In una terra come la mia dove tutti, almeno una volta nella vita, sono stati imprenditori, i magazzini abbandonati e i capannoni dismessi sono un’immagine tristemente consueta. Girando in bici con i miei ritmi lenti, agli antipodi rispetto all’efficienza frenetica dei miei compaesani, ne posso vedere uno stuolo, nascosti tra i condomini e gli ipermercati, incassati nel cielo grigio dietro una rete metallica, accanto a un parcheggio semivuoto di un quartiere residenziale. Ogni tanto qualche vecchio si ferma accanto a quei monumenti alla vacuità dell’attivismo umano e sosta pensoso, quasi si trovasse di fronte alla resa dei conti della propria stessa esistenza. Se mi fermassi con uno di loro, so che mi direbbe cosa si fabbricava lì un tempo. Mio nonno, ad esempio, mi informò che nel fabbricato plumbeo dopo il sottopassaggio di Carlo Alberto ci facevano le caramelle. Oggi è sprangato perché non ci entrino gli extracomunitari. Una volta ci uscivano i lecca-lecca.
Dietro la via dove abito, di fronte all’Aliper, si nasconde un capannone più piccolo e mesto di altri; accanto, su entrambi i lati, luccicano due linde abbinate dotate di garage sotterraneo. Io, anche se non sono vecchio, ma vivo pur sempre, come ho detto, a ritmi più bassi rispetto ai veneti dinamici, ricordo benissimo cosa c’era in quell’edificio anni fa: casse e casse di bibite. Fanta, Coca Cola, Sprite, SevenUp (o Zup, le prime volte), impilate l’una sopra l’altra in un colorato mausoleo della bollicina. Quando ci passavamo accanto, da piccoli, dopo le partite di basket, sognavamo sempre che qualche pila crollasse, inondandoci di Coca Cola freschissima. L’azienda chiuse almeno quindici anni fa, dopo una tragedia che scosse, eccitandolo, l’intero isolato.
Era un mattino di giugno, appena finita la scuola. Io e mio padre, dalla finestra, vedemmo la nostra dirimpettaia scendere in giardino, con le mani sulle guance, sconvolta come le gazze che teneva in gabbia e come i cani; si formava lentamente un capannello attorno a lei, e allora mio padre scese per vedere se c’era qualche guaio. «Impicà», si agitava la donna, «impicà». Uno dei due proprietari dell’azienda di bibite si era impiccato dentro il capannone: il socio, alla sua vista, aveva cacciato urla laceranti, attirando subito i vicini, che da anni non vedevano succedere qualcosa. L’ambulanza arrivò in silenzio e tacque il telegiornale locale. Il magazzino fu abbandonato nel giro di un mese.
Oggi, passando in bicicletta, mi ha sorpreso scoprire che dopo tanto tempo il capannone è tornato in attività. Mi sono fermato un istante, quasi sbalordito, e poi ho ripreso la strada verso casa, ancora più lento del solito. A un ragazzino che si fosse fermato accanto a me, incuriosito dall’inedito andirivieni attorno al vecchio edificio, avrei potuto dire che lì, una volta, stoccavano le bibite, ma non avrei aggiunto altro, non una parola su quel suicidio. Perché sarebbe troppo duro, per un ragazzo, scoprire quanto il destino possa essere sconcio: adesso, in quel capannone, ci costruiscono bare.
di più
- Bèl (00)
- Brü (00)
-
(00)
-
(00)