editoriale di turkish

Parte prima
Quando la testa ti si confonde e la mente ti si intorpidisce
Quando pensi di essere troppo vecchio, troppo giovane,
troppo furbo o troppo scemo
Quando resti indietro e perdi il passo
Avanzando al rallentatore o nella corsa affannata della vita
Qualsiasi cosa faccia se cominci ad arrenderti
Se il vino non arriva all'orlo della tua tazza
Se il vento ti coglie di fianco aggrappato con una mano
E l'altra comincia a scivolare e le emozioni sono sparite
Ed alla caldaia del tuo treno serve una nuova scintilla per attizzare il fuoco
Ed è facile trovare la legna ma sei troppo pigro per andarla a prendere
E il tuo marciapiede comincia a ondularsi e la strada si fa troppo lunga
E ti metti a camminare all'indietro anche se sai che è sbagliato
E la tristezza viene su mentre il giorno va giù
E il mattino di domani sembra così lontano
E senti che le redini del tuo pony ti scivolano
E la fune ti sfugge perché le mani ti sudano
E il tuo deserto inondato di sole e le tue valli lussureggianti
Si mutano in slums cadenti e in vicoli pieni d'immondizia
E il tuo cielo piange acqua e il tuo innaffiatoio perde
E il tempo balena e il tuono rimbomba
E le finestre tintinnano e si spezzano e le cime dei tetti ondeggiano
E il tuo intero mondo cozza e sbatte
E i tuoi minuti di sole si tramutano in ore di bufera
E qualche volta dici a te stesso
"Non avevo mai pensato che sarebbe stato così
Perché non me l'hanno detto il giorno che sono nato"
E ti vengono i brividi e i sudori ti fanno trasalire
E cerchi qualcosa che non hai ancora trovato
E sei fino al ginocchio in acqua torbida con le mani per aria
E tutto il mondo ti guarda come se sbirciasse dalla finestra
E la tua ragazza ti pianta e se ne scappa via
E il tuo cuore si sente male come il pesce quando frigge
Ed il martello ti cade di mano sui piedi
E ne hai un bisogno tremendo ma quello è giù in strada
E il tuo campanello trilla forte ma tu non lo senti suonare
E pensi di esserti fatto male alle orecchie
O di esserti offuscato gli occhi con lo sporco accecante
E ti sei immaginato di essere svenuto nella calca di ieri
Quando sei stato ingannato e fatto fesso con un bluff
Mentre tu avevi in mano tre donne
E ti rende furioso, ti fa venire rabbia
Come nel mezzo della rivista Life
Saltellando intorno a un flipper
E hai qualcosa in mente che vuoi dire
Che qualcuno in qualche posto dovrebbe sentire
Ma ti sta appiccicato alla lingua e sigillato in testa
E ti tormenta mentre te ne stai a letto
E per quanto ti sforzi non riesci proprio a dirlo
E hai paura fino in fondo all'anima di dimenticarlo...

da Bob Dylan: Folk, Canzoni e Poesie
(a cura di Alessandro Roffeni - Newton Compton Editori)

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editoriale di Cornell

Viareggio, è sera, si pensa alla giornata che verrà, un giro in spiaggia, sole, mare, relax, il rumore rilassante delle onde, chi dovrà svegliarsi per recarsi al lavoro avrà la fortuna di aprire gli occhi e vedere un bellissimo panorama che aiuterà non poco la pesante giornata, chi ormai non lavora più perchè ha già dato, sta pensando ad un giro nei mercatini, alla solita visita al bar con gli amici, routine…

Viareggio, è notte, un convoglio impazzito esce dai binari, deraglia, alcune carrozze si rovesciano, l’incidente è grave, ma si tratta di un treno merci per fortuna e le uniche due persone che sono su quel treno scendono in fretta, scappano a gambe levate… Ce la fanno per un soffio. Perché?
Perché il carico non è normale amministrazione, no… Il carico è qualcosa di estremamente pericoloso, bombe di 17 tonnellate viaggianti, cisterne colme di GPL, una si rompe, basta un niente e si scatena l’inferno, un’esplosione incenerisce in un istante decine di corpi addormentati, tranquilli, ancora fiduciosi nell’efficienza del sistema ferroviario e in coloro che lo gestiscono. “Pino, fanno la réclame pure dentro la televisione, che azienda seria questa dei Trenitalia, eh?”, convinti di essere al sicuro e che mai nulla del genere avrebbe sconvolto e annientato per sempre le loro vite.
Crollano palazzine, in pochi attimi le sirene si sentono da ogni parte, i morti sono ventidue, per il momento, mentre i feriti (molti gravissimi si contano a decine), vengono trasportati in fretta e furia nei vari ospedali per porre rimedio (forse) alle devastanti ustioni che li segneranno per tutta la vita; è quasi una situazione irreale, l’apocalisse dopo la calma piatta di una tranquilla notte in una località di mare.

Di chi è la colpa? Errore umano? Guasto tecnico? Avaria alle parti meccaniche? Chi deve pagare ora in questo mondo dove non ci sono più punti di riferimento, dove tutto viene smembrato, appaltato, subappaltato e dato in concessione a questo e quell’altro? Chi era il responsabile della manutenzione dei vagoni? Chi doveva occuparsi della manutenzione dei binari? Chi controllava partenze e arrivi e monitorava la situazione?
La realtà evidente è che ormai si è persa completamente la concezione di sicurezza sul lavoro, norma che diventa, o dovrebbe diventare, doppiamente o triplamente importante a livello di trasporti pubblici, quando si ha a che fare con la vita dei cittadini e che, quando il garante ne è lo Stato, che tanto urla e sbraita per farla rispettare, dovrebbe essere rispettata nei minimi particolari.

I soccorsi ci sono stati e sono stati prontissimi, ma ancora una volta mi e vi chiedo: si poteva evitare a priori una cosa del genere in qualche modo? Quel treno, data la pericolosità, non aveva percorsi alternativi? È stato revisionato accuratamente, visto che portava un carico di morte? Tante domande, ma nessuna risposta certa si avrà mai, come non si avranno mai i nomi di coloro che saranno chiamati a rispondere di un disastro di tale portata.
Tra un po’ calerà il silenzio su questa vicenda, come sta succedendo in Abruzzo, piano piano, senza fretta, se una cosa non passa più in televisione, come per magia scompare, non esiste, come sono scomparsi tutti gli atti e i procedimenti che vedono imputato il nostro premier, come la storia di Noemi, come i festini privé, come il fatto che nessun media nazionale (a parte qualche sporadico caso) abbia citato la protesta e le invettive rivolte a Berlusconi al suo arrivo a Viareggio.
L’immagine viene prima di tutto, a discapito di democrazia, libertà di opinione, di stampa e diritto inviolabile del cittadino di essere correttamente informato.

“Vado per prendere in mano IO la situazione!”, ha tuonato il presidente. Peccando un po’ di delirio di onnipotenza: presidente, chi deve prestare soccorso ha già fatto e sta facendo il proprio lavoro al meglio delle possibilità, lei, con tutto il rispetto, lì non serve a niente, avrebbe dovuto starsene a casa, sicuramente avrebbe fatto più bella figura…

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editoriale di emofiliaco

Devo ammettere che tra le cose che più mi mancano di quando ero vivo, tutte quelle che riguardano i rapporti umani non troverebbero spazio in una mia eventuale Top Ten.

Solo qui, in questo (non)Dove in cui sono stato spedito (alla mia “dipartita”), ho capito che basare un'intera esistenza sull'interazione tra membri della stessa specie e non è una vera perdita di tempo e che la vita è tutto sommato un fenomeno sopravvalutato (dove l'avrò già letta questa?): ma questo mi era chiaro pure da vivo, vedendo troppa gente gettar fango su artisti la cui unica colpa era esser ancora vivi…

Ma non voglio divagare: cose che mi mancano della vita terrena dicevo…
È buffo – e un po' drammatico – stilare mentalmente una classifica ed accorgersi che il 90% dei miei defunti pensieri non solo non va ad interazioni umane dirette o indirette (le varie forme artistiche), bensì a elementi ben più prosaici, che possono essere riassunti nell'espressione “cibo”.

Sì, signori (e signore): la cosa che mi manca di più, qui, è mangiare: così, disperatamente, provo a concentrarmi e cerco di ricordare il sapore del ragout di carne fatto da mia madre o dei tortellini fatti in casa, in brodo, di mia nonna. E poi, ancora, la mente si sforza di acciuffare al volo la sensazione delicata che il mio palato provava mentre il primo cucchiaio di zuppa di cipolle alla francese (con crostini al gruyère gratinato) veniva sorbito; ma sono sforzi inutili, perché pur ricordando benissimo la forma, è la sostanza che è completamente svanita nell'(assente) atmosfera.

Bistecca di angus, Parmigiana, Bouillabaisse, quindi, rimangono semplici istantanee descrittive di entità la cui sostanza è ben più volatile di qualsiasi carezza, insulto, bestemmia, idea io possa aver scambiato nel mio passato con voi viventi: cose, queste ultime, che non necessitano di nessuno sforzo evocativo per esser riportate “in vita” perché son venute via con me quando mancai e non se ne son più volute andar via…

Quindi ricordate: né fiori, né opere di bene (un po' di voi è ancora qui con noi) ma fate il soffritto con cura, voi che potete…

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editoriale di Hybris

Muore Maicol Gecson. E tutti gli editoriali, in questi casi, cominciano con cose tipo: "Quando Michael Jackson cantava "Beat It", io ero nella cantina di Tommaso de Mita, dodici anni entrambi, e imitavano le sue movenze mentre tentavamo di fumare le prime sigarette rubate ai nostri genitori". Solo che a dodici anni non avevo un amico che si chiamava Tommaso de Mita; non imitavo le movenze di Michael Jackson, e non tentavo di fumare le mie prime sigarette (che non ci sono mai state, grazie a Michael Jackson). Io sono di una generazione particolare ('89), quelli che un po' sono generazione myspace, un po' generazione facebook, un po' anni '90, un po' nuovo millennio, un po' rivoluzionari e un po' apatici, un po' tutto. E molti dei miti di quegli anni li abbiamo vissuti in differita - in revival.

Sono stato abbastanza sveglio per beccare Jurassic Park alla prima al cinema - wow. Un dinosauro, assolutamente (foto)realistico, mangia della gente. Ritorno al Futuro l'ho vissuto in differita, quando avevo tredici anni. Idem gli Acchiappafantasmi. E poi i fenomeni musicali: il grunge (differita), il nu-metal (differita), post-rock (quasi differita), post-metal (in diretta), avantgarde quasiminimalism macumba (in diretta). E con questi fenomeni in differita hai una differenza: la scelta. Puoi ignorarli, evitarli, anzichè solo seguirli e amarli o ripudiarli e opporticisi. Così diventa più comodo, così non ho dovuto trovare fighi nove tizi vestiti con maschere rubate a Tim Burton, ma ho potuto scegliere di farmi le iniezioni in endovena di "Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven".

Ma non ho potuto certo scegliere di non sapere chi fosse Michael Jackson. Non ho potuto evitare di sentirne parlare, di vedere i vecchi video, le parodie, le cover nu-metal, la storia della pedofilia, la storia della chirurgia plastica. Un po' amato, un po' odiato, un po' capito, un po' ignorato. In fondo un po' tutto. E di sottofondo la stessa domanda: questo affidare la nostra coscienza collettiva ad individui che, in fondo, hanno mostrato solo un buon colpo d'anca e dei brani da cui è impossibile non farsi rapire: anche se sei un estimatore del freenoisesalsa neozelandese, il video di "Beat It" una volta l'hai visto, magari a dodici anni imitandolo, o magari a vent'anni, ripensando a quando eri troppo piccolo per certe cose: ripensando.
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editoriale di azzo

Recenti ed approfonditi studi in materia ci portano a teorizzare l’esistenza di una patologia psichiatrica diffusa ormai da oltre un trentennio, particolarmente insidiosa in quanto colpisce quasi esclusivamente giovani preadolescenti, spesso ancora impuberi, e perciò particolarmente esposti agli effetti nefasti della malattia. Chiameremo questa patologia MrCI (Malorockemia Cronico-Invasiva).
I dati raccolti mostrano che il male colpisce la maggioranza dei giovani e si manifesta con evidenti e bizzarri sintomi, i quali tuttavia, nella quasi totalità dei casi, regrediscono e scompaiono spontaneamente dopo un periodo che va da sei mesi ad alcuni anni.
In rari e nefasti casi, la malattia però cronicizza, ed il male non abbandona più lo sfortunato soggetto. L’epidemia più virulenta, che tuttora dispiega i suoi effetti, si è verificata in Italia nella seconda metà degli anni ’70.
Tali casi sono di difficilissima diagnosi in quanto l’agente infettante (il Malorock, appunto) esaurita la fase conclamata, vive in perfetta simbiosi con l’ospite al punto tale da non produrre più alcun sintomo apprezzabile, se non ad un occhio esperto.

Nella patogenesi del MrCI, la letteratura ha individuato alcuni agenti eziologici conclamati, fra cui possiamo citare: una remota trasmissione televisiva dal nome di un cinema a luci rosse, “Odeon - 1977/78”; le infezioni propagate sotto l’aspetto di servizi e articoli  da un famoso untore baffuto individuato in tale Michel Pergolani - 1976/79; situazioni di promiscuità ad alto rischio che favoriscono l’infezione, fra cui si ricordano gli eventi conosciuti come “Bologna rock - 1979” e “Clash in piazza Maggiore - 1980”; influenza di soggetti infetti provenienti da aree dove l’inquinamento ha prodotto verosimilmente mutazioni genetiche, fra cui si ricordano particolarmente le zone di Detroit (Michigan, USA), Akron e Cleveland (Ohio, USA), New York (omon., USA) e, in Europa, Dusseldorf (Germania), Londra, Sheffield, Manchester (Regno Unito). Sono inoltre stati rinvenuti pericolosissimi focolai anche in Italia, principalmente a Bologna e Pordenone.

Caratteristica del paziente affetto da Malorock, è avere perfetta cognizione della malattia (a differenza di altre pericolose alterazioni psichiatriche), ma di sviluppare una sorta di “sindrome di Stoccolma” per l’affezione, che lo porta a rifiutare le cure e anzi, a tentare il contagio del morbo proprio ai soggetti ove più bassa è l’immunizzazione. A titolo esemplificativo, citiamo il caso di uno stimato professionista (di cui citeremo solo le iniziali, Vr. Tx.) il quale deliberatamente tentava la contaminazione della figlioletta mediante contatto ripetuto con un pericoloso patogeno opportunista, conosciuto sotto il nome di “S.E.H.” (Safe European Home).

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editoriale di kosmogabri

Razors pain you
Rivers are damp
Acids stain you
And drugs cause cramp.
Guns aren't lawful
Nooses give
Gas smells awful
You might as well live.

I rasoi ti creano dolore
I fiumi sono umidi
Gli acidi ti macchiano
Ed i narcotici causano crampi.
Le pistole non sono legali
I cappi cedono
Il gas ha un odore orribile
Tanto vale vivere.

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editoriale di emofiliaco

Nel corso della mia umana avventura, prima di morire, qualche anno fa, ebbi modo d'incontrare buoni e, soprattutto, cattivi maestri.

Gli anni '90 furono una decade ricca di avventure sociologiche al riguardo: la gente stava male perchè faceva fico stare male e non di rado ci si imbatteva in falsi profeti, in buona fede, oppure in veri profeti, in cattiva fede. C'erano pure, anche allora, gli arrabbiati: d'altronde sono una categoria senza possibilità d'estinzione, perchè hanno capito che sopravvivere è qualcosa di aleatorio, e cosa c'è di più casuale del motto: "L'importante è essere incazzato: se poi si sa perchè, è anche meglio"?

Questa frittura mista, tra il "male di vivere" novantino e "l'incazzosità" del vero duro e puro, portò ad apici espressivi che ancora adesso, anche se sono nell'Aldila', ricordo con piacevole nostalgia: inutile dire che, più certe rivelazioni venivano inaspettate, più rimanevano scolpite nella mia memoria.

La più vivida ed illuminante di tutte, in particolare, avvenne in un'occasione insolita. Ricordo, come fosse ieri, quella trasferta a Monza: noi, in 100 stipati in uno spicchio del palazzetto che poteva contenere al massimo 20 persone, esclusi i celerini che dolcemente ci tenevano d'occhio, carta da culo che ci pioveva addosso da tutte le parti ed epiteti che erano appena, appena aggressivi...ma appena, appena eh!

Poi la folgorazione. Sulla tribuna opposta uno striscione: "Mangio merda tutto l'anno, ma a Natale panettone". Improvvisamente compresi che anche chi ci copriva d'insulti era umano, soffriva e mangiava cacca come noi. Gli anni son passati, di quella decade nemmeno le camicie di flanella son rimaste, io nel frattempo sono morto, ma anche ora da quassù, quando vedo qualche intemperanza, non posso non pensare allo sconosciuto, coprofago, "nemico" lombardo, che scrivendo quelle semplici 39 lettere, esclusi apostrofi e spazi, divenne mio, inconsapevole, buon maestro, in cattiva fede... Quindi ricordate: tenete sempre gli occhi aperti e non solo per evitare le sprangate.


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editoriale di azzo

Sui quotidiani fa capolino la notizia che un manager e un imprenditore si sono suicidati a causa della crisi economica che gli imponeva (imponeva?) tagli al personale e conseguenti licenziamenti.
Commenti unanimi su tutti i giornali (è comparso persino un editoriale di Bifo), relativi alla spietatezza di questa crisi e lodi sperticate al senso umano e di solidarietà di questi due dirigenti, travolti dal senso di responsabilità.

Cerchiamo, se possibile, di non considerare la dolorosa vicenda umana e concentriamoci sui meccanismi in ballo.
La cosiddetta “spietata crisi” di spietato non ha proprio nulla. E' solo una delle naturali conseguenze di un sistema socio economico ampiamente accettato (anche dal sottoscritto).
Di più: Per il principio di responsabilità, se si approvano le premesse di una proposizione, si devono accettare poi anche le conseguenze.

In sostanza, questi imprenditori, questi apostoli del libero mercato, questi profeti della crescita continua, non le conoscevano le regole della concorrenza? Non sapevano forse come vanno gestite le “risorse umane”? Non ricordavano che il concetto di “Risk Management” postmoderno è di tipo finanziario e non più assicurativo o operativo?
No, non ci siamo. Mi dispiace (ma solo un po') per le eventuali vedove.

Ma ce n’è per tutti.

Poche settimane orsono, a seguito dell’annuncio di chiusura di una grossa azienda, ho avuto la sorpresa di imbattermi in un picchetto ai cancelli di ingresso, con tanto di bandieroni variopinti (!!!), di gazebo permanente e tazebao propagandistico.
Ma non erano proprio le stesse persone comuni che, intervistate in proposito, esprimevano una vibrante indignazione per i disagi che dovevano subire a causa degli scioperi dei ferrotranvieri? Non erano proprio loro a proferire terribili anatemi quando l’automobile appena acquistata non poteva essere consegnata a causa di una vertenza sindacale dura, che gurdacaso interessava proprio lo stabilimento di produzione della loro adorata vetturetta? Non erano proprio quegli stessi operai, ora barricati davanti ai cancelli, a fare facce schifate davanti all’occhio catodico che gli mostrava le violenze di quei facinorosi dall’altra parte del mondo che protestavano non si sa perché?
Anche in questo caso, mi dispiace (ma solo un po') per gli eventuali figli piccoli.

Abbiamo barattato lo status di cittadino per quello di consumatore, abbiamo scelto il migliore dei mondi possibili. Personalmente non mi lamento.
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editoriale di odradek

Bettina è caparbia. Nel senso che non le basta una sconfitta, va incontro alla prossima armata delle proprie convinzioni e di una variazione della strategia, perché le sue convinzioni meritano d’essere sperimentate, meritano d’essere difese.
E da molti anni lo fa con una serenità che non le conoscevo, con una caparbietà che non sfocia mai nell’isteria della cocciutaggine, ma si rigenera con una calma a volte incomprensibile, per me. Perché da molti anni, ormai,  Bettina è buddista.

Vive in un paese della Lucania, fa l’insegnante. E fa un sacco di altre cose, incapace com’è di accantonare, nonostante tutti i casini, le proprie passioni: il teatro, la poesia, l’impegno civile.
E’ così caparbia che s’è convinta del fatto che se la pratica buddista è stata per lei tanto efficace poteva essere accolta e compresa anche dalle donne della sua terra, da casalinghe e contadine che conosce da sempre. E’ così che, un poco alla volta, nella casa di uno o dell’altro di questi amici buddisti, durante le riunioni di preghiera, insieme a giovani e intellettuali della zona cominciarono a fare la loro comparsa anche loro, le contadine e le casalinghe, adeguandosi al quieto spirito della preghiera.
E soprattutto sciogliendosi con naturalezza nel flusso ammaliante della recitazione del “Nam myōhō renge kyō”, l’antica invocazione che viene ripetuta divenendo un flusso sonoro (in fondo non dissimile a quello d’un rosario) nel quale le parole perdono i confini snodandosi sinuose come puro suono, reiterazione ipnotica.
Nella stanza affollata la marea costante delle voci andava ripetendo le misteriose parole d’una lingua sconosciuta, la loro poesia di suono e fiato, sciabordìo d’onde sonore.  Bettina era stupita dalla rapidità con la quale le anziane signore erano entrate nel mood di quelle riunioni di preghiera e dalla devozione che parevano manifestare, ripetendo il “Nam myōhō renge kyō”. Ma…
Ma c’era qualche variazione, un suono diverso, nella loro preghiera. Certo, la dizione giapponese delle anziane signore non poteva dirsi perfetta…
Si avvicinò quindi ad una di loro e scoprì che, nella concentrata devozione della contadina lucana, la complicata invocazione giapponese era divenuta altro, anche se nella marea di voci le differenze non si potevano cogliere: solo avvicinandoti riuscivi ad isolarle scoprendo una prodigiosa metamorfosi.
Sulle labbra della contadina il suono delle parole giapponesi aveva assunto i contorni d’altre parole, a lei più familiari. Ripeteva, come rapita dalla magia stessa del proprio recitare, la frase: " 'nta lu core s’incagliò, 'nta lu core s’incagliò, 'nta lu core s’incagliò…".

Cosa sia ad essersi incagliato, quale mare tempestoso l’abbia sospinto sin  negli anfratti d’un cuore, che natura possieda, questa cosa che incagliandosi prende posto in noi e diviene fonte di quiete, rassicurante presenza da invocare, per Bettina e per me, resta un mistero.
Ma mi sorprendo ancora, a distanza di anni, in un sorriso, quando penso all’invocazione più poetica che abbia mai sentito. E sento che qualcosa che non ha nome, chissà quando e come, anche nel mio cuore s’incagliò.

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editoriale di azzo

La prima cosa che Aurore vide uscendo dalla stazione fu la statua di Garibaldi. Aurore è una slanciata ragazza francese che solca il mondo in ballerine rosse. Ha il viso sempre corrucciato e la si nota certamente non solo per le scarpe. Il primo giorno le rubarono le valigie; il secondo giorno, appena aperte le finestre, le rubarono il cuore. Da quel giorno sono passati due anni, ha deciso di restare: non vale la pena di vivere pensando sempre a qualcosa che non puoi avere o non puoi vedere.

Sta cambiando Aurore. I francesi hanno sempre quell'aria severa, di persone non disposte a farla passare liscia al primo stronzo giunto per caso da chi sa dove. A volte cammina per Spaccanapoli guardando tutto in mondo distante, alieno. Altre volte attacca a parlare in un napoletano così stretto che a me sfugge tutto via. Aurore deve decidersi.

Prendiamo la nostra piccola margherita piegata in quattro, avvolta in quella carta che tra qualche istante diventerà trasparente. Mi dice: "Ma come è possibile che nessuno gli dice niente? ...è un massone, un corruttore... e non ve ne frega un cazzo. E' un massone! ...come potete permettere una cosa del genere?"

Ci incamminiamo, la prima statua è quella enorme di Mazzini. Poi a destra c'è quella di Cavour, a sinistra quella di Garibaldi. Massoni e niente più, come le tartarughe ninja covavano nell'ombra. Mangiamo la nostra pizza all'aperto, all'ombra, in mezzo a queste verdi statue che sanno di decadenza, in questo caldo che sembra una maledizione.

"Aurore, Garibaldi scappò dall'Italia e si diede alla pirateria. Assaltava tutte le navi che incontrava lungo il corso del Rio Grande. Entrò in Sicilia in silenzio e cominciò a corrompere tutti con i soldi degli inglesi, ad ottenere il consenso con la forza dei briganti. Aurore, leggi quello che ne pensava il futuro Re d'Italia di Garibaldi... Ti divertirai. Aurore, ma tu immagini cos'era Napoli prima di Garibaldi? Qui c'è gente che ha visto il mondo senza mai uscire dal proprio vicolo. Eravamo... lascia perdere, Aurore."

Lascio perdere, lei lascia perdere. Mi guardo la pizza tra le mani e a quella penso. Aurore prende la bottiglietta d'acqua, svita il tappo e prima di avvicinarla alla bocca le scappa una risata leggera, di quelle ambigue e intrattenibili perchè sincere. Mi fermo mentre avvicino la pizza alla bocca. Le dico: "Fammi capire Aurore: ridi da francese pensando ai Borboni; agli inglesi sempre a confabulare... o ridi da napoletana, immaginando la statua di Berlusconi?"
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editoriale di azzo

Ma adesso, dimmi te, se io, per un venerdì che non sono a girare balordo le piole, me ne torno a casa presto, e non mi imbatto in una delle sue balle. E guarda se non devo ficcarmi in qualche sito a vedere cosa succede in giro nel mondo, invece di stare ad ascoltare un dischetto ed andare a dormire. Ma non sono capace, no, e mi girano pure, come fossi un francese che guarda passare Bartali.

L'anno scorso, prima delle elezioni, comprò Ronaldinho. Quest'anno vende Kakà. Ma ieri diceva che non si sarebbe deciso nulla fino a lunedì (ad urne chiuse, non si sa mai). Oggi siamo ad un: "Vediamo domenica". Ma l'hai finita di cercare di pigliarci per il culo? L'hai già venduto ed ancora neghi? Oh, bello, io son solo contento che dai via uno dei migliori giocatori al mondo, così non vincete nulla per qualche altro anno, ma per una volta nella vita, puoi dirci come stanno realmente le cose? A me non importa nulla di quel che racconti. Se hai una vita sessuale degna di un riccio o meno. Chi ti scarrozzi in giro sugli aerei di Stato. Se hai le extensions oppure no. Solo, hai presente la differenza tra verità e menzogna?

Volevo farVi una compilation, un mix-tape. Impossibile. Avrei dovuto scrivere un editoriale in diciotto puntate. Ho messo il suo nome, associato a bugie, in ricerca su Google. Sapete quanti risultati mi propina? Seicentoventiquattromila. Più di Mordecai Richler e Bèla Tarr messi assieme. Per fortuna, un decimo di quelli dedicati a Jim Carroll.

E sono ridotto che mi faccio un po' schifo anch'io. Ancora a parlare di lui. Come se la vita non mi riservasse di meglio. Come se fosse importante. Come se domani non vedessi il sorriso di lei. Come se non potessi oscillare a 180 bpm ed essere felice. Mangiare pesce e bere Lugana. Stappare champagne ascoltando il nuovo The Field.

Se una risata lo seppellisse...

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editoriale di Hybris

Ieri notte mi sono arruolato nelle truppe aeree di autodifesa. Siamo partiti con la prima luce del mattino, l'asfalto dell'aerodromo era ancora fresco dopo la nottata, anche se io in realtà già durante la notte ero partito (colpa dell'addestramento, s'intende), così stavo già volando mentre salivo sull'aereo, e ancora volo. Questi aerei con motori scoppiettanti. Ci hanno portato ai controlli delle mitragliatrici, delle armi, dei radar e delle bombe. Tutto molto preciso. Non si sapeva dove si stava andando o cosa si stava facendo, ma almeno lo si faceva con ottima precisione. In quel momento avevamo tutti lo stesso suono in testa: il CLAC del puzzle che combacia perfettamente con tutto il resto. Facevamo tutti grandiosamente CLAC, e sorridevamo piano nella pacata luce delle cinque e mezza, alcuni ancora mezzi intontiti. Sotto di noi volava tutto: le elezioni, gli scandali, le rivoluzioni, gli scioperi, le proteste, le azioni, tutto. Le crisi, le famiglie, le banche, i casi finanziari. Noi andavamo più in alto, designando obiettivi strategici sul territorio, radendo al suolo posti che dall'alto sembravano fatti di pongo. Niente di reale, tutto molto distante, tutto molto ubriaco. La gente era là sopra e sparava. Nuvole come polvere da sparo. E noi sparavamo. Io non ero addetto alle mitragliatrici perchè mi ero dimostrato particolarmente degno durante l'allenamento la notte prima (circa 4 litri di allenamento), così quando fu il momento fui io a dire alla bomba: "Ciao, tesoro, ci becchiamo dopo" e CLAC, la buttai giù. Non avevo la minima idea nemmeno dello stato in cui ci trovavamo, anche se avevo un'idea piuttosto precisa del MIO stato, e non era proprio uno stato da CLAC. Ma lo feci lo stesso. Perchè il pongo m'è sempre stato sul cazzo. E così quando sono tornato a casa dopo tre ore e il mio coinquilino mi fa: "Beh, che hai fatto?", io gli ho solo risposto: clac. Volavo ancora sopra a tutto. Uno stormo di rondini, bruciate dal calore atomico. A comporre la faccia del nostro premier. CLAC. E io volavo ancora sopra a tutto, e chissà quand'è che noi bombaroli ci decideremo a scendere giù...

 

 

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editoriale di emofiliaco

Vorrei confidarvi un segreto:

Io Internet la pago: si, insomma, ho il mio bel contratto con un server che per il servizio, ogni due mesi, mi manda un bollettino di circa 80 euri.
Su Internet ci faccio tante belle cose: tengo 1 blog, interagisco con voi su DeBaser, ho i miei cari account su 6 Social Network (et similia) e frequento, con una certa assiduità, i siti di almeno 5 Quotidiani (2 italiani, 1 spagnolo, 1 inglese ed 1 americano) online...più, magari, altre amenità che ora non mi vengono in mente.

Tutto questo, anche se posso averne la sensazione, non è affatto "agggratttiss" ma mi costa una cifra ben precisa.

Qualche settimana fa, ho beccato l'amico Murdoch ad affermare che entro un anno tutti i siti dei suoi giornali (ed ad occhio e croce sono tanti) saranno a pagamento perché "Siamo nel bel mezzo di un dibattito epocale  sul valore dei con­tenuti ed è palese che il model­lo attuale non funzioni bene per molti giornali. Noi siamo stati all’avanguardia di questa discussione e siamo fiduciosi di poter trovare un nuovo mo­dello. I giorni attuali dell’Inter­net finiranno presto".

Ora io sono sicuro che il mio amico (come del resto tutti i tycoon, come Silvietto nostro, del mondo), oltre che avere probabili partecipazioni in grosse fette dei Server di tutto il globo, è a conoscenza che: A) Internet già di per se non è gratuita B) i grossi introiti di qualsiasi sito derivano dalle inserzioni pubblicitarie.

Se non fossi sicuro che sia solo avidità (e che la crisi globale dell'editoria cartacea sta provocando grossi stati di anossia cerebrale) il mio essere perfido mi farebbe pensare che l'amico australiano voglia far pagare, ora, un servizio preciso per poi magari avere la scusa di spostare il tiro più in la e chissà dove...

In attesa di questa, annunciata ed ennesima, rivoluzione del web, attendo con impazienza che la stampa ritorni ai caratteri mobili di Gutenberg(h)iana memoria: così, tanto per abituarci a certi passi in avanti.

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editoriale di Targetski

Casa mia, riflettevo oggi guardando fuori dalla finestra, è circondata dalle case di quattro vedove: due verso nord, una a est, una a sud. Soltanto il lato ovest è libero da vedove, dando sul giardino di un’abbinata in cui abitano due giovani coppie con figli: è il lato che mi piace meno.

Le quattro case vedovili sono molto grandi e sono tutte sviluppate su due piani. Quella che volge verso sud la frequentai molto spesso da bimbo: la ricordo come una casa eccentrica, dall’aria tardo-ottocentesca, con grandi specchi appesi alle pareti e la moquette a coprire i pavimenti nelle stanze buie del piano terra. La vecchia abitava soltanto il piano superiore, già a quel tempo: giù rimaneva soltanto un odore stantio, di legno e di castagne, che impregnava come un veleno tutti gli oggetti, immersi in una coltre nera e marrone. Nei giorni successivi alla mia prima comunione ebbi modo di entrare anche nella casa della vedova che guarda a est, per portare a lei e a suo marito, allora ancora in vita, la bomboniera: un coniglio di porcellana porta-cotone. Vidi soltanto la cucina, che era una stanza piccola e scialba, con piastrelle sui muri, un tavolo rotondo e una credenza dall’aspetto economico. La casa, enorme, deve avere almeno altre dieci stanze, le cui tapparelle ormai sono sempre chiuse: l’odore di quelle stanze deve essere l’odore del mondo vent’anni fa – quando per l’ultima volta la signora e il signor Galiazzo si sentirono parte integrante delle cose.

Oggi le quattro vedove sopravvivono all’interno di sistemi troppo grandi, su cui non calzano più i loro fianchi emaciati dalle malattie: nelle stanze chiuse si accumula polvere invano, e le cellule vitali che le vedove si sono ritagliate dentro le proprie case si riempiono di bollette e medicine, di guide ai programmi tivù, scialli e coperte. Di tutte le fredde cose che dureranno più di loro.

Il momento più brutto delle mie giornate è quando guardo fuori dalla finestra e vedo loro che mi vedono guardando fuori dalla finestra. Nei loro occhi leggo l’assurdo senso di colpa per la propria casa troppo grande, ma leggo anche un livoroso compatimento verso l’intera umanità. Mi guardano, e pensano che abitiamo tutti in posti troppo grandi, su cui ritagliamo cellule vitali che rappresentano solo il peggio di noi. E poi riaccostano la tenda, con un sorriso di catrame. di più

editoriale di azzo

Va tutto bene. Va tutto bene, ma come, questa è la legalità ma la legalità civica diventa anche l’ordine naturale, e qualunque persona di buon senso, che poi non è altro che uno che condivide usi e costumi come donne e buoi dei paesi tuoi dicevano i vecchi, vedi che poi non è cambiato un granché? - dicevamo? Ah, si, dicevamo che chiunque vede, anzi sente, sente dentro, lo sai che vedere e sentire e percepire sono adesso sinonimi, lo sai vero? Chiunque dunque sente che questo è il cuore pulsante e produttivo e quindi con che diritto qualcuno come te si permette di irridere alla legalità e pretende di trovare un’altra possibilità, ma come, qui è tutto collegato causa effetto, si, causa effetto, come un orologio, tic tac ho detto non tic toc come dici tu, abbiamo stabilito che si fa tic tac.
Ma forse che non esiste la morale e la natura e forse che non devono andare a braccetto altro che, come dici tu, se ne strafottono una dell’altra, altrimenti la persona umana dove la metti la persona umana che è l’anello di congiunzione fra morale e natura, su questo saremo d’accordo che la persona è al centro di tutto no? Ma neanche su questo, che ancora insisti con quella stupida distinzione fra le persone e il loro ruolo, ma cosa sono le persone senza il loro posto ordinato, sono solo gambe e braccia e interiora e umori, e infatti quando le persone non hanno il loro posto in fila cominciano ad agitare gambe e braccia e versano umori e muovono interiora, vuoi forse il caos primordiale? E anche quell’altra obiezione com’era? Che tu dici che i ruoli riducono la vita a teatro che la vita non è un teatrino e il ruolo me lo metto e me lo tolgo si, me lo hai già detto, cambia musica che se fosse come dici tu allora non dovrebbero essere sensibili al copione mentre invece sensibili al copione lo sono eccome, e non darmi del reazionario che non c’entra, non vedi forse che opulenza e libertà sono diventati sinonimi e allora cosa vai cianciando di libera scelta, che la scelta non la vuole nessuno, che se così fosse allora dovrebbero esserci i muri vuoti e le televisioni spente e invece se non glielo diciamo noi quello che devono scegliere si sentono persi come i cani senza branco e senza capo e almeno i cani assorbono i valori sociali a suon di morsi e randellate e non spontaneamente come te e me. Anzi sai che ti dico che qui io e te sembra sembra che sosteniamo tesi differenti, in realtà la nostra individualità è regredita nel branco sociale e parliamo parliamo ma come in teatro recitiamo la parte, vedi che è così, la persona è il suo ruolo, e quindi se vogliamo capire la motivazione che ci spinge in questa contesa l’unica motivazione è la motivazione all’acquisto e l’obbligo associativo, questa è cultura caro mio, non le tue parole vuote di significato, perché così è facile, e sei anche disonesto perché una volta trovata la chiave della saggezza quelli come te smettono di pensare, cosa c’è di più facile, le cose belle sono belle e cosa c’è di più bello di amare l’amore e odiare l’odio, si, bravo, ma la merda chi la spala, si la merda, quella chi la spala, chi lo fa il lavoro sporco e lo sai che non si può fare un po’ per uno e allora lo faccio io che tu la chiami becera affabulazione e sofismi gesuitici ma credi che sia facile stare dietro a voi anime belle che sfarfallate a destra e a manca e poi appena potete cambiate la macchina con una che inquina meno e dite che è una cosa fatta bene, come cosa c’entra, c’entra eccome e se non capisci nemmeno questa smetto di parlare.

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editoriale di odradek

Viviamo in tempi difficili, a parte la crisi, lo sanno tutti che son tempi difficili. Mi stupisco sempre quando mi accorgo che nonostante i tempi difficili, spesso molto difficili, la poesia trova il modo di manifestarsi. Mi commuovo, quasi.

Quando vinci un Premio di quelli che c’è anche l’Alto Patrocinio della Presidenza della Repubblica, che devi andarlo a ritirare proprio nella Capitale, con il Presidente e tutto, ti trattano abbastanza bene, bene direi, tipo che hai la tua bella stanza in un albergo in centro e quando scendi c’è l’automobile sotto con l’autista. Ed è li sotto per te, a tua disposizione che magari hai bisogno di fare dei giri o anche solo provare com’è, che anche se sei un regista premiato mica è detto che l’hai già fatti, dei giri con l’autista.

Così c’è questo autista di automobile a noleggio con autista che è un signor autista, uno che fa anche piacere ascoltare quello che dice, che ne ha portati tanti in giro. Dice che l’unico che non vuole più portare è Scamarcio, che lui l’ha proprio detto alla produzione, non ha voluto neanche i soldi per quella volta che l’ha portato, che poi la produzione glieli ha voluti dare lo stesso i soldi, hanno detto che è così con tutti Scamarcio e di scusarli, che non lo mandavano più da Scamarcio.
Dice l’autista “quel burino, non si può permettere de comportarsi così con me, con me che l’ho portati tutti e mai nessuno s’è comportato così, con me che s’ò l’unico a Roma a stà da solo in machina co’ Nicol Chiddman".

Allora se sei il regista premiato seduto dietro, glielo chiedi: e come mai da solo con la Kidman? E lui ti dice che siccome che er bodi gard stava male e siccome che lui ha fatto arti marziali, ha fatto da autista e anche da bodi gard, alla Chiddman.
E com’è la Kidman gli chiedi un po’perché sei curioso e un po’ perché la domanda lui se l’aspetta , e lui subito ti dice ‘na vera signora, gentile, semplice, io poi so’ uno che le donne je piace guardarle in faccia, un filo de trucco, ‘na bambola.

Poi dice quella cosa che tu non la dimenticherai e quando tornerai da Roma la racconterai anche a me e io poi la scriverò qui e ci sembrerà bellissima e la useremo sempre, pensiamo, per parlare di una donna che ci piace tanto, e che prima non sapevamo come dirlo, sempre le stesse frasi, niente che dicesse davvero la poesia di quando una donna ti piace così tanto.
Dice: ‘na bambola, je staccherei la testa e la metterebbi sul commodino.

P.S. A quel Premio così importante, che l’evento e le riprese televisive e il Quirinale gli alberghi le cene e tutto il resto costerà ‘na cifra, a quel Premio io pensavo che si, e anche il regista premiato pensava che si e poi l’ha scoperto sul posto che invece no, il premio in denaro non c’è. Manco un euro.
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editoriale di staff

Cari utenti di DeBaser,

0) ci sono nuove(?) regole sul banning

1) sono stati bannati alcuni nick che avevano stufato

2) questo sito è di tutti, ma non di nessuno, si fa quello che si vuole fino ad un certo punto: vi piacerebbe che un dinosauro venisse a cagare nel Vostro cortile tutti i giorni?

3) gli editors ed i banners sono entità distinte: inutile indagare, inutile leccare culi

3a) gli editors decidono cosa pubblicare

3b) i banners decidono chi bannare in base al comportamento generale

4) per contestazioni scrivere a claaudio@debaser.it che è la mail di banners

5) nel banning si tiene conto dell'anzianità e del ranking delle persone

P.s.: E' un po' che lo diciamo, ma molti se ne fottono, si può andare a giocare in un sacco di posti, nel Nostro giardino del suono, un po' ci siamo rotti il cazzo. di più

editoriale di sfascia carrozze

Occorre compiere fino in fondo il proprio dovere, qualunque sia il sacrificio da sopportare, costi quel che costi, perché è in ciò che sta l'essenza della dignità umana. Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.

Giovanni Falcone

Sono passati 17 anni dalla strage di Capaci. Mi chiedo, se avesse modo di vedere in quali condizioni sono ridotte e di quali personaggi sono composte oggi le istituzioni dello Stato Italiano, se pronuncerebbe le stesse parole. Forse si. Forse.

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editoriale di c'è

A Torino non c'è niente da vedere. Torino è la FIAT, e la FIAT è Mirafiori. Il nostro monumento al capitalismo è un muro di 14 chilometri che separa la fabbrica da tutto il resto. Soltanto fisicamente però, perché Mirafiori è molto più che un quartiere operaio. Mirafiori stesso è una fabbrica. Di giorno un parcheggio, di notte un dormitorio.

Mirafiori è un quartiere relativamente giovane, eppure tutto cade a pezzi. Il 90% degli edifici non ha visto la guerra ma è come se lo avesse fatto. Tra i muri fatiscenti delle case popolari soltanto una cosa è nuova di zecca, l'insegna del PD. Di tanto in tanto facce note escono da quella sede e promettono agli operai, ma la gente di questo quartiere sa che non bisogna fidarsi di nessuno. Che io ricordi, il silenzio surreale che circonda Mirafiori è stato spezzato soltanto da sirene di volanti, ambulanze e, raramente, dal boato di un proiettile.

Quando Elvis mostrava in televisione quello che aveva imparato dai neri, il mio palazzo e come lui quelli a fianco non esistevano ancora. Al loro posto soltanto fiori, campi, e tante mucche che vi pascolavano. Quando Elvis mostrava in televisione quello che aveva visto fare ai neri, da Mirafiori, di giorno si vedevano le montagne, e di notte le stelle. Niente parallelepipedi di cemento a disegnare l'orizzonte, niente monossido di carbonio tra un respiro e l'altro. Eppure Mirafiori è un quartiere inspiegabilmente orgoglioso. Così orgoglioso da celebrare la sua breve storia raccogliendo foto, documenti e testimonianze di chi, quando Elvis mostrava in televisione quello che aveva copiato dai neri, semplicemente c'era.

Oggi, davanti ad una piccola fetta di quel muro, c'è una mostra in allestimento permanente che insegna ai giovani l'importanza di una memoria condivisa e ricorda ai vecchi quanto la vita sia breve. Ci sono le foto di un luogo che non esiste più, ci sono racconti che valgono più di mille parole. Uno recita così: "C'era un bel ragazzo alto, biondo, occhi azzurri, che passava le giornate a suonare la chitarra e a cantare in cortile per la gioia di noi bambini. Un giorno il bel ragazzo biondo non si vide più. Lo avevano ammazzato mentre tentava una rapina con una scacciacani". Anna, classe 1950.

Anna non ricorda, e forse non sa, se quel ragazzo mandasse a memoria - come Elvis, come me - la lezione dei neri. Tutto quello che so è che ora, nel silenzio ovattato di Mirafiori, se chiudo gli occhi, quei campi, quei fiori, riesco a vederli. di più

editoriale di carlo cimmino

Noemi Letizia ha diciotto anni. E' alta, bionda, ha due tette grandi quanto due meloni. Figlia di un impiegato comunale, abita a Portici, studia da grafica pubblicitaria, vota centrodestra e da grande, dice, vuole fare la politica e la showgirl. Le piace cantare. Apicella, Sal Da Vinci e Natale Galletta. In un'intervista pubblicata di recente da un popolare settimanale nazionale di nota ispirazione comunista e proletaria ("Chi"), ha candidamente dichiarato di essere vergine, giacché "La verginità è un valore importante".
Noemi è una ragazza come tante, ma è soprattutto un'amichetta del presidente del consiglio. Alla sua festa di compleanno, tra una pizza e un crocchè, c'era anche lui. Berlusconi. "Papi" ha dispensato sorrisi, pacche sulle spalle, baci abbracci e collier. Si è abboffato di zeppole e panzarotti e si è fatto fotografare con cuochi e camerieri, vecchi e giovani, guardie e ladri. Qualche stronzo di passaggio. Poi, satollo, è rientrato a casa.

Arcore. Veronica Lario è la moglie di Berlusconi. Le piacciono assai le sfogliatelle e, quando il marito è tornato da Napoli a mani vuote, lo ha lasciato. Allora tutto è passato in secondo piano. Crisi economica, il terremoto, la pericolosa influenza suina. Berlusconi ha parlato del solito complotto di giornali e televisioni (che infatti non parlano d'altro da giorni). Poi ha aggiunto che la colpa è di Ancelotti che si ostina a tenere fuori Ronaldinho.

Tre maggio. Herat. Afghanistan. Una bambina senza nome viaggia in automobile in compagnia della madre e di altre tre persone. I cinque sono diretti ad un matrimonio e l'automobile è una vecchia Toyota Corolla. Lo stesso modello sul quale quattro anni fa viaggiavano Giuliana Sgrena e Nicola Calipari. La bambina ha tredici anni. Se ne frega di Berlusconi, della crisi economica, dell'influenza suina. Non le importa nulla persino di Ancelotti e di Ronaldinho.
Sono le undici del mattino a Herat. Piove e la bambina sta sempre viaggiando su una fottuta Toyota Corolla bianca, quando l'automobile incrocia una pattuglia dell'esercito italiano. I militari sparano. La bambina senza nome muore. La sua faccia viene spazzata via da una raffica di mitragliatore.
La bambina rimane per sempre senza volto. E senza nome. Ho cercato inutilmente su tutti i quotidiani del nostro paese.

Sui giornali hanno scritto che la Toyota Corolla è una delle macchine maggiormente segnalate come possibili autobomba. Figli di puttana.
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