editoriale di kosmogabri

Diceva Louis-Ferdinand Céline che non era necessario leggere le notizie che i giornali contenevano, ma solo le pubblicità e i necrologi. Per tenersi aggiornati, diceva. Per sapere cosa il mondo pretende: ed è per questo che cerco di non perdermi nemmeno un episodio di Studio Aperto - la mia sitcom preferita -, sintomo di quello che il mondo offre e toglie, tra culi sodi, diete e le imprese dei migliori statisti di questa merda di paese.

La notizia di questa diciottenne marocchina, uccisa con un coltello dal padre, mentre era in compagnia in un boschetto del suo fidanzato trentenne, è seguita dalle parole della sua amica del cuore che la definisce, in un deliro di frivolezza assoluta, come una ragazza che mangiava panini al prosciutto di nascosto, che si cibava di cibi piccanti e divisa tra spitz e abiti succinti. Il tutto di nascosto, perché questa "religione dell'odio" (cit.) che è l'Islam, tutto vuole eccetto che il tuo benessere.

Il regime a-morale che viviamo si fa ogni giorno più stringente, non prevede pensieri o incertezze. Ci propinano donne-oggetti da tempo, è impossibile che una qualsiasi ragazza non voglia diventare una donna-oggetto. E allora tutto dritto, i colpevoli sono colpevoli e gli innocenti sono innocentemente innocenti. Il mondo che plasmano e che hanno plasmato, ai miei occhi, barcolla tra l'ingenuità e la superficialità e le persone che più odio lottano sempre tra l'ingenuità e la superficialità.

Diceva Fëdor Michajlovič Dostoevskij, tornato dalla Siberia, in una lettera in cui spiegava la stesura di Delitto e Castigo, che i colpevoli non sono altro che dei malati, che è inutile puntare il dito, perché un malato tutto quello che sa è di essere malato. Ed io non riesco ad immaginare questo quarantacinquenne marocchino come una persona sana, che lascia la sua terra - ma non lascia il suo mondo - per assicurare ai suoi figli un mondo migliore, in una terra diversa, e che si ritrova con una figlia di diciotto anni, che ha lasciato la scuola e che vuole andare a vivere con il suo fidanzato trentenne, conosciuto appena tre mesi prima.

Il tempo cancella tutto e stempera tutto, ma se il tempo stesso è una malattia, che succede?



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editoriale di Fallen

seconda parte

...Non so bene perché mi sia fermato a guardare, ma quello che ho visto era un poveraccio davanti alla portiera aperta di una pattuglia della polizia. Un poveraccio rigido, stretto nelle spalle, le braccia abbandonate lungo i fianchi, cui due uomini in divisa intimavano non troppo amichevolmente di entrare in macchina. Un poveraccio che continua a rimanere fermo e si becca un manganellata tra capo e collo. E prima ancora di poter pensare che il polso continuava a fare fottutamente male, che avrei dovuto essere sotto i ferri di lì a un paio d’ore, che non era il caso di rompere le palle a una decina di poliziotti in servizio, oltretutto con una mano inservibile, che in fondo non era la mia guerra, ho sentito la voce esplodermi in un ringhio proveniente dallo stomaco, dando il la al coro selvaggio di improperi e minacce che si alzava contro quel robocop “de noantri” che ancora stringeva in mano il manganello, mentre i miei piedi seguivano la scia di mio padre che già si trovava a strattonare un paio di agenti. Lui, ultracinquantenne professore occhialuto e brizzolato, solo, lì in mezzo, a berciare e strattonare quando ancora i più giovani tra noi dovevano iniziare ad avvicinarsi. Poi mi ricordo solo mani addosso da tutte le parti, urla e sputi, i rayban di robocop che si schiantano a terra, una manganellata che fischia a tre centimetri dalla mia mano destra ancora in corsa per uno schiaffo e robocop con la faccia confusa sbattuto dentro una volante e portato via dai colleghi.

Mentre nella penombra fresca riprendevo fiato, ho pensato che se era successa una cosa del genere allora forse quel cambiamento che spasmodicamente stiamo cercando non può essere lontano. Che per rendere migliore il nostro paese basta comportarsi secondo coscienza, al di là di bandiere, politica e convinzioni. Ho pensato che la rivoluzione che ci occorre è questa, senza fucili e senza molotov, ma con la sana voglia di difendere quello che è giusto per tutti contro chiunque voglia toccarlo, fosse pure lo stato.

Mentre gli ultimi capannelli di gente si disperdevano, una brezza tiepida si è alzata ad accarezzare il quartiere. L’ho vista passare attraverso le foglie degli alberi, tra i capelli di quanti avevano partecipato a quel teatrino, prima ancora di avvertirla nell’androne dove mi trovavo.
E' stato come un abbraccio collettivo, il segno tangibile di quel fiero sentimento di giustizia che ancora ci riempiva, nonostante stessimo già tornando a scannarci per roma e lazio, il parcheggio e le liti condominiali. La rivoluzione, se è vera, ti prende senza chiederti cosa hai da fare, come la pensi o chi voti. Come il vento.

Grazie alla gente del mio quartiere che non se ne è stata con le mani in tasca quando si è trovata ad assistere allo spettacolo dello stato che abusa del proprio potere.
Grazie a chi, senza conoscermi, mi ha portato via da quel marasma nascondendomi in un portone che non era il mio.
Grazie al capitano di robocop, che in mezzo al casino ordinava a pieni polmoni ai suoi sottoposti di rimettere via i manganelli, e che a cose finite si è scusato con tutti stringendo la mano a mio padre.
Grazie a robocop per avermi ricordato cosa vuol dire l'espressione "imperativo morale".
Grazie a mio padre, che dopo quella mattina non sbuffa più quando mi sente parlare di thai boxe, e guarda con più rispetto le mie tibie perennemente coperte di lividi.
Grazie a tutte le persone che passando di lì quel giorno non hanno tirato dritto come io ero intenzionato a fare, dimostrandomi che il mio popolo non sta dormendo.
Grazie a chi, in questa storia, si è comportato come si conviene a un buon Italiano.



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editoriale di Fallen

Prima parte

Stavo andando a operarmi, la mattina di giovedì nove luglio e, sinceramente, pensavo molto di più alla poltiglia sanguinolenta e infiammata che avevo al posto del polso destro piuttosto che alle quattro pattuglie di polizia visibili dal mio balcone al settimo piano, che sembravano essersi fermate proprio davanti al mio portone. Mio padre non aveva di certo pensieri molto diversi dai miei, ma aveva avuto la buona creanza di notare gli agenti accanto alle macchine che interrogavano un tizio negro ben piazzato che gesticolava, evidentemente disperato.
“Ha spaccato le vetrate di un bar perché il barista gli ha negato un cappuccino."
“Pensa se gli negavano un limoncello!”
"Gli ha detto: Non te lo faccio il cappuccino perché sei un negro di merda…”

Sono rimasto in silenzio. A Roma, nel mio quartiere, gli stranieri ne hanno combinate tante, troppe; sarei il primo ad applaudire se qualche vittima prima o poi si difendesse, lasciando per terra un paio di balordi. Qui però mi sembrava che le cose stessero prendendo una brutta piega, e come al solito il conto si era ritrovato a pagarlo chi non c’entrava niente con il casino in questione. In ogni caso, non era proprio la mattina giusta; il polso, o quello che ne rimaneva, faceva male, e io avevo un interevento chirurgico da sostenere… anestesia, dolori post-operatori, prospettive di riabilitazione e tutto il resto. Però purtroppo la rivoluzione è come il natale: quando arriva, arriva. E per me, e anche per mio padre, che attraversavamo l’atrio del palazzo diretti alla macchina, intenzionati ad attraversare quella tragedia umana come due gabbiani farebbero con un banco di nebbia, la rivoluzione era arrivata. O meglio, ci attendeva davanti al portone sotto forma di un crocchio di passanti che commentavano l’accaduto ad alta voce.
“Ma stai a' vede, cazzo, j’hanno detto negro demmerda e invece de daje na mano se lo caricano”
“Aho, avrà pure sfasciato i vetri, ma si te lo dicevano a te che facevi?”
“E 'sto testa de cazzo del barista c’ha pure la faccia de denunciallo” – “E le quaje demmerda invece de bevese lui se bevono sto povero negro”. Voci, nient'altro che voci in una tiepida mattina di luglio; ma ho letto da qualche parte che a volte basta un bisbiglio per scatenare una frana.

E improvvisamente sentii franare. Sentii franarmi dentro anni di convinzioni tenute insieme con lo scotch, a volte anche contro la voce della coscienza che gridava vendetta per mille innocenti, partendo da Alberto Giacquinto, steso sul selciato di un marciapiede dietro casa mia trent'anni fa, per finire a Gabriele Sandri, povero ragazzotto in trasferta per una stupidissima partita, passando per la Diaz e Bolzaneto, che non hanno bisogno di presentazioni.
Convinzioni tenute insieme per fiducia nel sistema, nelle forze dell'ordine, perché doveva essere stato un malinteso, un disguido, "Perché altrimenti, in che razza di stato assassino vivo?", e tutto quello che una domanda del genere può comportare per uno come me, che non ha mai amato la parte di spettatore passivo, anche quando a recitare quel ruolo c'era solo da guadagnare, proprio come quella mattina...



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editoriale di K.

La prima regola da imparare quando ci si impiega in una banca è: non vedo, non sento, non parlo. Il contratto prevede tale patto. Non mi ci volle molto a firmarlo, qualche anno fa, quando ebbi l'idea folle ma conveniente, di entrare in un istituto bancario privato svizzero, come impiegata di ricezione. Il mio compito era quello di aprire la porta, salutare nella lingua necessaria ed accompagnare il cliente (tedesco, russo, arabo, più spesso italiano) negli uffici, possibilmente sculettando, con educazione e discrezione ovviamente.
Ma visto che in una banca svizzera non te la rendono mai liscia, arriva sempre il momento del challenge. Il challenge a cui non puoi sfuggire neanche morto se sei uno appena svelto. In una banca meglio non far notare che hai un minimo di sale in zucca, seconda regola.

Il mio challenge era quello di apprendere il ruolo di cassiera. Però in quella piccola banca privata non c'erano sportelli, solo la cassaforte. Ore ed ore chiusa in una cassaforte. Lo potete immaginare l'odore dei soldi, di tanti tanti soldi? L'odore acre e nauseabondo di umanità che ha toccato, cinciscato e chissà quant'altro banconote lise ed unte? E' un fetore che si spande quando le sfogli nella macchina per contarle... come stare in una cucina del McD, alla sera devi farti la doccia per eliminare il puzzo grasso che ti si è incollato addosso. Uscivo dalla cassaforte solo per andare a ritirare i versamenti dei clienti in attesa negli uffici dei consulenti. C'era un consulente che pareva sempre sull'orlo di un infarto. Sempre affannato, anche quel famoso pomeriggio, il giorno prima delle mie vacanze estive.

Mi fa venire nel suo ufficio. Ad attendermi una coppia stressata. Italiani del nord-est. Negozianti, oppure una pizzeria, una sartoria. Tra le mani di lui vedo il mio incubo di cassiera apprendista. Non è la prima volta. Un'enorme borsa di plastica umida, reduce da una traversata del lago tra Italia e Svizzera legata sotto un motoscafo. Ve lo immaginate quanto olezza un mucchio di banconote strausate e bagnate di acqua lacustre? E a contarle? La coppia ha portato circa duecento milioni di lire, tutti in pezzi appiccicati e alla rinfusa da dieci, cinquanta, centomila lire. Il frutto della cresta quotidiana, esente scontrino fiscale. Dentro in cassaforte. Conta e riconta, passa e ripassa nelle macchine. Chiamo al telefono l'agente di cambio che mi strappa un aperitivo per una transazione decente, infine comunico le cifre alla coppia e al consulente agitato. Tutto a posto, versamento avvenuto, cambio ottimo, ce l'avete fatta, io pure, andate in pace. E i due scappano via come ladri, con la ricevuta - questa sì - in mano...
Alla sera conta finale. Orrore. Crescono trecentomila lire che trovo incollate assieme. Porcatroia che faccio. Fottute macchine. Però domani vado in vacanza. Quelli non sapevano manco quanti soldi avessero! Tre carte, per me mica poche. Ma... onestà. Devo pur dormire, in vacanza. Annuncio il fatto al consulente. Apriti cielo. Imbarazzo, agitazione, panico... aiuto, questo quasi mi fa un infarto!

La terza regola da imparare quando ci si impiega in una banca è: mai confessare i propri sbagli. S'impara in fretta perché una piccola ma solida banca privata non ammetterà mai d'aver cannato i calcoli, tanto quelli, gli evasori in motoscafo, non sapevano quanti soldi ci fossero nella sacca. Piuttosto la banca quelle tre carte le deposita in un fondo per la cena di Natale con gli impiegati. Pure questo si chiama "segreto bancario". Una cena a cui, alla fin dei conti (ah!) non mi fu permesso partecipare. Evidentemente non avevo capito bene la prima regola.

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editoriale di azzo

Le polemiche delle ultime settimane fra i direttori di alcuni dei più importanti quotidiani italiani, non mi hanno provocato alcuna sorpresa, ma solo confermato i sentimenti che da anni nutro nei confronti dei giornalisti in genere. Una sorta di tristezza mista a nausea. Le badilate di Feltri sulla presunta gaiezza dell'ormai ex direttore di Avvenire, il decreto penale di condanna di quest'ultimo per molestie telefoniche, le accuse di evasione fiscale nei confronti di Ezio Mauro, le cui difese non comprendo. Chi, tra tutti Voi, ha capito chi ha ragione, e, soprattutto, dove si nasconde un po' di verità?

Sì, so benissimo che la verità non esiste. Ma non è proprio possibile avere almeno certezza sui fatti? Ed invece, nonostante mi sia premurato di leggere qua e là, di sfogliare pagine su pagine, di cercare di capire chi avesse ragione, mi accorgo di essere al punto di partenza. E la colpa, non credo proprio, questa volta, risieda nella mia ignoranza. No, mi pare evidente che nessuno abbia interesse a fare chiarezza.

A corollario di tutto ciò, ci mancava solo l'appello alla: "Libertà di stampa". A me va bene tutto, ma certo non ho più l'età per farmi prendere per il culo da chicchessia. In Italia la libertà di stampa è sempre stata una finzione. Ciò per il semplice motivo che da noi non esiste, salvi rarissimi casi, quella che si definisce: "Editoria pura". I giornali sono sempre stati in mano a famiglie, gli Agnelli, i Berlusconi, i De Benedetti, i Caltagirone, che avevano, ed hanno, cointeressenze in decine di settori (automobili, edilizia, banche, assicurazioni, etc.). Credete forse che un giornalista avrebbe detto che la Duna faceva schifo sulla Stampa?

Ad un recente convegno, partecipanti i rappresentanti delle testate della mia piccola provincia, mi sono dovuto sorbire le stesse sbrodolature: "Il Governo vuole imbavagliarci!". Solo pochi anni orsono, a seguito del crac dei cosiddetti "Bond argentini", in cui migliaia di piccoli risparmiatori hanno visto sfumare il frutto di anni di lavoro, qualche sconsiderato giornalista di quelle stesse testate, iniziò a scrivere articoli accusando le banche del disastro. Arrivò immediatamente la telefonata di un istituto importante: "O la smettete subito, o vi togliamo la pubblicità". Tutto insabbiato. Sono persino più onesti Dolce e Gabbana, che quando il Sole 24 Ore stroncò il loro nuovo ristorante milanese, fecero lo stesso, ma almeno lo confessarono. La nuova critica fu assolutamente positiva.

Ciascuno ha un padrone. Incominciare ad ammetterlo sarebbe già un buon punto di partenza. Io qua sono fottutamente libero di fare e dire quel che voglio, di ciò sono grato ai webmaster. Immagino però che se iniziassi a parlare male di DeB in ogni editoriale, girerebbero le balle anche a loro. Ed avrebbero pure ragione.

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editoriale di kosmogabri

Il cielo di Amburgo si divide tra l’azzurro e il grigio mischiandoli e concedendosi qualche leggera sfumatura di rosa. Questa indecisione lascia cadere sulla città una specie di nuvola, una patina che copre i palazzi e le persone. Più che camminare, sembra che si nuoti come un palombaro spostato da qualche corrente impossibile. Girando per i vicoli della stazione, con le puttane che restano li tutto il giorno, con questo cielo, sembra di essere il Bruno Ganz di “Der Amerikanische Freund” incastonato in qualche cornice inevitabile.L’aeroporto di Lubecca sono quattro muri di plastica a 60 chilometri da Amburgo. Mi siedo, controllo le mail per ammazzare il tempo. “Terremoto in Abruzzo: 35 morti.”. Clicco, ma non si apre. Rifaccio il giro, ma non si apre di nuovo. Chiudo il browser, ma è tempo perso: tempo esaurito. Mi fermo un attimo. Prendo una sigaretta e mi chiudo nel cesso di plastica dell’aeroporto. Ci penso. Penso ai cinghiali, all’Abruzzo, agli amici che sono lì, ai pomeriggi passati ascoltando la pioggia che cadeva sulle viti mentre leggevo di storie impossibili. Penso a quelle facce indurite dal freddo che sembrano uscite da un film di Pasolini, ripenso ai luoghi che ho visto. Mi dico che ci sono paesi fatti solo da case vecchie di duecento anni che vanno giù con una pallonata, figuriamoci se la terra comincia a danzare. Mi dico, che forse non è nulla di troppo grave.
Con il culo sospeso a diecimila metri tutto quello che si può fare è vivere la vita di qualcun altro. Scelgo John Fante - figlio di Nick Fante, ubriacone e giocatore originario di Torricella Peligna. Chiedi alla polvere, Bandini. Arturo Bandini è John Fante. Arturo ripensa a quella donna che arrivò nella sua camera all’improvviso. Bandini ci avrebbe fatto del sesso, se avesse saputo come si fa. Guarda i tasti della macchina da scrivere immobili. Deve vivere le peggiori cose, si trasformeranno in almeno trenta pagine del suo romanzo. Prende un treno Bandini e arriva a casa di lei. Fanno l'amore e si addormentano. Il giorno dopo si sveglia con la finestra aperta e lei non c’è, forse è al lavoro. Bandini lascia due dollari sul tavolo della cucina e va via. Non sente la terra tremare,
Continua...

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editoriale di kosmogabri

"Perché troviamo bella una cosa? Perché un albero, o il cielo, o un volto, ci sembra bello e non banale? Qualcuno ritiene che la realtà sia banale, che le opere d'arte siano più belle. Per me non è più così! Un tempo andavo al Louvre e i quadri o le sculture mi davano un'impressione sublime. Le amavo nella misura stessa in cui mi davano più di quello che vedevo della realtà. Le trovavo veramente più belle della realtà stessa. Oggi, se vado al Louvre, guardo la gente che guarda le opere. Il sublime oggi per me è nei volti più che nelle opere. Tutte quelle opere hanno un'aria così misera, così precaria, un percorso balbuziente attraverso i secoli, in tutte le direzioni possibili, ma estremamente sommario, ingenuo, per circoscrivere un'immensità formidabile - la vita. Ho capito che mai nessuno potrà coglierla compiutamente...
È un tentativo tragico e risibile.

Io non creo per realizzare belle pitture o belle sculture. L'arte è solo un mezzo per vedere. Qualsiasi cosa guardi, tutto mi supera e mi sorprende, e non so più esattamente ciò che vedo. È troppo complesso. Devo allora cercare di copiare, per rendermi conto, almeno in parte, di ciò che vedo. È come se la realtà fosse continuamente dietro le tende che strappiamo... Ce n'è ancora un'altra... sempre un'altra. Ma ho l'impressione, o l'illusione, di fare dei progressi ogni giorno. E questo a farmi andare avanti, come se dovessi proprio riuscire a cogliere il nucleo della vita. E si continua pur sapendo che, più ci si avvicina alla realtà, più essa si allontana.
E' una ricerca senza fine.

Ogni volta che lavoro, sono pronto a distruggere senza esitare un attimo ciò che ho fatto il giorno prima perché, ogni giorno, ho l'impressione di vedere più lontano. In fondo ormai lavoro solo per la sensazione che provo lavorando. E se dopo vedo meglio, se uscendo vedo la realtà un po' diversa, in fondo, anche se il lavoro che ho fatto non ha molto senso o l'ho distrutto, io ho comunque guadagnato. Ho guadagnato una sensazione nuova, una sensazione che non avevo mai avuto.
Questa sensazione è senza equivalenti".

Alberto Giacometti
(da Conversazione avec André Parinaud - Biennale di Venezia, 1962)

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editoriale di kosmogabri

Armeggiò parecchio davanti alla portiera prima di trovare le chiavi, la bambina in braccio a sinistra e un grosso sacchetto di carta nella destra.
Poi adagiò la bimba nell’apposito sedile e allacciò con qualche impaccio le cinghiette del seggiolino, ancorate in tre punti come quelle delle macchine sportive.
Impedita nei movimenti dai vestiti pesanti e affondata nel sedile supplementare, la bambina si lamentò un po’, prima di essere distratta dalle portiere che si chiudevano e da lui che metteva in moto.
“Dai, amore, solo un po’ di pazienza, poi sei a casa e puoi fare i giochi”.

Poi si fermò ad un semaforo.
Uno di quegli stupidi semafori pedonali, grandi e grossi, con striscie pedonali nuove di zecca e rialzate, che spuntano di solito alle intersezioni con piste pedonali e ciclabili, vicino a parchi pubblici o scuole, piazzati lì a dimostrare quanto le autorità abbiano a cuore vecchi e bambini, e quanto siano in prima linea contro l’inquinamento e il deleterio e scorretto traffico cittadino.
Accanto a lui un grosso furgone, bianco come il latte, piazzava il suo tubo di scarico giusto di fianco al finestrino. Chiuse tutte le bocchette di aerazione, ma il gas penetrava ugualmente, pungente nelle narici.
La bimba tossì, lievemente. Lui la guardò attraverso lo specchietto retrovisore, e vide che lei sorrideva.
Fece ripartire la vettura lasciando gli altri fermi al rosso. Dietro di lui un clacson protestò per quell’infrazione così sfacciata.
“Si, si, vaffanculo!” gli uscì strozzato dalla gola.

Guidò lentamente ancora per qualche minuto.
Da un piccolo parcheggio, alla sua destra, una giovane donna sbucò sulla strada con andatura spedita. Era vestita di scuro, in maniera non casuale. In mano teneva una gabbietta di plastica verde, di quelle per il trasporto di gatti o piccoli cani. Guardando dritta davanti a se, senza esitazioni, fece un paio di passi sulla strada, quando si avvide della macchina che sopraggiungeva e fermò bruscamente il passo. Lui andava piano, frenò e si fermò a debita distanza per farla passare.
Per un attimo si fissarono. Negli occhi della donna il piccolo spavento provato si trasformò istantaneamente in disappunto per quell’uomo che l’aveva sorpresa sovrappensiero.
Un piccolo odio quotidiano.
Poi riprese a camminare e attraversò la strada. Lui guardò alla sua sinistra: c’era un ambulatorio veterinario dalle vetrine multicolore che non aveva mai notato. Innestò la prima e ripartì.

Il traffico non era particolarmente intenso.
Arrivati.
Spense il motore.
Una inconsueta versione per archi del celeberrimo standard “My favourite things” aveva attirato la sua attenzione, e rimase un paio di minuti seduto al posto di guida ad ascoltare la musica e la trasmissione che seguiva. Voci pacate discutevano su qualcosa che aveva a che fare con l’arte, Adorno e Barthes. Poi cambiò stazione e spense la radio.
“E’ meglio non ascoltare certe cose, eh ciccina?”.
Scese dalla macchina, sbloccò le cinture del seggiolino posteriore, fece uscire la bimba e la mise in piedi di fianco alla vettura mentre lui prendeva la borsa e i libri che durante il tragitto si erano rovesciati sul pavimento.
Veniva ancora giù una pioggia sottile e penetrante, ed il cappuccio della giacchetta della bambina era imperlato di goccioline luccicanti.
Passò un aereo già a bassa quota e lei, naso in su, osservava quella strana cosa. Poi si sbilanciò un po’ troppo all’indietro finché cadde a sedere, come solo ai bambini riesce.
Lui si accosciò davanti a lei, la faccia proprio sopra alla sua. Lei rise forte e qualche goccia le cadde dritta sul viso.
Stettero così qualche secondo, lei piccola, lui un po’ più grande.
Intanto l’aereo era già passato, chissà dove si trovava, adesso.


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editoriale di emofiliaco

Gia... se volete leggere la prima parte andate qui

Questo editoriale sarà letto da, poco meno, la metà dei visitatori di DeBaser. Di questa metà tre ottavi non lo capiranno (ma non per un loro limite ma perchè così va il mondo e così deve andare) mentre un ottavo lo traviserà irrimediabilmente (ma è un bene pure questo). Il 24% dei DeBaseriani (utenti e non) che l'avrà (o crederà di averlo) capito sarà ulteriormente diviso (in parti che però non son quantificabili perchè legate a motivi "eterei und qvasi celestiali") tra chi lo deamerà, tra chi lo deodierà e tra chi gli starà deindifferente.

Trilussa scrisse che: "Da li conti che se fanno seconno le statistiche d'adesso risurta che te tocca un pollo all' anno: e, se nun entra ne le spese tue, t'entra ne la statistica lo stesso perché c'è un antro che ne magna due", e poco importa se, ragionandoci su, ste parole posson essere smontate semplicemente: sono vincenti, c'è poco da fare, imbattibili.

Sia chiaro: non c'entra nulla la cultura, l'intelligenza, od il titolo di studio di chi legge. La loro forza risiede nella semplicità e nell'immediatezza che emanano, tutti finiamo per esserne sedotti (belli e brutti, stupidi e colti, poveri e ricchi) a meno che non approfondiamo e facciamo le pulci parola per parola, lettera per lettera...

Diviso tra il "buonismo" e la "finta-educazione" in cui sono stato catalogato comincio a chiedermi se è proprio vero che: "Quando molti ti ripetono che sei un mostro alla fine cominci pure a crederci". Sarà che io buono non lo sono (e probabilmente nemmeno umano) ed un certo equilibrio "social-espressivo" mi viene spontaneo (non sono un vile "poseur" insomma)  solo per deformazione professionale che la cosa non mi tange molto. Mi importerebbe molto di più che i miei scritti fossero compresi (compresi, non apprezzati: è diverso) ma purtroppo le cose (anche se Trilussa, a cui voglio, comunque, un bene dell'anima, nonostante tutto, dice il contrario) vanno come devono andare e quindi devo rassegnarmi al triste fato.

Un destino gramigno che spesso mi fa andare contro, pure,  ad un mio principio (di Pauschiana memoria) e cioè che: "Se hai pazienza tutti, prima o poi, ti mostrano la loro parte buona".

Se riuscissi a dimostrare un collegamento statistico tra Randy Pausch e Carlo Salustri abbandonerei il mio "modus operandi". Per ora rimango come sono: vedete voi se dovete averne paura.

Ps.: quanti, secondo voi, prima di arrivare qui avran capito che le statistiche citate all'inizio son messe a cazzo?


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editoriale di kosmogabri

Se c’è un tormentone estivo che imperversa, nel momento in cui scrivo, io non lo so. Quel che so è roba da poco conto, roba che si ripete costante nel tempo. Un rosario di stronzate, una via crucis di sopportazione la mia.

C’è quest’uomo, brutto come solo l'intolleranza sa essere, che ha paura del mondo che lo circonda. Anzi, nell’impossibilità di dominare il mondo che lo circonda, riduce il suo mondo alla pianura dove vive, alla regione, alla villetta, alla famiglia che oramai possiede. Ecco, nella sua vasca da bagno, con la porta chiusa a chiave, è il signore assoluto e incontrastato. Tutto sta nel ridurre la nazione che abita nel cesso di casa sua.

Ha paura del mondo. - Facciamo imparare il dialetto nelle scuole - dice. Non so voi, ma la cosa romantica e bella del parlare in dialetto con qualcuno, che mi colpisce, è quella strana idea, mentre lo pratico, di provenire dallo stesso posto, di avere una comunità di argomenti che solo con l’essere espressi in dialetto prende vita. La cosa bella del dialetto è che, proprio il fatto d’impararlo dalla strada, tra i vicoli, di stupirsi dell’eloquenza che può possedere un pescivendolo che, fortuna sua, scuole non ne ha fatte, ti rende più vivace. E la vivacità è tutto. Altro che potenza è nulla senza controllo.

E poi l’inno. A quest’uomo piace il “Va pensiero”.
Nel cesso di casa sua, con la porta chiusa a chiave, è libero di fare quel che gli pare e mentre paga qualcuno per sciacquargli la schiena è plausibile che ci siano due piccole casse che pompino all’inverosimile le note che cantavano gli esuli ebrei, prigionieri di Babilonia. Quello che fa nel cesso di casa sua è bello e lecito, basta che vi partecipino solo clandestini a norma di legge.

Quello che interessa a chi non risiede nel cesso di casa sua è non comportarsi come la tazza del cesso di casa sua... o come il cesso stesso, tanto per fare gli organicisti. Nella tazza fa confluire i prodotti del suo corpo, che Dio li benedica, ma che li tenga per chi da tazza vuole fargli. E poi, per amor del cielo, capire quel che gli piace da dove viene e perché viene da tale parte è optional di lusso. Molto più pratica e meno dolorosa l’aria condizionata... o il servosterzo.

Al momento non posso permettermi un impianto decente nel cesso di casa, ma quando potrò, costretto dalla vita, sarò lontano da dove sono ora e il mio inno sarà, purtroppo, “O Surdat ‘nnamurat’” ...che canterò, in sfregio della mia persona, in prima persona. Tie’.


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editoriale di kosmogabri

La recente sentenza del TAR sugli insegnanti di religione ha innescato le consuete scaramucce fra fidanzatini (la Chiesa e lo Stato, ed usiamo le maiuscole per pura convenzione ortografica).
Personalmente avrei lasciato la religione obbligatoria ed equiparata alle altre materie, in barba al concordato, perché penso che ai miei figli faccia meno male quell’ora che gli sms promozionali che ricevono, e poi non ho paura della concorrenza pedagogica della Chiesa.

Ma c’è un particolare su cui vale la pena di soffermarsi: la definizione, data da non so più quale monsignore in tono di evidente disprezzo, di “bieco illuminismo”.
Non è la prima volta che i prelati tirano in ballo l’illuminismo e tutti i valori ad esso correlati per esprimere condanne senza appello ed evocare puzzo di zolfo ed alte temperature. In ordine di importanza questa uscita fa il paio con lo spericolato sillogismo spurio che ha permesso al Pontefice di equiparare umanesimo ateo – nichilismo – nazismo (se uno studentello universitario si permettesse un tale exploit agli esami, verrebbe preso a calci persino dai bidelli).

Ma torniamo all’illuminismo. A scuola ci avevano insegnato qualcosa di diverso.

Ricordo che alle scuole medie avevo un’insegnante ormai anziana, particolarmente devota e timorata di Dio. Una pia donna maturata nella scuola bacchettona del primo dopoguerra.
Ma dirò di più: Ho fatto qualche indagine fra i conoscenti, e sono comparsi, ovviamente, insegnanti di ogni specie. Dagli ex combattenti repubblichini ai mangiapreti marxisti, da grigi impiegati ministeriali a “maestrine dalla penna rossa” di Deamicisiana memoria.
Bene, tutti gli intervistati sono stati unanimi nel ricordare come l’illuminismo venisse presentato dagli insegnanti - di ogni specie ed orientamento - come una vera conquista per l’Uomo. Tutti mi hanno poi citato la famosa frase di Kant (che era credente) secondo cui: “L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”, con quel che segue.
D’accordo, proseguendo gli studi tutti abbiamo imparato degli eccessi post rivoluzione francese, dell’ingenuo ottimismo positivista, della perdita di tutte le verità del XX secolo, (uno degli apici della civiltà umana per me, cent’anni di tragedie per altri) ma ciò non mette in discussione il valore di un passo, l’illuminismo, certamente parziale, ma importantissimo per la civiltà.

Eppure qui nessuno sembra accorgersene. I valori cambiano col tempo, la storia viene riscritta da ogni vincitore, ma possibile che nessuno si senta in dovere di dire: “Aspettate un attimo, a me risulta che il secolo dei lumi non sia stato poi tutto da buttare”.
No, nulla. Tutti ad accapigliarsi su stronzate tipo “il crocifisso si o no”, “l’ora di religione obbligatoria o facoltativa”, “il preservativo va messo sulla testa di sopra o su quella di sotto” ed altre amenità simili, buone solo per estrarre da ognuno di voi il fondamentalismo più becero, nella ben nota logica del “dividi et impera”.
Nessun autorevole parlamentare, nessun opinionista da boudoir si è sentito in dovere di intervenire su una questione che ai più parrà solo un barocchismo linguistico, ma che in realtà rappresenta l’ennesima strisciante deriva dei tempi sciagurati che stiamo vivendo.


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editoriale di Cornell

Avevo ancora la connessione a 56k, quindi per caricare una pagina ci metteva il tempo di una paglia fumata con calma il mio vecchio e fedele PC, nella mia vecchia casa, con la mie, meno male, vecchie paranoie mentali..

Ma dove vivi, in Tagikistan? No, ma come telecomunicazioni poco ci manca, maledetto Tronchetto che hai sfasciato la Telecom..

Comunque non stavo bene, no.. Ma questa è un'altra storia..

Capita, nelle mie sclerate esplorazioni notturne, che abbia voglia di leggere qualche recensione musicale, qualcosa del mio gruppo preferito, guarda caso i "Soundgarden", quando ancora il (nick)nome che porto, anche se era appena uscito da poco "Out of Exile", aveva ancora una parvenza di rispettabilità.. Nutrivo ancora discrete speranze, mai più immaginavo che..

Ma questa è un'altra storia..

Così mi affido al top dei motori di ricerca, e digito "recensioni musica", seguito da invio. Nei primi risultati mi salta all'occhio subito una cosa decisamente interessante: "Debaser. Forum di recensioni musicali. Chiunque può inviare la propria o commentare quelle esistenti".

Pensai: "Fiko!"

Non sapevo a cosa esattamente sarei andato incontro ma decisi di cliccare, ecco che mi si aprì una pagina che avrebbe cambiato il mio modo di "vedere" la musica, ampliato enormemente i miei orizzonti, insegnato qualcosa e perché no.. Un po' cambiato la vita.

Così feci il login e incominciai l'avventura che continua ancora oggi: il mio primo commento, la mia prima rece, l'impazienza di vederla publicata, la curiosità dei commenti, imparare che il "track by track" sta sui maroni a parecchi, che i Guns'n'Roses sono un gruppo di cacca per altrettanti.. E mille altre cose.

Debaser è come un colpo di fulmine, una seconda casa, un piccolo mondo magico e meraviglioso dove puoi condividere la tua passione con centinaia di persone, scambiare opinioni, dire la tua, farti amici, nemici, farti alias (o fake) per scassare le balls a qualcun altro e divertirti un po', dove puoi cimentarti come scrittore e imparare molte cose.

Ho amato subito questo sito, dal primo momento in cui ci ho messo piede, è il luogo virtuale in cui capito più spesso, dove mi piace stare, dove posso girovagare ore ed ore senza stancarmi, facendomi anche grosse e grasse risate leggendo le rece o i commenti più strambi oppure le diatribe più accese tra gli utenti.

Una cosa non dimentico: che dietro a tutto questo c'é la mano di qualcuno che si sbatte e non poco per questo bellissimo progetto, che da la possibilità a tutti noi (gratuitamente) di interagire in uno degli spazi più interessanti che si possano trovare sul web, quindi, quando si è a casa altrui, bisogna sempre usare doppiamente le buone maniere e mostrare rispetto, o almeno così mi è stato insegnato.

Sono ormai tre anni che ho scoperto questo piccolo, ma immenso spazio, e spero vivamente che l'avventura continui fino a quando avrò la forza e la lucidità di comporre frasi di senso compiuto su una tastiera.

Chiamatemi ruffiano se volete. Ma Debaser è davvero il Sito più Fiko dell'Internet e merita che qualcuno glielo dica in un editoriale.

Grazie, davvero.

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editoriale di kosmogabri

Ultima parte

Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo e soprattutto di manipolarselo. Non si sono accorti che esso era "altro": incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. Come sempre (cfr. Gramsci) solo nella lingua si sono avuti dei sintomi. Nella fase di transizione - ossia "durante" la scomparsa delle lucciole - gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè (per una enigmatica correlazione) colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state, organizzate dal '69 ad oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere.

Dico formalmente perché, ripeto, nella realtà, i potenti democristiani coprono con la loro manovra da automi e i loro sorrisi, il vuoto. Il potere reale procede senza di loro: ed essi non hanno più nelle mani che quegli inutili apparati che, di essi, rendono reale nient'altro che il luttuoso doppiopetto.

Tuttavia nella storia il "vuoto" non può sussistere: esso può essere predicato solo in astratto e per assurdo. È probabile che in effetti il "vuoto" di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l'intera nazione. Ne è un indice ad esempio l'attesa "morbosa" del colpo di Stato. Quasi che si trattasse soltanto di "sostituire" il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trenta anni, portando l'Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico. 

In realtà la falsa sostituzione di queste "teste di legno" (non meno, anzi più funereamente carnevalesche), attuata attraverso l'artificiale rinforzamento dei vecchi apparati del potere fascista, non servirebbe a niente (e sia chiaro che, in tal caso, la "truppa" sarebbe, già per sua costituzione, nazista). Il potere reale che da una decina di anni le "teste di legno" hanno servito senza accorgersi della sua realtà: ecco qualcosa che potrebbe aver già riempito il "vuoto" (vanificando anche la possibile partecipazione al governo del grande paese comunista che è nato nello sfacelo dell'Italia: perché non si tratta di "governare"). Di tale "potere reale" noi abbiamo immagini astratte e in fondo apocalittiche: non sappiamo raffigurarci quali "forme" esso assumerebbe sostituendosi direttamente ai servi che l'hanno preso per una semplice "modernizzazione" di tecniche. Ad ogni modo, quanto a me (se ciò ha qualche interesse per il lettore) sia chiaro: io, ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola.


Dal Corriere della Sera, 1 febbraio 1975 - In "Scritti Corsari", Garzanti Ed.
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editoriale di kosmogabri

Avevo delle anonime Converse All Star, bianche, basse, che alte non erano comode per giocare a pallone. Mi guardavo le scarpe, ancora candide, rimbalzare sul grigio della pavimentazione appena rifatta. Erano tutti sanpietrini. Mi sforzavo, nemmeno troppo, ma un po' mi sforzavo e comunque non ricordavo come era prima, prima dei sanpietrini.
Mi facevano male al tallone, le vigliacche scarpe nuove. Camminavamo lo stesso, abbastanza rapidi, scendendo verso il mare, mano nella mano. Qualche passo e un saltello, qualche passo e uno strattone.
- Fa' o' serio - mi diceva. Aveva ragione.
Cobain aveva da poco ritinteggiato le pareti del capanno di rosso sangue ed io non lo sapevo. Mancavano nove giorni al rigore di Baggio perso nel cielo californiano ed io non lo sapevo. Saper nulla era una bella cosa ed io sapevo solo poche cose, ma buone: avevano cosparso di sanpietrini i Campi Flegrei; avevano riaperto il campetto di calcio; avevano piantato aiuole alla rinfusa. Piccoli cambiamenti per me inspiegabili. Bagnoli sembrava nuova ed io, che mi sa che ho sempre preferito le scarpe vecchie, non ci facevo caso del tutto.
Ci fermammo solo un attimo, solo per prendere il pane, otto panini belli freschi appena sfornati ed io che volevo un po' di pizza mi strinsi mani e piedi, come una scimmia, alla cassa di Enzo il panettiere. Lui, Enzo, se la rideva, ma solo lui.
- Fa' l'omm' - mi disse tirandomi via. Nessuno vedeva di buon occhio le pizzette di Enzo. Lui diceva solo di far l'uomo, nonna almeno prometteva un panino al prosciutto ed io, alla parola prosciutto, mi fermavo sempre, almeno un attimo.
Poi continuammo, attraversammo la strada per stare di nuovo sui sanpietrini nuovi, camminando all'ombra degli alberi, in una Bagnoli che sembrava dormire approfittando del fresco del mattino di un qualsiasi giorno di Luglio. Scalciavo qualche foglia, poi un ramoscello, poi un salto, poi uno strattone. L'unica cosa che ricordo che riuscivo a pensare era che all'indomani l'Italia avrebbe giocato con la Spagna, ma Zola no. Zola non avrebbe giocato, era stato bastardamente espulso, così, senza che nessuno capisse il perché, dieci minuti dall'ingresso in campo. Poi Zola si mise a piangere, piegato sulle ginocchia, con le mani sul viso. Arbitro cornuto.
Non scesi i gradini del sottopassaggio, ci saltellai sopra a due a due, mentre le mani ancora strette costringevano le braccia ad allungarsi.
- Hmmm - disse, facendolo perdere nel puzzo di piscio che teneva in piedi il sottopassaggio.
Alla luce il mondo cambiò. Sembrava che Bagnoli fosse tutta lì, tutta radunata, tutta a disertare i marciapiedi, tutti per strada. Lui accelerò il passo, quasi corremmo ed io ero felice, mi piace correre, una cosa più naturale dell'andare piano, dell'aspettare qualcosa. A passo svelto schivavamo gli altri, a passo svelto ci insinuammo tra la folla. Continuammo e continuammo, fino alla transenna. Mi ci arrampicai sopra, i piedi sull'estremità bassa, le mani su quella alta. Aspettammo, un po', e appoggiai il mento sull'estremità alta, tra le due mani.
- Togliti che è sporco - mi disse, quando se ne accorse, ma non ebbe il tempo di crederci. Sfilò una macchina nera, lucida, lunga. La gente applaudiva, qualcuno esultava. Io mi guardavo in giro, capivo sempre meno.
Dalla macchina, una volta allontanatasi, scese un uomo con i capelli bianchi. La gente esultava, non sentivo nulla se non un miscuglio di grida, di odori, il caldo. Urlavano, le mani in aria, erano felici, sereni, sembravano, a colpi di voce, allontanare qualcosa, ma lui no. Lui si mise dietro la mia schiena, appoggiò la gamba sull'estremità bassa della transenna e poi si sporse. Un po' mi schiacciava. Io cercavo di vedergli il viso, ma non ci riuscivo, non dalla mia posizione. Solo il suo mento proteso verso l'obiettivo riuscivo a vedere. Era duro, partner di una smorfia. Poi si inclinò il labbro. Tre, due. Uno.
- Omm' è merd'! - strillò. Io mi voltai con forza. Lui mi guardò, poi rispinse il mento verso l'alto, la mano affianco la bocca. - Omm' è merd'! Omm' è merd'! -.
L'unica voce, le uniche parole che distinguevo in un gomitolo di rumori: Omm' è merd'. Non ci pensai due volte.
- Omm' è merd'! Omm' è merd'! - gridai. Lui mi guardò, sorrise. - Brav', accussì! - mi disse passandomi una mano tra i capelli.
Ed io, per una volta che potevo dire le parolacce senza punizioni di mezzo, ci presi gusto. - Omm' è merd'! - gridai ancora.

Oggi c'è vento, proprio un bel vento freddo del cazzo. Si è insinuato ovunque poteva, tant'è che ad un certo punto, grazie al vento, mi sono accorto di aver un bottone aperto. Da lì passava, scendeva fino alle caviglie, poi risaliva. Non un bella cosa.
Mi sono fermato dal fruttivendolo. Un chilo di mele per 90 centesimi. Me le sono pure scelte e mi pare una bella cosa. Ho camminato col polso infilato nel laccio della busta di plastica e la mano infilata nella tasca dei jeans. L'altra era fuori, a dondolarsi nell'aria fredda, per farmi fumare.
Il digitale terrestre, il digitale terrestre. Ha provato a montarlo da solo, ma non c'è riuscito. La presa scart dondola, mica ha capito dove andava. Gli ho dato le mele, poi mi sono abbassato dietro il mobile della televisione.
- Barack Obama... premio Nobel... - è partito dal televisore.
Mi sono rialzato. Guardava lo schermo, poi mi ha guardato, con quegli occhi che un tempo erano chiari e ora sono solo stanchi.
- Omm' è merd'... pur' is. O' Nòbel... o' presidente dell'Ammmerica. Ma che munn' è merd'. Che mondo di merda! La vita è un paradiso di bugie. - mi ha detto. Di Clinton o di Obama a lui frega niente.

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editoriale di kosmogabri

Parte quarta

Tutti i miei lettori si saranno certamente accorti del cambiamento dei potenti democristiani: in pochi mesi, essi sono diventati delle maschere funebri. È vero: essi continuano a sfoderare radiosi sorrisi, di una sincerità incredibile. Nelle loro pupille si raggruma della vera, beata luce di buon umore. Quando non si tratti dell'ammiccante luce dell'arguzia e della furberia. Cosa che agli elettori piace, pare, quanto la piena felicità. Inoltre, i nostri potenti continuano imperterriti i loro sproloqui incomprensibili; in cui galleggiano i "flatus vocis" delle solite promesse stereotipe. In realtà essi sono appunto delle maschere. Son certo che, a sollevare quelle maschere, non si troverebbe nemmeno un mucchio d'ossa o di cenere: ci sarebbe il nulla, il vuoto. La spiegazione è semplice: oggi in realtà in Italia c'è un drammatico vuoto di potere. Ma questo è il punto: non un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in un qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé. 
Come siamo giunti, a questo vuoto? O, meglio, "Come ci sono giunti gli uomini di potere?".

La spiegazione, ancora, è semplice: gli uomini di potere democristiani sono passati dalla "fase delle lucciole" alla "fase della scomparsa delle lucciole" senza accorgersene. Per quanto ciò possa sembrare prossimo alla criminalità la loro inconsapevolezza su questo punto è stata assoluta; non hanno sospettato minimamente che il potere, che essi detenevano e gestivano, non stava semplicemente subendo una "normale" evoluzione, ma sta cambiando radicalmente natura.

Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante). 

Dal Corriere della Sera, 1 febbraio 1975 - In "Scritti Corsari", Garzanti Ed.
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editoriale di kosmogabri

Parte terza.

Dopo la scomparsa delle lucciole.
I "valori" nazionalizzati e quindi falsificati del vecchio universo agricolo e paleocapitalistico, di colpo non contano più. Chiesa, patria, famiglia, obbedienza, ordine, risparmio, moralità non contano più. E non servono neanche più in quanto falsi. Essi sopravvivono nel clerico-fascismo emarginato (anche il MSI in sostanza li ripudia). A sostituirli sono i "valori" di un nuovo tipo di civiltà, totalmente "altra" rispetto alla civiltà contadina e paleoindustriale. Questa esperienza è stata fatta già da altri Stati. Ma in Italia essa è del tutto particolare, perché si tratta della prima "unificazione" reale subita dal nostro paese; mentre negli altri paesi essa si sovrappone con una certa logica alla unificazione monarchica e alla ulteriore unificazione della rivoluzione borghese e industriale. Il trauma italiano del contatto tra l'"arcaicità" pluralistica e il livellamento industriale ha forse un solo precedente: la Germania prima di Hitler. Anche qui i valori delle diverse culture particolaristiche sono stati distrutti dalla violenta omologazione dell'industrializzazione: con la conseguente formazione di quelle enormi masse, non più antiche (contadine, artigiane) e non ancor moderne (borghesi), che hanno costituito il selvaggio, aberrante, imponderabile corpo delle truppe naziste.

In Italia sta succedendo qualcosa di simile: e con ancora maggiore violenza, poiché l'industrializzazione degli anni Settanta costituisce una "mutazione" decisiva anche rispetto a quella tedesca di cinquant'anni fa. Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a "tempi nuovi", ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono diventati in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta soltanto uscire per strada per capirlo. Ma, naturalmente, per capire i cambiamenti della gente, bisogna amarla. Io, purtroppo, questa gente italiana, l'avevo amata: sia al di fuori degli schemi del potere (anzi, in opposizione disperata a essi), sia al di fuori degli schemi populisti e umanitari. Si trattava di un amore reale, radicato nel mio modo di essere. Ho visto dunque "coi miei sensi" il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiani, fino a una irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo fascista, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza. Vanamente il potere "totalitario" iterava e reiterava le sue imposizioni comportamentistiche: la coscienza non ne era implicata. I "modelli" fascisti non erano che maschere, da mettere e levare. Quando il fascismo fascista è caduto, tutto è tornato come prima. Lo si è visto anche in Portogallo: dopo quarant'anni di fascismo, il popolo portoghese ha celebrato il primo maggio come se l'ultimo lo avesse celebrato l'anno prima.

È ridicolo dunque che Fortini retrodati la distinzione tra fascismo e fascismo al primo dopoguerra: la distinzione tra il fascismo fascista e il fascismo di questa seconda fase del potere democristiano non solo non ha confronti nella nostra storia, ma probabilmente nell'intera storia.
Io tuttavia non scrivo il presente articolo solo per polemizzare su questo punto, benché esso mi stia molto a cuore. Scrivo il presente articolo in realtà per una ragione molto diversa. Eccola...

Dal Corriere della Sera, 1 febbraio 1975 - In "Scritti Corsari", Garzanti Ed.
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editoriale di kosmogabri

Parte seconda

Prima della scomparsa delle lucciole.
La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito, si diceva anche allora, magari appunto nel "Politecnico": la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza poliziesca, il disprezzo per la Costituzione. E mi soffermo su ciò che ha poi contato in una coscienza storica retrospettiva. La democrazia che gli antifascisti democristiani opponevano alla dittatura fascista, era spudoratamente formale.
Si fondava su una maggioranza assoluta ottenuta attraverso i voti di enormi strati di ceti medi e di enormi masse contadine, gestiti dal Vaticano. Tale gestione del Vaticano era possibile solo se fondata su un regime totalmente repressivo. In tale universo i "valori" che contavano erano gli stessi che per il fascismo: la Chiesa, la Patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine, il risparmio, la moralità. Tali "valori" (come del resto durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l'Italia arcaicamente agricola e paleoindustriale. Ma nel momento in cui venivano assunti a "valori" nazionali non potevano che perdere ogni realtà, e divenire atroce, stupido, repressivo conformismo di Stato: il conformismo del potere fascista e democristiano. Provincialità, rozzezza e ignoranza sia delle "élites" che, a livello diverso, delle masse, erano uguali sia durante il fascismo sia durante la prima fase del regime democristiano. Paradigmi di questa ignoranza erano il pragmatismo e il formalismo vaticani.

Tutto ciò che risulta chiaro e inequivocabilmente oggi, perché allora si nutrivano, da parte degli intellettuali e degli oppositori, insensate speranze. Si sperava che tutto ciò non fosse completamente vero, e che la democrazia formale contasse in fondo qualcosa. Ora, prima di passare alla seconda fase, dovrò dedicare qualche riga al momento di transizione.

Durante la scomparsa delle lucciole.
In questo periodo la distinzione tra fascismo e fascismo operata sul "Politecnico" poteva anche funzionare. Infatti sia il grande paese che si stava formando dentro il paese - cioè la massa operaia e contadina organizzata dal PCI - sia gli intellettuali anche più avanzati e critici, non si erano accorti che "le lucciole stavano scomparendo". Essi erano informati abbastanza bene dalla sociologia (che in quegli anni aveva messo in crisi il metodo dell'analisi marxista): ma erano informazioni ancora non vissute, in sostanza formalistiche. Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato l'immediato futuro; né identificare quello che allora si chiamava "benessere" con lo "sviluppo" che avrebbe dovuto realizzare in Italia per la prima volta pienamente il "genocidio" di cui nel "Manifesto" parlava Marx.

Dal Corriere della Sera, 1 febbraio 1975 - In "Scritti Corsari", Garzanti Ed.
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editoriale di kosmogabri

Parte Prima

"La distinzione tra fascismo aggettivo e fascismo sostantivo risale niente meno che al giornale "Il Politecnico", cioè all'immediato dopoguerra...". Così comincia un intervento di Franco Fortini sul fascismo ("L'Europeo", 26-12-1974): intervento che, come si dice, io sottoscrivo tutto, e pienamente. Non posso però sottoscrivere il tendenzioso esordio. Infatti la distinzione tra "fascismi" fatta sul "Politecnico" non è né pertinente né attuale. Essa poteva valere ancora fino a circa una decina di anni fa: quando il regime democristiano era ancora la pura e semplice continuazione del regime fascista. Ma una decina di anni fa, è successo "qualcosa". "Qualcosa" che non c'era e non era prevedibile non solo ai tempi del "Politecnico", ma nemmeno un anno prima che accadesse (o addirittura, come vedremo, mentre accadeva).

Il confronto reale tra "fascismi" non può essere dunque "cronologicamente", tra il fascismo fascista e il fascismo democristiano: ma tra il fascismo fascista e il fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo che è nato da quel "qualcosa" che è successo una decina di anni fa.

Poiché sono uno scrittore, e scrivo in polemica, o almeno discuto, con altri scrittori, mi si lasci dare una definizione di carattere poetico-letterario di quel fenomeno che è successo in Italia una decina di anni fa. Ciò servirà a semplificare e ad abbreviare il nostro discorso (e probabilmente a capirlo anche meglio).

Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e, soprattutto, in campagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le lucciole. Il fenomeno è stato fulmineo e folgorante. Dopo pochi anni le lucciole non c'erano più. (Sono ora un ricordo, abbastanza straziante, del passato: e un uomo anziano che abbia un tale ricordo, non può riconoscere nei nuovi giovani se stesso giovane, e dunque non può più avere i bei rimpianti di una volta). 
Quel "qualcosa" che è accaduto una decina di anni fa lo chiamerò dunque "scomparsa delle lucciole".

Il regime democristiano ha avuto due fasi assolutamente distinte, che non solo non si possono confrontare tra loro, implicandone una certa continuità, ma sono diventate addirittura storicamente incommensurabili. La prima fase di tale regime (come giustamente hanno sempre insistito a chiamarlo i radicali) è quella che va dalla fine della guerra alla scomparsa delle lucciole, la seconda fase è quella che va dalla scomparsa delle lucciole a oggi. Osserviamole una alla volta.

Dal Corriere della Sera, 1 febbraio 1975
in "Scritti Corsari", Garzanti Ed.

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editoriale di carlo cimmino

Il Foro Italico (Foro Mussolini) è un complesso sportivo di epoca e concezione fascista. Questa estate ha ospitato i Mondiali di nuoto. Un'edizione spettacolare: 43 nuovi record del mondo. L'eroina della competizione è stata Federica Pellegrini. Federica, mascella pronunciata e 177 centimetri per 68 chili, posa nuda sui giornali e, tra un piercing al seno e una visita al papa, stabilisce nuovi record. Prima donna a scendere sotto i 4 minuti nei 400 metri stile libero, ha stabilito un nuovo record anche nei 200 polverizzando il precedente, che pure aveva stabilito lei nel 2008.
Quarantatre nuovi record sono troppi anche per una generazione di campionissimi. Leggo di costumi fatti con materiali non permeabili. Poliuretano. Tute che ci vuole mezz'ora per infilarsele e una scorreggia per ridurle in brandelli. Il nuoto è uno sport senza eroi. Rosolino balla sul primo canale. Domenico Fioravanti zappa la terra nelle televisioni governative in compagnia di pornostar oramai troppo vecchie e malandate per praticare.

Anche Valerio "Giusva" Fioravanti ha lavorato in televisione. E al cinema. Qualche Spaghetti Western. A quei tempi erano di moda (lo stalliere Vittorio Mangano ne ha fatto uno con Klaus Kinski). Poi "Grazie... nonna" (1975) di Martinelli, il momento più alto della sua carriera cinematografica. E politica. La trama del film è già scritta nel titolo. La Fenech è la nonna. Giusva è Carletto. Il timido nipotino.
Giusva è timido. Ma anche stronzo. Nel 1977 con i suoi compagni di purghe mette in piedi i Nuclei Armati Rivoluzionari. Si arruola nell'esercito. Finisce in galera. Qualche omicidio. Il 2 agosto del 1980 mette una bomba nella Stazione di Bologna. Uccide ottantacinque persone e viene condannato. Ergastolo.
Nel 2004 gli viene concessa la libertà vigilata per "buona condotta". Passano cinque anni di libertà condizionata e Fioravanti è un uomo libero. In barba al "fine pena mai" scritto sul suo fascicolo che oggi è carta igienica. Spara a zero sulla resistenza e su chi ha scritto la Costituzione. Nel 1943 molti di loro erano considerati ufficialmente terroristi e condannati a morte.

Nel 1943 c'erano ancora eroi. Eroi che hanno preso a calci nel culo gente come Fioravanti. Oggi invece non c'è più niente da fare. Ho staccato dal lavoro e me ne sono andato al mare. Abito a Napoli. Mappatella Beach dista cinque minuti da casa. Ho disteso l'asciugamano sulla sabbia e mi ci sono addormentato. Poi sono morto.
Nel frattempo dei ragazzi tiravano calci ad un pallone.

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editoriale di kosmogabri

Mi piace viaggiare. Diciamo che il mio tempo che intercorre tra un viaggio e l’altro è il tempo necessario a far soldi. Se semplicemente non ci fosse questa necessità sarei sempre in viaggio. Se fossi Berlusconi Jr., ad esempio, oltre a vergognarmi molto, sarei perso chissà dove, probabilmente su un altro pianeta o magari, in questo momento, cavalcherei un cavallo mongolo attraversando qualche pianura dal nome impronunciabile.

La motivazione che sta dietro ad ogni mio viaggio è semplice - fin troppo -, forse un po’ voyeuristica. Quello che mi spinge è la voglia di andar a vedere come campano - o come non-campano - i non-Napoletani, con particolare preferenza per i popoli diversi, perché mi piacciono i posti diversi, ma non diversi a metà.


L’esigenza che mi ha spinto ad Amsterdam non la ricordo e vorrei tanto ricordarmela per sputare in cielo e beccarmi giusto nell’occhio sinistro. Amsterdam è il nulla, come camminare in un programma di Antonio Ricci, un programma a cultura zero, intrattenimento inutile e selvaggio; come divertirsi aldilà di tutto, spegnendo il cervello e stando, finalmente, bene.

Amsterdam è un rettangolo che fino al 1275 nemmeno esisteva, che non ha storia, non ha cultura, non ha tradizioni da mostrare e se mai ce ne fosse stata una, oltre le aringhe salate, le hanno definitivamente cancellate riempiendo il centro storico di puttane, di coffee shop e kebab. Del tipo: una puttana, un coffee shop, due kebabbari e così via. L’unica tradizione intatta è quella del vendere. In quello ci sanno ancora fare. Infatti se ad un turista X dovesse capitare di imbattersi in un museo, sono 15 euro. Nessuna eccezione.


E vogliamo parlare del tipo medio che “visita” Amsterdam? Gente orribile: antropologhi baschi con il tartaro che fa provincia a sé e che ti parlano dell’importanza delle “huevos, por procrear” nella dinamica delle formazioni culturali-popolari; americani cafoni come solo gli ammmerecani sanno essere; ragazzini della Svizzera francese così ricchi ed annoiati a diciott’anni che speri per loro che non arrivino mai a superare i venti.


E allora vi voglio vedere per i mostri che siete: 12 euro e 50, fungo allucinogeno, sponda del canale, mastico lentamente. Due ore a camminare tra puttane, ammmericani cafoni e kebab. Due ore lunghissime, poi inciampo, rialzo lo sguardo e le persone, per così dire, hanno quattro occhi, qualcuno assomiglia al tipo del video di "Come to Daddy". Ora sto bene.


E poi... e poi le olandesi sono troppo alte. Nemmeno quello.

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