editoriale di kosmogabri

Ultima parte

Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo e soprattutto di manipolarselo. Non si sono accorti che esso era "altro": incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione - ossia "durante" la scomparsa delle lucciole - gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal '69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere.

Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient'altro che il luttuoso doppiopetto.

Tuttavia nella storia il "vuoto" non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il "vuoto" di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l'intera nazione. Ne è un indice ad esempio l'attesa "morbosa" del colpo di Stato. Quasi che si trattasse soltanto di "sostituire" il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trenta anni, portando l'Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico. 

In realtà la falsa sostituzione di queste "teste di legno" (non meno, anzi più funereamente carnevalesche), attuata attraverso l'artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la "truppa" sarebbe, già per sua costituzione, nazista). Il potere reale che da una decina di anni le "teste di legno" hanno servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già riempito il "vuoto" (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell'Italia: perché non si tratta di "governare"). Di tale "potere reale" noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali "forme" esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l'hanno preso per una semplice "modernizzazione" di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola.


Dal Corriere della Sera, 1 febbraio 1975 - In "Scritti Corsari", Garzanti Ed.
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editoriale di kosmogabri

Avevo delle anonime Converse All Star, bianche, basse, che alte non erano comode per giocare a pallone. Mi guardavo le scarpe, ancora candide, rimbalzare sul grigio della pavimentazione appena rifatta. Erano tutti sanpietrini. Mi sforzavo, nemmeno troppo, ma un po' mi sforzavo e comunque non ricordavo come era prima, prima dei sanpietrini.
Mi facevano male al tallone, le vigliacche scarpe nuove. Camminavamo lo stesso, abbastanza rapidi, scendendo verso il mare, mano nella mano. Qualche passo e un saltello, qualche passo e uno strattone.
- Fa' o' serio - mi diceva. Aveva ragione.
Cobain aveva da poco ritinteggiato le pareti del capanno di rosso sangue ed io non lo sapevo. Mancavano nove giorni al rigore di Baggio perso nel cielo californiano ed io non lo sapevo. Saper nulla era una bella cosa ed io sapevo solo poche cose, ma buone: avevano cosparso di sanpietrini i Campi Flegrei; avevano riaperto il campetto di calcio; avevano piantato aiuole alla rinfusa. Piccoli cambiamenti per me inspiegabili. Bagnoli sembrava nuova ed io, che mi sa che ho sempre preferito le scarpe vecchie, non ci facevo caso del tutto.
Ci fermammo solo un attimo, solo per prendere il pane, otto panini belli freschi appena sfornati ed io che volevo un po' di pizza mi strinsi mani e piedi, come una scimmia, alla cassa di Enzo il panettiere. Lui, Enzo, se la rideva, ma solo lui.
- Fa' l'omm' - mi disse tirandomi via. Nessuno vedeva di buon occhio le pizzette di Enzo. Lui diceva solo di far l'uomo, nonna almeno prometteva un panino al prosciutto ed io, alla parola prosciutto, mi fermavo sempre, almeno un attimo.
Poi continuammo, attraversammo la strada per stare di nuovo sui sanpietrini nuovi, camminando all'ombra degli alberi, in una Bagnoli che sembrava dormire approfittando del fresco del mattino di un qualsiasi giorno di Luglio. Scalciavo qualche foglia, poi un ramoscello, poi un salto, poi uno strattone. L'unica cosa che ricordo che riuscivo a pensare era che all'indomani l'Italia avrebbe giocato con la Spagna, ma Zola no. Zola non avrebbe giocato, era stato bastardamente espulso, così, senza che nessuno capisse il perché, dieci minuti dall'ingresso in campo. Poi Zola si mise a piangere, piegato sulle ginocchia, con le mani sul viso. Arbitro cornuto.
Non scesi i gradini del sottopassaggio, ci saltellai sopra a due a due, mentre le mani ancora strette costringevano le braccia ad allungarsi.
- Hmmm - disse, facendolo perdere nel puzzo di piscio che teneva in piedi il sottopassaggio.
Alla luce il mondo cambiò. Sembrava che Bagnoli fosse tutta lì, tutta radunata, tutta a disertare i marciapiedi, tutti per strada. Lui accelerò il passo, quasi corremmo ed io ero felice, mi piace correre, una cosa più naturale dell'andare piano, dell'aspettare qualcosa. A passo svelto schivavamo gli altri, a passo svelto ci insinuammo tra la folla. Continuammo e continuammo, fino alla transenna. Mi ci arrampicai sopra, i piedi sull'estremità bassa, le mani su quella alta. Aspettammo, un po', e appoggiai il mento sull'estremità alta, tra le due mani.
- Togliti che è sporco - mi disse, quando se ne accorse, ma non ebbe il tempo di crederci. Sfilò una macchina nera, lucida, lunga. La gente applaudiva, qualcuno esultava. Io mi guardavo in giro, capivo sempre meno.
Dalla macchina, una volta allontanatasi, scese un uomo con i capelli bianchi. La gente esultava, non sentivo nulla se non un miscuglio di grida, di odori, il caldo. Urlavano, le mani in aria, erano felici, sereni, sembravano, a colpi di voce, allontanare qualcosa, ma lui no. Lui si mise dietro la mia schiena, appoggiò la gamba sull'estremità bassa della transenna e poi si sporse. Un po' mi schiacciava. Io cercavo di vedergli il viso, ma non ci riuscivo, non dalla mia posizione. Solo il suo mento proteso verso l'obiettivo riuscivo a vedere. Era duro, partner di una smorfia. Poi si inclinò il labbro. Tre, due. Uno.
- Omm' è merd'! - strillò. Io mi voltai con forza. Lui mi guardò, poi rispinse il mento verso l'alto, la mano affianco la bocca. - Omm' è merd'! Omm' è merd'! -.
L'unica voce, le uniche parole che distinguevo in un gomitolo di rumori: Omm' è merd'. Non ci pensai due volte.
- Omm' è merd'! Omm' è merd'! - gridai. Lui mi guardò, sorrise. - Brav', accussì! - mi disse passandomi una mano tra i capelli.
Ed io, per una volta che potevo dire le parolacce senza punizioni di mezzo, ci presi gusto. - Omm' è merd'! - gridai ancora.

Oggi c'è vento, proprio un bel vento freddo del cazzo. Si è insinuato ovunque poteva, tant'è che ad un certo punto, grazie al vento, mi sono accorto di aver un bottone aperto. Da lì passava, scendeva fino alle caviglie, poi risaliva. Non un bella cosa.
Mi sono fermato dal fruttivendolo. Un chilo di mele per 90 centesimi. Me le sono pure scelte e mi pare una bella cosa. Ho camminato col polso infilato nel laccio della busta di plastica e la mano infilata nella tasca dei jeans. L'altra era fuori, a dondolarsi nell'aria fredda, per farmi fumare.
Il digitale terrestre, il digitale terrestre. Ha provato a montarlo da solo, ma non c'è riuscito. La presa scart dondola, mica ha capito dove andava. Gli ho dato le mele, poi mi sono abbassato dietro il mobile della televisione.
- Barack Obama... premio Nobel... - è partito dal televisore.
Mi sono rialzato. Guardava lo schermo, poi mi ha guardato, con quegli occhi che un tempo erano chiari e ora sono solo stanchi.
- Omm' è merd'... pur' is. O' Nòbel... o' presidente dell'Ammmerica. Ma che munn' è merd'. Che mondo di merda! La vita è un paradiso di bugie. - mi ha detto. Di Clinton o di Obama a lui frega niente.

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editoriale di kosmogabri

Parte quarta

Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell'ammiccante luce dell'arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i "flatus vocis" delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d'ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c'è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé. 
Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, "Come ci sono giunti gli uomini di potere?".

La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla "fase delle lucciole" alla "fase della scomparsa delle lucciole" senza accorgersene. Per quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una "normale" evoluzione, ma sta cambiando radicalmente natura.

Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante). 

Dal Corriere della Sera, 1 febbraio 1975 - In "Scritti Corsari", Garzanti Ed.
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editoriale di kosmogabri

Parte terza.

Dopo la scomparsa delle lucciole.
I "valori" nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i "valori" di un nuovo tipo di civiltà, totalmente "altra" rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima "unificazione" reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l'"arcaicità" pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell'industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.

In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l'industrializzazione degli anni Settanta costituisce una "mutazione" decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant'anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a "tempi nuovi", ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l'avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque "coi miei sensi" il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere "totalitario" iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I "modelli" fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima. Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant'anni di fascismo, il popolo portoghese ha celebrato il primo maggio come se l'ultimo lo avesse celebrato l'anno prima.

È ridicolo dunque che Fortini retrodati la distinzione tra fascismo e fascismo al primo dopoguerra: la distinzione tra il fascismo fascista e il fascismo di questa seconda fase del potere democristiano non solo non ha confronti nella nostra storia, ma probabilmente nell'intera storia.
Io tuttavia non scrivo il presente articolo solo per polemizzare su questo punto, benché esso mi stia molto a cuore. Scrivo il presente articolo in realtà per una ragione molto diversa. Eccola...

Dal Corriere della Sera, 1 febbraio 1975 - In "Scritti Corsari", Garzanti Ed.
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editoriale di kosmogabri

Parte seconda

Prima della scomparsa delle lucciole.
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel "Politecnico": la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale.
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i "valori" che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità. Tali "valori" (come del resto durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l'Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a "valori" nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle "élites" che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani.

Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima di passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione.

Durante la scomparsa delle lucciole.
In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul "Politecnico" poteva anche funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese - cioè la massa operaia e contadina organizzata dal PCI - sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che "le lucciole stavano scomparendo". Essi erano informati abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell'analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l'immediato futuro; né identificare quello che allora si chiamava "benessere" con lo "sviluppo" che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il "genocidio" di cui nel "Manifesto" parlava Marx.

Dal Corriere della Sera, 1 febbraio 1975 - In "Scritti Corsari", Garzanti Ed.
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editoriale di kosmogabri

Parte Prima

"La distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale "Il Politecnico", cioè all'immediato dopoguerra...". Così comincia un intervento di Franco Fortini sul fascismo ("L'Europeo", 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo tutto, e pienamente. Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la distinzione tra "fascismi" fatta sul "Politecnico" non è né pertinente né attuale. Essa poteva valere ancora fino a circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista. Ma una decina di anni fa, è successo "qualcosa". "Qualcosa" che non c'era e non era prevedibile non solo ai tempi del "Politecnico", ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo, mentre accadeva).

Il confronto reale tra "fascismi" non può essere dunque "cronologicamente", tra il fascismo fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel "qualcosa" che è successo una decina di anni fa.

Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio).

Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c'erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta). 
Quel "qualcosa" che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque "scomparsa delle lucciole".

Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. Osserviamole una alla volta.

Dal Corriere della Sera, 1 febbraio 1975
in "Scritti Corsari", Garzanti Ed.

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editoriale di carlo cimmino

Il Foro Italico (Foro Mussolini) è un complesso sportivo di epoca e concezione fascista. Questa estate ha ospitato i Mondiali di nuoto. Un'edizione spettacolare: 43 nuovi record del mondo. L'eroina della competizione è stata Federica Pellegrini. Federica, mascella pronunciata e 177 centimetri per 68 chili, posa nuda sui giornali e, tra un piercing al seno e una visita al papa, stabilisce nuovi record. Prima donna a scendere sotto i 4 minuti nei 400 metri stile libero, ha stabilito un nuovo record anche nei 200 polverizzando il precedente, che pure aveva stabilito lei nel 2008.
Quarantatre nuovi record sono troppi anche per una generazione di campionissimi. Leggo di costumi fatti con materiali non permeabili. Poliuretano. Tute che ci vuole mezz'ora per infilarsele e una scorreggia per ridurle in brandelli. Il nuoto è uno sport senza eroi. Rosolino balla sul primo canale. Domenico Fioravanti zappa la terra nelle televisioni governative in compagnia di pornostar oramai troppo vecchie e malandate per praticare.

Anche Valerio "Giusva" Fioravanti ha lavorato in televisione. E al cinema. Qualche Spaghetti Western. A quei tempi erano di moda (lo stalliere Vittorio Mangano ne ha fatto uno con Klaus Kinski). Poi "Grazie... nonna" (1975) di Martinelli, il momento più alto della sua carriera cinematografica. E politica. La trama del film è già scritta nel titolo. La Fenech è la nonna. Giusva è Carletto. Il timido nipotino.
Giusva è timido. Ma anche stronzo. Nel 1977 con i suoi compagni di purghe mette in piedi i Nuclei Armati Rivoluzionari. Si arruola nell'esercito. Finisce in galera. Qualche omicidio. Il 2 agosto del 1980 mette una bomba nella Stazione di Bologna. Uccide ottantacinque persone e viene condannato. Ergastolo.
Nel 2004 gli viene concessa la libertà vigilata per "buona condotta". Passano cinque anni di libertà condizionata e Fioravanti è un uomo libero. In barba al "fine pena mai" scritto sul suo fascicolo che oggi è carta igienica. Spara a zero sulla resistenza e su chi ha scritto la Costituzione. Nel 1943 molti di loro erano considerati ufficialmente terroristi e condannati a morte.

Nel 1943 c'erano ancora eroi. Eroi che hanno preso a calci nel culo gente come Fioravanti. Oggi invece non c'è più niente da fare. Ho staccato dal lavoro e me ne sono andato al mare. Abito a Napoli. Mappatella Beach dista cinque minuti da casa. Ho disteso l'asciugamano sulla sabbia e mi ci sono addormentato. Poi sono morto.
Nel frattempo dei ragazzi tiravano calci ad un pallone.

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editoriale di kosmogabri

Mi piace viaggiare. Diciamo che il mio tempo che intercorre tra un viaggio e l’altro è il tempo necessario a far soldi. Se semplicemente non ci fosse questa necessità sarei sempre in viaggio. Se fossi Berlusconi Jr., ad esempio, oltre a vergognarmi molto, sarei perso chissà dove, probabilmente su un altro pianeta o magari, in questo momento, cavalcherei un cavallo mongolo attraversando qualche pianura dal nome impronunciabile.

La motivazione che sta dietro ad ogni mio viaggio è semplice - fin troppo -, forse un po’ voyeuristica. Quello che mi spinge è la voglia di andar a vedere come campano - o come non-campano - i non-Napoletani, con particolare preferenza per i popoli diversi, perché mi piacciono i posti diversi, ma non diversi a metà.


L’esigenza che mi ha spinto ad Amsterdam non la ricordo e vorrei tanto ricordarmela per sputare in cielo e beccarmi giusto nell’occhio sinistro. Amsterdam è il nulla, come camminare in un programma di Antonio Ricci, un programma a cultura zero, intrattenimento inutile e selvaggio; come divertirsi aldilà di tutto, spegnendo il cervello e stando, finalmente, bene.

Amsterdam è un rettangolo che fino al 1275 nemmeno esisteva, che non ha storia, non ha cultura, non ha tradizioni da mostrare e se mai ce ne fosse stata una, oltre le aringhe salate, le hanno definitivamente cancellate riempiendo il centro storico di puttane, di coffee shop e kebab. Del tipo: una puttana, un coffee shop, due kebabbari e così via. L’unica tradizione intatta è quella del vendere. In quello ci sanno ancora fare. Infatti se ad un turista X dovesse capitare di imbattersi in un museo, sono 15 euro. Nessuna eccezione.


E vogliamo parlare del tipo medio che “visita” Amsterdam? Gente orribile: antropologhi baschi con il tartaro che fa provincia a sé e che ti parlano dell’importanza delle “huevos, por procrear” nella dinamica delle formazioni culturali-popolari; americani cafoni come solo gli ammmerecani sanno essere; ragazzini della Svizzera francese così ricchi ed annoiati a diciott’anni che speri per loro che non arrivino mai a superare i venti.


E allora vi voglio vedere per i mostri che siete: 12 euro e 50, fungo allucinogeno, sponda del canale, mastico lentamente. Due ore a camminare tra puttane, ammmericani cafoni e kebab. Due ore lunghissime, poi inciampo, rialzo lo sguardo e le persone, per così dire, hanno quattro occhi, qualcuno assomiglia al tipo del video di "Come to Daddy". Ora sto bene.


E poi... e poi le olandesi sono troppo alte. Nemmeno quello.

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editoriale di kosmogabri

(…)Quando ero più giovane non mi piaceva viaggiare. Quando avevo vent’anni, mi imponevo ogni tanto di andarmene via, ma ero solito dire agli amici: “I paesaggi e le città non mi interessano, perchè non li posso far miei. Non li posso mangiare”. Lungo il mio viaggio solitario, una domenica, a Chantilly, mentre un amico rapito dal paesaggio autunnale, grigio, sfumato, eppure così vivo fra le acque degli stagni, le rive, i fusti degli alberi le linee di un indefinibile orizzonte, diceva: “E’ un puro Corot. Lui ha dipinto esattamente questo luogo”, mi sono chiesto perchè da qualche anno anch’io ami i paesaggi, le città e i luoghi. E ami viaggiare.

Allora mi sono dato una risposta. Quando ero giovane, ero un ignorantone, leggevo poco, scrivevo male. Se avessi visto quel paesaggio, avrei solamente ricevuto un’emozione turistica. Oggi, invece, che conosco Camille Corot, posso vedere e sentire quel paesaggio, quella città, quel luogo, in un modo diverso.
Leggere libri, guardare opere d’arte, ascoltare musica, andare al cinema, sono tutte attività che nutrono il nostro sentire. Anche fare l’amore, essere innamorati, spedirsi biglietti fra una lezione e l’altra, correre e andare in bicicletta sono attività che l’interiorità – il leggere, il guardare – può nutrire. In questi anni votati così spudoratamente alla fatuità e al perbenismo, anche starsene un po’ zitti e cercare di crescere nell’interiorità può essere un gran bene. Questo ho pensato, fra le altre cose, durante il mio viaggio solitario. E ve lo dico con un po’ di rabbia, perchè mi sembra di trarre una morale da un’esperienza che preferisco lasciare così, senza un senso definitivo.  Perchè la gioia è nel non avere bisogno di giustificazioni e di morali: accettare di sperperare tempo e denaro e affetti perchè è così e non se ne può fare a meno. Il dolore è sterile.
Ma è l’unica cosa che ho, questo dolore, per cercare di capire.

Da: “Un Weekend postmoderno - Cronache dagli anni Ottanta" (Bompiani Ed.)


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editoriale di K.

Tornare a piedi dal supermercato sarebbe un suicidio, troppa afa. L'opzione bus per solo due fermate è ridicola, ma se stasera qualcuno ride lo picchio. Arrivo alla fermata, controllo quando arriva il mezzo e combattuta tra lo stare lì nel torrido ad aspettare oppure andare a piedi, stramazzo sulla panchina. La testa pensa, il corpo decide.

Passa qualche minuto che due ragazzine, 13 o 14 anni a testa, s'avvicinano alla fermata. Due tipiche ragazzine in sboccio. T-shirt scopri ombelico, jeans vita bassa di una misura più piccola che strizza la ciccia adolescente, trucco, unghie finte, profumo alla mela verde. Ragazzine d'oggi banalmente ragazzine d'oggi.

Cominciano a chiacchierare a voce alta, impermeabili all'afa appiccicosa ed incuranti dei presenti.

La moretta: - Stamattina ho provato a chiamarti, ma non hai risposto.

La biondina: - Guarda ho avuto una giornata di merda.

- Perchè?

- Perchè mia mamma è fuori come un balcone!

- Che novità! Cosa è successo stavolta?

- Eh, è stata mollata dal tipo.

- Quello che ho visto a casa tua?

- No, uno nuovo, cioè... adesso usato. (risatina)

- Tua mamma è proprio fuori, sempre uno nuovo! Che è successo poi, oggi?

- Guarda, stamattina urlava sempre e s'è messa a fumare una canna dietro l'altra, già prima di pranzo.

- Già prima di pranzo? E' scema?! E tu?

- Mi sono chiusa in camera fino a quando è uscita. Dopo ho fatto le cose di casa.

- Ma come... tua mamma non ha fatto niente?

- Eh lo sai che non fa mai un cazzo! Ho fatto l'aspirapolvere, i panni e i piatti (...) Sai, quando ho fatto l'aspirapolvere in salotto, c'era una canna appena accesa e poi spenta nel portacenere.

- E tu che hai fatto? (occhi grandi)

- Ho svuotato il portacenere e poi la canna l'ho rimessa lì.

- Ehhh?? Dovevi buttarla nel cesso!

- Oh, poi mia mamma m'ammazza se non la trova più!!

(silenzio)

- Scusa se te lo dico... ma che stronza che è!



Il bus è arrivato, le ragazzine s'alzano dalla panchina di scatto. Io e gli altri astanti ci scambiamo uno sguardo piuttosto sconcertato. Seguo le ragazzine mentre salgono, carine con il loro rossetto a brillantini, la borsetta hellokitty, la scia fresca di mela verde.

Ragazzine come tante, dal look omologato da non poterle distinguere dalle altre.

Sì, omologate, ma queste assolutamente non banali.


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editoriale di emofiliaco

Lo Stilfser Joch o Passo dello Stelvio, 2758 metri, è la strada carrozzabile più alta d'Italia. Per raggiungerlo, dal Sud Tirolo, è necessario superare 48 tornanti: distribuiti in 19 chilometri su di un dislivello di 1870 metri.
Quando, nel 1822, Carlo Donegani, per conto dell'Imperatore Ferdinando I d'Austria, s'apprestò a progettare quest'eroica strada, probabilmente, non si rendeva conto che, in un non così lontano futuro, la sua opera avrebbe perso l'originale funzione di arteria di collegamento per guadagnarne un'altra. Meno funzionale, forse, ma senz'altro più "poetica".

Chi ha già provato l'esperienza di vedere l'Ortles avvicinarsi, un tornante dopo l'altro, forse avrà capito di cosa sto parlando: se dovessi descrivere l'Inferno, probabilmente, tenterei di "spiegare" il colore (un grigio plumbeo che nemmeno il bianco, sporco, dei ghiacci riesce ad addolcire: ma nemmeno così penso di aver dato l'idea) di quella montagna. Tenterei di far capire la sensazione d'abbattimento che insorge quando, dopo aver percorso già una ventina di tornanti, la rada vegetazione d'alta montagna improvvisamente sostituisce il bosco ed i rimanenti trenta diventano improvvisamente visibili. Dritti, dritti sopra il tuo naso: riconoscibili dai muretti di pietre, malta e cemento che li dividono dal vuoto. Direi del ghiacciaio che più si avvicina (è li a due chilometri, forse meno, in linea d'aria da te) e più lo vorresti lontano.

Ma quello che più lo rende simile all'Ade è la sensazione di "nera" solitudine che, pure in mezzo ad altri "disperati", lo Stelvio ti piazza nel cuore. Sei tu, la strada e la montagna. Niente altro.
Nelle mie peregrinazioni ho incontrato centinaia di strade che considero amiche ed il loro asfalto compagno di scorribande: qui è diverso.
Se non si sapesse che lassù c'è il "premio" (una volta scollinati la dicotomia tra Paradiso ed Inferno sarà, paesaggisticamente, chiara ma di questo magari parlerò un'altra volta) la tentazione di rinunciare sarebbe sempre incombente perchè lo Stilfser è maligno: non ha nessuna intenzione di farti compagnia. Ti piazza di fronte il suo paesaggio in tonalità più grigie che verdi e non accetta nessun compromesso: nessun dialogo. Una perfetta conclusione, silenziosa, per il Mondo e per tutto quello che conosciamo.

Chissà se Donegani, sapendo quello che il suo "bambino" sarebbe diventato, l'avrebbe messo al mondo lo stesso. Ma forse è una domanda inutile, perchè il "Male" avrebbe comunque trovato il modo di manifestarsi, lassù.



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editoriale di sfascia carrozze

Sei stato il mio Mito. Ancorché a Tua totale insaputa. Da anni. Anzi oramai da due decenni.

Hai fatto ciò che nessun uomo teoricamente avveduto, equilibrato, saggio, si sarebbe mai e poi mai sognato di fare.

Hai mollato tutto e tutti. Da un giorno all'altro. Nel momento di massimo fulgore hai deciso di andare, cocciutamente, per la Tua chitarristica strada, infischiandotene delle conseguenze del Tuo stoico gesto e senza pensarci due volte: il sacro fuoco del Rock'en'Rolle bruciava ardentemente dentro di te.

Così agendo hai sicuramente rinunciato a parecchi soldi, una autentica marea di danaro: concerti, dischi, presenze in tv; hai rinunziato per sempre alla fama in quel preciso istante in cui hai deciso di dire “Basta!”.

Non t’importava nulla del successo Europeo, Extraeuropeo, Ultraplanetario: per almeno un altro paio d’anni a venire sarebbe stata una certezza. E invece niente: eri stufo di esser relegato a ruolo di comprimario (e che comprimario) in quella banda di sofficemente cotonati capelloni. Hai deciso, in quel lontano 1987 (e, sottolineo, giustamente) che volevi il “Totale Controllo” sulla Tua Arte.

E non è improbabile che in questo modo hai rinunciato anche a parecchie donne. Tante voluttuose cerbiatte pronte a immolarsi sull'altare del rock. O a tanti Uomini. Fai Tu. Perché con quel Tuo faccino un po’ così, quel capello lungo ma ordinato, quel nasino nordico appuntito all’insù, immagino fosse in grado di attirarne interi sciami, un po’ come le mosche sulla.. ehm, volevo dire come la gatta che lascia lo zampino sul lardo (questo proverbio, scusa, ma non l’ho mai capito fino in fondo), come api al miele, insomma.

E invece hai fatto quello che in cui hai creduto. E hai fatto bene. Ci tengo a ribadirlo. Bravo! Fossero tutti come Te.

Però, scusa, o nibelungo John, non vorrei risultare scortese, ma perché, giusto circa un paio di anni fa, alla fin-fine sei ritornato negli Europe?

Eh?

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editoriale di kosmogabri

I peggiori incidenti nella carriera del quartetto avvennero a Milano durante l'annuale tour europeo. I Led Zeppelin erano stati ingaggiati per suonare al velodromo Vigorelli, erano stati pagati in anticipo in Inghilterra e arrivarono al Vigorelli solo per scoprire che erano stati programmati, secondo Cole, dopo ventotto gruppi. Mentre entravano nello stadio, stipato da 12mila persone, il complesso notò che centinaia di poliziotti, muniti di tenuta antisommossa, erano ammassati all'esterno e all'interno del velodromo. Quando Page vide i loro scudi, fece notare come somigliassero a dei centurioni romani. (...) Il pubblico continuava ad aumentare e la situazione era sempre più pericolosa. (...) Cole era infastidito dai ritardi e decise di mandare il complesso sul palcoscenico. "L'atmosfera era schifosamente agitata", ricorda. "Così decidemmo: Vaffanculo, non staremo qui ad aspettare tutta la notte per voi italiani del cazzo in mezzo a questo cazzo di casino. Vaffanculo, noi cominciamo quando ne abbiamo voglia.".

Così, presentandosi sul palcoscenico prima del previsto, i Led Zeppelin cominciarono il loro show e ricevettero dalla folla l'attesa reazione: il pandemonio. Racconta Page: "Notammo masse di fumo che arrivavano dal retro dell'ovale. L'impresario arrivò sul palco e ci chiese di dire ai ragazzi di smetterla di accendere fuochi. Così come degli sciocchi, facemmo quel che ci aveva detto". Plant disse ai ragazzi che la polizia avrebbe fatto interrompere il concerto se ci fossero stati altri fuochi. (...) Improvvisamente, un candelotto lacrimogeno fu lanciato verso il palcoscenico e atterrò in mezzo alla folla che si accalcava sotto. Il complesso capì che tutto il fumo non era altro che gas lacrimogeno. I carabinieri stavano attaccando la folla. Cercando di suonare avvolto in una spessa nube di gas, Page disse al complesso che avrebbero terminato in fretta e quindi attaccò Whole Lotta Love. Quando tutti i ragazzi balzarono in piedi per la loro canzone preferita, la polizia distribuì un altro giro di gas. Qualcuno gettò una bottiglia e lo polizia attaccò la folla alle spalle. Allora i ragazzini cominciarono ad arrampicarsi sul palco, cercando freneticamente di sottrarsi agli sfollagente della polizia; Cole ne ributtò un paio fino a quando non capì che l'intero pubblico attaccato con i gas lacrimogeni stava avanzando a tutta forza cercando rifugio nell'impalcatura. "Vaffanculo" urlò "Andiamocene. Su, ragazzi, via dal palco!". All'inizio i roadie cercarono di salvare l'attrezzatura ma, quando vide che la folla in preda al panico stava ondeggiando avanti, Cole urlò di lasciare gli strumenti e scappare.

Una volta giunti dietro al palco, i musicisti corsero sotto un lungo tunnel verso i loro camerini ma si ritrovarono a loro volta bloccati, in mezzo a soffocanti sacche di gas che entravano dalle due estremità del tunnel. Cole trovò allora una porta chiusa a chiave, l'aprì con un calcio e i Led Zeppelin si barricarono nella sala del pronto soccorso in attesa che gli incidenti terminassero. Quando ne uscirono trovarono il palcoscenicco distrutto e tutti i loro strumenti fatti a pezzi. Il roadie della batteria di Bonzo, Mick Hinton, era stato seriamente ferito alla testa da una bottiglia e doveva essere trasportato all'ospedale in barella. Dopo, mentre cercavano di calmarsi nel bar dell'hotel, Bonzo disse ad uno dei reporter in cerca di commenti di andare affanculo o si sarebbe beccato una bottiglia in testa. Durante il volo di ritorno a casa, Plant scoppiò in lacrime mentre cercava di descrivere la frustrazione provata dai musicisti...

da Il Martello degli Dei di Stephen Davis (Arcana, p.134)
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editoriale di G

Non apprezzò, il nostro, ai tempi della sua discesa in campo che Il Giornale in una vignetta lo avesse messo in barca con dei mafiosi.

Non amò mai nessuno dei vari autori che negli anni lo presero di mira per farne oggetto di caricatura, critica, ironia, parodia, sarcasmo o (sia mai) scherno. Non Fo, non Guzzanti, non Luttazzi, non Grillo. Non Crozza non Benigni, non Vauro, ma neanche Fede, in fondo.

Ora molte cose si chiariscono. Ora che è emersa chiara la sua natura per anni malcelata di fauno vizioso, riusciamo bene a immaginare quali siano i conflitti che lacerano e hanno lacerato da sempre l'animo il cuore e lo spirito indomito dell'indefesso leader minimo. Il satiro non ama la satira.



©foto di Joel Peter Witkin - Satiro (1992)  di più
editoriale di Cornell

Mi ha sempre affascinato la storia dell'Universo, cosa a cui il mortal cerebro non riesce ancora oggi a dare una spiegazione.
D'accordo, la teoria sulla formazione c'è, il cosidetto Big Bang, ma io a volte mi chiedo... Perché c'é stata questa violentissima esplosione pari ad una miriade di milardi di bombe atomiche? E da cosa è stata generata? Chi è lo sconsiderato che ha acceso un cerino in un mare di gas? Dio (non si gioca con i fiammiferi! Dovresti saperlo!)? E cos'è Dio? Soprattutto dove abita? E' stato lui poi, dopo che ha combinato questo disastro cosmico, a divertirsi a giocare con le biglie, alcune infuocate, altre freddissime, altre con minuscoli pirletti che ci camminano sopra. Alcune con dei mentecatti (ed è questo il nostro caso) che non si rendono conto di aver avuto la fortuna di una possibilità in questo infinito ammasso di costellazioni e se ne fottono di salvaguardare il posto dove vivono? E' stato lui ad inventare tutte le leggi che tengono in piedi tutto questo?

Ma tutto sarà veramente infinito? Cos'è tutto 'sto spazio vuoto? In che cosa è contenuto? Se riuscissi a viaggiare alla velocità della luce arriverei a una fine? Cos'è mai 'sto universo? Che cosa c'era prima? Vuoto? Radiazione? Ma che cazzo è la radiazione?
La verità è che siamo troppo limitati per poter comprendere tutto ciò e dovremmo vivere nel rispetto gli uni degli altri, e averne soprattutto per la Madre Terra, invece di continuare a devastarla giocando con le trivelle, sterminando gli animali, giocando alla guerra, causando disastri ecologici irreparabili.
Sto parlando anche a te, che magari vivi a Milano e hai un SUV, sì proprio a te. A che cosa ti servirà mai un SUV a Milano dico io? Fa tendenza. Ah scusa. Sei un pirla ma almeno di tendenza. Sto parlando a tutti quelli che hanno in mano il potere e si credono al di sopra di tutto, ogni tanto alzate gli occhi al cielo, meglio di notte. Non vi sentite come una formica nell'Oceano Pacifico? Non vi sentite delle piccole caccolette?

Non siamo neanche andati sulla Luna, ma pensateci un po'. Nel 1969 c'è stato il festival di Woodstock, pane amore e fantasia, condito da brasche celestiali e allucinogeni potentissimi e purissimi. C'era roba buona ai tempi, mica come adesso che se non stai attento prendi pacchi a destra e a manca. Chissà Armstrong e Aldrin che si erano fatti, compresa la troupe che montava la più colossale balla di tutti i tempi (anche il premier però ci va giù secco). Tenendo conto che eravamo nel 1969 (i disastri ci sono ancora oggi anche se la tecnologia è quadruplicata) gli allegri escursionisti partirono. Tutto bene Houston... Viaggiarono per quasi 385.000 chilometri, riuscirono ad atterrare sani e salvi sulla Luna, si fecero due balzelli, un giro con la dune buggy. Tutto bene Houston... Piantarono la bandiera a stelle e strisce, risalirono sul modulo, misero in moto (la carburazione era ancora a posto), riuscirono a partire, viaggiarono per altri 385.000 chilometri, indovinarono l'angolo esatto per il rientro senza finire arrosto, e atterrarono sani e salvi. Houston siamo a casa!

"Questo è un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l'umanità" Ma dai... Smettiamola di spendere soldi per le esplorazioni spaziali, per le guerre e tutte le cazzate che abbiamo in mente e diamoli veramente a chi ne ha bisogno.


quando la luna si sognava soltanto  di più
editoriale di emofiliaco

La prima volta che m'innamorai avevo 15 anni: lei si chiamava Eva (sempre saputo di aver davanti a me un destino "biblico"), era una mia compagna di scuola, capelli castani, lunghi e lisci, e due occhi color cenere.
Per lei scrissi:
"Sfiorami, oppure cambia il tuo cammino: traiettorie tracciamo noi, i tuoi occhi illuminano i miei pensieri".

Non trovai mai il coraggio di dichiararmi e farle leggere le mie parole...


La seconda volta che m'innamorai di anni ne avevo 18: lei si chiamava Màrida, alta e morbida, un futuro da psicologa (doveva finire male: io e l'esoterismo non siamo mai andati d'accordo), la conobbi tramite amicizie comuni.
Per lei scrissi:
"Cercandoti sono come il solito punto che, sulla solita retta, si muove in moto rettilineo ed uniforme: non so se riuscirò mai a raggiungerti".

La storia finì per autocombustione, dopo 4 anni, vissuti pericolosamente, ad allontanarci per poi cercarsi a vicenda...


Per la terza dovettero finire i '90 ed iniziare (abbondantemente) gli "zero". Di anni ne avevo 31 e mi imbattei in un avvocato (non era il mio: lui si limitò a presentarmi la collega) biondo (bionda...) di origini mitteleuropee (come me). Per Alessandra scrissi:
"Solo perché sei la mia dipendenza mi costringo a rivoluzionare le leggi che regolano il mio incedere nell'universo".

Durò poco meno di una stagione (tra un Fiorile ed un Pratile) e finì per mancanza di coraggio.


Attualmente sono innamorato (la quarta volta... dopo la terza pensai che non sarebbe più capitato), e per lei non ho scritto ancora nulla ma va tutto da Dio...

Trovate voi la morale...

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editoriale di carlo cimmino

L'allenatore della nazionale italiana di calcio è un duro. Somiglia a Paul Newman. Fuma il sigaro. Ha più conflitti di interessi di Berlusconi. La simpatia di Belpietro. Va in Sudafrica per la Confederations Cup e dichiara di non volerla vincere. Perché: "Chi vince la Confederations Cup, poi non vince il Mondiale". Ragionamento ineccepibile: nessuna squadra ha mai vinto le due competizioni di seguito. Ma nessuno lo ha spiegato ai brasiliani.
Il ventuno giugno a Pretoria la Seleção prende a pallate la nazionale italiana sotto gli occhi del pubblico pallonaro dell'intero pianeta. Finisce tre a zero. L'Italia, "in mutande" contro l'Egitto, è fuori dalla Confederations Cup. Un altro allenatore avrebbe rassegnato le dimissioni. Paul Newman no. Respinge ogni critica e, come è costume nel nostro paese, chiude la bocca ai giornalisti.
Per stampa e televisione la Confederations Cup diventa un trofeo da bar e Paul Newman viene assolto. Ma insorge il popolo di internet. Quello che fa tremare i poteri forti. Quello dei social network. Chiede un rinnovamento della squadra, la testa del tecnico.
Paul Newman però se ne frega dei social network e resta al suo posto.

I social network piacciono a tutti. Ma non servono a un cazzo. Sono un toccasana per le istituzioni, che difatti ci vogliono far credere il contrario e ne hanno fatto argomento e materia di esame. Il venticinque giugno il "tema di attualità" sui social network è stato scelto dal 30% dei partecipanti agli esami (povero Svevo). Dell'argomento, come di calcio del resto, tutti hanno qualcosa da dire.
Grazie ai social network sembriamo tutti migliori. Distanti, ma più belli e più buoni. Ed allora, in qualche modo, più vicini. Ad un anno dal Mondiale, il Sudafrica non è poi così lontano. E' questo che deve aver pensato Robert von Palace quando si è registrato su Facebook.

Costui ha sessantadue anni. A molti ricorderà il cattivo torturatore con la mano di legno di "Vamos a Matar Compañeros", ma Robert non ha alcuna parentela con Jack Palance. E' italiano, ma dal 1986 latitante in Sudafrica, dove si occupa di finanza e acque minerali. Il suo vero nome è Vito Roberto Palazzolo. Noto perché "Cassiere dei corleonesi" e per la frequentazione di simpatici personaggi che siedono nel nostro parlamento, è stato condannato a nove anni di carcere per associazione mafiosa. Ha amici potenti e molti soldi. Non basterà la Seleção per rispedirlo a casa..

Poveri sudafricani. Magari prima o poi gliene mandiamo giù uno buono. Forse.

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editoriale di kosmogabri

Quarta ed ultima parte
Lo troverai sui gradini fatti di papier maché
E dentro la gente fatta di melassa
Che un giorno sì l'altro no comprano un nuovo paio di occhiali da sole
E non è nei generali con cinquanta stellette e nei mentecatti fasulli
Che ti fregherebbero per un decimo d'un centesimo
Che respirano e ruttano e si piegano e si spezzano
E prima che tu possa contare fino a dieci
Lo rifaranno ancora ma questa volta dietro le tue spalle
Amico mio
Quelli che fanno dietrofront e trafficano e girano e roteano
E si imbrogliano l'un l'altro nel loro mondo giocattolo
E non puoi trovarlo neppure nei cretini senza talento
Che vanno in giro tronfi
E fissano tutte le regole per quelli che hanno talento
E non è in quelli che non hanno talento ma pensano di averlo
E credono di farti fesso
Quelli che saltano sull'autobus
Solo per un po' perché sanno che è di moda
Se la spassano e poi saltano giù in fretta
E si fanno i soldi e le donne in ogni maniera
E tu gridi fra te e te e butti per terra il cappello
Dicendo, "Cristo devo essere anch'io così
Non c'è nessuno qui che sa in che situazione sono
Non c'è nessuno qui che sa come mi sento
Buon Dio Onnipotente
QUESTA ROBA NON E' VERA"
No ma questo non è il tuo gioco, non è neppure la tua corsa
Non senti il tuo nome, non vedi il tuo viso
Devi guardare da qualche altra parte
E dove cerchi questa speranza che insegui
Dove cerchi questa lampada che arde
Dove cerchi questo pozzo che sprizza petrolio
Dove cerchi questa candela che luccica
Dove cerchi questa speranza che sai esistere
Laggiù da qualche parte
E i tuoi piedi possono percorrere solo due tipi di strade
I tuoi occhi possono guardare solo attraverso due tipi di finestre
Il tuo naso può annusare solo due tipi di corridoi
Puoi toccare e torcere
E girare due tipi di maniglie
Puoi andare o in una chiesa di tua scelta
O puoi andare al Brooklin State Hospital
Troverai Dio nella chiesa di tua scelta
Troverai Woody Guthnie al Brooklyn State Hospital
E anche se è solo la mia opinione
Che può essere giusta o sbagliata
Li troverai entrambi
Nel Gran Canyon
Al tramonto.

Da Bob Dylan - Folk, Canzoni e Poesie - a cura di Alessandro Roffeni
Newton Compton Editori

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editoriale di kosmogabri

Parte terza
Ti occorre qualcosa che ti apra gli occhi
Ti occorre qualcosa che faccia sapere
Che sei tu e nessun altro che possiede
Il posto su cui stai in piedi, lo spazio su cui siedi
Che il mondo non ti ha battuto
Che non ti ha messo a terra
Che non può farti impazzire per quante
Volte tu venga preso a calci
Ti occorre davvero qualcosa di speciale
Ti occorre qualcosa di speciale per darti speranza
Ma la speranza è solo una parola
Che forse hai detto o forse hai sentito
In qualche angolo ventoso dietro un'ampia curva
Ma è di questo che hai bisogno, amico, e ne hai un bisogno dannato
E il tuo guaio è che lo sai fin troppo bene
Perché guardi e ti vengono i brividi
Perché non lo puoi trovare su un biglietto da un dollaro
E non è sul davanzale della finestra di Macy
E non è sulle mappe stradali di ricchi ragazzi
E non è nei club studenteschi di grassi ragazzi
E non si fabbrica nei germi del grano di Hollywood
E non è su quel palcoscenico dalle luci fioche
Su cui sta quell'attore imbecille
Che farnetica e blatera e ti porta via i soldi
E tu pensi che è buffo
No non lo puoi trovare in nessun night club o yacht club
E non è nelle poltrone di un club esclusivo
E ti è pure dannatamente chiaro
Che per quanto strofini forte
Non lo troverai davvero sul tuo scontrino
No, e non è nelle chiacchiere che senti raccontare
E non è nelle lozioni per foruncoli che ti vendono
E non è in nessuna casa di cartone
O dentro la camicetta di una diva del cinema
E non puoi trovarlo sul campo da golf
E non può dartelo lo Zio Remo e neppure Babbo Natale
E non è nelle acconciature a bignè o nei vestiti sgargianti di cotone
E non nei manichini dei magazzini o nei brutti ceffi del bubblegum
E non è nei suoni caramellosi delle voci da torta al cioccolato
Che vengono a battere e bussare in confezione natalizia
Dicendo non son graziosa e non son carina e guardate la mia pelle
Guardate la mia pelle luccicare, guardate la mia pelle scintillare
Guardate la mia pelle ridere, guardate la mia pelle piangere
Quando non capisci neanche se hanno gli intestini
Questa gente così bellina coi loro nastri ed inchini
No né oggi né mai...

da Bob Dylan: Folk, Canzoni e Poesie
a cura di Alessandro Roffeni - Newton Compton Editori

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editoriale di kosmogabri

Parte seconda
E gli occhi ti si fanno acquosi dalle lacrime che hai nella testa
E i tuoi cuscini di piume diventano coperte di piombo
E la bocca del leone si apre e tu fissi i suoi denti
E le sue mascelle cominciano a chiudersi su di te
E tu sei bocconi sulla pancia con le mani legate dietro
E vorresti non aver mai seguito quell'ultimo segnale di deviazione
E dici fra te e te ma che cosa sto facendo
Su questa strada che sto percorrendo, su questo sentiero che sto imboccando
Su questa curva su cui sto sostando
Su questo percorso su cui passeggio, nello spazio che sto occupando
In quest'aria che sto inalando
Sono forse troppo confuso, sono forse troppo stordito
Perché cammino, dove corro
Che cosa dico, che cosa so
Su questa chitarra che suono, su questo banjo che strapazzo
Su questo mandolino che strimpello, nella canzone che canto
Nel motivo che fischietto, nelle parole che scrivo
Nelle parole che penso
In questo oceano di ore che continuamente bevo
Chi sto aiutando, che cosa sto rompendo
Che cosa sto dando, che cosa sto prendendo
Ma tu fai del tuo meglio con tutta l'anima
Per non pensare mai a queste cose e per non lasciare mai
Che questo genere di pensieri guadagni terreno
O ti faccia battere forte il cuore
Ma poi capisci di nuovo perché stanno lì
In attesa dell'opportunità di insinuarsi e piombare giù
Perché qualche volta li senti quando giunge furtiva la notte
E hai paura che ti possano cogliere nel sonno
E balzi giù dal letto lasciando l'ultimo capitolo dei tuoi sogni
E non ti ricordi per quanto ti sforzi a pensare
Se eri tu che gridavi nel sogno
E sai che è qualcosa di speciale che ti occorre
E sai che non c'è medicina che riuscirà a guarirti
Né liquore in tutto il paese che ti faccia smettere di sanguinare il cervello
E ti occorre qualcosa di speciale
Sì, hai bisogno davvero di qualcosa di speciale
Hai bisogno di un superrapido su di un binario ciclonico
Che ti proietti da qualche parte e ti riproietti indietro
Hai bisogno di un vento da tornado sul fischio di una locomotiva
Che squassa e stride e suona da sempre
Che conosce cento volte i tuoi guai
Ti occorre un Greyhound bus senza discriminazioni di razza
Che non riderà per il tuo aspetto
La tua voce o la tua faccia
E per quante scommesse siano state fatte
Continuerà a viaggiare anche dopo la moda del bubblegum
Ti serve qualcosa che apra nuove porte
Per mostrarti qualcosa che hai già visto prima
Ma a cui cento o più volte non hai badato...

da Bob Dylan: Folk, Canzoni e Poesie
a cura di Alessandro Roffeni - Newton Compton Editori

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