editoriale di fosca

Stamattina sono uscita di casa cinque minuti prima: avrei così guadagnato sulla giornata quasi un quarto d’ora in più, che a Milano può fare la differenza, se devi timbrare il cartellino.
Dove abito io ci sono solo uffici e ben tre scuole tra nido, materna ed elementare, per cui la zona è presidiata da mamme e bimbi ed il tutto si traduce in una miriade di macchine infilate ovunque. Un delirio.
In situazioni come questa l’Educazione Civica è solo un binomio di parole senza senso.

Accade spesso vi siano macchine differentemente parcheggiate in piena sfida allo spazio tridimensionale, proprio davanti, di fianco e sopra la tua macchina, che ti aspetta avvilita.
E la reazione di quelli che hanno parcheggiato in modo incivile è sempre la stessa: l’arroganza.
Anche a me è capitato di dover parcheggiare recando disagio, ma in queste rare occasioni mi sono sempre precipitata scusandomi in ogni modo con l’automobilista incastrato, prodiga di sorrisi e scuse.
Ma loro, loro giungono con passo da aperitivo, come se fossero ai grandi magazzini per qualche idiozia inutile da comprare, conversando al cellulare, freschi, con sorrisi splendenti e poco intelligenti, il vestito con la piega, i capelli con la piega, tutto con una piega pessima, all’appropinquarsi alla vostra macchina immobilizzata.

Quindi oggi, mentre cercavo con gli occhi il proprietario di questa diavolo di Nuova Panda rossa che mi bloccava nel parcheggio, mi vedo arrivare questa signora sui quaranta, con passo per nulla ansioso, che, noncurante, mi passa di fianco con calma e senza degnarmi né di una parola né di uno sguardo, ma, visibilmente infastidita dalla mia stizza, apre la macchina con calma mentre secca io le dico: “Stavo per chiamare i vigili”... il nulla e mi guarda malissimo. Allora insisto: “Lei è una cafona”, ma lei stoica. Sguardo truce e non una parola ma, solo una volta al sicuro nell’abitacolo ben chiuso, mi fa leggere un labiale da brivido. Al che perdo totalmente le staffe e di rimando le parlo dell’Eneide e di Elena, regina di Sparta, e del famoso cavallo della guerra a lei dedicata, con ampi riferimenti.

Mi tuffo nel traffico, allibita ed incazzata, guidando come un’amazzone infuriata, constatando anche oggi come là fuori sia pieno di individui poco inclini all’altruismo utopistico, che ti bloccano la macchina, non chiedono scusa, ti tagliano la strada, ti tolgono la precedenza, passano col rosso, ignorano le strisce pedonali, non cedono la seduta ad anziani e  donne gravide, ti sorpassano nella fila, guardano la tv ad un volume assordante fino a notte, e tante altre cose che a quest’ora non mi vengono in mente, per fortuna…
E considero che domani è un altro giorno, e che la mia macchina sarà ancora lì parcheggiata, nella speranza almeno per un giorno di non dover recitare la solita pantomima da Far West.

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editoriale di kosmogabri

Quattro. Pesanti come un colpo.
"A Cesare quel che è di Cesare.
A Dio quel che è di Dio".
Ma uno come me, dove potrà ficcarsi?
Dove mi si è apprestata una tana?
S'io fossi piccolo come il grande oceano,
mi leverei sulla punta dei piedi delle onde con l'alta marea,
carezzando la luna.
Dove trovare un'amata uguale a me?
Angusto sarebbe il cielo per contenerla!

O s'io fossi povero come un miliardario...
Che cos'è il denaro, per l'anima?
Un ladro insaziabile s'annida in essa:
all' orda sfrenata di tutti i miei desideri
non basta l'oro di tutte le Californie!

S'io fossi balbuziente come Dante o Petrarca
Accendere l'anima per una sola, ordinarle coi versi di
struggersi in cenere.
E le parole e il mio amore sarebbero un arco di trionfo:
pomposamente senza lasciar traccia vi passerebbero sotto
le amanti di tutti i secoli.

O s'io fossi silenzioso, umil tuono... gemerei stringendo
con un brivido l'intrepido eremo della terra.
Seguiterò a squarciagola con la mia voce immensa.
Le comete torceranno le braccia fiammeggianti,
gettandosi a capofitto dalla malinconia.

Coi raggi degli occhi rosicchierei le notti
s'io fossi appannato come il sole.

Che bisogno ho io d'abbeverare con il mio splendore
il grembo dimagrato della terra?
Passerò trascinando il mio enorme amore
in quale notte delirante e malaticcia?
Da quali Golia fui concepito
così grande...
e così inutile?

di Vladimir Majakowskij
riadattamento di Carmelo Bene tratto da: 1974 Bene! Quattro diversi modi di morire in versi.

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editoriale di K.

Vorrei parlavi di una minuta donna tedesca, una piacente e semplice signora di mezz'età comune a tante altre. Petra Reski, questo il suo nome, è una giornalista d'assalto, inviata in Italia. I suoi articoli, le ricerche, i suoi viaggi da anni hanno un principale denominatore: la mafia in Germania. Sono anni che Petra batte su questo chiodo, in particolare concentrandosi sulla 'ndrangheta. Con i suoi articoli s'è assunta una missione non evidente: far capire ai suoi ottusi compatrioti quanto la 'ndrangheta calabrese sia penetrata nel tessuto sociale e politico della loro patria. Come spiega nei suoi scritti pubblicati dai settimanali Stern e Die Zeit, per i mammasantissima è stato facile approfittare della sicurezza dei tedeschi tanto convinti di essere inattaccabili, quindi distratti dalla propria superbia, nonché dal secolare preconcetto romantico che vede l'italiano tutto amore pizza mandolino (e cameriere). Lo sapete tutti quanto i tedeschi amino l'Italia, quasi fosse una cartolina delle vacanze da riguardare con nostalgia durante i mesi invernali. E' esattamente questa l'Italia che credono d'avere in casa. Ebbene, troppo amore acceca.

"Se andiamo avanti così in pochi anni la 'ndrangheta si mangia la Germania", questo l'avvertimento che Reski lancia da anni, insistentemente, fin da quando, una primavera venti anni fa, andò al sud per descriverne le bellezze naturali. Da allora non ha mai smesso di parlare dell'Italia, delle cosche mafiose e delle loro terminazioni nel suo paese. Tuttavia non ha smesso di amare il Belpaese e il suo popolo, anzi, vive a Venezia e un "italiener" se l'è anche sposato.

Reski ricopre un ruolo gravoso. Immaginate ad esempio come spiegare ai tedeschi perché in Italia "l'unica seria opposizione sia rappresentata da un comico, un filosofo, un giornalista e un ex magistrato". Sarebbe gravoso per qualsiasi giornalista europeo. Quindi, come afferma, è più semplice e divertente aggirare l'ostacolo raccontando delle mignotteparlamentari di Papi oppure della sua leggendaria potenza sessuale, come si limitano innumerevoli suoi colleghi tedeschi ed internazionali. Tuttavia Reski a differenza di altri non si è lasciata prendere dal gioco facile cianciando di italico folklore, lei racconta senza mezzi termini di corruzione e collusione, al pari di Roberto Saviano (citazione dovuta), tantopiù ora, in seguito alla recente pubblicazione del suo libro Santa Mafia, da Palermo a Duisburg: sangue, affari, politica e devozione.
Un saggio che in Germania sta suscitando clamore scoperchiando una realtà ormai capillare: buona parte degli innumerevoli investimenti immobiliari italiani nella terra di Goethe - ristoranti, pizzerie, discoteche, alberghi di lusso ma pure agenzie finanziarie che gestiscono queste attività e altre - fungono da copertura dei proventi illegali della 'ndrangheta operante in loco e in tutta Europa. Lavanderia Deutschland.

Tra le pagine dei suoi libri e tra le righe dei suoi articoli questa impavida giornalista fa nomi e cognomi dei boss e di chi li protegge politicamente sul territorio tedesco e italiano, indica le attività più implicate, descrive gli intricati meccanismi del riciclaggio, entra nei dettagli di elaborate indagini forte delle tante interviste a cui ha sottoposto magistrati e forze dell'ordine di entrambi i paesi. E come da copione sono arrivate le prime minacce.

"La mafia non è un problema esclusivamente italiano né un affare di coppole e di realtà arretrate del sud Italia, ma un problema europeo.".
Vorrei ricordarvi soltanto questo nome: Petra Reski.


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editoriale di Targetski

In una terra come la mia dove tutti, almeno una volta nella vita, sono stati imprenditori, i magazzini abbandonati e i capannoni dismessi sono un’immagine tristemente consueta. Girando in bici con i miei ritmi lenti, agli antipodi rispetto all’efficienza frenetica dei miei compaesani, ne posso vedere uno stuolo, nascosti tra i condomini e gli ipermercati, incassati nel cielo grigio dietro una rete metallica, accanto a un parcheggio semivuoto di un quartiere residenziale. Ogni tanto qualche vecchio si ferma accanto a quei monumenti alla vacuità dell’attivismo umano e sosta pensoso, quasi si trovasse di fronte alla resa dei conti della propria stessa esistenza. Se mi fermassi con uno di loro, so che mi direbbe cosa si fabbricava lì un tempo. Mio nonno, ad esempio, mi informò che nel fabbricato plumbeo dopo il sottopassaggio di Carlo Alberto ci facevano le caramelle. Oggi è sprangato perché non ci entrino gli extracomunitari. Una volta ci uscivano i lecca-lecca.

Dietro la via dove abito, di fronte all’Aliper, si nasconde un capannone più piccolo e mesto di altri; accanto, su entrambi i lati, luccicano due linde abbinate dotate di garage sotterraneo. Io, anche se non sono vecchio, ma vivo pur sempre, come ho detto, a ritmi più bassi rispetto ai veneti dinamici, ricordo benissimo cosa c’era in quell’edificio anni fa: casse e casse di bibite. Fanta, Coca Cola, Sprite, SevenUp (o Zup, le prime volte), impilate l’una sopra l’altra in un colorato mausoleo della bollicina. Quando ci passavamo accanto, da piccoli, dopo le partite di basket, sognavamo sempre che qualche pila crollasse, inondandoci di Coca Cola freschissima. L’azienda chiuse almeno quindici anni fa, dopo una tragedia che scosse, eccitandolo, l’intero isolato.

Era un mattino di giugno, appena finita la scuola. Io e mio padre, dalla finestra, vedemmo la nostra dirimpettaia scendere in giardino, con le mani sulle guance, sconvolta come le gazze che teneva in gabbia e come i cani; si formava lentamente un capannello attorno a lei, e allora mio padre scese per vedere se c’era qualche guaio. «Impicà», si agitava la donna, «impicà». Uno dei due proprietari dell’azienda di bibite si era impiccato dentro il capannone: il socio, alla sua vista, aveva cacciato urla laceranti, attirando subito i vicini, che da anni non vedevano succedere qualcosa. L’ambulanza arrivò in silenzio e tacque il telegiornale locale. Il magazzino fu abbandonato nel giro di un mese.

Oggi, passando in bicicletta, mi ha sorpreso scoprire che dopo tanto tempo il capannone è tornato in attività. Mi sono fermato un istante, quasi sbalordito, e poi ho ripreso la strada verso casa, ancora più lento del solito. A un ragazzino che si fosse fermato accanto a me, incuriosito dall’inedito andirivieni attorno al vecchio edificio, avrei potuto dire che lì, una volta, stoccavano le bibite, ma non avrei aggiunto altro, non una parola su quel suicidio. Perché sarebbe troppo duro, per un ragazzo, scoprire quanto il destino possa essere sconcio: adesso, in quel capannone, ci costruiscono bare.

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editoriale di fosca

Sono stata al cinema a vedere l’ultimo film di Woody Allen: una commedia frizzante e divertente.
Sono lì seduta, avvolta dal buio e felice come una pasqua, quando di fianco mi si siede l’ultimo di una numerosa comitiva di signori attempati ma gioviali, quando inizia il film. Mi concentro, sprofondo nella poltrona godendomi la situazione. Adoro il cinema e il silenzio deve essere religioso e totale.
Improvvisamente però il mio orecchio percepisce qualcosa, un suono debole ma costante, ritmico, una sorta di scricchiolio penso, noioso e continuo…Tendo l’orecchio, arriva dalla mia sinistra, mi accorgo che proviene dall’ultimo signore della comitiva al mio fianco: ma che?.. sta rigirando il biglietto di ingresso arrotolandolo intorno all’indice e srotolandolo subito dopo, ritmicamente e con metodo: arrotolo, srotolo, gneec, gneec… Beh, smetterà. No, anzi, aumenta il ritmo in un crescendo ossessivo-compulsivo: il dito stritolato all’interno del biglietto ed i cigolii della carta gneec, gneec.. il film si dipana mettendo in luce le manie umane più elementari e ne ho un validissimo esempio al mio fianco. Il nervosismo sale.

Passa un quarto d’ora, ora non solo lo arrotola e srotola facendolo gemere pietosamente, ora lo porta pure alla bocca e ci soffia dentro.. Gneec, gneec, ppffffuuu….sono quasi isterica. Inizio a tricotillare a mia volta per sfogare l’impotenza e per non dargli una gomitata, soprattutto. Reagisco a mania con mania. Eccezionale. Chi ha manie simili manco se ne rende conto, e non si accorge che il suo infinito piacere è la mia croce infinita. E’ come dire a chi si divora le unghie di trattenersi dal farlo.
Intanto la mia dolce metà mi dice: “Tutto bene? Stai tricotillando a manetta”. Eh sì cavolo che tricotillo ma senza dare fastidio a nessuno! Lui arrotola io arriccio.
Ci vuole tutto il mio controllo per togliere il sonoro al gesto ossessivo che sovrasta il dialogo del film da ormai 30 minuti, il gemito di un biglietto che sembra avere il maldistomaco.
A questo punto lo spettatore smette col biglietto e, inizia a ripeterne tutte le battute migliori all’istante: ho l’eco al mio fianco, in perfetto dialetto provinciale lombardo.

Sono in pieno training autogeno, penso:"Io sono paziente, io sono tollerante”, tipo mantra buddista, finchè non mi estranio completamente.
L’ora successiva scorre che è un piacere, io ho scoperto di essere paziente anche stasera ed il film è pacificante.
Si accendono le luci ed eccolo lì il biglietto incriminato ancora arrotolato e consunto, abbandonato sulla poltrona come avesse vita propria. Una cosa insignificante eppure tanto prepotente.
Usciamo e ci incamminiamo lentamente commentando il film.
Andate al cinema che fa tanto bene a mente, humor e cuore, ma lasciate il biglietto in tasca!


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editoriale di azzo

Mi piace la faccia di Roberto Saviano. Mi piace il suo parlare pacato, mentre sono sicuro che ha il cuore in subbuglio. Mi piace come muove le mani, agitate per chiarire i concetti, da buon meridionale. Più di tutto, ça va sans dire, mi appassiona quel che racconta. Purtroppo, negli ultimi tempi, sempre più spesso, come è accaduto lo scorso venerdì intervistato da Daria Bignardi, è costretto a dire di sé. A difendersi da accuse, a chiarire le proprie posizioni, a narrare di minacce. E questa mi pare una gravissima limitazione al suo io, alla sua più intima essenza, alla sua funzione, non fosse sufficiente quella di dover vivere da anni sotto scorta.

Emilio Fede è una di quelle cose della vita che per me è come non esistessero. Un po' come sapere chi ha vinto il Festival di Sanremo o il titolo dell'ultimo film di Christian De Sica. Una sorta di maschera del teatro napoletano che racconta barzellette che non mi fanno ridere.
Questa primavera mi sono imbattuto in un link di Youtube dove si vede Fede, in una quarantina di secondi, attaccare Saviano, sostenendo che lo scrittore ha poco da lamentarsi, visto che con le sue molteplici opere ed apparizioni è diventato ricco. A questa affermazione si può facilmente replicare che, anche così fosse, non si capisce cosa se ne farebbe di tutti questi "soldini", così li chiama il giornalista d'assalto, che non può spendere, vivendo da anni blindato. Dubito ne sia interessato, ma, nelle attuali condizioni, non può acquistare una Ferrari, una moto, uno yacht, perfino una casa propria.
Fede finisce il suo intervento invitando l'autore di Gomorra a non fare il vittimista, in quanto anche lui vive da anni sotto protezione, ma non va in giro a raccontarne il motivo. Saremmo proprio curiosi, noi, invece, di conoscerlo questo motivo. Chi è che vuole uccidere Emilio Fede? Un croupier del Casinò di Courmayeur perché non gli ha lasciato la mancia? Oppure il suo chirurgo plastico perché non ha pagato le iniezioni di botulino? Siccome la sua scorta la pago pure io, con le mie tasse, vorrei proprio sapere chi è il demente che sta sprecando la propria esistenza meditando un attentato a costui.

Ci si può anche scherzare, volendo, se la cosa non fosse tremendamente seria. Saviano ha ripetutamente spiegato che la prima mossa della camorra per colpire i propri nemici è quella di screditarli, calunniarli, delegittimarli. Fede non è un camorrista, è solo un…… (aggettivo a scelta dei lettori di DeBaser, normalmente pieni di fantasia). Ma ha agito come questi. Non confutando le opinioni altrui con le proprie o cercando di dimostrare che lo scrittore racconta bugie o che altro. No, solo tentando di sputtanarlo.

Se Roberto Saviano verrà ammazzato, e Dio non voglia, piangerò lacrime amare. Quando Emilio Fede morirà, fra vent'anni nel proprio letto, tirerò fuori una bottiglia di rosso, che ho messo via questa primavera, e brinderò alla mia salute. Non a Zeus, dispensatore di fulmini, in questi tempi assolutamente latitante.


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editoriale di Cornell

Una volta esistevano posti bellissimi, dove tu entravi e avevi innanzi qualche sportello, con dietro un addetto magari svogliato e fancazzista, il quale, non appena ti presentavi al suo cospetto, con lo sguardo sembrava dirti amichevolmente: "E adesso questo, che cazzo vuole?".

Potevi sfogare le tue lamentele e le tue frustrazioni, anche quelle represse che non c'entravano nulla con la bolletta del telefono, della luce o altro, con un tuo simile. Potevi insultarlo, pretendere di parlare con il suo superiore, avere un contatto umano, una risposta quasi immediata, sia questa un "Ed allora?" o "Ha ragione Signore, provvederemo immediatamente a chiarire il disguido", potevi toglierti qualche soddisfazione insomma.

Ora non è più così, sono finiti i bei tempi, non troverai più nessuno con cui litigare, con cui scambiare due chiacchiere, perchè ormai è arrivata l'era dei call center. Che Dio li fulmini tutti! Mai provato a chiamare un call center? Retrocediamo: ti chiama una signorina, voce affabile e ti fa un'offerta che non puoi rifiutare, sia questa legata al mondo della telefonia, dell'energia e quant'altro. Perché oggi c'è il libero mercato, perché da oggi si può risparmiare, e tanto anche. Così ti butti. Attivi tutto e da lì, per te, giuovine allocco, è finita.

Se tutto va bene non avrai bisogno di assistenza, ma se qualcosa va storto inizi a chiamare: prema 1 se vuole segnalare un guasto, 2 per l'offerta più vantaggiosa, 3 per assistenza tecnica, 4 per sfogare la sua rabbia con un nastro registrato, 5 per andare a fare in quel posto e 0 per parlare con un operatore. Se riesci ad agganciare un operatore, prega Iddio, o chi per lui, che tu riesca a fare tutto, che tu riesca soprattutto a far capire a colui o colei con scarsissima esperienza in merito (è sempre così) il tuo problema, prima che cada la linea, perché se cade sei fottuto e devi ricominciare tutto da capo, ovviamente parlando con un nuovo simpatico operatore.

Conosco gente che è stata in linea delle ore, gente che si è persa nei meandri del prema 1 poi 2 poi 5 poi 7 e la stanno cercando ancora adesso, gente che si è suicidata impiccandosi con il cavo telefonico, gente finita in cura da specialisti, solo perché dovevano chiedere delucidazioni sulla bolletta, cambiare tariffa o approfittare dell'offerta longdayweekmonthyearnight&day 0,001€. cent./min.+ IVA.

Siamo in un mondo dove stanno sparendo i rapporti umani e dove chi ti propone un'offerta vantaggiosissima, il 99% delle volte ti è già alle spalle con la patta abbassata o una turgida cintura fallica. Quindi, se vi trovate bene con i vostri gestori e, mentre magari state mangiando, squilla il telefono e all'altro capo una vocina inizia a vomitarvi migliaia di parole con trentacinque volte ripetuta la risposta "risparmio", non esitate un attimo a mandarla a fare in culo e riattaccare immediatamente. Avrete sicuramente già risparmiato.

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editoriale di Targetski

A me le carogne non sono mai piaciute. Mai. È una predisposizione che sviluppai fin dall’infanzia, quando, verso le sei, la televisione mandava in onda ‘Ok il prezzo è giusto’. Per poter giocare, i quattro concorrenti in ballo dovevano indovinare il prezzo di un prodotto esposto accanto a una bella signorina svestita, emerso dal nulla all’invocazione generale, quasi sciamanica, di «apriti, sesamo». Spesso si trattava di prodotti molto bislacchi, di marca o di design, come cavatappi-forbici, sedie per manager nani, lampade di nylon, cyclette per gatti, spremiagrumi portafoto o cose simili, sicché i concorrenti, abituati a fare la comune spesa settimanale all’Esselunga e lo shopping alla Standa del padrone, si trovavano in estrema difficoltà nello stabilire il prezzo di oggetti così improbabili.

La loro reazione, genericamente, consisteva nel voltarsi verso il pubblico vociante cercando di carpire un suggerimento utile: «cinquantamila!!», «novantamila!!», «millemila!!», urlavano, alzandosi spiritati dai seggiolini. E qui emergeva la detestabile carogna, la quale, sentito il prezzo proposto dal concorrente prima di lui («cinquantaseimila»), dichiarava una cifra di pochissimo superiore («cinquantaseimilacento»), ben sapendo che bisognava avvicinarsi al prezzo giusto solo per difetto: chi sforava, perdeva. Il suo, insomma, era un giocare contro gli altri, e precisamente contro un altro concorrente, di solito quello che aveva proposto la cifra più alta. Allora potevi vedere l’onesto travet che aveva detto ‘cinquantaseimila' gesticolare rabbiosamente e agitarsi verso i giudici o la presentatrice per contestare la vigliaccheria altrui, rendendosi conto che solo un miracolo avrebbe potuto farlo vincere. E infatti perdeva, perché la penna-springafiori costava 'sessantamila palanche'(!), per l’esultanza festosa della carogna, che poi avrebbe di sicuro totalizzato cento girando la ruota finale (da cui l’incitazione «cento! cento!» che ancora adesso può capitare di sentire da qualche nostalgico telespettatore nelle circostanze più varie).

Ecco: 'Ok il prezzo è giusto', che è stata una sottilissima arma in mano ai potentati per sviluppare nell’italiano medio la furia dello shopping e l’idolatria verso il denaro, a me ha soltanto stimolato una profonda avversione verso tutte le carogne. E quando adesso vedo i politicanti nello studio di Ballarò, così simile, per certi colorismi kitsch, a quello di 'Ok il prezzo è giusto', mentre urlano cifre verosimilmente inattendibili e statistiche oberate di numeri («diecimila milioni! un milione di occupati! ventordicimila voti!») penso che gente come Tremonti, dalla Zanicchi, avrebbe vinto di sicuro.

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editoriale di kosmogabri

Diceva Louis-Ferdinand Céline che non era necessario leggere le notizie che i giornali contenevano, ma solo le pubblicità e i necrologi. Per tenersi aggiornati, diceva. Per sapere cosa il mondo pretende: ed è per questo che cerco di non perdermi nemmeno un episodio di Studio Aperto - la mia sitcom preferita -, sintomo di quello che il mondo offre e toglie, tra culi sodi, diete e le imprese dei migliori statisti di questa merda di paese.

La notizia di questa diciottenne marocchina, uccisa con un coltello dal padre, mentre era in compagnia in un boschetto del suo fidanzato trentenne, è seguita dalle parole della sua amica del cuore che la definisce, in un deliro di frivolezza assoluta, come una ragazza che mangiava panini al prosciutto di nascosto, che si cibava di cibi piccanti e divisa tra spitz e abiti succinti. Il tutto di nascosto, perché questa "religione dell'odio" (cit.) che è l'Islam, tutto vuole eccetto che il tuo benessere.

Il regime a-morale che viviamo si fa ogni giorno più stringente, non prevede pensieri o incertezze. Ci propinano donne-oggetti da tempo, è impossibile che una qualsiasi ragazza non voglia diventare una donna-oggetto. E allora tutto dritto, i colpevoli sono colpevoli e gli innocenti sono innocentemente innocenti. Il mondo che plasmano e che hanno plasmato, ai miei occhi, barcolla tra l'ingenuità e la superficialità e le persone che più odio lottano sempre tra l'ingenuità e la superficialità.

Diceva Fëdor Michajlovič Dostoevskij, tornato dalla Siberia, in una lettera in cui spiegava la stesura di Delitto e Castigo, che i colpevoli non sono altro che dei malati, che è inutile puntare il dito, perché un malato tutto quello che sa è di essere malato. Ed io non riesco ad immaginare questo quarantacinquenne marocchino come una persona sana, che lascia la sua terra - ma non lascia il suo mondo - per assicurare ai suoi figli un mondo migliore, in una terra diversa, e che si ritrova con una figlia di diciotto anni, che ha lasciato la scuola e che vuole andare a vivere con il suo fidanzato trentenne, conosciuto appena tre mesi prima.

Il tempo cancella tutto e stempera tutto, ma se il tempo stesso è una malattia, che succede?



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editoriale di Fallen

seconda parte

...Non so bene perché mi sia fermato a guardare, ma quello che ho visto era un poveraccio davanti alla portiera aperta di una pattuglia della polizia. Un poveraccio rigido, stretto nelle spalle, le braccia abbandonate lungo i fianchi, cui due uomini in divisa intimavano non troppo amichevolmente di entrare in macchina. Un poveraccio che continua a rimanere fermo e si becca un manganellata tra capo e collo. E prima ancora di poter pensare che il polso continuava a fare fottutamente male, che avrei dovuto essere sotto i ferri di lì a un paio d’ore, che non era il caso di rompere le palle a una decina di poliziotti in servizio, oltretutto con una mano inservibile, che in fondo non era la mia guerra, ho sentito la voce esplodermi in un ringhio proveniente dallo stomaco, dando il la al coro selvaggio di improperi e minacce che si alzava contro quel robocop “de noantri” che ancora stringeva in mano il manganello, mentre i miei piedi seguivano la scia di mio padre che già si trovava a strattonare un paio di agenti. Lui, ultracinquantenne professore occhialuto e brizzolato, solo, lì in mezzo, a berciare e strattonare quando ancora i più giovani tra noi dovevano iniziare ad avvicinarsi. Poi mi ricordo solo mani addosso da tutte le parti, urla e sputi, i rayban di robocop che si schiantano a terra, una manganellata che fischia a tre centimetri dalla mia mano destra ancora in corsa per uno schiaffo e robocop con la faccia confusa sbattuto dentro una volante e portato via dai colleghi.

Mentre nella penombra fresca riprendevo fiato, ho pensato che se era successa una cosa del genere allora forse quel cambiamento che spasmodicamente stiamo cercando non può essere lontano. Che per rendere migliore il nostro paese basta comportarsi secondo coscienza, al di là di bandiere, politica e convinzioni. Ho pensato che la rivoluzione che ci occorre è questa, senza fucili e senza molotov, ma con la sana voglia di difendere quello che è giusto per tutti contro chiunque voglia toccarlo, fosse pure lo stato.

Mentre gli ultimi capannelli di gente si disperdevano, una brezza tiepida si è alzata ad accarezzare il quartiere. L’ho vista passare attraverso le foglie degli alberi, tra i capelli di quanti avevano partecipato a quel teatrino, prima ancora di avvertirla nell’androne dove mi trovavo.
E' stato come un abbraccio collettivo, il segno tangibile di quel fiero sentimento di giustizia che ancora ci riempiva, nonostante stessimo già tornando a scannarci per roma e lazio, il parcheggio e le liti condominiali. La rivoluzione, se è vera, ti prende senza chiederti cosa hai da fare, come la pensi o chi voti. Come il vento.

Grazie alla gente del mio quartiere che non se ne è stata con le mani in tasca quando si è trovata ad assistere allo spettacolo dello stato che abusa del proprio potere.
Grazie a chi, senza conoscermi, mi ha portato via da quel marasma nascondendomi in un portone che non era il mio.
Grazie al capitano di robocop, che in mezzo al casino ordinava a pieni polmoni ai suoi sottoposti di rimettere via i manganelli, e che a cose finite si è scusato con tutti stringendo la mano a mio padre.
Grazie a robocop per avermi ricordato cosa vuol dire l'espressione "imperativo morale".
Grazie a mio padre, che dopo quella mattina non sbuffa più quando mi sente parlare di thai boxe, e guarda con più rispetto le mie tibie perennemente coperte di lividi.
Grazie a tutte le persone che passando di lì quel giorno non hanno tirato dritto come io ero intenzionato a fare, dimostrandomi che il mio popolo non sta dormendo.
Grazie a chi, in questa storia, si è comportato come si conviene a un buon Italiano.



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editoriale di Fallen

Prima parte

Stavo andando a operarmi, la mattina di giovedì nove luglio e, sinceramente, pensavo molto di più alla poltiglia sanguinolenta e infiammata che avevo al posto del polso destro piuttosto che alle quattro pattuglie di polizia visibili dal mio balcone al settimo piano, che sembravano essersi fermate proprio davanti al mio portone. Mio padre non aveva di certo pensieri molto diversi dai miei, ma aveva avuto la buona creanza di notare gli agenti accanto alle macchine che interrogavano un tizio negro ben piazzato che gesticolava, evidentemente disperato.
“Ha spaccato le vetrate di un bar perché il barista gli ha negato un cappuccino."
“Pensa se gli negavano un limoncello!”
"Gli ha detto: Non te lo faccio il cappuccino perché sei un negro di merda…”

Sono rimasto in silenzio. A Roma, nel mio quartiere, gli stranieri ne hanno combinate tante, troppe; sarei il primo ad applaudire se qualche vittima prima o poi si difendesse, lasciando per terra un paio di balordi. Qui però mi sembrava che le cose stessero prendendo una brutta piega, e come al solito il conto si era ritrovato a pagarlo chi non c’entrava niente con il casino in questione. In ogni caso, non era proprio la mattina giusta; il polso, o quello che ne rimaneva, faceva male, e io avevo un interevento chirurgico da sostenere… anestesia, dolori post-operatori, prospettive di riabilitazione e tutto il resto. Però purtroppo la rivoluzione è come il natale: quando arriva, arriva. E per me, e anche per mio padre, che attraversavamo l’atrio del palazzo diretti alla macchina, intenzionati ad attraversare quella tragedia umana come due gabbiani farebbero con un banco di nebbia, la rivoluzione era arrivata. O meglio, ci attendeva davanti al portone sotto forma di un crocchio di passanti che commentavano l’accaduto ad alta voce.
“Ma stai a' vede, cazzo, j’hanno detto negro demmerda e invece de daje na mano se lo caricano”
“Aho, avrà pure sfasciato i vetri, ma si te lo dicevano a te che facevi?”
“E 'sto testa de cazzo del barista c’ha pure la faccia de denunciallo” – “E le quaje demmerda invece de bevese lui se bevono sto povero negro”. Voci, nient'altro che voci in una tiepida mattina di luglio; ma ho letto da qualche parte che a volte basta un bisbiglio per scatenare una frana.

E improvvisamente sentii franare. Sentii franarmi dentro anni di convinzioni tenute insieme con lo scotch, a volte anche contro la voce della coscienza che gridava vendetta per mille innocenti, partendo da Alberto Giacquinto, steso sul selciato di un marciapiede dietro casa mia trent'anni fa, per finire a Gabriele Sandri, povero ragazzotto in trasferta per una stupidissima partita, passando per la Diaz e Bolzaneto, che non hanno bisogno di presentazioni.
Convinzioni tenute insieme per fiducia nel sistema, nelle forze dell'ordine, perché doveva essere stato un malinteso, un disguido, "Perché altrimenti, in che razza di stato assassino vivo?", e tutto quello che una domanda del genere può comportare per uno come me, che non ha mai amato la parte di spettatore passivo, anche quando a recitare quel ruolo c'era solo da guadagnare, proprio come quella mattina...



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editoriale di K.

La prima regola da imparare quando ci si impiega in una banca è: non vedo, non sento, non parlo. Il contratto prevede tale patto. Non mi ci volle molto a firmarlo, qualche anno fa, quando ebbi l'idea folle ma conveniente, di entrare in un istituto bancario privato svizzero, come impiegata di ricezione. Il mio compito era quello di aprire la porta, salutare nella lingua necessaria ed accompagnare il cliente (tedesco, russo, arabo, più spesso italiano) negli uffici, possibilmente sculettando, con educazione e discrezione ovviamente.
Ma visto che in una banca svizzera non te la rendono mai liscia, arriva sempre il momento del challenge. Il challenge a cui non puoi sfuggire neanche morto se sei uno appena svelto. In una banca meglio non far notare che hai un minimo di sale in zucca, seconda regola.

Il mio challenge era quello di apprendere il ruolo di cassiera. Però in quella piccola banca privata non c'erano sportelli, solo la cassaforte. Ore ed ore chiusa in una cassaforte. Lo potete immaginare l'odore dei soldi, di tanti tanti soldi? L'odore acre e nauseabondo di umanità che ha toccato, cinciscato e chissà quant'altro banconote lise ed unte? E' un fetore che si spande quando le sfogli nella macchina per contarle... come stare in una cucina del McD, alla sera devi farti la doccia per eliminare il puzzo grasso che ti si è incollato addosso. Uscivo dalla cassaforte solo per andare a ritirare i versamenti dei clienti in attesa negli uffici dei consulenti. C'era un consulente che pareva sempre sull'orlo di un infarto. Sempre affannato, anche quel famoso pomeriggio, il giorno prima delle mie vacanze estive.

Mi fa venire nel suo ufficio. Ad attendermi una coppia stressata. Italiani del nord-est. Negozianti, oppure una pizzeria, una sartoria. Tra le mani di lui vedo il mio incubo di cassiera apprendista. Non è la prima volta. Un'enorme borsa di plastica umida, reduce da una traversata del lago tra Italia e Svizzera legata sotto un motoscafo. Ve lo immaginate quanto olezza un mucchio di banconote strausate e bagnate di acqua lacustre? E a contarle? La coppia ha portato circa duecento milioni di lire, tutti in pezzi appiccicati e alla rinfusa da dieci, cinquanta, centomila lire. Il frutto della cresta quotidiana, esente scontrino fiscale. Dentro in cassaforte. Conta e riconta, passa e ripassa nelle macchine. Chiamo al telefono l'agente di cambio che mi strappa un aperitivo per una transazione decente, infine comunico le cifre alla coppia e al consulente agitato. Tutto a posto, versamento avvenuto, cambio ottimo, ce l'avete fatta, io pure, andate in pace. E i due scappano via come ladri, con la ricevuta - questa sì - in mano...
Alla sera conta finale. Orrore. Crescono trecentomila lire che trovo incollate assieme. Porcatroia che faccio. Fottute macchine. Però domani vado in vacanza. Quelli non sapevano manco quanti soldi avessero! Tre carte, per me mica poche. Ma... onestà. Devo pur dormire, in vacanza. Annuncio il fatto al consulente. Apriti cielo. Imbarazzo, agitazione, panico... aiuto, questo quasi mi fa un infarto!

La terza regola da imparare quando ci si impiega in una banca è: mai confessare i propri sbagli. S'impara in fretta perché una piccola ma solida banca privata non ammetterà mai d'aver cannato i calcoli, tanto quelli, gli evasori in motoscafo, non sapevano quanti soldi ci fossero nella sacca. Piuttosto la banca quelle tre carte le deposita in un fondo per la cena di Natale con gli impiegati. Pure questo si chiama "segreto bancario". Una cena a cui, alla fin dei conti (ah!) non mi fu permesso partecipare. Evidentemente non avevo capito bene la prima regola.

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editoriale di azzo

Le polemiche delle ultime settimane fra i direttori di alcuni dei più importanti quotidiani italiani, non mi hanno provocato alcuna sorpresa, ma solo confermato i sentimenti che da anni nutro nei confronti dei giornalisti in genere. Una sorta di tristezza mista a nausea. Le badilate di Feltri sulla presunta gaiezza dell'ormai ex direttore di Avvenire, il decreto penale di condanna di quest'ultimo per molestie telefoniche, le accuse di evasione fiscale nei confronti di Ezio Mauro, le cui difese non comprendo. Chi, tra tutti Voi, ha capito chi ha ragione, e, soprattutto, dove si nasconde un po' di verità?

Sì, so benissimo che la verità non esiste. Ma non è proprio possibile avere almeno certezza sui fatti? Ed invece, nonostante mi sia premurato di leggere qua e là, di sfogliare pagine su pagine, di cercare di capire chi avesse ragione, mi accorgo di essere al punto di partenza. E la colpa, non credo proprio, questa volta, risieda nella mia ignoranza. No, mi pare evidente che nessuno abbia interesse a fare chiarezza.

A corollario di tutto ciò, ci mancava solo l'appello alla: "Libertà di stampa". A me va bene tutto, ma certo non ho più l'età per farmi prendere per il culo da chicchessia. In Italia la libertà di stampa è sempre stata una finzione. Ciò per il semplice motivo che da noi non esiste, salvi rarissimi casi, quella che si definisce: "Editoria pura". I giornali sono sempre stati in mano a famiglie, gli Agnelli, i Berlusconi, i De Benedetti, i Caltagirone, che avevano, ed hanno, cointeressenze in decine di settori (automobili, edilizia, banche, assicurazioni, etc.). Credete forse che un giornalista avrebbe detto che la Duna faceva schifo sulla Stampa?

Ad un recente convegno, partecipanti i rappresentanti delle testate della mia piccola provincia, mi sono dovuto sorbire le stesse sbrodolature: "Il Governo vuole imbavagliarci!". Solo pochi anni orsono, a seguito del crac dei cosiddetti "Bond argentini", in cui migliaia di piccoli risparmiatori hanno visto sfumare il frutto di anni di lavoro, qualche sconsiderato giornalista di quelle stesse testate, iniziò a scrivere articoli accusando le banche del disastro. Arrivò immediatamente la telefonata di un istituto importante: "O la smettete subito, o vi togliamo la pubblicità". Tutto insabbiato. Sono persino più onesti Dolce e Gabbana, che quando il Sole 24 Ore stroncò il loro nuovo ristorante milanese, fecero lo stesso, ma almeno lo confessarono. La nuova critica fu assolutamente positiva.

Ciascuno ha un padrone. Incominciare ad ammetterlo sarebbe già un buon punto di partenza. Io qua sono fottutamente libero di fare e dire quel che voglio, di ciò sono grato ai webmaster. Immagino però che se iniziassi a parlare male di DeB in ogni editoriale, girerebbero le balle anche a loro. Ed avrebbero pure ragione.

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editoriale di kosmogabri

Il cielo di Amburgo si divide tra l’azzurro e il grigio mischiandoli e concedendosi qualche leggera sfumatura di rosa. Questa indecisione lascia cadere sulla città una specie di nuvola, una patina che copre i palazzi e le persone. Più che camminare, sembra che si nuoti come un palombaro spostato da qualche corrente impossibile. Girando per i vicoli della stazione, con le puttane che restano li tutto il giorno, con questo cielo, sembra di essere il Bruno Ganz di “Der Amerikanische Freund” incastonato in qualche cornice inevitabile.L’aeroporto di Lubecca sono quattro muri di plastica a 60 chilometri da Amburgo. Mi siedo, controllo le mail per ammazzare il tempo. “Terremoto in Abruzzo: 35 morti.”. Clicco, ma non si apre. Rifaccio il giro, ma non si apre di nuovo. Chiudo il browser, ma è tempo perso: tempo esaurito. Mi fermo un attimo. Prendo una sigaretta e mi chiudo nel cesso di plastica dell’aeroporto. Ci penso. Penso ai cinghiali, all’Abruzzo, agli amici che sono lì, ai pomeriggi passati ascoltando la pioggia che cadeva sulle viti mentre leggevo di storie impossibili. Penso a quelle facce indurite dal freddo che sembrano uscite da un film di Pasolini, ripenso ai luoghi che ho visto. Mi dico che ci sono paesi fatti solo da case vecchie di duecento anni che vanno giù con una pallonata, figuriamoci se la terra comincia a danzare. Mi dico, che forse non è nulla di troppo grave.
Con il culo sospeso a diecimila metri tutto quello che si può fare è vivere la vita di qualcun altro. Scelgo John Fante - figlio di Nick Fante, ubriacone e giocatore originario di Torricella Peligna. Chiedi alla polvere, Bandini. Arturo Bandini è John Fante. Arturo ripensa a quella donna che arrivò nella sua camera all’improvviso. Bandini ci avrebbe fatto del sesso, se avesse saputo come si fa. Guarda i tasti della macchina da scrivere immobili. Deve vivere le peggiori cose, si trasformeranno in almeno trenta pagine del suo romanzo. Prende un treno Bandini e arriva a casa di lei. Fanno l'amore e si addormentano. Il giorno dopo si sveglia con la finestra aperta e lei non c’è, forse è al lavoro. Bandini lascia due dollari sul tavolo della cucina e va via. Non sente la terra tremare,
Continua...

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editoriale di kosmogabri

"Perché troviamo bella una cosa? Perché un albero, o il cielo, o un volto, ci sembra bello e non banale? Qualcuno ritiene che la realtà sia banale, che le opere d'arte siano più belle. Per me non è più così! Un tempo andavo al Louvre e i quadri o le sculture mi davano un'impressione sublime. Le amavo nella misura stessa in cui mi davano più di quello che vedevo della realtà. Le trovavo veramente più belle della realtà stessa. Oggi, se vado al Louvre, guardo la gente che guarda le opere. Il sublime oggi per me è nei volti più che nelle opere. Tutte quelle opere hanno un'aria così misera, così precaria, un percorso balbuziente attraverso i secoli, in tutte le direzioni possibili, ma estremamente sommario, ingenuo, per circoscrivere un'immensità formidabile - la vita. Ho capito che mai nessuno potrà coglierla compiutamente...
È un tentativo tragico e risibile.

Io non creo per realizzare belle pitture o belle sculture. L'arte è solo un mezzo per vedere. Qualsiasi cosa guardi, tutto mi supera e mi sorprende, e non so più esattamente ciò che vedo. È troppo complesso. Devo allora cercare di copiare, per rendermi conto, almeno in parte, di ciò che vedo. È come se la realtà fosse continuamente dietro le tende che strappiamo... Ce n'è ancora un'altra... sempre un'altra. Ma ho l'impressione, o l'illusione, di fare dei progressi ogni giorno. E questo a farmi andare avanti, come se dovessi proprio riuscire a cogliere il nucleo della vita. E si continua pur sapendo che, più ci si avvicina alla realtà, più essa si allontana.
E' una ricerca senza fine.

Ogni volta che lavoro, sono pronto a distruggere senza esitare un attimo ciò che ho fatto il giorno prima perché, ogni giorno, ho l'impressione di vedere più lontano. In fondo ormai lavoro solo per la sensazione che provo lavorando. E se dopo vedo meglio, se uscendo vedo la realtà un po' diversa, in fondo, anche se il lavoro che ho fatto non ha molto senso o l'ho distrutto, io ho comunque guadagnato. Ho guadagnato una sensazione nuova, una sensazione che non avevo mai avuto.
Questa sensazione è senza equivalenti".

Alberto Giacometti
(da Conversazione avec André Parinaud - Biennale di Venezia, 1962)

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editoriale di kosmogabri

Armeggiò parecchio davanti alla portiera prima di trovare le chiavi, la bambina in braccio a sinistra e un grosso sacchetto di carta nella destra.
Poi adagiò la bimba nell’apposito sedile e allacciò con qualche impaccio le cinghiette del seggiolino, ancorate in tre punti come quelle delle macchine sportive.
Impedita nei movimenti dai vestiti pesanti e affondata nel sedile supplementare, la bambina si lamentò un po’, prima di essere distratta dalle portiere che si chiudevano e da lui che metteva in moto.
“Dai, amore, solo un po’ di pazienza, poi sei a casa e puoi fare i giochi”.

Poi si fermò ad un semaforo.
Uno di quegli stupidi semafori pedonali, grandi e grossi, con striscie pedonali nuove di zecca e rialzate, che spuntano di solito alle intersezioni con piste pedonali e ciclabili, vicino a parchi pubblici o scuole, piazzati lì a dimostrare quanto le autorità abbiano a cuore vecchi e bambini, e quanto siano in prima linea contro l’inquinamento e il deleterio e scorretto traffico cittadino.
Accanto a lui un grosso furgone, bianco come il latte, piazzava il suo tubo di scarico giusto di fianco al finestrino. Chiuse tutte le bocchette di aerazione, ma il gas penetrava ugualmente, pungente nelle narici.
La bimba tossì, lievemente. Lui la guardò attraverso lo specchietto retrovisore, e vide che lei sorrideva.
Fece ripartire la vettura lasciando gli altri fermi al rosso. Dietro di lui un clacson protestò per quell’infrazione così sfacciata.
“Si, si, vaffanculo!” gli uscì strozzato dalla gola.

Guidò lentamente ancora per qualche minuto.
Da un piccolo parcheggio, alla sua destra, una giovane donna sbucò sulla strada con andatura spedita. Era vestita di scuro, in maniera non casuale. In mano teneva una gabbietta di plastica verde, di quelle per il trasporto di gatti o piccoli cani. Guardando dritta davanti a se, senza esitazioni, fece un paio di passi sulla strada, quando si avvide della macchina che sopraggiungeva e fermò bruscamente il passo. Lui andava piano, frenò e si fermò a debita distanza per farla passare.
Per un attimo si fissarono. Negli occhi della donna il piccolo spavento provato si trasformò istantaneamente in disappunto per quell’uomo che l’aveva sorpresa sovrappensiero.
Un piccolo odio quotidiano.
Poi riprese a camminare e attraversò la strada. Lui guardò alla sua sinistra: c’era un ambulatorio veterinario dalle vetrine multicolore che non aveva mai notato. Innestò la prima e ripartì.

Il traffico non era particolarmente intenso.
Arrivati.
Spense il motore.
Una inconsueta versione per archi del celeberrimo standard “My favourite things” aveva attirato la sua attenzione, e rimase un paio di minuti seduto al posto di guida ad ascoltare la musica e la trasmissione che seguiva. Voci pacate discutevano su qualcosa che aveva a che fare con l’arte, Adorno e Barthes. Poi cambiò stazione e spense la radio.
“E’ meglio non ascoltare certe cose, eh ciccina?”.
Scese dalla macchina, sbloccò le cinture del seggiolino posteriore, fece uscire la bimba e la mise in piedi di fianco alla vettura mentre lui prendeva la borsa e i libri che durante il tragitto si erano rovesciati sul pavimento.
Veniva ancora giù una pioggia sottile e penetrante, ed il cappuccio della giacchetta della bambina era imperlato di goccioline luccicanti.
Passò un aereo già a bassa quota e lei, naso in su, osservava quella strana cosa. Poi si sbilanciò un po’ troppo all’indietro finché cadde a sedere, come solo ai bambini riesce.
Lui si accosciò davanti a lei, la faccia proprio sopra alla sua. Lei rise forte e qualche goccia le cadde dritta sul viso.
Stettero così qualche secondo, lei piccola, lui un po’ più grande.
Intanto l’aereo era già passato, chissà dove si trovava, adesso.


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editoriale di emofiliaco

Gia... se volete leggere la prima parte andate qui

Questo editoriale sarà letto da, poco meno, la metà dei visitatori di DeBaser. Di questa metà tre ottavi non lo capiranno (ma non per un loro limite ma perchè così va il mondo e così deve andare) mentre un ottavo lo traviserà irrimediabilmente (ma è un bene pure questo). Il 24% dei DeBaseriani (utenti e non) che l'avrà (o crederà di averlo) capito sarà ulteriormente diviso (in parti che però non son quantificabili perchè legate a motivi "eterei und qvasi celestiali") tra chi lo deamerà, tra chi lo deodierà e tra chi gli starà deindifferente.

Trilussa scrisse che: "Da li conti che se fanno seconno le statistiche d'adesso risurta che te tocca un pollo all' anno: e, se nun entra ne le spese tue, t'entra ne la statistica lo stesso perché c'è un antro che ne magna due", e poco importa se, ragionandoci su, ste parole posson essere smontate semplicemente: sono vincenti, c'è poco da fare, imbattibili.

Sia chiaro: non c'entra nulla la cultura, l'intelligenza, od il titolo di studio di chi legge. La loro forza risiede nella semplicità e nell'immediatezza che emanano, tutti finiamo per esserne sedotti (belli e brutti, stupidi e colti, poveri e ricchi) a meno che non approfondiamo e facciamo le pulci parola per parola, lettera per lettera...

Diviso tra il "buonismo" e la "finta-educazione" in cui sono stato catalogato comincio a chiedermi se è proprio vero che: "Quando molti ti ripetono che sei un mostro alla fine cominci pure a crederci". Sarà che io buono non lo sono (e probabilmente nemmeno umano) ed un certo equilibrio "social-espressivo" mi viene spontaneo (non sono un vile "poseur" insomma)  solo per deformazione professionale che la cosa non mi tange molto. Mi importerebbe molto di più che i miei scritti fossero compresi (compresi, non apprezzati: è diverso) ma purtroppo le cose (anche se Trilussa, a cui voglio, comunque, un bene dell'anima, nonostante tutto, dice il contrario) vanno come devono andare e quindi devo rassegnarmi al triste fato.

Un destino gramigno che spesso mi fa andare contro, pure,  ad un mio principio (di Pauschiana memoria) e cioè che: "Se hai pazienza tutti, prima o poi, ti mostrano la loro parte buona".

Se riuscissi a dimostrare un collegamento statistico tra Randy Pausch e Carlo Salustri abbandonerei il mio "modus operandi". Per ora rimango come sono: vedete voi se dovete averne paura.

Ps.: quanti, secondo voi, prima di arrivare qui avran capito che le statistiche citate all'inizio son messe a cazzo?


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editoriale di kosmogabri

Se c’è un tormentone estivo che imperversa, nel momento in cui scrivo, io non lo so. Quel che so è roba da poco conto, roba che si ripete costante nel tempo. Un rosario di stronzate, una via crucis di sopportazione la mia.

C’è quest’uomo, brutto come solo l'intolleranza sa essere, che ha paura del mondo che lo circonda. Anzi, nell’impossibilità di dominare il mondo che lo circonda, riduce il suo mondo alla pianura dove vive, alla regione, alla villetta, alla famiglia che oramai possiede. Ecco, nella sua vasca da bagno, con la porta chiusa a chiave, è il signore assoluto e incontrastato. Tutto sta nel ridurre la nazione che abita nel cesso di casa sua.

Ha paura del mondo. - Facciamo imparare il dialetto nelle scuole - dice. Non so voi, ma la cosa romantica e bella del parlare in dialetto con qualcuno, che mi colpisce, è quella strana idea, mentre lo pratico, di provenire dallo stesso posto, di avere una comunità di argomenti che solo con l’essere espressi in dialetto prende vita. La cosa bella del dialetto è che, proprio il fatto d’impararlo dalla strada, tra i vicoli, di stupirsi dell’eloquenza che può possedere un pescivendolo che, fortuna sua, scuole non ne ha fatte, ti rende più vivace. E la vivacità è tutto. Altro che potenza è nulla senza controllo.

E poi l’inno. A quest’uomo piace il “Va pensiero”.
Nel cesso di casa sua, con la porta chiusa a chiave, è libero di fare quel che gli pare e mentre paga qualcuno per sciacquargli la schiena è plausibile che ci siano due piccole casse che pompino all’inverosimile le note che cantavano gli esuli ebrei, prigionieri di Babilonia. Quello che fa nel cesso di casa sua è bello e lecito, basta che vi partecipino solo clandestini a norma di legge.

Quello che interessa a chi non risiede nel cesso di casa sua è non comportarsi come la tazza del cesso di casa sua... o come il cesso stesso, tanto per fare gli organicisti. Nella tazza fa confluire i prodotti del suo corpo, che Dio li benedica, ma che li tenga per chi da tazza vuole fargli. E poi, per amor del cielo, capire quel che gli piace da dove viene e perché viene da tale parte è optional di lusso. Molto più pratica e meno dolorosa l’aria condizionata... o il servosterzo.

Al momento non posso permettermi un impianto decente nel cesso di casa, ma quando potrò, costretto dalla vita, sarò lontano da dove sono ora e il mio inno sarà, purtroppo, “O Surdat ‘nnamurat’” ...che canterò, in sfregio della mia persona, in prima persona. Tie’.


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editoriale di kosmogabri

La recente sentenza del TAR sugli insegnanti di religione ha innescato le consuete scaramucce fra fidanzatini (la Chiesa e lo Stato, ed usiamo le maiuscole per pura convenzione ortografica).
Personalmente avrei lasciato la religione obbligatoria ed equiparata alle altre materie, in barba al concordato, perché penso che ai miei figli faccia meno male quell’ora che gli sms promozionali che ricevono, e poi non ho paura della concorrenza pedagogica della Chiesa.

Ma c’è un particolare su cui vale la pena di soffermarsi: la definizione, data da non so più quale monsignore in tono di evidente disprezzo, di “bieco illuminismo”.
Non è la prima volta che i prelati tirano in ballo l’illuminismo e tutti i valori ad esso correlati per esprimere condanne senza appello ed evocare puzzo di zolfo ed alte temperature. In ordine di importanza questa uscita fa il paio con lo spericolato sillogismo spurio che ha permesso al Pontefice di equiparare umanesimo ateo – nichilismo – nazismo (se uno studentello universitario si permettesse un tale exploit agli esami, verrebbe preso a calci persino dai bidelli).

Ma torniamo all’illuminismo. A scuola ci avevano insegnato qualcosa di diverso.

Ricordo che alle scuole medie avevo un’insegnante ormai anziana, particolarmente devota e timorata di Dio. Una pia donna maturata nella scuola bacchettona del primo dopoguerra.
Ma dirò di più: Ho fatto qualche indagine fra i conoscenti, e sono comparsi, ovviamente, insegnanti di ogni specie. Dagli ex combattenti repubblichini ai mangiapreti marxisti, da grigi impiegati ministeriali a “maestrine dalla penna rossa” di Deamicisiana memoria.
Bene, tutti gli intervistati sono stati unanimi nel ricordare come l’illuminismo venisse presentato dagli insegnanti - di ogni specie ed orientamento - come una vera conquista per l’Uomo. Tutti mi hanno poi citato la famosa frase di Kant (che era credente) secondo cui: “L'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro”, con quel che segue.
D’accordo, proseguendo gli studi tutti abbiamo imparato degli eccessi post rivoluzione francese, dell’ingenuo ottimismo positivista, della perdita di tutte le verità del XX secolo, (uno degli apici della civiltà umana per me, cent’anni di tragedie per altri) ma ciò non mette in discussione il valore di un passo, l’illuminismo, certamente parziale, ma importantissimo per la civiltà.

Eppure qui nessuno sembra accorgersene. I valori cambiano col tempo, la storia viene riscritta da ogni vincitore, ma possibile che nessuno si senta in dovere di dire: “Aspettate un attimo, a me risulta che il secolo dei lumi non sia stato poi tutto da buttare”.
No, nulla. Tutti ad accapigliarsi su stronzate tipo “il crocifisso si o no”, “l’ora di religione obbligatoria o facoltativa”, “il preservativo va messo sulla testa di sopra o su quella di sotto” ed altre amenità simili, buone solo per estrarre da ognuno di voi il fondamentalismo più becero, nella ben nota logica del “dividi et impera”.
Nessun autorevole parlamentare, nessun opinionista da boudoir si è sentito in dovere di intervenire su una questione che ai più parrà solo un barocchismo linguistico, ma che in realtà rappresenta l’ennesima strisciante deriva dei tempi sciagurati che stiamo vivendo.


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editoriale di Cornell

Avevo ancora la connessione a 56k, quindi per caricare una pagina ci metteva il tempo di una paglia fumata con calma il mio vecchio e fedele PC, nella mia vecchia casa, con la mie, meno male, vecchie paranoie mentali..

Ma dove vivi, in Tagikistan? No, ma come telecomunicazioni poco ci manca, maledetto Tronchetto che hai sfasciato la Telecom..

Comunque non stavo bene, no.. Ma questa è un'altra storia..

Capita, nelle mie sclerate esplorazioni notturne, che abbia voglia di leggere qualche recensione musicale, qualcosa del mio gruppo preferito, guarda caso i "Soundgarden", quando ancora il (nick)nome che porto, anche se era appena uscito da poco "Out of Exile", aveva ancora una parvenza di rispettabilità.. Nutrivo ancora discrete speranze, mai più immaginavo che..

Ma questa è un'altra storia..

Così mi affido al top dei motori di ricerca, e digito "recensioni musica", seguito da invio. Nei primi risultati mi salta all'occhio subito una cosa decisamente interessante: "Debaser. Forum di recensioni musicali. Chiunque può inviare la propria o commentare quelle esistenti".

Pensai: "Fiko!"

Non sapevo a cosa esattamente sarei andato incontro ma decisi di cliccare, ecco che mi si aprì una pagina che avrebbe cambiato il mio modo di "vedere" la musica, ampliato enormemente i miei orizzonti, insegnato qualcosa e perché no.. Un po' cambiato la vita.

Così feci il login e incominciai l'avventura che continua ancora oggi: il mio primo commento, la mia prima rece, l'impazienza di vederla publicata, la curiosità dei commenti, imparare che il "track by track" sta sui maroni a parecchi, che i Guns'n'Roses sono un gruppo di cacca per altrettanti.. E mille altre cose.

Debaser è come un colpo di fulmine, una seconda casa, un piccolo mondo magico e meraviglioso dove puoi condividere la tua passione con centinaia di persone, scambiare opinioni, dire la tua, farti amici, nemici, farti alias (o fake) per scassare le balls a qualcun altro e divertirti un po', dove puoi cimentarti come scrittore e imparare molte cose.

Ho amato subito questo sito, dal primo momento in cui ci ho messo piede, è il luogo virtuale in cui capito più spesso, dove mi piace stare, dove posso girovagare ore ed ore senza stancarmi, facendomi anche grosse e grasse risate leggendo le rece o i commenti più strambi oppure le diatribe più accese tra gli utenti.

Una cosa non dimentico: che dietro a tutto questo c'é la mano di qualcuno che si sbatte e non poco per questo bellissimo progetto, che da la possibilità a tutti noi (gratuitamente) di interagire in uno degli spazi più interessanti che si possano trovare sul web, quindi, quando si è a casa altrui, bisogna sempre usare doppiamente le buone maniere e mostrare rispetto, o almeno così mi è stato insegnato.

Sono ormai tre anni che ho scoperto questo piccolo, ma immenso spazio, e spero vivamente che l'avventura continui fino a quando avrò la forza e la lucidità di comporre frasi di senso compiuto su una tastiera.

Chiamatemi ruffiano se volete. Ma Debaser è davvero il Sito più Fiko dell'Internet e merita che qualcuno glielo dica in un editoriale.

Grazie, davvero.

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