicamente assiste a questi duri confronti che si risolvono in nulla, ovvero rinviando la decisione a momenti migliori (o peggiori). Pensa, quindi, che la cosa migliore sia stare zitto certo che nessuno chiederà la sua opinione. Dopo i primi quattromila (o sei) anni di presenza sulla Terra, il suo ruolo di eminenza grigia della spedizione ha perso gradualmente d’importanza. Ma questa volta non va così. Alcor si ricorda dell’ultima trovata di Riomare e pensa sia giunto il momento di rinfacciargli il totale fallimento della sua genialata di un annetto fa.

Quindi, moderando ulteriormente il ronzio fino all'ideale prima tacca di frullatore, rivolgendosi con tono mellifluo alla “colomba” attacca: “Ma cosa ne è stato dei due emissari che abbiamo inviato per sondare le emozioni degli umani? Da quanto mi si riferisce, più che ubriacarsi e fare comunella con un demente amante della musica Blues, non sono giunti ad una chiara conclusione. Anzi, La bellezza salverà il mondo sembra sia un concetto sempre più confinato a pochi poveri illusi. Lo stesso V.d.M. fan del Blues è convinto che l’umano abbia preso una china così pericolosa che lo sta pericolosamente e irreversibilmente impoverendo nell’animo. Basta vedere come si odiano l’un l’altro e di certo non si salvano coloro che leggono libri, vanno alle mostre, ascoltano musica, vanno a cinema e a teatro. In buona sostanza, se non si autodistruggono, sarà un piacere eliminarli dalla faccia dell’universo”.

Riomare non si scompone, dall’alto della sua immensa scienza universale affinata dall’arte umana di cui, segretamente, è diventato cultore e studioso da quattromila (o sei) anni, ha capito che anche se i due balordi inviati non hanno concluso nulla (se non portargli delle meravigliose casse di Sassicaia del 1998), che anche se il patetico amante del Blues ha perso la speranza nell’umano, basterà che solo uno (1!) continui a credere fermamente nel concetto di Fedor, per far sì che l’umanità tutta continui ad ergersi al di sopra degli altri esseri viventi, spaziali compresi. Anzi, soprattutto spaziali se senz’anima quali sono loro. Sa che, se ci sarà un futuro, dovrà essere un futuro di convivenza che potrà scaturire solo da una vera profondità etica in cui grazia e moralità si possano, finalmente, congiungere, dove l‘unione virtuosa della conoscenza con l’amore generi i frutti pensati da Bigtunafish (o da Dio, o da Atahualpa).

Fine (?)

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editoriale di Confaloni

La recente morte del bracciante agricolo Satnam Singh, avvenuta in circostanze orrende il mese scorso nelle campagne in provincia di Latina, ha fatto molta sensazione e suscitato molta indignazione. Ora, a distanza di alcuni giorni e mentre l'attenzione generale si riversa su altre notizie, mi accingo a fare qualche riflessione su quanto successo.

Intanto, ho constatato molta solita ipocrisia e non solo per l'ennesimo infortunio sul lavoro (purtroppo ogni anno l'elenco di eventi tragici in tale ambito è sempre fitto), ma anche per il tema del caporalato in agricoltura. Qui la novità è veramente relativa, dal momento che subito dopo l' unità di Italia (1861) fu condotta un'inchiesta parlamentare sul problema già evidente a quei tempi. Sarebbe da dire che qualcosa si sarebbe potuto fare nel frattempo e quindi come mai il caporalato è tuttora presente?

Altra ipocrisia rivoltante è definire i lavoratori agricoli ,sfruttati dal caporalato ,"invisibili". Davvero nei campi coltivati non si vede anima viva al lavoro? Chi dovrebbe controllare e verificare che non ci siano situazioni anomale tipo "lavoro nero" è per caso affetto da cecità? Fra l'altro, nella rete distributiva commerciale italiana non mancano fortunatamente frutta e verdura e quello che giunge sulle nostre tavole, previamente acquistato, è stato raccolto da alcune persone in carne e ossa, certamente non da fantasmi che si spezzano la schiena sotto il sole. Così almeno dovrebbe essere...

Un'altra mia personale considerazione verte sul fatto che la categoria del lavoro è così considerata in Italia da aver indotto i nostri Padri costituenti a specificare, nell'articolo 1 della Costituzione, che " l'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro". Alcuni sostengono che la nostra Costituzione sia la più bella in vigore su scala mondiale. Io non so ma che il principio citato, ispirato ad un certo orientamento ideologico di alcune forze politiche presenti nell'allora Assemblea costituente, si esplichi secondo le dinamiche dell' economia di mercato non mi pare così rassicurante. Quante volte, in tutti questi decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale, aziende in crisi hanno dovuto chiudere i battenti, lasciando i lavoratori a casa con tanto di sussidio di disoccupazione (e io stesso mi sono trovato in simile situazione)?

Per non parlare poi dei tanti, troppi infortuni sul lavoro che non fanno onore alla Repubblica italiana. Il lavoro non dovrebbe essere maggiormente considerato, dato l'articolo della Costituzione sopra citato?

Insomma, come cittadino italiano nutro dubbi gravi ogni qualvolta leggo dell'ennesimo incidente sul lavoro, con grandi dibattiti da cui nulla di concreto scaturisce. Forse sarebbe il caso, dal momento che c'è sempre qualche idea di riforma costituzionale, rivedere quel criterio fondante in apertura di testo costituzionale. Perché non richiamarsi, semmai, all'irrinunciabile esigenza di garantire giustizia e libertà (dal nome di una famosa brigata partigiana che si batté contro la dittatura nazifascista) per tutti i cittadini italiani?

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editoriale di Stanlio

[...] Però poi si annoiavano moltissimo, soprattutto in metropolitana a osservare la gente che non sa mai dove mettersi perché ha sempre paura che gli altri la guardino, o quelli che vogliono far capire agli altri che loro se ne infischiano di tutto, o quelli che vogliono far capire agli altri che loro sono stanchissimi di tutto.

Queste cose facevano venir loro la malinconia.

Poi facevano venir loro la malinconia gli automobilisti che suonano il clacson per far vedere che loro hanno fretta; quelli per strada che spingono per far vedere che vanno per i fatti loro; quelli nei bar che discutono di cose che non interessano a nessuno, solo per far vedere come sanno parlare; quelli che ridono quando non c'è niente da ridere, solo per far vedere che hanno capito tutto; quelli nei negozi che guardano da un'altra parte, per far vedere che loro non hanno tempo da perdere; le donne che guardano da un'altra parte per far vedere che si lasciano ammirare, ecc.

cit. dal libro "Narratori delle pianure"

Impiegò piu di sette anni a tradurre l'Ulisse di James Joyce in una nuova versione che Einaudi pubblicò nel 2013.

Non era nuovo a tradurre, tempo prima, nel '99 lo fece con uno degli ultimi romanzi di Joseph Conrad, ovvero il bellissimo "La linea d'ombra" da cui Andrzej Wajda trasse il film omonimo del '76.

Tra gli altri più conosciuti (almeno da parte mia), di cui fece la traduzione, ricordo: "Le avventure di Tom Sawyer" di Mark Twain, "Il richiamo della foresta" di Jack London, "Bartleby lo scrivano" di Herman Melville e "I viaggi di Gulliver" di Jonathan Swift.

Oltre che scrittore e poeta, fu anche documentarista e docente in varie Università internazionali, in quella di Bologna (al DAMS) tra gli altri ebbe come allievi Pier Vittorio Tondelli,, Andrea Pazienza, Freak Antoni ecc.

Di lui lessi il suo primo libro pubblicato molti anni fa da Einaudi solo perchè c'era una prefazione di Italo Calvino e s'intitolava "Comiche", ma dovrei rileggerlo poichè è scivolato nel dimenticatoio, poi m'ero ripromesso di leggere altri suoi scritti, senza però mantenere la promessa se non per degli articoli che pubblicava sul "Manifesto".

Han dato oggi notizia della sua scomparsa a Brighton, viveva ormai da parecchi anni in Inghilterra e avrebbe compiuto 85 anni lunedì prossimo, si chiamava Gianni Celati... e niente, ma mi andava di ricordalo anche qui.

p.s. Va da sè che mi cercherò i suoi libri per arricchire la mia ebookeria e se riesco anche i suoi film/documentari per arricchire i miei viaggi da fermo (o da infermo).

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editoriale di CosmicJocker

Camminando e rimuginando, progettando e camminando;

Passo dopo passo... Capita a tutti.

Ci trattengono i fili del passato (che sia prossimo o remoto cosa importa?).

Ci tormenta il viso del futuro.

Passo dopo passo... Fino a che..

SBRUASHH!

Eccoci lì: intrisi del suo tanfo, inzaccherati dai suoi sbafi sotto la suola.

Però siamo lì: i fili sono spezzati, il viso è dimenticato.. Siamo lì, presenti nel presente!

Epifania joyciana, paradigma del Momento, sguardo di Medusa del verbo essere.

Siamo semplicemente lì.

Ascoltiamo il nostro respiro, nutriamoci (senza soffermarci) delle immagini e delle energie, calpestiamo cacche.

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editoriale di CosmicJocker

Persino io, che sono avvinghiato alla mia epoca un po' di sghimbescio, sono (relativamente) a conoscenza del marasma prodotto da questo CoronaVirus.

Mentre sto scrivendo si stanno verificando i primi casi in Italia, vicino alle mie parti (ok ok, più vicino alle parti del Comandante Carlos). Già vedo che si sta autoalimentando un focolaio non meno pericoloso (a quanto pare) del virus stesso: la psicosi.

Starnutisci in pubblico? Untore omicidia! Vai a bere un bianco al bar cinese? Pazzo suicida!

È tutto molto semplice, può succedere che: A) l'etere in cui gironzoliamo è scevro da qualsivoglia infezione; B) eh no! L'infezione ci raggiunge. E, nel caso si verifichi il caso B), la relativa biforcazione sarebbe: B1) abbiamo un Norton Anti-virus a prova di bomba; B2) verremo formattati.

Però, ora come ora, la considerazione che mi viene da formulare è la seguente: è tutto molto normale.

Nella pre-adolescenza ero dotato di un fisico portentoso che mi permetteva di sgranocchiare sassi di fiume come fossero mandorle tostate e di saltare i fossi per il lungo per raggiungere la pulzella di turno che, immancabilmente, cadeva ai miei piedi (forse, invero, a causa dello spostamento d'aria prodotto dal mio balzo felino).

Orbene, in quel tempo i miei mi portarono in gita ai piedi delle Alpi (o erano le Dolomiti? Bah, tutto ciò è irrilevante ai fini di questa scemenza filosofica degna del peggior Epicuro). Come molti pischelli dell'epoca subivo il fascino avventuroso (financo beduino oserei dire) del buon Indiana Jones e, in un momento in cui ero in avanscoperta solitaria in un sentiero poco battuto, non stupisce il fatto che mi sopraggiunse l'uzzolo di saltare attraverso un conglomerato di fresche frasche fruscianti che ostruivano la via.

Mi sono concentrato come Indy impegnato nella scelta del vero Santo Graal e ho pompato nelle vene quel mio sangue limpido di allora non ancora intorbidato dal MacBarren Nero, dal rosso Bonarda e dall'hashish color del caramello.

Ho preso la ricorsa e... STOP! Fermo di colpo come se ora scovassi su Discogs un EP di Alva Noto a poco prezzo.

L'attenzione completamente rapita da uno scoiattolo che stava ridendo di me dalla sua lignea dépendance. E io gli devo la vita a quel pacioccoso nume tutelare dei boschi.

Quella barriera vegetale infatti dava su un terrificante strapiombo che mi avrebbe, se non ucciso (ricordate il fisico portentoso?), cambiato notevolmente i connotati: BrokenJocker avrei dovuto farmi chiamare.

Insomma, chissà quante altre volte siamo stati prossimi alla morte (molto più di quanto ci possa avvicinare questo virus da cui sembra sia più probabile guarire) e l'abbiamo scampata per puro miracolo, perché il nostro spirito guida ci ha protetto, perché l'ultima delle Parche si era scordata le forbici a casa.

Ed io ho parlato di un caso in cui mi ero accorto del pericolo scampato, ma può benissimo darsi che molte altre volte la falce della Nera Signora mi abbia solleticato le nari ed ho scambiato il tutto per un moscerino impertinente.

Calma e gesso avrebbe detto quel pazzo di mio nonno che fumava come un turco e beveva come un irlandese (e che è vissuto, guarda caso, fino a 90 anni).

Siamo vivi, dunque viviamo.

P.S.
Non mi sto informando molto su questo virus, non ho voglia e ho troppo di meglio da fare.
E poi sono restìo a documentarmi attraverso i canali ufficiali d'informazione verso i quali nutro la stessa fiducia che avrebbe Indy sapendo l'Arca dell'Alleanza finita in mani naziste.

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editoriale di enbar77

La confraternita dell’olio, ovvero un campionario semi-rurale di allegrie e tristezze. Fine ottobre, inizio novembre. Terminata la raccolta dell’uva, si passa a quella delle olive che, forse ha un valore ancora maggiore rispetto alla prima. Il famigerato “oro verde”. Per i lettori, dal momento che si tratta di un contesto estremamente volgo-familiare, mi vedo costretto a riportare dialoghi in dialetto locale. Seguirà traduzione per i non campani assicurando che leggere le frasi in dialetto, è molto divertente, efficace sia per i termini bizzarri che per le assonanze. Ho amici friulani che si sganasciano dalle risate quando mi fanno leggere ad ogni buona occasione il monito goliardico stampato sulle etichette in tiratura numerata della “Sgnape dal Checo”, quindi…

Stessa famiglia di persone antiche, madre sarta che a causa della crisi non ha dovuto richiedere giorni di ferie approfittandone quindi di uno di magra, padre sempre alle prese con il pulmino della scuola con qualche milione di chilometri in più sulla testata, figlio ribelle e scapocchione 2.0, il nonno partigiano, un invidiabile, energico fascio di nervi novantenne ed io, non più novizio ma neanche navigato, raccoglitore manuale.

La terra è diversa. L’estensione è più o meno la stessa, quasi un moggio, ossia circa 33 are, meno di 4.000 metri quadrati per più di un centinaio di piante. Né poco né molto, considerando che un ettaro è pari a circa 100 are.
Protagoniste della raccolta, tre qualità di olive. Le "ortici", conosciute anche come “coglioni di gallo”, per via della forma quasi sferica, la superficie raggrinzita e di piccole dimensioni, presumendo quindi che siano simili ai gioielli familiari del pennuto crestato. Poi le "racioppelle", dalla superficie liscia, pregiate pur non essendo molto redditizie nella spremitura. In compenso, crescendo a grappoli, sono numerosissime e la resa può considerarsi comunque interessante. Infine le "melelle", molto simili alle olive presenti nelle gastronomie. Polpose, croccanti, con una resa discreta se consideriamo che 90 su 100 finiscono per abbellire il desco negli antipasti.

Armamento individuale: setaccio, bacinella e pinze per la madre, abbacchiatore a benzina ed aria compressa per padre e figlio, io e il nonno partigiano a mani nude. Al massimo il rastrello di plastica, simile a quelli che fanno parte del kit da spiaggia per i bambini. Quelli che, l’uomo non verrà mai superato dalla macchina! I teli, le casse da 60 litri per la raccolta preliminare, i cassoni da 500 per quella definitiva e il cesto per il pranzo, gelosamente custoditi sul carrello del vecchio trattore Carraro che ruggisce ancora nonostante il decorso temporale di almeno tre generazioni.
La mattina è fresca, il cielo ancora terso ed in lontananza si ode qualche colpo di fucile dei cacciatori in ritirata. Dopo aver steso tutti i teli si potrebbe procedere alla raccolta ma l’abbacchiatore non parte. Manca la benzina ed il padre si rivolge con delicatezza al figlio, testa di bossolo 2.0: ”Guagliò chi era purtà ‘a benzina? T’ann appenn’ a te e stu cos’ che tien’ semp mman! Ma addò a tien’ sta capa? Torna ‘a casa e và a piglià ‘a tanica! Nu juorno e chist’ te faccio nà rotta d’osse a te e stu fesebbumm!” (1) E sulle note di questo teatro inizia la raccolta delle olive, Anno Domini 2015.

Il nonno sghignazza, attorciglia le maniche della camicia a righe fino ai gomiti, scoprendo due braccia nodose come i tronchi degli ulivi da spogliare. “Facite cu ‘e mman! Stu cos’ fa cchiù dann che at’! A ffuria è sbatt’, i ram cchiù fin’ se spezzano e nu creschene cchiù!” (2). Parole sagge.
Il nonno avvolge i tronchi con i teli, li chiude con le pinze per evitare che le olive cadano sul terreno e comincia a sgranare i rami più bassi. Poi si rivolge a me ricordandomi che le estremità dei teli devono essere necessariamente sovrapposte al fine di concentrare tutte le olive sull’ultimo telo steso, prima di gettarle nel setaccio. Quest’ultimo, artigianalmente costruito, consiste in una rete rettangolare in metallo, capace a far filtrare le olive, delle dimensioni di un metro per cinquanta ad occhio e croce.  A farle da cornice, quattro assi lignee rafforzate da un fermo inchiodato su uno dei lati lunghi. Il setaccio verrà poi appoggiato su tre casse unite che una volta riempite confluiranno nel cassone.  

La benzina arriva, il compressore parte e gli abbacchiatori cominciano a flagellare le piante fortunatamente floride. Come operaio manovale, mi aggrappo alla corteccia del nonno che sgretola con cura i grappoli di racioppe. E gli aneddoti sulle azioni antifasciste non tardano ad arrivare. Mi fa sempre un certo effetto immaginare che questa terra che sto calpestando per una “banale” raccolta di olive, in quegli anni terribili nascondeva sotto una epidermide farinosa qualche pistola rubata ai crucchi o qualche doppietta presa in prestito da qualche cacciatore. E all’epoca non esistevano altisonanti nomi di battaglia come gli eroici guerriglieri dell’appennino centro-settentrionale. In una piccola realtà, ad indossare l’uniforme da partigiano era il barbiere della piazza principale, il contadino della terra accanto, il medico di famiglia o l’unico bottegaio. I più abbienti, ma anche abbietti, ricoprivano naturalmente le cariche della gerarchia fascista locale e tutti, in entrambi i lati della trincea, avevano un “contronome” affibbiatogli dai compaesani più fantasiosi.
Il nonno, d’orgoglio fervente, racconta: “…au ’43, int’a stà terra venevamo a nasconne e ppistole pè fa fore i tedeschi… ‘cca ‘u podestà era l’avvocato, Vicienz Sittantun’ (non è il cognome ma appunto il contronome. Il numero 71 nella smorfia napoletana è “L’uomo di merda”, valutate voi la considerazione che aveva questa persona in paese, nda) che comm’ verette a mala apparata, che vuttava malacqua, aizatt’ ncuoll’ e se ne fujette! Buono pè isso sinò feneva a carte ‘e quarantotto! (3) Nuje venevamo cca ‘e notte, io, Ettoruccio Sausicchiello, Giuvann’ Uocchie ‘e Brigant’ e Pascalotto ‘u Chianchiere. Pigliavamo da sott ‘a terra chelle quatt’ scassunette che manc’ sparavano e ce ne fujavamo pe coppa ‘e muntagne! (3bis) Il racconto venne interrotto da una lunga, singhiozzante e contagiosa risata: “Io tenevo nù fierro viecchio che s’encagliava una continuazione e ogni vota, pè sparà aera caricà. Quanno caricavo ‘u carrello fischiava e po’ sparava…pareva ‘a notte e Capudann’, nù fischio e nà botta, nù fischio e nà botta!” (4)

Geniale.

E’ ora di pranzo e tutti abbandonano ogni mansione per collegarsi a reti unificate alla tovaglietta da osteria a quadri rossi e bianchi, adagiata su un gruppo di cassette necessariamente capovolte. Altre cassette possono fungere da sedie, purché ci si segga solo sulle giunture, al fine di evitare rovinosi sfondamenti dai risvolti comici.
La pausa non può protrarsi molto, fa notte presto e prima che il sole passi le consegne alla luna bisogna riempire almeno due cassoni per evitare magri risultati al frantoio. Quest’anno ha piovuto abbastanza, c’è stata anche l’alluvione e molte olive sono cariche d’acqua. Si spera di poterne vendere qualche quintale che a 8/10 euro al litro non è mai da buttare.

E quanto prima sentire quel piacevole raschio, tra l’acidulo e il piccante, solleticarti la gola. 

 

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(1) Ragazzo, chi doveva portare la benzina? Ti devono appendere a te e questo coso (uno smartphone) che tieni sempre in mano! Ma dove hai la testa? Torna a casa e vai a prendere la tanica! Un giorno di questi ti devo frantumare le ossa a te e questo Facebook!
(2) Fate con le mani! Questo coso fa più danni che altro! A furia di sbattere, i rami più sottili si spezzano e non crescono più!
(3) “…nel ’43 in questa terra venivamo a nascondere le pistole per fare fuori i tedeschi…qui il podestà era l’avvocato, Vincenzo Settantuno, che come capì che le cose si mettevano male (“mala apparata” e “vuttava malacqua”, letteralmente “brutta parata” e “buttava cattiva acqua”, due modi per dire che la situazione sta prendendo una brutta piega. Mentre “aizatt’ ncuoll’”, letteralmente “alzò addosso-tirò sulle spalle”, è un modo per dire che caricò i bagagli. Nda) se ne scappò! Buon per lui altrimenti finiva molto male (“a carte ‘e quarantotto” per l’appunto. Nda).
(3bis) Noi venivamo qui di notte, io, Ettoruccio il salsicciotto, (evidentemente trattasi di persona corpulenta, nda) Giovanni occhi di brigante (non oso immaginare perché chiamato così, nda) e Pasqualotto il macellaio (il bottegaio del paese, probabilmente di costituzione tarchiata vista l’etimologia del nome, nda). Prendavamo da sotto la terra quelle quattro cose scassate che neanche sparavano e ce ne scappavamo su per le montagne!
(4) Io avevo un ferro vecchio che si inceppava continuamente e ogni volta per sparare dovevo caricare. Quando caricavo il carrello fischiava e poi sparava…sembrava la notte di Capodanno, un fischio e un colpo, un fischio e un colpo! 

Immagine: Vincent Van Goh - Olive Grove with Picking Figures (1889)

 

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editoriale di CosmicJocker

Età di scoperte '80 - '93

Età di sensibilità '94 - '99

Età di chiusura e amarezze '00 - '04

Età di volontà e di sperimentazione '05 - '10

Età di ricerche, di trascendenze e segreti '11 - ?

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editoriale di Pinhead

È il titolo di una canzone.

"Più di mille", intendo.

Dice del morire di lavoro.

Ci penso spesso, dalla prima volta che l'ho ascoltata.

Immancabilmente il primo maggio.

In piazza San Giovanni a Roma ci sona artisti impegnati a suonare; nel primo pomeriggio, le nuove leve; quelli affermati, da quando calano le prime ombre; gli uni e gli altri mi appaiono superficialmente coinvolti nelle "questioni" del lavoro, pur essendo lavoratori anche loro.

Nella "mia" amata Taranto c'è gente che suona; meno visibile, ma temo che la sostanza sia analoga.

Forse perché ci sono lavori e lavori.

Forse perché ci sono modi e modi di dire di chi muore di lavoro.

Forse per questo il primo maggio non suona mai "Più di mille".

Per non rovinare la festa.

A me che, per "lavoro", tocca quotidianamente coinvolgere e sensibilizzare con la dignità e la funzione sociale del lavoro, la legislazione sulla sicurezza, la previdenza e l'assistenza, la festa l'hanno rovinata e non ci credo più.

Non so chi l'abbia rovinata e perché sia andata cosi.

Ma è andata.

Come per la festa delle donne, quella del papà e quella della mamma, il compleanno.

Come per il volontariato e la beneficenza, l'otto e il cinque per mille.

Sia cone sia, il primo maggio non suona mai "Più di mille".

Che dice così.

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"Odio chi non ha più dignità

E si traveste per campare e non si batte e si lascia andare

Odio chi non sa da che parte sta

E dice "Sarà sempre uguale, io sto da parte" e ci lascia andare a fondo

E odio te che alzi il pugno e gridi Pace, Giustizia e Libertà!

Se non sai cos'è lavorare duro con i diritti vicini appena al culo

Chi non c'è non sa una vita in tuta quanto schifo fa

Le ossa rotte e la gola in fiamme e il nostro sogno che non arriva mai

Siamo in tanti tra vernice, calce e fuoco e i veleni della borghesia

Io sputo a terra, sputo sangue, questa vita non è più mia

Perchè anche un sogno ha le sue piaghe che non guariranno più

Perchè anche un sogno ha il suo colore che si spenge sempre più

E tu guardi la tua vita consumarsi sempre più

Ma i compagni dove sono, c'è chi muore di lavoro

Le parole sono vento e non ci bastano più

C'è chi muore tra il silenzio e tu compagno dove sei?

Dove sono i compagni che possono fermare quelle mani assassine?

Il solo rosso è il sangue dei caduti, la sola rabbia è quella delle madri"

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Buon primo maggio, a chi fa "festa".

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editoriale di Taddi

Vorrei farvi una domanda molto semplice:
Che senso ha recensire un disco di 20, 30 o 40 anni fa, anche se ancora attualissimo, un capolavoro, seminale e bla bla bla? Mi permetto di farvi questa domanda perchè ho un dubbio. In quanti leggeranno lo scritto senza conoscere l'opera o senza conoscere minimamente il personaggio? Quindi quale valore si aggiunge?

Sul Deba ad oggi ci sono 26 recensioni di The Dark Side… Chi le ha lette tutte? David Gilmour ne è al corrente?

Certo, la 40ena cambia le percezioni rende più fluide le giornate, probabilmente mi faccio domande assurde, ma recensire Sam Cooke dopo 57 anni che senso ha? Chi legge non conosce già Sam? Cosa apprende di nuovo? Allora perché scrivere di dischi “vecchi”?

Io personalmente una risposta ce l’ho. Non è ego personale (almeno nel mio caso) è che rimpiangiamo tutti il passato, rimpiangiamo i negozi di dischi, rimpiangiamo lo scricchiolio del vinile, le copertine formato leggibile, l’apertura dell’LP sfregandolo rapidamente sui jeans, l’odore di plastica e cartone, la cura nella pulizia, le note con l’elenco dei musicisti…

Hey, hai visto, alle keyboards c’è … che ha suonato anche con …

Ed i testi? Quante volte con le cuffie, biro e foglio a risentire la frase incomprensibile per tradurla? I REM poi erano pazzeschi, Stipe farfuglia(va)… Solitamente finivo per graffiare il solco con la disastrosa caduta della puntina. Tok, tok, tok…Oggi quel mondo, quelle abitudini non esitono più e le rimpiangiamo, non perché eravamo giovani ed arzilli, semplicemente perché c’è stato un cambiamento ed esso è difficile da accettare. Ma il cambiamento maggiore c’è stato nella musica, ogni anno uscivano almeno 8/10 capolavori che rivoluzionavano il rock. Oggi? Qual è l’ultimo cd che avete comprato, ma soprattutto, di che anno è?

In ultimo, ma quanti punti interrogativi ci sono qui? (15)

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editoriale di algol

Spiaggia

Sul lettino alla mia sinistra sculetta giovane madre tanoressica e pheega di legno dall'epitelio color Plasmon, sugli avambracci tatuati i nomi dei figli. Un classico, quante volte ci capita di scordare come si chiama la propria creatura, "And... no, macheccazz…" uno sguardo al braccio "Ah sì… Andrea corri subito qui!".

Pratico, efficace.

Alla mia destra manzo slavo: insulso pene tribale intarsiato sul polpaccio, spalle con fregi che suscitano in me sentimenti a cavallo tra lo sconcerto e l’irrefrenabile ilarità; non si capisce checcazzo raffigurano neanche potessi esaminarli a un centimetro di distanza coadiuvato dal team di CSI Miami.

Poi alzo il coolo e comincio a passeggiare sul bagnasciuga… in ordine sparso:
Cavolfiore (Jesus … non potevano essere rose).
Spongebob, i pinguini di Madagascar e Scooby-Doo sullo stesso braccio di adulto padre di famiglia.
Testa di tigre contornata da foglie di lattuga.
Vagina alata.
Cubitale messaggio su schiena costellata da nefandezze assortite che così recita:
"ONLY GOD CAN JUDGE ME"
...si, certo, e non sarà un responso benevolo ...coglione!!!

Incrocio una signora albina con il naso ustionato, l'ossido di zinco di cui è cosparso lo rende della medesima surreale tonalità rosa Barbapapà del costume... probabilmente camminando sono giunto sino al set del prossimo episodio della serie Star Wars senza rendermene conto, rapito da cotanta estasi estetico / antropologica.

Sparite tutti cazzooooo

Basta, per sublimare tutta la mia indignazione vado immediatamente ad erigere un enorme membro di sabbia!

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editoriale di masturbatio

E’ ricorso un decennale significativo per me. E’ già passato, d’altronde era passato anche quando era passato. Me ne sono accorto all’improvviso, manco ha bussato. Dieci anni, dieci è un numero importante, dieci sono i comandamenti. Dieci è quando inizi a mettere un numero di fronte ad un altro numero. Allora concedetemi un gioco scemo, oggi che sono un uno, mi volto a guardare quando ero uno zero.

Le multe che non prendevo sulla 51. La 51 è la gloriosa linea che percorre un tracciato ideale o un’idea di tracciato dalla bella Trieste all’altrettanto bella e meno spocchiosa Udine. Unisce due terre differenti, e due tracciati mentali fondamentalmente distanti. Gli uni mangiano il prosciutto cotto con il kren, hanno un vocabolario separato dal resto del mondo se ordinano un caffè; gli altri si riscaldano col formaggio fritto e la polenta e il caffè fino a ieri lo allungavano con la grappa.

Conoscevo a memoria gli autisti della 51, c’era un mona che metteva le cassette con Tiziano Ferro, uno cattivo cattivo che ti squadrava e chiedeva sempre il biglietto, poi c’era il grassone coi rayban. C’è sempre almeno un grassone per linea. Mi piaceva prendere la 51, aveva uno scopo preciso. Uno scopo, appunto.

Mettevo su le cuffiette e ne ascoltavo di cacca. Intanto il paesaggio variava tra campi e dormitori. To’, tieni (?) questi 10 minuti di raffreddore, con sotto un disco che poi ti piaceva. Cacca profumata e ricoperta di pajette, che ti piacevano anche quelle. Andavi in brodo di giuggiole quando qualcosa luccicava. Una gazza ladra. Non me la prendo con nessuno, non posso prendermela che con me stesso. Già, basta sentire cosa cazzo ascoltavo musicalmente. La vita c’ho messo anni di fatica a peggiorarla e non spettano a nessun altro diritti d’autore. Ma come in ogni casino che si rispetti, una volta arrivato al punto in cui non riesci a camminare per la mole di oggetti a caso per terra, ti fermi. La cosa importante prima o poi è arrivare a capire che quel casino ha preso il sopravvento sulla tua persona. E’ importante. Un bel respiro, ascolta l’aria che ti entra nei polmoni, fesso. Quand’è stata l’ultima volta che hai respirato. Ti sei scordato come si fa o non l’hai mai fatto. A questo punto non fa differenza.

Probabilmente iniziò ad avere senso, eravamo seduti su uno scivolo, non c’era nessuna scritta sul muro, non c’era assolutamente niente. Quando t’inventi che il nulla ha un senso sei nella merda.

La 51 è rimasta, è ancora lì che fa i suoi giri, con una quindicina di rotonde in più. Parte in pianura nel verde e ti mostra da lontano le alpi orientali come un anfiteatro greco. Si lascia alle spalle il granturco per rivelare il collio con i suoi vigneti. Attraversa il lembo bisiaco dove subentra la vegetazione mediterranea, e dove inzia la spina dorsale del carso che protegge dai venti. Prosegue fianco a fianco con l’altopiano e, meravigliosamente, per aprirti la vista al mare s’inerpica sulla costiera, ad un centinaio di metri, in modo che il riflesso del sole s’infranga con innumerevoli onde. Là dove gli austriaci hanno costruito i castelli per abbronzarsi, là dove l’adriatico finisce, o inizia, dipende dai punti di vista. La fine non è un inizio?

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editoriale di mrbluesky

Informazione di servizio
I CD possono essere riparati?
Affermativo
Tra i vari metodi e tutorials vi suggerisco quello del dentifricio
Il motivo è semplice, andando ad agire su quello che è lo strato protettivo del disco con una pasta leggermente abrasiva si eliminano facilmente tutti i graffi superficiali.
Spalmatelo al centro e distribuitelo verso l'esterno della superficie con le dita bagnate evitando movimenti circolari,risciaquate e tamponate con un asciugamano morbido.
Va bene qualunque dentifricio ma suggerisco di usare quello piu semplice a pasta bianca.
Non serve cercare altri metodi, è economico e lo abbiamo tutti in casa.
Qualora i graffi fossero piu profondi è possibile tentare con un metodo piu energico, visto che il disco andrebbe comunque buttato, ovvero una leggera smerigliatura con un tampone da carrozziere, avendo cura di agire sempre sulla superficie in maniera uniforme senza insistere sul punto incriminato in quanto il calore farebbe deformare irrimediabilmente il disco. Potete usare trapano, mola o smerigliatrice procedendo con mano leggera sempre dal centro verso l'esterno, lavate infine con sapone liquido ed asciugate o soffiate con l'aria compressa (non usare Phon o solventi di nessun tipo).
Potrà sembrare eccessivo ma vi ricordo che si andrà ad agire solamente sullo strato protettivo del CD senza intaccarne le tracce, quindi se lo avete rigato col cacciavite o ci siete montati sopra con gli scarponi da sci potete tranquillamente lanciarlo dal balcone (o metterlo sotto la gamba del tavolo come fà qualcuno).


Testato e provato dal Mr.

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editoriale di Flame

Nel corso di uno dei tanti esperimenti da me condotti su me stesso ho scoperto accidentalmente che pensare a qualcosa di giallo nel momento in cui ci si accorge di stare per addormentarsi, è di aiuto a varcare in modo cosciente la porta che mette in contatto la dimensione del sogno con quella reale. Non è facilissimo ma dopo un po’ di tentativi è possibile riuscirci.

Per ora ho avuto successo una sola volta e di seguito fornisco un resoconto di quell’esperienza. Per avere risultati misurabili di eventuali esperienze nella dimensione ESSE, ho organizzato gli esperimenti di cui ho detto in questo modo. Ho memorizzato alcuni integrali indefiniti a cui non ero ancora riuscito a trovare una soluzione per poi provare a risolverli nella dimensione ESSE. La logica di base è semplice Lo scopo degli esperimenti è quantificare il tempo trascorso nell’esperienza ESSE e paragonarlo al tempo trascorso nel mentre in quella ERRE (per le motivazioni a tanto sbattimento faccio riferimento a quanto scritto in TEMPO ESSE). Io so che di norma impiego un tempo X a risolvere integrali di una certa difficoltà e la mia testa di legno non ha migliorato le sue prestazioni nel tempo con l’allenamento. E questo ai fini dell’esperimento è è un bene, perché ho potuto considerare il tempo X come una costante. Se fossi tornato nella dimensione reale con, diciamo, un integrale risolto, avrei saputo che la mia esperienza nella dimensione esse era durata almeno il tempo X ,se fossi tornato con due soluzioni il tempo trascorso in ESSE era stato ameno 2X… e così via.

Approdato nella dimensione ESSE ricordai il metodo Stanlio di guardarsi le mani per riuscire a governare l’andamento del sogno. Ce la feci e ricordo che mi saltarono subito all’occhio antichi calli, ravvivati nel tempo dalle innumerevoli volte ho riflettuto con me stesso su me stesso.

Andai poi con lo sguardo a verificare in che posto mi trovavo, ed individuai facilmente la mia figura ad una decina di metri dal posto in cui mi stavo osservando. Ero seduto ad un tavolino nel dehor di un bar, in compagnia di una bella bionda con lunghe trecce rosse.

Diedi un’occhiata all’insegna del bar, e mi parse all’insegna del sogno che stavo facendo. Sopra non riuscii a leggerci “nulla”, mentre ci trovai tutte le altre parole da me conosciute.

Era un po’ che non mi vedevo dei capelli sulla mia testa, così tanti capelli poi, non ricordavo nemmeno di averli neri. Se li avevo avuti un tempo, mi dissi, doveva essere stato prima di diventare un elettore del partito dell’amore, perché quello era il periodo in cui decisi per la prima volta di perdere la memoria.

Se dovevo dirla tutta, pensai, non ricordavo nemmeno di avere gli occhi verdi, i pettorali e gli addominali scolpiti, tanto TNT nelle mutande quanto ne avvertivo in quel momento, ed i peli del culo a batuffoli, ma non persi altro tempo a badare alle sottigliezze.

Ragionai sul fatto che ero li per trovare delle risposte, mi ero guardato le mani all’inizio del per essere sicuro di riuscirci, la bella donna che avevo davanti quindi non poteva essere li solo perché mi trovava interessante, quale donna poi può trovare interessante un uomo come lo ero io in quel momento?

Doveva trattarsi di una scienziata o una matematica in grado di aiutarmi a trovare la soluzione ai miei integrali ed equazioni. Mi decisi a parlargliene e lei mi rispose che era un controllore, non un professore di matematica e mi chiese il biglietto del treno.

A quella richiesta ficcai le mani nelle tasche in modo automatico e ci trovai qualcosa che al tatto assomigliava effettivamente ad un biglietto e glielo allungai. Era un bollino della Miralanza. Lei mi disse che poteva bastare per pagarmi il viaggio per dove dovevo andare. A quel punto le chiesi quale era il posto in cui dovevo andare. Non me lo disse, mi disse però che tempo addietro aveva sentito parlare di un gruppo di saggi di Frabosa Sottana che forniva risposte a questioni quali quelle che le avevo posto io. Per andarci però avrei dovuto pagare il biglietto per la tratta tra il posto in cui dovevo andare e Frabosa Sottana.

Le feci presente ancora una volta che non sapevo dove dovevo andare, e lei mi rispose che avrei dovuto pensarci quando avevo fatto il biglietto e che in ogni caso dovevo sbrigarmi a decidere perché all’arrivo in quel posto mancavano solo pochi minuti e se non pagavo mi avrebbe fatto scendere.

Allora rificcai nuovamente le mani nelle tasche nella speranza di trovarci anche dei soldi. Qualcosa in fondo in fondo c’era e glielo porsi. Mi sono sentito rispondere che bastava appena per le zucchine ed i pomodori. Feci appello ancora una volta alle mie tasche senza fondo ma non ci trovai altro, dovetti quindi lasciare alla cassa una confezione famiglia di bottiglie di chinotto a cui avevo fatto il becco. Peccato. All’uscita dal super mercato vidi un grosso parcheggio completamente vuoto fatta eccezione per una persona immobile al centro che mi fissava. Era Sophie Bextor Ellis completamente nuda. La sentii chiedermi” lo vuoi un bel chinotto?”. Le dissi che giusto qualche secondo prima ne avevo lasciato un’intera confezione alla cassa perché non avevo i soldi per pagarla, ma forse qualche spiccio per un solo chinotto riuscivo a farlo saltar fuori. Mi affrettai a controllare un’ultima volta nelle mie tasche cercando in ogni anfratto ma niente, dovetti rinunciarci. A quel punto vidi Sophie tendere il braccio alla sua sinistra ed indicarmi con il dito quella direzione.

Mi misi in cammino seguendo le sue indicazioni e fatto qualche metro trovai una porta. Aprendola scoprii che conduceva in uno studio, tipo quello di un notaio o di un avvocato. Davanti a me c’era una scrivania. Una scrivania molto lunga. Sulla scrivania c’era un cartello. Sul cartello c’era scritto “I tre saggi di Frabosa Sottana, tre uomini che hanno saputo affrontare imprese impossibili.” Dietro la scrivania ed il cartello c’erano tre uomini. Con ogni probabilità i tre saggi. Erano Alessandro Magno, Napoleone Bonaparte e l’assessore al turismo di Arquata Scrivia. Posso affermarlo con certezza perché ognuno aveva davanti a se un cartello con su scritto il suo nome.

Chiesi a loro la soluzione dei miei integrali indefiniti. Mi dissero che per quelle questioni era competente l’ufficio accanto, quello dei tre saggi di Villafranca d’Asti, Frazione Case Bruciate: uomini che hanno saputo dispensare classe a bigonce semplicemente inforcando gli occhiali.

In quell’ufficio ci trovai Clark Kent, Antonio Lubrano ed Elton John. Proposi anche a loro i miei integrali indefiniti e loro mi dissero che la soluzione era la stessa dell’annoso problema sulla distribuzione dei numeri primi.

Dissi a loro che io non sapevo quale fosse la soluzione del problema sulla distribuzione dei numeri primi.

Mi dissero che la soluzione era il colore Beige.

E d’improvviso tutto mi fu chiaro. Tutto tornava. Quella oltre ad essere una soluzione per i miei integrarli indefiniti, spiegava anche l’esistenza del Beige in questo mondo. Ricordo che una volta l’uomo aveva provato a dargli un senso a quel colore. Ci aveva verniciato la Prisma negli anni 80. Fu un insuccesso clamoroso, non si ottenne altro risultato che renderla ancora più fastidiosa alla vista.

Ringraziai i grandi saggi per avermi illuminato e chiesi a loro come potevo tornare alla dimensione reale per concludere il mio esperimento. Mi dissero che per riuscirci avrei dovuto trovare Yellow Pecora. Ficcai allora le mani nelle mie tasche per l’ultimissima volta speranzoso di trovarci almeno Yellow Pecora. Mi sentii rischiare al loro interno, e mi svegliai.

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editoriale di Tucidide

Fa caldo.

Ho caldo.

Pure il mio cane ha caldo.

Ci rifugiamo in un centro commerciale.

Nel centro commerciale ci rifugiamo da Mekki.

Sul tabellone schifezze ordino una schifezza gelata.

Mi metto in coda e ritiro un cono gusto tipopanna. Sagomato bene, la crema ha una consistenza marmorea.

Il cane mi guarda. Un assaggio, solo un assaggio.

Appoggio il mignolo sulla punta del gelato. La crema è tornita, al tocco resiste.

Sguardo famelico, il cane insiste.

La supplica sussiste. Anche la bavetta persiste, agli angoli delle fauci amorose.

Sed non satiata, insaziabile gola di cane.

Affondo il mignolo sulla punta del gelato, scalfisco un angolo di crema, lo allungo verso le fauci.

La linguetta raspa la pelle. Ancora, eddai.

Cambio dito. Affondo l’indice.

Allungo di nuovo verso la lingua raspante.

In breve finisco le dita disponibili.

Il cane rassegnato mi segue fuori dalla coda di Mekki, mentre una tipa mi allunga uno sguardo sdegnato.

Dovrei dirle Oh tipa, desideri anche tu qualcosa da leccare?

Ma c’è sempre il rischio di essere preso in parola.

Fa caldo.

Tanto caldo.

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