editoriale di fosca

Non so se tra le molte notizie che ci giungono stile bombardamento dai media vi sia arrivata ed abbiate metabolizzato quella relativa alla vicenda di uno stupro da parte di un branco formato da 8 minorenni ai danni di una ragazza loro coetanea, consumato circa 2 anni or sono nella provincia di Roma, a Montalto di Castro.
Il processo si è protratto fino ad ora ed il Tribunale dei minori ha finalmente preso una decisione.

Prima di questo però c’è da dire che il Sindaco del Comune (giunta PD) ha utilizzato fondi pubblici per dare assistenza legale ai minori incriminati in quanto giovani (di nazionalità italiana) di buona famiglia, che era giusto mettere in condizione di difendersi; inoltre ai ragazzi è stato consigliato di mostrarsi pentiti e strategicamente chiedere scusa alla vittima a fine processo, omettendo il particolare che, inizialmente, avevano riportato, tronfi, secondo il quale la ragazza trascinata a forza nel bosco, ci stesse alla grande.

Quindi coi soldi dei contribuenti per la difesa, ed il tocco di classe del pentimento finale, il Tribunale ha deciso che i ragazzi non vanno puniti se non facendoli lavorare per 2 anni in “prova” ai servizi sociali, occupandosi di assistenza ad anziani e disabili, pulizia di strade ed edifici pubblici, insomma comportandosi come farebbero davvero quei bravi ragazzi attenti al prossimo che i genitori affermano loro siano da ben oltre 2 anni.
Alla fine della prova se questa sarà ritenuta positiva, il reato sarà cancellato e loro saranno nuovamente liberi e puri come l’aria che respiriamo in montagna.

Per contro, e nel contempo, nessuno ha pensato a dare assistenza legale gratuita anche alla vittima 15enne, né di provvedere al suo terribile trauma con un adeguato sostegno e terapia psicologica. Non solo. Pare che la ragazza stia cercando lavoro da tempo e che nessuno voglia darle una mano, invitandola ad andarsene con secchi e ripetuti rifiuti perché è ritenuta inaffidabile.
Sì, perchè una ragazza che non è riuscita a contrastare ben 8 coetanei che l’hanno convinta con la forza a farsi violentare, magari (anzi sicuramente) provando piacere lei stessa, deve essere per forza una persona da poco e pure bizzarra, per non dire puttana, e che sicuramente nel confronto con gli 8 bravi ragazzi ci perde, perché la poco di buono è lei.

Così oltre al danno dello stupro, alla violenza fisica ed ai molti segni che la ragazza si porterà dietro per il resto della sua compromessa vita, si accompagna l’umiliazione della violenza psicologica operata da quella società che avrebbe dovuto aiutarla e difenderla in questa tragica esperienza e quello che per lei sarà per sempre il peggior ricordo della sua vita, per altri ragazzi italiani -di buona famiglia- sarà solo il ricordo di una bravata adolescenziale all’interno di una nottata più avventurosa delle altre.
Ora io mi chiedo, quando leggo notizie come questa, che senso abbia avere ancora fede in una giustizia che difende l’apparenza e la finzione e lascia spesso il più debole indifeso e nelle condizioni di non potersi difendere.
Ed anche non posso fare a meno di chiedermi che sarebbe invece successo se gli 8 giovani aguzzini avessero avuto un passaporto straniero anziché italiano.

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editoriale di kosmogabri

C'è una novità: è stato reso pubblico il primo video che cattura un'esecuzione di Camorra. L'ho cercato su Youtube e silenziosamente ho visto ed ascoltato questo video che audio non ha, ma che fa un rumore assordante, il rumore della solitudine. Mi ha colpito l'audio - perfettamente assente e in quanto assente perfetto - più dell'immagine, perché poche sono le parole che possono definire tale situazione, come poche sono le sensazioni che si possono provare di fronte a tale scempio. Di fronte alle brutte cose non hai molto da pensare, scappi e basta. Non è intelligenza, ma istinto.

La evidente noncuranza dei passanti ha colpito mezzo mondo, tanto da far abbandonare qualcuno a commenti grossolani e semplicistici.

Non so cosa ne pensi Roberto Saviano di questo video, di questa noncuranza. Immagino che da brava persona qual è cercherà di salvare il salvabile. Bene, io no. Io non salvo nulla perché non c'è nulla da salvare.
Roberto Saviano, pur puntando il dito non ha mai colpito realmente tutto quello che c'era da colpire e questo perché a qualcosa, per uscire da questa surreale situazione, bisogna pur attaccarsi e questa sua voglia di risolverla, la situazione, questa speranza, è direttamente proporzionale al fatto che è una brava persona. Bene, io no. Io non mi aggrappo a nulla e quindi lo dico.

Il male supremo, il primo male, il male che precede tutti gli altri mali, ha un solo nome, ma molti volti. Il primo e solo male di questa terra, in quanto da esso dipendono tutti gli altri, è lo Stato. Lo Stato italiano, quello che si presume essere lo Stato della fantomatica nazione "Italia".
Viviamo in questa terra, di questa terra, sentendo provenire da questa terra l'odore della disfatta già dalla nascita e questo perché, come diceva Adam Smith - certamente non un meridionalista, nemmeno un po' socialista - per l'esistenza di una persona ricca sono necessarie cinquecento povere. Ricattabili in quanto povere e noi siamo ricattabili.

Nurkse sintetizzo il concetto di "disoccupazione nascosta" che è alla base del celebre modello di sviluppo di Lewis, il quale prevede che ad un economia moderna, per prendere slancio, serve un bacino di mano d'opera a basso costo da strappare, sempre mediante il ricatto, all'economia tradizionale, quella che ti assicura, forse, solo un reddito di sussistenza. Ed è su queste basi che Kindleberger spiega quello che accadde all'economia italiana del '63, economia semplicemente rimasta priva della sua eccedenza di manodopera a basso, bassissimo, infimo costo. Infimo perché in questo mondo solo la propria vita, la propria "pelle" ha un vero valore. Di quella degli altri, spallucce.

Il cancro che avvolge il meridione italiano e che tanto fa comodo (1 euro su 3 che circola all'interno di questo paese è prodotto dalla malavita organizzata) al potere politico, non fa comodo a chi questo cancro lo porta sulla pelle. E poi penso a miei amici, gente capace, sveglia che servono birre ai tavoli in giro per l'Europa che: "Qui non si può stare". Poi penso che toccherà a me, che qui non ci rimarrà nessuno, che siamo tutti "nascosti". Ci piango spesso, avrei voluto non finisse.


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editoriale di Appestato mantrico

Li chiudono dietro grosse lastre di pietra, dentro loculi anonimi prenotati anni prima per l'occasione. Una foto sbiadita, due date, un nome e relativo cognome.
Perlopiù tendono a nasconderli, e filtrano tutto con il buonismo becero del poi: rimane soltanto la luce ipocrita dei discorsi fatti in cerchio. Occasione imperdibile per mondare la coscienza da eventuali impurità, una volta l'anno.

Fa male agli occhi, vedere come abbiamo dimenticato. Che in fondo non è cambiato nulla, assolutamente nulla, e ci ritroviamo ancora una volta davanti a questa grossa lastra di pietra a parlare del niente che ci sta davanti e che abbiamo dentro, e che son trentacinque anni da quando Luigi è morto annegato nel laghetto e che se tu, papà, non avessi avuto da spalare merda di vacca quel giorno saresti andato con lui a pescare e non ci sarebbe cascato dentro. Forse.

Immobili, per trenta lunghissimi minuti. Mai come oggi sento che abbiamo ben poco da spartire, e vorrei essere lontano anni luce da qui.
C'è qualcosa di perverso, in tutto questo.

Io, i miei morti, me li porto dentro.


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editoriale di azzo

La storia, credo la sappiate. Nel 1977 Roman Polanski, all'epoca quarantaquattro anni, reduce dai trionfi di "Chinatown", stuprò una tredicenne, Samantha Geiger, a casa di Jack Nicholson, dopo una seduta fotografica. Arrestato il giorno successivo il fatto, acconsentì ad un c.d. "Plea bargain" (una forma di rito simile al nostro patteggiamento), proposto dalla difesa della ragazza, che preferì non affrontare il dibattimento, a tutela della stessa, ed ammettendo le proprie responsabilità in cambio di uno sgravio delle imputazioni. Nei giorni in cui il giudice stava decidendo l'entità della pena da scontare, il regista scappò dagli Stati Uniti per non affrontare l'inevitabile periodo di detenzione.

Anni di fuga. Non solo Polanski non è mai tornato negli Stati Uniti, neppure per ritirare l'Oscar ricevuto per "Il pianista", ma non ha più visitato paesi come l'Inghilterra, dove le autorità avevano espresso preventivamente un parere favorevole al mandato di cattura internazionale emesso. Ha anche acquisito la cittadinanza francese al fine di restare impunito.

A distanza di un trentennio, è stato infine arrestato in Svizzera  lo scorso settembre ed è in attesa che venga decisa la sua estradizione. In pochi giorni vi è stata la mobilitazione di tutto il mondo del cinema gauchiste che ha sottoscritto un appello a favore della sua liberazione. Tra i firmatari gli italiani Scola, Bellocchio, Tornatore, Bellucci, Placido, Sorrentino.

Vi sono alcuni film di Polanski che amo molto. Il primo, "Il coltello nell'acqua", un intrigante thriller psicologico in bianco e nero, "Repulsione", con una splendida Deneuve, "L'inquilino del terzo piano", una della pellicole più angoscianti che abbia visto in vita mia. Ho sempre evitato peraltro di confondere il giudizio sulle sue opere con quello sull'uomo, ovvero il tipo di persona, con la quale, per quel che ha fatto, pur non conoscendola, non andrei mai a cena.

Oltre all'indicibile senso di nausea che mi è venuto leggendo la notizia dell'appello a favore di Polanski, mi sono sorte anche un paio di domandine, che girerei ai firmatari, se avessero la grazia di rispondermi. Qual è il motivo per cui Polanski non dovrebbe scontare la pena per il reato commesso? Forse perché è un gran regista? Ma la legge non è uguale per tutti? Se fosse stato un polacco, od un rumeno, entrambi cittadini europei, a sodomizzare una tredicenne italiana, magari la loro figlioletta o la loro nipotina, ai Campi Flegrei, l'appello l'avrebbero sottoscritto lo stesso? O forse li motivo risiede nel fatto che a settantasei anni non si deve più andare in carcere? Allora Silvietto nostro deve aspettare solo tre anni, e qualsiasi cosa abbia combinato, loro firmano pure per lui? E se uno schifo del genere lo faccio io, posso contare sul loro appoggio? No, tanto per sapere, se è sempre due pesi e due misure...

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editoriale di kosmogabri

« La mia poesia è alacre come il fuoco,
trascorre tra le mie dita come un rosario.
Non prego perché sono un poeta della sventura
che tace, a volte, le doglie di un parto dentro le ore,
sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida,
sono il poeta che canta e non trova parole,
sono la paglia arida sopra cui batte il suono,
sono la ninnananna che fa piangere i figli,
sono la vanagloria che si lascia cadere,
il manto di metallo di una lunga preghiera
del passato cordoglio che non vede la luce ».

Alda Merini
Milano, 21 marzo 1931 - 01 novembre 2009

in "Alda Merini: Fiore di poesie 1951-1997"
(Einaudi, 1998, p. 224, a cura di Maria Corti)

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editoriale di sfascia carrozze

Cari Amici NeoNazionalsocialisti (o NeoFascisti che dir si voglia), Vi chiedo un solo minuto per questa umile ma forse utile riflessione al termine della quale non credo mi ringrazierete ma potrebbe succedere che le mani Vi possano prudere meno del solito.

Ho notato che negli ultimi tempi la "politica" dell'attacco al diverso (chiunque sia: neri, gialli, verdi, froci, etero, terroni, bauscia, assirobabilonesi, spaceinvaders, bassi, grassi, storpi e cosi via) ha preso nuovamente mano (pugno, schiaffo e manrovescio) e/o piede (calcio con anfibio) con rinnovato e ruvido vigore.

Naturalmente non sono qua a chiederVi di rinunziare al Vostro sport preferito: sarei un pazzo; sarebbe come chiedere al cammello dello Yucatan di non ruminare l'erba nelle zone d'ombra: assai improbabile, anzichénò.

Ora: capisco che menare il Comunista possa avere anche una utilità  sociale in prospettiva futura (in realtà  il pericolo è che potreste ritrovarvelo a rosicchiare il polpaccio bollito del Vs pupo più che realmente in grado di detronizzare il mite Ducetto di Arcore), però, sinceramente, menare così risolutamente il frocio non lo capisco.

Dico: il frocio Vi fa il favore di auto-escludersi dalla ormonale gara dei tori da monta lasciando campo aperto per le mille e una nuove conquiste dell'uomo duro e tutto d'un pezzo... e Voi me lo menate un giorno sì e l'altro pure? Ma ragazzi, già  cosi non si batte chiodo: rendiamoci conto che se li randellate così questi son anche capaci di cambiare idea...

Il frocio no, cribbio, no!


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editoriale di zaireeka

Tempo fà vidi un film.
Era ambientato nella Los Angeles, se non ricordo male, degli anni '50.
Vi recitava una splendida Kim Basinger.
Si chiamava L.A. Confidential.
Parlava di lotte fra bande malavitose, di poliziotti corrotti, di capi della polizia che gestivano tutto.
E quando dico tutto, davvero tutto.
Di giornalisti che ricevevano soffiate dai poliziotti per fare scoop in esclusiva.
Di politici ricattati su mandato della polizia a causa della loro passione per il sesso estremo e/o "contro natura".
Di droga.
Oggi mi trovo a leggere la cronaca quotidiana della nostra povera italia e della nostra più povera capitale.
E mi dico:
"Possibile che in questa riedizione tutta italiana, ancorché quasi perfettamente riuscita, al posto di Kim dobbiamo accontentarci di un trans che si fa chiamare Natalìe?".

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editoriale di Cornell

Io non capisco... La mia indole è più incline alla legalità che a fottere il prossimo e le leggi, quindi, da Cittadino Italiano, mi aspetto, giustamente, che chi si assume la responsabilità di governare il mio paese, debba essere un uomo o una donna di indubbia morale, scelto dal popolo, e quindi suo dipendente, per risolvere i problemi e far progredire un "grande paese" qual'è l'Italia.
Non voglio gente che scaldi poltrone, che brindi a mortadella e champagne quando cade un governo, che si prenda a schiaffi in diretta, che continui a svolgere il proprio lavoro anche sotto mandato parlamentare, che abbia impegni "più importanti" da risultare assente ad una votazione importantissima qual'era la legge sullo scudo fiscale eccetera.

Non ho più molta fiducia in questo Stato i cui rappresentanti vanno avanti più per raccomandazioni di potenti che per meritocrazia, ma non ho i mezzi per cambiare la situazione e allora spero...
E un giorno, svegliandomi, in mezzo ad una nebbia sempre perenne, inizio a vedere un barlume di luce che mi arriva da una decisione di un organo che finalmente ha fatto il suo dovere: "La Corte Costituzionale boccia il Lodo Alfano".

La Costituzione ha vinto, l'Italia torna ad essere uno "stato di diritto", dove anche i quattro più alti cittadini sono soggetti alla legge come ogni altro (in fondo nei tribunali c'è o non c'è scritto "La Legge è uguale per tutti"?). Poco importa come mi sentivo io quando il Presidente, con un atto che ai miei occhi è apparso "vergognoso", ha tranquillamente firmato il Lodo, perchè questo scempio è stato pensato, studiato e proposto per difendere uno solo tra i quattro più in vista (sì proprio lui, la carica diciamo "minore", il Presidente del Consiglio, su cui pendono accuse e sono in corso processi per fatti anche gravissimi).

Mi sono sentito, diciamo... "Divèrs", caro Presidente, ancora più sfiduciato verso una classe politica che non mi rappresenta e che sta lentamente costruendo un muro tra sè e chi dovrebbe tutelare e rispettare, ovvero i cittadini, loro datori di lavoro, godendo senza ritegno degli enormi privilegi e delle laute retribuzioni e dando poco o nulla in cambio a chi lo stipendio glielo versa tutti i mesi. Mi sento umiliato per Lei Presidente, dalle parole uscite dalla bocca del maggior beneficiario del Lodo, dagli attacchi fatti con arroganza, supponenza e delirio di onnipotenza.. "Lei è un Comunista e non poteva che finire così perché la Corte era composta per la maggior parte da giudici Comunisti, meno male che Silvio c'è, viva l'Italia, viva Berlusconi".

Non capisco perchè questo tizio abbia la libertà di dire tutto ciò che vuole e restare impunito (forse perchè dai sondaggi risulta avere ancora la maggioranza), ma dimostri almeno rispetto per una decisione che, in uno Stato normale, non avrebbe neanche dovuto essere discussa e portata avanti per così tanto tempo. Ora si è pensato anche di fare una legge per tutelare gli evasori fiscali: rientro di capitali illegalmente esportati con sanzione del 5% (?!), e silenzio assoluto sui nomi di chi ha fottuto le tasse. Il disegno di legge è passato perchè qualcuno, quel giorno, aveva altro di meglio da fare.

No cari, io i nomi e le cifre le voglio sapere, anzi, PRETENDO di saperli, poichè le tasse, da bravo coglione, le pago fino all'ultimo centesimo e non tollero che chi l'ha messa nel culo al fisco, ora possa tranquillamente riappropriarsi in patria del proprio malloppo cavandosela solo con una bacchettatina sulle dita.
Ah già... Ma forse i nomi non si possono dire, altrimenti nelle aule parlamentari romane non rimarrebbe più nessuno e poi chi lo governa 'sto paese?

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editoriale di fosca

Stamattina sono uscita di casa cinque minuti prima: avrei così guadagnato sulla giornata quasi un quarto d’ora in più, che a Milano può fare la differenza, se devi timbrare il cartellino.
Dove abito io ci sono solo uffici e ben tre scuole tra nido, materna ed elementare, per cui la zona è presidiata da mamme e bimbi ed il tutto si traduce in una miriade di macchine infilate ovunque. Un delirio.
In situazioni come questa l’Educazione Civica è solo un binomio di parole senza senso.

Accade spesso vi siano macchine differentemente parcheggiate in piena sfida allo spazio tridimensionale, proprio davanti, di fianco e sopra la tua macchina, che ti aspetta avvilita.
E la reazione di quelli che hanno parcheggiato in modo incivile è sempre la stessa: l’arroganza.
Anche a me è capitato di dover parcheggiare recando disagio, ma in queste rare occasioni mi sono sempre precipitata scusandomi in ogni modo con l’automobilista incastrato, prodiga di sorrisi e scuse.
Ma loro, loro giungono con passo da aperitivo, come se fossero ai grandi magazzini per qualche idiozia inutile da comprare, conversando al cellulare, freschi, con sorrisi splendenti e poco intelligenti, il vestito con la piega, i capelli con la piega, tutto con una piega pessima, all’appropinquarsi alla vostra macchina immobilizzata.

Quindi oggi, mentre cercavo con gli occhi il proprietario di questa diavolo di Nuova Panda rossa che mi bloccava nel parcheggio, mi vedo arrivare questa signora sui quaranta, con passo per nulla ansioso, che, noncurante, mi passa di fianco con calma e senza degnarmi né di una parola né di uno sguardo, ma, visibilmente infastidita dalla mia stizza, apre la macchina con calma mentre secca io le dico: “Stavo per chiamare i vigili”... il nulla e mi guarda malissimo. Allora insisto: “Lei è una cafona”, ma lei stoica. Sguardo truce e non una parola ma, solo una volta al sicuro nell’abitacolo ben chiuso, mi fa leggere un labiale da brivido. Al che perdo totalmente le staffe e di rimando le parlo dell’Eneide e di Elena, regina di Sparta, e del famoso cavallo della guerra a lei dedicata, con ampi riferimenti.

Mi tuffo nel traffico, allibita ed incazzata, guidando come un’amazzone infuriata, constatando anche oggi come là fuori sia pieno di individui poco inclini all’altruismo utopistico, che ti bloccano la macchina, non chiedono scusa, ti tagliano la strada, ti tolgono la precedenza, passano col rosso, ignorano le strisce pedonali, non cedono la seduta ad anziani e  donne gravide, ti sorpassano nella fila, guardano la tv ad un volume assordante fino a notte, e tante altre cose che a quest’ora non mi vengono in mente, per fortuna…
E considero che domani è un altro giorno, e che la mia macchina sarà ancora lì parcheggiata, nella speranza almeno per un giorno di non dover recitare la solita pantomima da Far West.

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editoriale di kosmogabri

Quattro. Pesanti come un colpo.
"A Cesare quel che è di Cesare.
A Dio quel che è di Dio".
Ma uno come me, dove potrà ficcarsi?
Dove mi si è apprestata una tana?
S'io fossi piccolo come il grande oceano,
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde con l'alta marea,
carezzando la luna.
Dove trovare un'amata uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!

O s'io fossi povero come un miliardario...
Che cos'è il denaro, per l'anima?
Un ladro insaziabile s'annida in essa:
all' orda sfrenata di tutti i miei desideri
non basta l'oro di tutte le Californie!

S'io fossi balbuziente come Dante o Petrarca
Accendere l'anima per una sola, ordinarle coi versi di
struggersi in cenere.
E le parole e il mio amore sarebbero un arco di trionfo:
pomposamente senza lasciar traccia vi passerebbero sotto
le amanti di tutti i secoli.

O s'io fossi silenzioso, umil tuono... gemerei stringendo
con un brivido l'intrepido eremo della terra.
Seguiterò a squarciagola con la mia voce immensa.
Le comete torceranno le braccia fiammeggianti,
gettandosi a capofitto dalla malinconia.

Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti
s'io fossi appannato come il sole.

Che bisogno ho io d'abbeverare con il mio splendore
il grembo dimagrato della terra?
Passerò trascinando il mio enorme amore
in quale notte delirante e malaticcia?
Da quali Golia fui concepito
così grande...
e così inutile?

di Vladimir Majakowskij
riadattamento di Carmelo Bene tratto da: 1974 Bene! Quattro diversi modi di morire in versi.

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editoriale di K.

Vorrei parlavi di una minuta donna tedesca, una piacente e semplice signora di mezz'età comune a tante altre. Petra Reski, questo il suo nome, è una giornalista d'assalto, inviata in Italia. I suoi articoli, le ricerche, i suoi viaggi da anni hanno un principale denominatore: la mafia in Germania. Sono anni che Petra batte su questo chiodo, in particolare concentrandosi sulla 'ndrangheta. Con i suoi articoli s'è assunta una missione non evidente: far capire ai suoi ottusi compatrioti quanto la 'ndrangheta calabrese sia penetrata nel tessuto sociale e politico della loro patria. Come spiega nei suoi scritti pubblicati dai settimanali Stern e Die Zeit, per i mammasantissima è stato facile approfittare della sicurezza dei tedeschi tanto convinti di essere inattaccabili, quindi distratti dalla propria superbia, nonché dal secolare preconcetto romantico che vede l'italiano tutto amore pizza mandolino (e cameriere). Lo sapete tutti quanto i tedeschi amino l'Italia, quasi fosse una cartolina delle vacanze da riguardare con nostalgia durante i mesi invernali. E' esattamente questa l'Italia che credono d'avere in casa. Ebbene, troppo amore acceca.

"Se andiamo avanti così in pochi anni la 'ndrangheta si mangia la Germania", questo l'avvertimento che Reski lancia da anni, insistentemente, fin da quando, una primavera venti anni fa, andò al sud per descriverne le bellezze naturali. Da allora non ha mai smesso di parlare dell'Italia, delle cosche mafiose e delle loro terminazioni nel suo paese. Tuttavia non ha smesso di amare il Belpaese e il suo popolo, anzi, vive a Venezia e un "italiener" se l'è anche sposato.

Reski ricopre un ruolo gravoso. Immaginate ad esempio come spiegare ai tedeschi perché in Italia "l'unica seria opposizione sia rappresentata da un comico, un filosofo, un giornalista e un ex magistrato". Sarebbe gravoso per qualsiasi giornalista europeo. Quindi, come afferma, è più semplice e divertente aggirare l'ostacolo raccontando delle mignotteparlamentari di Papi oppure della sua leggendaria potenza sessuale, come si limitano innumerevoli suoi colleghi tedeschi ed internazionali. Tuttavia Reski a differenza di altri non si è lasciata prendere dal gioco facile cianciando di italico folklore, lei racconta senza mezzi termini di corruzione e collusione, al pari di Roberto Saviano (citazione dovuta), tantopiù ora, in seguito alla recente pubblicazione del suo libro Santa Mafia, da Palermo a Duisburg: sangue, affari, politica e devozione.
Un saggio che in Germania sta suscitando clamore scoperchiando una realtà ormai capillare: buona parte degli innumerevoli investimenti immobiliari italiani nella terra di Goethe - ristoranti, pizzerie, discoteche, alberghi di lusso ma pure agenzie finanziarie che gestiscono queste attività e altre - fungono da copertura dei proventi illegali della 'ndrangheta operante in loco e in tutta Europa. Lavanderia Deutschland.

Tra le pagine dei suoi libri e tra le righe dei suoi articoli questa impavida giornalista fa nomi e cognomi dei boss e di chi li protegge politicamente sul territorio tedesco e italiano, indica le attività più implicate, descrive gli intricati meccanismi del riciclaggio, entra nei dettagli di elaborate indagini forte delle tante interviste a cui ha sottoposto magistrati e forze dell'ordine di entrambi i paesi. E come da copione sono arrivate le prime minacce.

"La mafia non è un problema esclusivamente italiano né un affare di coppole e di realtà arretrate del sud Italia, ma un problema europeo.".
Vorrei ricordarvi soltanto questo nome: Petra Reski.


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editoriale di Targetski

In una terra come la mia dove tutti, almeno una volta nella vita, sono stati imprenditori, i magazzini abbandonati e i capannoni dismessi sono un’immagine tristemente consueta. Girando in bici con i miei ritmi lenti, agli antipodi rispetto all’efficienza frenetica dei miei compaesani, ne posso vedere uno stuolo, nascosti tra i condomini e gli ipermercati, incassati nel cielo grigio dietro una rete metallica, accanto a un parcheggio semivuoto di un quartiere residenziale. Ogni tanto qualche vecchio si ferma accanto a quei monumenti alla vacuità dell’attivismo umano e sosta pensoso, quasi si trovasse di fronte alla resa dei conti della propria stessa esistenza. Se mi fermassi con uno di loro, so che mi direbbe cosa si fabbricava lì un tempo. Mio nonno, ad esempio, mi informò che nel fabbricato plumbeo dopo il sottopassaggio di Carlo Alberto ci facevano le caramelle. Oggi è sprangato perché non ci entrino gli extracomunitari. Una volta ci uscivano i lecca-lecca.

Dietro la via dove abito, di fronte all’Aliper, si nasconde un capannone più piccolo e mesto di altri; accanto, su entrambi i lati, luccicano due linde abbinate dotate di garage sotterraneo. Io, anche se non sono vecchio, ma vivo pur sempre, come ho detto, a ritmi più bassi rispetto ai veneti dinamici, ricordo benissimo cosa c’era in quell’edificio anni fa: casse e casse di bibite. Fanta, Coca Cola, Sprite, SevenUp (o Zup, le prime volte), impilate l’una sopra l’altra in un colorato mausoleo della bollicina. Quando ci passavamo accanto, da piccoli, dopo le partite di basket, sognavamo sempre che qualche pila crollasse, inondandoci di Coca Cola freschissima. L’azienda chiuse almeno quindici anni fa, dopo una tragedia che scosse, eccitandolo, l’intero isolato.

Era un mattino di giugno, appena finita la scuola. Io e mio padre, dalla finestra, vedemmo la nostra dirimpettaia scendere in giardino, con le mani sulle guance, sconvolta come le gazze che teneva in gabbia e come i cani; si formava lentamente un capannello attorno a lei, e allora mio padre scese per vedere se c’era qualche guaio. «Impicà», si agitava la donna, «impicà». Uno dei due proprietari dell’azienda di bibite si era impiccato dentro il capannone: il socio, alla sua vista, aveva cacciato urla laceranti, attirando subito i vicini, che da anni non vedevano succedere qualcosa. L’ambulanza arrivò in silenzio e tacque il telegiornale locale. Il magazzino fu abbandonato nel giro di un mese.

Oggi, passando in bicicletta, mi ha sorpreso scoprire che dopo tanto tempo il capannone è tornato in attività. Mi sono fermato un istante, quasi sbalordito, e poi ho ripreso la strada verso casa, ancora più lento del solito. A un ragazzino che si fosse fermato accanto a me, incuriosito dall’inedito andirivieni attorno al vecchio edificio, avrei potuto dire che lì, una volta, stoccavano le bibite, ma non avrei aggiunto altro, non una parola su quel suicidio. Perché sarebbe troppo duro, per un ragazzo, scoprire quanto il destino possa essere sconcio: adesso, in quel capannone, ci costruiscono bare.

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editoriale di fosca

Sono stata al cinema a vedere l’ultimo film di Woody Allen: una commedia frizzante e divertente.
Sono lì seduta, avvolta dal buio e felice come una pasqua, quando di fianco mi si siede l’ultimo di una numerosa comitiva di signori attempati ma gioviali, quando inizia il film. Mi concentro, sprofondo nella poltrona godendomi la situazione. Adoro il cinema e il silenzio deve essere religioso e totale.
Improvvisamente però il mio orecchio percepisce qualcosa, un suono debole ma costante, ritmico, una sorta di scricchiolio penso, noioso e continuo…Tendo l’orecchio, arriva dalla mia sinistra, mi accorgo che proviene dall’ultimo signore della comitiva al mio fianco: ma che?.. sta rigirando il biglietto di ingresso arrotolandolo intorno all’indice e srotolandolo subito dopo, ritmicamente e con metodo: arrotolo, srotolo, gneec, gneec… Beh, smetterà. No, anzi, aumenta il ritmo in un crescendo ossessivo-compulsivo: il dito stritolato all’interno del biglietto ed i cigolii della carta gneec, gneec.. il film si dipana mettendo in luce le manie umane più elementari e ne ho un validissimo esempio al mio fianco. Il nervosismo sale.

Passa un quarto d’ora, ora non solo lo arrotola e srotola facendolo gemere pietosamente, ora lo porta pure alla bocca e ci soffia dentro.. Gneec, gneec, ppffffuuu….sono quasi isterica. Inizio a tricotillare a mia volta per sfogare l’impotenza e per non dargli una gomitata, soprattutto. Reagisco a mania con mania. Eccezionale. Chi ha manie simili manco se ne rende conto, e non si accorge che il suo infinito piacere è la mia croce infinita. E’ come dire a chi si divora le unghie di trattenersi dal farlo.
Intanto la mia dolce metà mi dice: “Tutto bene? Stai tricotillando a manetta”. Eh sì cavolo che tricotillo ma senza dare fastidio a nessuno! Lui arrotola io arriccio.
Ci vuole tutto il mio controllo per togliere il sonoro al gesto ossessivo che sovrasta il dialogo del film da ormai 30 minuti, il gemito di un biglietto che sembra avere il maldistomaco.
A questo punto lo spettatore smette col biglietto e, inizia a ripeterne tutte le battute migliori all’istante: ho l’eco al mio fianco, in perfetto dialetto provinciale lombardo.

Sono in pieno training autogeno, penso:"Io sono paziente, io sono tollerante”, tipo mantra buddista, finchè non mi estranio completamente.
L’ora successiva scorre che è un piacere, io ho scoperto di essere paziente anche stasera ed il film è pacificante.
Si accendono le luci ed eccolo lì il biglietto incriminato ancora arrotolato e consunto, abbandonato sulla poltrona come avesse vita propria. Una cosa insignificante eppure tanto prepotente.
Usciamo e ci incamminiamo lentamente commentando il film.
Andate al cinema che fa tanto bene a mente, humor e cuore, ma lasciate il biglietto in tasca!


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editoriale di azzo

Mi piace la faccia di Roberto Saviano. Mi piace il suo parlare pacato, mentre sono sicuro che ha il cuore in subbuglio. Mi piace come muove le mani, agitate per chiarire i concetti, da buon meridionale. Più di tutto, ça va sans dire, mi appassiona quel che racconta. Purtroppo, negli ultimi tempi, sempre più spesso, come è accaduto lo scorso venerdì intervistato da Daria Bignardi, è costretto a dire di sé. A difendersi da accuse, a chiarire le proprie posizioni, a narrare di minacce. E questa mi pare una gravissima limitazione al suo io, alla sua più intima essenza, alla sua funzione, non fosse sufficiente quella di dover vivere da anni sotto scorta.

Emilio Fede è una di quelle cose della vita che per me è come non esistessero. Un po' come sapere chi ha vinto il Festival di Sanremo o il titolo dell'ultimo film di Christian De Sica. Una sorta di maschera del teatro napoletano che racconta barzellette che non mi fanno ridere.
Questa primavera mi sono imbattuto in un link di Youtube dove si vede Fede, in una quarantina di secondi, attaccare Saviano, sostenendo che lo scrittore ha poco da lamentarsi, visto che con le sue molteplici opere ed apparizioni è diventato ricco. A questa affermazione si può facilmente replicare che, anche così fosse, non si capisce cosa se ne farebbe di tutti questi "soldini", così li chiama il giornalista d'assalto, che non può spendere, vivendo da anni blindato. Dubito ne sia interessato, ma, nelle attuali condizioni, non può acquistare una Ferrari, una moto, uno yacht, perfino una casa propria.
Fede finisce il suo intervento invitando l'autore di Gomorra a non fare il vittimista, in quanto anche lui vive da anni sotto protezione, ma non va in giro a raccontarne il motivo. Saremmo proprio curiosi, noi, invece, di conoscerlo questo motivo. Chi è che vuole uccidere Emilio Fede? Un croupier del Casinò di Courmayeur perché non gli ha lasciato la mancia? Oppure il suo chirurgo plastico perché non ha pagato le iniezioni di botulino? Siccome la sua scorta la pago pure io, con le mie tasse, vorrei proprio sapere chi è il demente che sta sprecando la propria esistenza meditando un attentato a costui.

Ci si può anche scherzare, volendo, se la cosa non fosse tremendamente seria. Saviano ha ripetutamente spiegato che la prima mossa della camorra per colpire i propri nemici è quella di screditarli, calunniarli, delegittimarli. Fede non è un camorrista, è solo un…… (aggettivo a scelta dei lettori di DeBaser, normalmente pieni di fantasia). Ma ha agito come questi. Non confutando le opinioni altrui con le proprie o cercando di dimostrare che lo scrittore racconta bugie o che altro. No, solo tentando di sputtanarlo.

Se Roberto Saviano verrà ammazzato, e Dio non voglia, piangerò lacrime amare. Quando Emilio Fede morirà, fra vent'anni nel proprio letto, tirerò fuori una bottiglia di rosso, che ho messo via questa primavera, e brinderò alla mia salute. Non a Zeus, dispensatore di fulmini, in questi tempi assolutamente latitante.


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editoriale di Cornell

Una volta esistevano posti bellissimi, dove tu entravi e avevi innanzi qualche sportello, con dietro un addetto magari svogliato e fancazzista, il quale, non appena ti presentavi al suo cospetto, con lo sguardo sembrava dirti amichevolmente: "E adesso questo, che cazzo vuole?".

Potevi sfogare le tue lamentele e le tue frustrazioni, anche quelle represse che non c'entravano nulla con la bolletta del telefono, della luce o altro, con un tuo simile. Potevi insultarlo, pretendere di parlare con il suo superiore, avere un contatto umano, una risposta quasi immediata, sia questa un "Ed allora?" o "Ha ragione Signore, provvederemo immediatamente a chiarire il disguido", potevi toglierti qualche soddisfazione insomma.

Ora non è più così, sono finiti i bei tempi, non troverai più nessuno con cui litigare, con cui scambiare due chiacchiere, perchè ormai è arrivata l'era dei call center. Che Dio li fulmini tutti! Mai provato a chiamare un call center? Retrocediamo: ti chiama una signorina, voce affabile e ti fa un'offerta che non puoi rifiutare, sia questa legata al mondo della telefonia, dell'energia e quant'altro. Perché oggi c'è il libero mercato, perché da oggi si può risparmiare, e tanto anche. Così ti butti. Attivi tutto e da lì, per te, giuovine allocco, è finita.

Se tutto va bene non avrai bisogno di assistenza, ma se qualcosa va storto inizi a chiamare: prema 1 se vuole segnalare un guasto, 2 per l'offerta più vantaggiosa, 3 per assistenza tecnica, 4 per sfogare la sua rabbia con un nastro registrato, 5 per andare a fare in quel posto e 0 per parlare con un operatore. Se riesci ad agganciare un operatore, prega Iddio, o chi per lui, che tu riesca a fare tutto, che tu riesca soprattutto a far capire a colui o colei con scarsissima esperienza in merito (è sempre così) il tuo problema, prima che cada la linea, perché se cade sei fottuto e devi ricominciare tutto da capo, ovviamente parlando con un nuovo simpatico operatore.

Conosco gente che è stata in linea delle ore, gente che si è persa nei meandri del prema 1 poi 2 poi 5 poi 7 e la stanno cercando ancora adesso, gente che si è suicidata impiccandosi con il cavo telefonico, gente finita in cura da specialisti, solo perché dovevano chiedere delucidazioni sulla bolletta, cambiare tariffa o approfittare dell'offerta longdayweekmonthyearnight&day 0,001€. cent./min.+ IVA.

Siamo in un mondo dove stanno sparendo i rapporti umani e dove chi ti propone un'offerta vantaggiosissima, il 99% delle volte ti è già alle spalle con la patta abbassata o una turgida cintura fallica. Quindi, se vi trovate bene con i vostri gestori e, mentre magari state mangiando, squilla il telefono e all'altro capo una vocina inizia a vomitarvi migliaia di parole con trentacinque volte ripetuta la risposta "risparmio", non esitate un attimo a mandarla a fare in culo e riattaccare immediatamente. Avrete sicuramente già risparmiato.

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editoriale di Targetski

A me le carogne non sono mai piaciute. Mai. È una predisposizione che sviluppai fin dall’infanzia, quando, verso le sei, la televisione mandava in onda ‘Ok il prezzo è giusto’. Per poter giocare, i quattro concorrenti in ballo dovevano indovinare il prezzo di un prodotto esposto accanto a una bella signorina svestita, emerso dal nulla all’invocazione generale, quasi sciamanica, di «apriti, sesamo». Spesso si trattava di prodotti molto bislacchi, di marca o di design, come cavatappi-forbici, sedie per manager nani, lampade di nylon, cyclette per gatti, spremiagrumi portafoto o cose simili, sicché i concorrenti, abituati a fare la comune spesa settimanale all’Esselunga e lo shopping alla Standa del padrone, si trovavano in estrema difficoltà nello stabilire il prezzo di oggetti così improbabili.

La loro reazione, genericamente, consisteva nel voltarsi verso il pubblico vociante cercando di carpire un suggerimento utile: «cinquantamila!!», «novantamila!!», «millemila!!», urlavano, alzandosi spiritati dai seggiolini. E qui emergeva la detestabile carogna, la quale, sentito il prezzo proposto dal concorrente prima di lui («cinquantaseimila»), dichiarava una cifra di pochissimo superiore («cinquantaseimilacento»), ben sapendo che bisognava avvicinarsi al prezzo giusto solo per difetto: chi sforava, perdeva. Il suo, insomma, era un giocare contro gli altri, e precisamente contro un altro concorrente, di solito quello che aveva proposto la cifra più alta. Allora potevi vedere l’onesto travet che aveva detto ‘cinquantaseimila' gesticolare rabbiosamente e agitarsi verso i giudici o la presentatrice per contestare la vigliaccheria altrui, rendendosi conto che solo un miracolo avrebbe potuto farlo vincere. E infatti perdeva, perché la penna-springafiori costava 'sessantamila palanche'(!), per l’esultanza festosa della carogna, che poi avrebbe di sicuro totalizzato cento girando la ruota finale (da cui l’incitazione «cento! cento!» che ancora adesso può capitare di sentire da qualche nostalgico telespettatore nelle circostanze più varie).

Ecco: 'Ok il prezzo è giusto', che è stata una sottilissima arma in mano ai potentati per sviluppare nell’italiano medio la furia dello shopping e l’idolatria verso il denaro, a me ha soltanto stimolato una profonda avversione verso tutte le carogne. E quando adesso vedo i politicanti nello studio di Ballarò, così simile, per certi colorismi kitsch, a quello di 'Ok il prezzo è giusto', mentre urlano cifre verosimilmente inattendibili e statistiche oberate di numeri («diecimila milioni! un milione di occupati! ventordicimila voti!») penso che gente come Tremonti, dalla Zanicchi, avrebbe vinto di sicuro.

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editoriale di kosmogabri

Diceva Louis-Ferdinand Céline che non era necessario leggere le notizie che i giornali contenevano, ma solo le pubblicità e i necrologi. Per tenersi aggiornati, diceva. Per sapere cosa il mondo pretende: ed è per questo che cerco di non perdermi nemmeno un episodio di Studio Aperto - la mia sitcom preferita -, sintomo di quello che il mondo offre e toglie, tra culi sodi, diete e le imprese dei migliori statisti di questa merda di paese.

La notizia di questa diciottenne marocchina, uccisa con un coltello dal padre, mentre era in compagnia in un boschetto del suo fidanzato trentenne, è seguita dalle parole della sua amica del cuore che la definisce, in un deliro di frivolezza assoluta, come una ragazza che mangiava panini al prosciutto di nascosto, che si cibava di cibi piccanti e divisa tra spitz e abiti succinti. Il tutto di nascosto, perché questa "religione dell'odio" (cit.) che è l'Islam, tutto vuole eccetto che il tuo benessere.

Il regime a-morale che viviamo si fa ogni giorno più stringente, non prevede pensieri o incertezze. Ci propinano donne-oggetti da tempo, è impossibile che una qualsiasi ragazza non voglia diventare una donna-oggetto. E allora tutto dritto, i colpevoli sono colpevoli e gli innocenti sono innocentemente innocenti. Il mondo che plasmano e che hanno plasmato, ai miei occhi, barcolla tra l'ingenuità e la superficialità e le persone che più odio lottano sempre tra l'ingenuità e la superficialità.

Diceva Fëdor Michajlovič Dostoevskij, tornato dalla Siberia, in una lettera in cui spiegava la stesura di Delitto e Castigo, che i colpevoli non sono altro che dei malati, che è inutile puntare il dito, perché un malato tutto quello che sa è di essere malato. Ed io non riesco ad immaginare questo quarantacinquenne marocchino come una persona sana, che lascia la sua terra - ma non lascia il suo mondo - per assicurare ai suoi figli un mondo migliore, in una terra diversa, e che si ritrova con una figlia di diciotto anni, che ha lasciato la scuola e che vuole andare a vivere con il suo fidanzato trentenne, conosciuto appena tre mesi prima.

Il tempo cancella tutto e stempera tutto, ma se il tempo stesso è una malattia, che succede?



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editoriale di Fallen

seconda parte

...Non so bene perché mi sia fermato a guardare, ma quello che ho visto era un poveraccio davanti alla portiera aperta di una pattuglia della polizia. Un poveraccio rigido, stretto nelle spalle, le braccia abbandonate lungo i fianchi, cui due uomini in divisa intimavano non troppo amichevolmente di entrare in macchina. Un poveraccio che continua a rimanere fermo e si becca un manganellata tra capo e collo. E prima ancora di poter pensare che il polso continuava a fare fottutamente male, che avrei dovuto essere sotto i ferri di lì a un paio d’ore, che non era il caso di rompere le palle a una decina di poliziotti in servizio, oltretutto con una mano inservibile, che in fondo non era la mia guerra, ho sentito la voce esplodermi in un ringhio proveniente dallo stomaco, dando il la al coro selvaggio di improperi e minacce che si alzava contro quel robocop “de noantri” che ancora stringeva in mano il manganello, mentre i miei piedi seguivano la scia di mio padre che già si trovava a strattonare un paio di agenti. Lui, ultracinquantenne professore occhialuto e brizzolato, solo, lì in mezzo, a berciare e strattonare quando ancora i più giovani tra noi dovevano iniziare ad avvicinarsi. Poi mi ricordo solo mani addosso da tutte le parti, urla e sputi, i rayban di robocop che si schiantano a terra, una manganellata che fischia a tre centimetri dalla mia mano destra ancora in corsa per uno schiaffo e robocop con la faccia confusa sbattuto dentro una volante e portato via dai colleghi.

Mentre nella penombra fresca riprendevo fiato, ho pensato che se era successa una cosa del genere allora forse quel cambiamento che spasmodicamente stiamo cercando non può essere lontano. Che per rendere migliore il nostro paese basta comportarsi secondo coscienza, al di là di bandiere, politica e convinzioni. Ho pensato che la rivoluzione che ci occorre è questa, senza fucili e senza molotov, ma con la sana voglia di difendere quello che è giusto per tutti contro chiunque voglia toccarlo, fosse pure lo stato.

Mentre gli ultimi capannelli di gente si disperdevano, una brezza tiepida si è alzata ad accarezzare il quartiere. L’ho vista passare attraverso le foglie degli alberi, tra i capelli di quanti avevano partecipato a quel teatrino, prima ancora di avvertirla nell’androne dove mi trovavo.
E' stato come un abbraccio collettivo, il segno tangibile di quel fiero sentimento di giustizia che ancora ci riempiva, nonostante stessimo già tornando a scannarci per roma e lazio, il parcheggio e le liti condominiali. La rivoluzione, se è vera, ti prende senza chiederti cosa hai da fare, come la pensi o chi voti. Come il vento.

Grazie alla gente del mio quartiere che non se ne è stata con le mani in tasca quando si è trovata ad assistere allo spettacolo dello stato che abusa del proprio potere.
Grazie a chi, senza conoscermi, mi ha portato via da quel marasma nascondendomi in un portone che non era il mio.
Grazie al capitano di robocop, che in mezzo al casino ordinava a pieni polmoni ai suoi sottoposti di rimettere via i manganelli, e che a cose finite si è scusato con tutti stringendo la mano a mio padre.
Grazie a robocop per avermi ricordato cosa vuol dire l'espressione "imperativo morale".
Grazie a mio padre, che dopo quella mattina non sbuffa più quando mi sente parlare di thai boxe, e guarda con più rispetto le mie tibie perennemente coperte di lividi.
Grazie a tutte le persone che passando di lì quel giorno non hanno tirato dritto come io ero intenzionato a fare, dimostrandomi che il mio popolo non sta dormendo.
Grazie a chi, in questa storia, si è comportato come si conviene a un buon Italiano.



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editoriale di Fallen

Prima parte

Stavo andando a operarmi, la mattina di giovedì nove luglio e, sinceramente, pensavo molto di più alla poltiglia sanguinolenta e infiammata che avevo al posto del polso destro piuttosto che alle quattro pattuglie di polizia visibili dal mio balcone al settimo piano, che sembravano essersi fermate proprio davanti al mio portone. Mio padre non aveva di certo pensieri molto diversi dai miei, ma aveva avuto la buona creanza di notare gli agenti accanto alle macchine che interrogavano un tizio negro ben piazzato che gesticolava, evidentemente disperato.
“Ha spaccato le vetrate di un bar perché il barista gli ha negato un cappuccino."
“Pensa se gli negavano un limoncello!”
"Gli ha detto: Non te lo faccio il cappuccino perché sei un negro di merda…”

Sono rimasto in silenzio. A Roma, nel mio quartiere, gli stranieri ne hanno combinate tante, troppe; sarei il primo ad applaudire se qualche vittima prima o poi si difendesse, lasciando per terra un paio di balordi. Qui però mi sembrava che le cose stessero prendendo una brutta piega, e come al solito il conto si era ritrovato a pagarlo chi non c’entrava niente con il casino in questione. In ogni caso, non era proprio la mattina giusta; il polso, o quello che ne rimaneva, faceva male, e io avevo un interevento chirurgico da sostenere… anestesia, dolori post-operatori, prospettive di riabilitazione e tutto il resto. Però purtroppo la rivoluzione è come il natale: quando arriva, arriva. E per me, e anche per mio padre, che attraversavamo l’atrio del palazzo diretti alla macchina, intenzionati ad attraversare quella tragedia umana come due gabbiani farebbero con un banco di nebbia, la rivoluzione era arrivata. O meglio, ci attendeva davanti al portone sotto forma di un crocchio di passanti che commentavano l’accaduto ad alta voce.
“Ma stai a' vede, cazzo, j’hanno detto negro demmerda e invece de daje na mano se lo caricano”
“Aho, avrà pure sfasciato i vetri, ma si te lo dicevano a te che facevi?”
“E 'sto testa de cazzo del barista c’ha pure la faccia de denunciallo” – “E le quaje demmerda invece de bevese lui se bevono sto povero negro”. Voci, nient'altro che voci in una tiepida mattina di luglio; ma ho letto da qualche parte che a volte basta un bisbiglio per scatenare una frana.

E improvvisamente sentii franare. Sentii franarmi dentro anni di convinzioni tenute insieme con lo scotch, a volte anche contro la voce della coscienza che gridava vendetta per mille innocenti, partendo da Alberto Giacquinto, steso sul selciato di un marciapiede dietro casa mia trent'anni fa, per finire a Gabriele Sandri, povero ragazzotto in trasferta per una stupidissima partita, passando per la Diaz e Bolzaneto, che non hanno bisogno di presentazioni.
Convinzioni tenute insieme per fiducia nel sistema, nelle forze dell'ordine, perché doveva essere stato un malinteso, un disguido, "Perché altrimenti, in che razza di stato assassino vivo?", e tutto quello che una domanda del genere può comportare per uno come me, che non ha mai amato la parte di spettatore passivo, anche quando a recitare quel ruolo c'era solo da guadagnare, proprio come quella mattina...



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editoriale di K.

La prima regola da imparare quando ci si impiega in una banca è: non vedo, non sento, non parlo. Il contratto prevede tale patto. Non mi ci volle molto a firmarlo, qualche anno fa, quando ebbi l'idea folle ma conveniente, di entrare in un istituto bancario privato svizzero, come impiegata di ricezione. Il mio compito era quello di aprire la porta, salutare nella lingua necessaria ed accompagnare il cliente (tedesco, russo, arabo, più spesso italiano) negli uffici, possibilmente sculettando, con educazione e discrezione ovviamente.
Ma visto che in una banca svizzera non te la rendono mai liscia, arriva sempre il momento del challenge. Il challenge a cui non puoi sfuggire neanche morto se sei uno appena svelto. In una banca meglio non far notare che hai un minimo di sale in zucca, seconda regola.

Il mio challenge era quello di apprendere il ruolo di cassiera. Però in quella piccola banca privata non c'erano sportelli, solo la cassaforte. Ore ed ore chiusa in una cassaforte. Lo potete immaginare l'odore dei soldi, di tanti tanti soldi? L'odore acre e nauseabondo di umanità che ha toccato, cinciscato e chissà quant'altro banconote lise ed unte? E' un fetore che si spande quando le sfogli nella macchina per contarle... come stare in una cucina del McD, alla sera devi farti la doccia per eliminare il puzzo grasso che ti si è incollato addosso. Uscivo dalla cassaforte solo per andare a ritirare i versamenti dei clienti in attesa negli uffici dei consulenti. C'era un consulente che pareva sempre sull'orlo di un infarto. Sempre affannato, anche quel famoso pomeriggio, il giorno prima delle mie vacanze estive.

Mi fa venire nel suo ufficio. Ad attendermi una coppia stressata. Italiani del nord-est. Negozianti, oppure una pizzeria, una sartoria. Tra le mani di lui vedo il mio incubo di cassiera apprendista. Non è la prima volta. Un'enorme borsa di plastica umida, reduce da una traversata del lago tra Italia e Svizzera legata sotto un motoscafo. Ve lo immaginate quanto olezza un mucchio di banconote strausate e bagnate di acqua lacustre? E a contarle? La coppia ha portato circa duecento milioni di lire, tutti in pezzi appiccicati e alla rinfusa da dieci, cinquanta, centomila lire. Il frutto della cresta quotidiana, esente scontrino fiscale. Dentro in cassaforte. Conta e riconta, passa e ripassa nelle macchine. Chiamo al telefono l'agente di cambio che mi strappa un aperitivo per una transazione decente, infine comunico le cifre alla coppia e al consulente agitato. Tutto a posto, versamento avvenuto, cambio ottimo, ce l'avete fatta, io pure, andate in pace. E i due scappano via come ladri, con la ricevuta - questa sì - in mano...
Alla sera conta finale. Orrore. Crescono trecentomila lire che trovo incollate assieme. Porcatroia che faccio. Fottute macchine. Però domani vado in vacanza. Quelli non sapevano manco quanti soldi avessero! Tre carte, per me mica poche. Ma... onestà. Devo pur dormire, in vacanza. Annuncio il fatto al consulente. Apriti cielo. Imbarazzo, agitazione, panico... aiuto, questo quasi mi fa un infarto!

La terza regola da imparare quando ci si impiega in una banca è: mai confessare i propri sbagli. S'impara in fretta perché una piccola ma solida banca privata non ammetterà mai d'aver cannato i calcoli, tanto quelli, gli evasori in motoscafo, non sapevano quanti soldi ci fossero nella sacca. Piuttosto la banca quelle tre carte le deposita in un fondo per la cena di Natale con gli impiegati. Pure questo si chiama "segreto bancario". Una cena a cui, alla fin dei conti (ah!) non mi fu permesso partecipare. Evidentemente non avevo capito bene la prima regola.

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