Avevo delle anonime Converse All Star, bianche, basse, che alte non erano comode per giocare a pallone. Mi guardavo le scarpe, ancora candide, rimbalzare sul grigio della pavimentazione appena rifatta. Erano tutti sanpietrini. Mi sforzavo, nemmeno troppo, ma un po' mi sforzavo e comunque non ricordavo come era prima, prima dei sanpietrini.
Mi facevano male al tallone, le vigliacche scarpe nuove. Camminavamo lo stesso, abbastanza rapidi, scendendo verso il mare, mano nella mano. Qualche passo e un saltello, qualche passo e uno strattone.
- Fa' o' serio - mi diceva. Aveva ragione.
Cobain aveva da poco ritinteggiato le pareti del capanno di rosso sangue ed io non lo sapevo. Mancavano nove giorni al rigore di Baggio perso nel cielo californiano ed io non lo sapevo. Saper nulla era una bella cosa ed io sapevo solo poche cose, ma buone: avevano cosparso di sanpietrini i Campi Flegrei; avevano riaperto il campetto di calcio; avevano piantato aiuole alla rinfusa. Piccoli cambiamenti per me inspiegabili. Bagnoli sembrava nuova ed io, che mi sa che ho sempre preferito le scarpe vecchie, non ci facevo caso del tutto.
Ci fermammo solo un attimo, solo per prendere il pane, otto panini belli freschi appena sfornati ed io che volevo un po' di pizza mi strinsi mani e piedi, come una scimmia, alla cassa di Enzo il panettiere. Lui, Enzo, se la rideva, ma solo lui.
- Fa' l'omm' - mi disse tirandomi via. Nessuno vedeva di buon occhio le pizzette di Enzo. Lui diceva solo di far l'uomo, nonna almeno prometteva un panino al prosciutto ed io, alla parola prosciutto, mi fermavo sempre, almeno un attimo.
Poi continuammo, attraversammo la strada per stare di nuovo sui sanpietrini nuovi, camminando all'ombra degli alberi, in una Bagnoli che sembrava dormire approfittando del fresco del mattino di un qualsiasi giorno di Luglio. Scalciavo qualche foglia, poi un ramoscello, poi un salto, poi uno strattone. L'unica cosa che ricordo che riuscivo a pensare era che all'indomani l'Italia avrebbe giocato con la Spagna, ma Zola no. Zola non avrebbe giocato, era stato bastardamente espulso, così, senza che nessuno capisse il perché, dieci minuti dall'ingresso in campo. Poi Zola si mise a piangere, piegato sulle ginocchia, con le mani sul viso. Arbitro cornuto.
Non scesi i gradini del sottopassaggio, ci saltellai sopra a due a due, mentre le mani ancora strette costringevano le braccia ad allungarsi.
- Hmmm - disse, facendolo perdere nel puzzo di piscio che teneva in piedi il sottopassaggio.
Alla luce il mondo cambiò. Sembrava che Bagnoli fosse tutta lì, tutta radunata, tutta a disertare i marciapiedi, tutti per strada. Lui accelerò il passo, quasi corremmo ed io ero felice, mi piace correre, una cosa più naturale dell'andare piano, dell'aspettare qualcosa. A passo svelto schivavamo gli altri, a passo svelto ci insinuammo tra la folla. Continuammo e continuammo, fino alla transenna. Mi ci arrampicai sopra, i piedi sull'estremità bassa, le mani su quella alta. Aspettammo, un po', e appoggiai il mento sull'estremità alta, tra le due mani.
- Togliti che è sporco - mi disse, quando se ne accorse, ma non ebbe il tempo di crederci. Sfilò una macchina nera, lucida, lunga. La gente applaudiva, qualcuno esultava. Io mi guardavo in giro, capivo sempre meno.
Dalla macchina, una volta allontanatasi, scese un uomo con i capelli bianchi. La gente esultava, non sentivo nulla se non un miscuglio di grida, di odori, il caldo. Urlavano, le mani in aria, erano felici, sereni, sembravano, a colpi di voce, allontanare qualcosa, ma lui no. Lui si mise dietro la mia schiena, appoggiò la gamba sull'estremità bassa della transenna e poi si sporse. Un po' mi schiacciava. Io cercavo di vedergli il viso, ma non ci riuscivo, non dalla mia posizione. Solo il suo mento proteso verso l'obiettivo riuscivo a vedere. Era duro, partner di una smorfia. Poi si inclinò il labbro. Tre, due. Uno.
- Omm' è merd'! - strillò. Io mi voltai con forza. Lui mi guardò, poi rispinse il mento verso l'alto, la mano affianco la bocca. - Omm' è merd'! Omm' è merd'! -.
L'unica voce, le uniche parole che distinguevo in un gomitolo di rumori: Omm' è merd'. Non ci pensai due volte.
- Omm' è merd'! Omm' è merd'! - gridai. Lui mi guardò, sorrise. - Brav', accussì! - mi disse passandomi una mano tra i capelli.
Ed io, per una volta che potevo dire le parolacce senza punizioni di mezzo, ci presi gusto. - Omm' è merd'! - gridai ancora.
Oggi c'è vento, proprio un bel vento freddo del cazzo. Si è insinuato ovunque poteva, tant'è che ad un certo punto, grazie al vento, mi sono accorto di aver un bottone aperto. Da lì passava, scendeva fino alle caviglie, poi risaliva. Non un bella cosa.
Mi sono fermato dal fruttivendolo. Un chilo di mele per 90 centesimi. Me le sono pure scelte e mi pare una bella cosa. Ho camminato col polso infilato nel laccio della busta di plastica e la mano infilata nella tasca dei jeans. L'altra era fuori, a dondolarsi nell'aria fredda, per farmi fumare.
Il digitale terrestre, il digitale terrestre. Ha provato a montarlo da solo, ma non c'è riuscito. La presa scart dondola, mica ha capito dove andava. Gli ho dato le mele, poi mi sono abbassato dietro il mobile della televisione.
- Barack Obama... premio Nobel... - è partito dal televisore.
Mi sono rialzato. Guardava lo schermo, poi mi ha guardato, con quegli occhi che un tempo erano chiari e ora sono solo stanchi.
- Omm' è merd'... pur' is. O' Nòbel... o' presidente dell'Ammmerica. Ma che munn' è merd'. Che mondo di merda! La vita è un paradiso di bugie. - mi ha detto. Di Clinton o di Obama a lui frega niente.
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