editoriale di ALFAMA

Mi faccio la barba,per riempire il tempo.

Ero bambino,collezionavo tappi di bottiglia, tappi da tutto il mondo, li cercavo li pulivo e viaggiavo con loro.Viaggiavo nel mondo, nel tempo, immaginavo persone. Ero io e il mio piccolo mondo immaginario, quante storie, visi , riflessi su un ammaccato tappo

Io davanti allo specchio, è ancora Giovedì, tempo da riempire. Mi taglio, sangue, non lo immaginavo così rosso da un piccolo taglio. Mi fanno male le gambe, rigide. Da dove arriva questo sangue, i fianchi a pezzi.Devo riempire il Tempo, il mio Tempo

Mia Madre dalla finestra mi chiamava, le serrande si abbassavano. Il mio tesoro,lo ammiravo, lo contavo , quanti strani simboli, marchi, aspettavo i Grandi di ritorno da viaggi con le loro storie, assorbivo ogni parola, quei piccoli tappi erano libri di avventure. Un mappamondo di visi, bottiglie,lingue strane, risate, una via di fuga per un bambino perso in interminabili pomeriggi.

Una mattina sul terrazzino ammiravo il mio tesoro,quanti segreti. Storie, luoghi, si allontanavano,il bambino si allontanava. vidi un viso sporco di sangue davanti a uno specchio. Presi il mio tappo preferito e lo feci volare dal terrazzino. Era così lento il suo planare, un balletto. Lo fissai fino a perdersi in una pozzanghera in un vaso di fiori sporchi di fango

Uno dopo l'altro i miei tappi, anni passati, volarono per la strada, cadendo algidamente dimenticati. Non volevo farlo, ma l'impulso fu troppo forte, immaginavo i loro visi abbandonati,ma consapevoli che era quello il loro destino.

Il sangue ha smesso di colorarmi il viso davanti allo specchio.

Erano finiti i tappi, le loro storie erano volate via, la mia storia era volata via, buttata senza motivo per strada. Come tante, troppe mie storie.

Volevo iniziare o finire, ma ero solo un bambino che iniziava a buttarsi via senza motivo per strada.

Il dopobarba brucia, mi guardo allo specchio con tanta malinconia. Vorrei fermarmi ma non posso. Continuo a sentire le gambe rigide, dolore ai fianchi più forti. Ho buttato via anche l'ultimo tappo, il più insignificante, ma fu il più difficile da dimenticare.

Le prime foglie cadono e volano via.

E io con loro.

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editoriale di Stanlio

Musica per le mie/Vs orecchie... mi son imbattuto poco fa in questo monologo, e non son riuscito a non pensare che un po' sta storia mi rappresenta almeno per quanto riguarda l'atterraggio in questo ns disastrato pianeta (per opera di pochi miliardari che la fanno sempre franca!), a parte il fatto che fortunatamente io non tremo in continuazione come lei (solo qualche volta quando son troppo emozionato o davanti a situazioni dove la violenza la fa da padrone).

Anche i miei genitori han fatto di tutto perchè non mi sedessi sugli allori e mi sbattessi per fare quel che facevan tutti gli altri nonostante le mie difficoltà motorie.

Ringrazio mamma natura per avermi almeno risparmiato una parte dei danni cerebrali lasciandomi integri qualche miliardata di neuroni (che ahimè van via via assottigliandosi causa droghe varie, assunte nel corso del passato, e a causa naturale poiche non si rigenerano come le altre cellule, almeno così sostengono gli studiosi e chi sono io per sindacare le loro approfondite ricerche?) che mi han permesso di superare i molti ostacoli che tutti in qualche maniera, ci troviamo davanti, e di prenderla con una certa filosofia, facendomi spesso grasse risate nei miei confronti e in quelli della società in generale, nonostante non siano mancate le occasioni per versare un po' di lacrime ma queste fan parte di altre storie...


Ok, dopo sta specie di "outing", voglio augurare a tutte/i le/gli amiche/i del paradisiaco DeBaser "Buone Feste & Happy New Year" e come diceva il mio amico di Seattle tale James Marshall "Jimi" Hendrix "Stay hungry..." ovvero nel senso "Siate folli..." e niente!

Maysoon Zayid: Ho 99 problemi...la paralisi cerebrale è solo uno dei tanti. | TED Talk

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editoriale di iside

Grazie per la felicità, Rusty

Il primo aprile, a 77 anni, dopo una vita segnata dall’alcol, dalla droga e dalla povertà, è morto in miseria Lee Aaker. Il nome non dirà molto a chi ha meno di una certa età. Ma riaccenderà i fuochi della memoria ai miei coetanei se lo chiamo Rusty. Nella seconda metà degli anni Cinquanta e nei primi Sessanta, è stato il caporale bambino di Fort Apache nella serie di telefilm «Rin-Tin-Tin», dal nome del cane pastore suo inseparabile amico e mascotte della guarnigione di cui erano comandanti il tenente Rip Masters e il sergente Biff O’Hara. Un avamposto di «civilizzazione bianca» nella terra degli infidi e crudeli indiani. Quando ancora si pensava che i soli indiani buoni fossero gli indiani morti o quelli addomesticati per fare da scout alle giacche blu.

Noi bambini però non la vedevamo così e a lungo cavalcammo con il Settimo Cavalleggeri contro Sioux, Apaches, Comanches e tutte le tribù ribelli che uccidevano, torturavano e scalpavano i coloni bianchi. Una menzognera epopea che durò fino agli inizi degli anni Settanta. Fino a quando la stessa Hollywood non ci aprì gli occhi con film revisionisti come «Piccolo grande uomo», «Soldato blu», «Uomo bianco va con il tuo Dio», «Corvo Rosso non avrai il mio scalpo» e altri che riabilitarono, ormai troppo tardi, i popoli autoctoni d’America.

A quell’epoca, Rusty non indossava più l’uniforme blu, non recitava più, aveva intrapreso il mestiere di falegname che avrebbe continuato tra alti e bassi per una ventina d’anni, ma soprattutto era entrato nell’inferno degli ex bambini prodigio prima spremuti e poi gettati dalle major del cinema. Gli fecero compagnia droga, alcol, solitudine e scelte sbagliate. Fino alla fine. Di tanto in tanto una tivù o un giornale lo riesumava per un’intervista sui bei tempi andati o per raccontare cinicamente il suo sfacelo. La nostalgia canaglia e la caduta degli idoli sono temi che appassionano da sempre e ovunque la plebe televisiva.

La morte di Rusty m’intristisce perché mi rimanda ad anni in cui la tivù era un bene prezioso e raro, non alla portata di tutti. Dei 169 episodi di Rin-Tin-Tin ne avrò visti al massimo una decina sul finire degli anni Cinquanta. Quella sigla televisiva con la tromba che suona l’adunata, lo schieramento dei soldati in riga e la colonna che esce a cavallo da Fort Apache è un ricordo indelebile. Una scheggia dei miei anni spensierati. Quel che io provavo lo hanno provato per molti anni centinaia di milioni di piccoli telespettatori sparsi in tutto il mondo. Un sentimento universale chiamato felicità.

Quelle immagini in bianco e nero che il tempo ha ingrigito furono il nostro sogno a colori di un’America immaginata e immaginaria. Uguale per tutti, sia che abitassimo nelle metropoli come nei piccoli paesi. Chi viveva in campagna faceva meno fatica a sentirsi nel Far West. Mai avrei pensato che quello che per noi era stato un sogno potesse diventare un incubo, un fardello esistenziale, per il piccolo Lee Aaker. Rusty pagò la nostra felicità con la sua infelicità. Un prezzo troppo alto. Eravamo complici dello sfruttamento di un ragazzino poco più grande di noi e non lo sapevamo. Invidiavamo il suo mondo. Sia quello fasullo di Fort Apache, sia quello vero di Hollywood. A vent’anni siamo stati colpevolmente stupidi, a dieci lo eravamo con innocenza. Mi piacerebbe poter credere che ci sono stati momenti in cui Lee Aaker era consapevole di averci regalato un sogno. Grazie per quel dono, Rusty.

#sceltodaiside

la pagina FB di Ivano Sartori autore dello scritto https://www.facebook.com/ivano.sartori.79

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editoriale di zaireeka

È ’ un po’ che non ci sentiamo (a parte qualche boiata sparsa qua e là sul sito..) ed avevo voglia di scrivere.

Avevo pensato ad una recensione, una recensione sull’ultimo dei Coldplay…

Un mio “collega” qui su debaser lo ha letteralmente distrutto ed ha ottenuto l’effetto opposto.

Lo ho cercato, lo ho ascoltato, e, alla fine, dopo un po’ di ascolti, mi è piaciuto un bel po’, anzi molto.

Specialmente una canzone.

Uno dei miei generi preferiti di canzoni sono quelle che io definisco “tristallegre”, canzoni apparentemente giocose e spensierate ma dal retrogusto malinconico. Questa dei Coldplay è un bell’esempio del genere.

Un ottimo pezzo in cui la band britannica è riuscita ad omaggiare Scott Hutchison, aka Owl John, leader della band scozzese Frightened Rabbit, morto suicida nel 2018, trasformando un suo pezzo (“Los Angeles, be kind”) in qualcosa di molto simile a “Bitter Sweet Symphony” dei The Verve.

Ascoltare per credere.

Qualche giorno fa la figlia di un’amica di famiglia, coetanea di mia figlia, diciannove anni, sua compagna di scuola per un anno della materna, è venuta a mancare (che brutta perifrasi, ma si usa così).

Un linfoma polmonare, fulminante (nella mia città si usa così).

Un mese fa, direttamente dall’ospedale presso cui era in cura, aveva scritto su fb un post raggelante e pieno di speranza al tempo stesso.

Lo riporto di seguito (sono sicuro che da dove si trova ora mi darà il suo permesso):

A volte la vita ti mette davanti a situazioni che difficilmente sai come affrontare e per quanto provi sembra sempre che ci sia qualcosa di sbagliato. A volte, però, la vita ti offre quelle che noi chiameremmo sfide, ma che sono in realtà opportunità di dimostrare a noi stessi e a chi non ha voluto credere in noi che nel nostro cuore abbiamo la forza di andare avanti e di continuare a sperare. Sperare che tutto vada meglio, certo, ma anche credere ancora che in un mondo fatto di oscurità e buio ci sia tanta luce, che risplende nella vita delle persone che ci circondano. Che risplende in ogni chiacchierata che si fanno i due signori nella stanza di fianco alla mia, in ogni risata che si sente in giro per il reparto, che risplende attraverso le battute degli infermieri, attraverso il sorriso di un dottore. La luce che risplende in tutti noi e che dovremmo combattere di più per farla vedere, una luce che può portare tanto calore in modo inaspettato. E che si trova anche nelle cose peggiori, anche nel rumore delle macchine, nel suono di una tosse, nel respiro affannoso. Perchè finché c'è speranza c'è luce e finché c'è luce, c'è vita”.

Quando lo ho sentito letto in chiesa, durante il funerale, non sono riuscito a trattenere un nodo che mi esplodeva in gola, mia moglie ed i vicini se ne saranno accorti.

La vita va così.

Nasciamo tutti come Campioni del mondo, ma poi ce ne andiamo via, complici o costretti, senza mai riuscire a ritirare la coppa.

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editoriale di zaireeka

Negli ultimi tempi mi sono messo più volte davanti al computer con la voglia di scrivere qualcosa su Lucio Battisti.

Per quelli come me nati a metà degli anni 60 del secolo scorso (che impressione fa a dirlo..) Battisti e’ stato la musica che suonava nell'aria il primo giorno di scuola, il giorno in cui si è riusciti finalmente a togliere le rotelle alla bici, nei campi di periferia giocando a pallone con due sassi come pali delle porte.

Ci sono delle canzoni che sono degli attaccapanni.

Attaccapanni a cui sono attaccati ricordi.

Come dice Camus, in fondo il vero scopo dell'arte non è altro che quello di aiutare l'uomo a riscoprire, per suo tramite, “quelle due o tre immagini grandi e semplici nella cui presenza il suo cuore si è aperto per la prima volta”.

Non per tutti Lucio Battisti può evocare le stesse cose, evocare ricordi, sicuramente non per mia figlia, ad esempio, che ha solo diciotto anni (beata lei).

Come fa notare Hofstadter noi non ascoltiamo Bach come lo ascoltavano i suoi contemporanei o quelli che sono venuti subito dopo di lui.

Per quanto mi riguarda quando penso alla mia infanzia/adolescenza penso in massima parte alle canzoni di Mina, Celentano, Modugno.

E Lucio Battisti, quelle degli anni 70.

A “E penso a te”, che mi ricorda la tipica malinconia di alcune domeniche sere davanti al televisore in bianco e nero.

A “La canzone del sole”, che mi ricorda mia sorella che la cantava in macchina durante i nostri viaggi in giro per l’Italia.

Ma in generale, senza nessuna canzone in particolare, e’ la musica di Battisti che è il foglio colorato su cui sono scritti quasi tutti i miei ricordi di vita di quegli anni.

Come dice Manuel Agnelli, e’ la luce che era diversa negli anni 70.

E il merito era soprattutto della musica di Lucio Battisti.

L'altro giorno mi è capitato di vedere su Youtube un’intervista fatta al nipote, il figlio della sorella, tale Andrea Barbacane.

Piena di aneddoti, di cose interessanti, alcune anche spiacevoli, sullo zio.

Oggi ne ho trovata un’altra, sempre su YouTube, direttamente a lui, l’ultima, del '79.

Se penso che in questa intervista aveva solo trentasei anni, che parla come se avesse avuto un lunghissimo passato alle spalle, che se ne è andato a soli cinquantacinque anni (tre più di me in questo momento), mi rendo conto che la sua vita è stata davvero estremamente intensa e che in fondo era quello che voleva, almeno musicalmente, sempre stando all’intervista. Quasi come sapesse che sarebbe finito tutto troppo presto. 

Al di la di quello che si legge e si ascolta in giro, ma anche basandomi su quello, mi sono fatto l’idea di quello che era soprattutto Battisti, a parte un grande compositore di musica.

Era una persona estremamente vogliosa di trovare un senso alla sua vita.

Il suo Dio non era quello ortodosso, delle religioni, ma ne aveva uno, perché tutti ne abbiamo uno.

Dopo il grande successo (i suoi album e singoli concorrevano sempre fra di loro per i primi posti nelle classifiche) aveva voluto cercare di stanarlo, con scelte illogiche e inopportune (vedi pubblicazione del suo album americano), per capire quanto questo Dio fosse davvero dalla sua parte.

Sentiva l’amore di Dio ma voleva la prova definitiva.

Chiamatelo pure delirio di onnipotenza.

E così si giustificano i dischi bianchi in cui per sua stessa ammissione l’esperimento ardito (preconizzato nell’ultima intervista) consisteva nel mettere insieme melodie e ritmiche ossessive facendo in modo che le prime continuassero a trionfare.

Lucio Battisti, già al tempo dell’ultima intervista, sapeva che non sarebbe vissuto per sempre, anzi.

E per questo, alla maniera di Borges, e del suo racconto “Borges e io”, aveva disconosciuto il personaggio pubblico Lucio Battisti.

Dopo di che l’uomo Battisti era rimasto solo con la sua musica.

Bianca e pronta a sfidare il giudizio di Dio.

Che forse non ha fatto in tempo a dimostrargli quanto bene gli volesse davvero.

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editoriale di Flame

Con l’ineluttabilità delle tasse da pagare a giugno, per le ultime festività natalizie è venuto a trovarmi, come da sempre, un mio lontano parente altolocato (anche se non ho mai capito fino a che punto siamo parenti), tale Prepuzio Diotti Bastoni Della Grossa. Per gli amici Zio, o anche Ziii.

Quest’anno si è presentato con un pacchetto di amaretti di Mombaruzzo del 1902 ed un mucchio di cattivo umore.

L’occasione mi è sembrata quella giusta per stappare lo spumante da reflusso gastrico garantito trovato dentro la confezione natalizia da 3,45 euri dell’Eurospin regalatami l’anno scorso da un mio collaboratore.

I colori

... scusa?

I colori, Flame! Prendi il giallo, ad esempio, ti sei mai chiesto se i tuoi occhi percepiscono il giallo come lo percepiscono quelli di un’altra persona?

Caschi male Ziii, nelle festività natalizie sono solito concedermi un sano encefalogramma piatto.

Resuscita le tue letargiche sinapsi, dai.

Devo proprio?

È d’uopo (cit.). Dicevo. Potrebbe essere che il giallo che percepisci tu, per me, se mi fosse possibile entrare nella tua testa, secondo i miei schemi sarebbe azzurro, o un colore che non ho mai visto in vita mia, o potrebbe non essere quello che io considero una sensazione visiva; potrebbe ad esempio rientrare nell’ambito del gusto, una gradazione di salato, o una sensazione mai provata prima, o forse, quella cosa che mi arriva per me potrebbe non essere una sensazione ma una constatazione. Voglio dire, magari tu percepisci le sfumature di giallo alla maniera in cui a me una persona pare più o meno perspicace ...

Interessante, davvero ... come sta zia Clotilde?

Bene, purtroppo, ci seppellirà tutti vedrai, anzi, se succederà non lo potrai vedere ... ma tornando a noi: a tutti e due hanno detto che la banana è gialla, entrambi siamo quindi d’accordo che ciò che ci dice il cervello sul colore della banana si chiama giallo, ma potrebbe essere che la sensazione che provi tu, se me la potessi trasferire così com’è, per me sarebbe tutt’altra cosa.

Ho una prova che smentisce subito la tua teoria Zii.

Quale?

I daltonici.

Cioè?

Come fanno i daltonici a sapere di essere daltonici se quello che dici tu è vero?

Lo sanno perché almeno una volta nella vita sarà capitato loro di incontrare una persona che dicesse: la banana è gialla e la mela è verde, mentre loro, ognuno a modo suo, banda bene, percepiscono il colore della banana allo stesso modo in cui percepiscono quello della mela.

Ok Zii, ma non è comunque possibile quello che dici, i colori sono radiazioni luminose ben precise. La radiazione gialla che arriva ai miei occhi è la stessa che arriva ai tuoi.

Molto vero quello che dici, però, una volta che gli occhi hanno detto al cervello: guarda che ci è arrivata una radiazione gialla, a quel punto è a discrezione del cervello scegliere che modalità utilizzare per informare la coscienza di ognuno di noi di quel fatto. E chi l'ha detto che il mio cervello debba utilizzare per forza le stesse modallità del tuo? E questo potrebbe valere per qualsiasi informazione che ci arriva dal mondo esterno: tatto, udito, odori ..., e noi questa cosa non la potremo mai sapere perché non ci è possibile entrare nella mente di un’altra persona.

Va beh, ma anche fosse, a te che ti frega?

Mi frega perché sono le percezioni sensoriali che plasmano il mondo nella nostra mente; se i sensi ci tramettono le informazioni sul mondo esterno in modo totalmente diverso da persona a persona, quelle percezioni sono illusioni, e la domanda che mi viene è: cosa c’è davvero la fuori? Di cosa è fatto il mondo?

Ma sta cosa non l’aveva già tirata fuori il tipo della pillola rossa/pillola blue, e probabilmente ancche qualche capiscione greco o tedesco?

Forse.

Un altro po’ di spumantino?

Vai.

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editoriale di Lao Tze

“Perché siamo un Paese di merda” - fu la risposta (precisa) a una domanda (vaga) posta dalla giornalista.

Che suonava, più o meno, così: “Perché siamo arrivati ultimi all'Eurofestival?”.

L'anonimo intervistato all'ingresso di una discoteca di Madrid, a suo modo, si trovò ad interpretare il sentimento di un'intera nazione in quell'esatto momento. La sensazione, appunto, di essere un Paese de mierda.

Perché l'Eurofestival, diciamola tutta, è un po' come la Coppa Italia. Tutti lo snobbano, non frega niente a nessuno, ma a nessuno piace perdere. Soprattutto quando si perde male.

Vi butto là un esempio di quelli tosti.

La spedizione spagnola a Kiev 2017 si è conclusa con una di quelle batoste epocali da non poter scordare. Roba da vergogna eterna, altro che Ventura e Italia-Svezia.

Se non avete mai guardato l'Eurofestival (cioè l'Eurovision Song Contest come lo chiamano adesso, ma noi continuiamo a chiamarlo così perché ci ricorda i nostri fasti, non esattamente recenti ma chi se ne frega – leggasi: TOTO A ZAGABRIA 1990), sappiate che non è un problema, perché non c'è molto da capire. Anzi, se non lo capite fa lo stesso.

L'Eurofestival ruota sempre attorno ad alcune costanti, che si ripetono invariabili ogni anno:

  • Cipro vota Grecia e viceversa.

  • San Marino boicotta l'Italia e disperde il voto in Armenia o in Lettonia.

  • La Germania sta sul cazzo a tutti e non la vota nessuno. Per cui arriva sempre ultima, o comunque negli immediati paraggi dell'ultima piazza.

A Kiev, però, due anni fa, succede l'imponderabile.

Succede che i Crucchi hanno la brillante intuizione di puntare su un'accattivante biondina che riscuote qualche consenso in più, anche degli abituali dispersori del voto. Gli inattesi 3 punti della Germania (per la cronaca, il Portogallo ha vinto con 376...) hanno così fatto scivolare all'ultimo posto la terrificante boy-band scelta per rappresentare la Spagna alla kermesse continentale.

Zero punti. Verdetto inappellabile, mentre a Madrid si consumava lo psicodramma in eurovisione.

Ma zero punti, al di là del numero, lo sapete che significa?

Zero punti significa che non ti ha votato manco un cane. Significa che non ti hanno votato né col televoto in nessun Paese, né un singolo giornalista in giuria. Considerato che (quarta legge non scritta dell'Eurofestival) il 90% delle canzoni presentate all'Eurofestival fà schifo, significa che hai fatto più schifo dello schifo.

Sei il nulla. Zero, appunto.

Di qui la constatazione che, se prendi zero e non ti chiami Germania, sei un Paese di merda.

Le alte sfere della discografia iberica corrono ai ripari: per la prima volta dopo anni, il nome del candidato all'Eurofestival uscirà da “Operacion triunfo”, un'accademia musicale in forma di reality-show, in onda su LA1 tutte le settimane il mercoledì sera.

(ma in diretta-streaming su YouTube 24 ore al giorno)

In sostanza un Amici di Maria De Filippi senza Maria De Filippi. E hai detto niente.

Per quanto lodevole nel suo tentativo di rimettere al centro la musica (vabbè solo in apparenza, chiaro), Operacion Triunfo fatica a sfornare buoni interpreti che siano anche artisti. E che, soprattutto, lo diventino in tre mesi d'accademia...

A Lisbona 2018, in effetti, non che sia andata molto bene. 23esimi su 26. E contestuale suggerimento di cambiare il nome del programma (che comunque va avanti con successo) da Operazione trionfo a Operazione quartultimo posto.

A riprova del fatto che non c'è una ricetta per sfondare, in questa durissima e avvincentissima gara.

Ah, e comunque: guarderò l'Eurofestival pure quest'anno. Ci mancherebbe.

Lo guarderò per l'inimitabile esibizione di trash gratuito che ogni anno garantisce.

Per l'assolutamente demenziale polemica post-voto che seguirà la gara.

Per la bava alla bocca dei giornalisti in sala-stampa accalorati sul verdetto finale.

Per il tifo ottuso e triviale di Flavio Insinna che puntualmente tirerà all'Italia bordate di sfiga fotonica.

Per la gnocca.

E, ovviamente, per vedere a chi spetterà stavolta il titolo di Next Paese di Merda of the year. Vuoi mettere.

Buttatevi.

In tutti i sensi.

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editoriale di iside

QUANDO IL SUCCESSO E' UN FALLIMENTO

Riporto qui quello che mi ha detto la diciottenne L, italo-ivoriana (cioè figlia di immigrati ivoriani ma nata in Italia) durante una lezione che ho tenuto su trap e new economy in un istituto tecnico per ragionieri, e dell'interessante reazione dei suoi compagni e dell'insegnante a quello che la ragazza ha espresso. E' un frammento che ritengo prezioso, perché mostra come il successo dell'integrazione possa risolversi in un rifiuto del life style occidentale.

Avevo appena finito di analizzare il testo di Ninna Nanna di Ghali, il cui il trapper italo-tunisino si chiede se alla fine della fiera, una volta arrivati soldi e successo, fosse effettivamente questo che voleva, fosse questa la (sua) felicità. Chiedo ai ragazzi cosa ne pensano, ed alza la mano L

L: "No, non è quello che voleva. E' quello che credeva di volere, perché qui lo vogliono tutti. Io ad esempio sto 9 mesi qui, poi torno in Costa d'Avorio l'estate e ci passo 3 mesi tutti gli anni. Lì siamo più poveri, ma non siamo soli."
a questo punto interviene F suo compagno, e le chiede cosa vuole dire
L: "Nella pratica ad esempio qui quando uno si ammala nessuno lo va a trovare, nessuno lo chiama, ci si manda un messaggio su whatsapp e quando torna torna. Non solo in Italia, io ho un cugino a Parigi e un altro a Londra, ed è uguale per loro. Poi penso a questo da un po': quando finirò le superiori, se mi va bene andrò a lavorare da ragioniera in ufficio, per uno stipendio che basta per vivere, e dopo che faccio? Mia sorella lo fa da 3 anni, e fuori lavoro passa il tempo in palestra e a mettere foto su Insta. E dopo? E' sempre sola, come le sue amiche, da noi invece una donna a 21 anni ha una famiglia, sta sempre insieme ad altre donne, aiuta gli altri, non è mai sola."
Io: "Scusa se te lo chiedo dato che non ci conosciamo, ma è per capire. Ti senti discriminata? Pensi che questa che dici sarà la tua vita perché sei di origine africana?"
L: "No, non sono discriminata, è uguale per tutti, qui è così per tutti, come dice Ghali. Non cambia se sei nero o bianco. Per voi questa è la vita, per cui se ci riesco preso il diploma me ne torno in Costa d'Avorio, e vedo cosa riesco a fare lì"
vedo i suoi compagni perplessi, uno sembra mormorare una cosa tipo "e allora tornatene a casa tua", ma l'insegnante lo zittisce subito.

finita l'ora, esco dall'aula e l'insegnante d'italiano -la chiameremo M- della classe mi ferma
M: "Mi spiace per quello che ha detto L, in classe non l'aveva mai detto, ma è da un po' che è inquieta"
Io: "Perché va male a scuola?"
M: "No, ma molto bene, meglio dei suoi compagni"
Io: "Comunque non mi sembra abbia detto nulla di strano"
M: "Sì, ma vuole tornare da sola in Africa, c'è qualcosa che non va'"
Io: "No, io credo al contrario, che vada tutto bene. E' piccola, ma ha scelto"
M: "Sì ma non è stata integrata, per questo se ne va"
Io: "No, è proprio perché è integrata che se va. Quando ho parlato di Ghali, lei si è riconosciuta nella sua storia, perché Ghali è un ragazzo della seconda generazione che ce l'ha fatta, si è integrato e ha avuto quello che gli dicevano essere il successo. Ma scopre che alla fine qui c'è solo la solitudine, che i nostri valori sono una maschera per nascondere che siamo abbandonati a noi stessi. Anche lei si sente integrata, quella che immagina e rifiuta è la vita ovvia di un italiano che fa il suo stesso lavoro. Non si sente vittima di nulla."
M: "Sì ma.... si poteva far di più, magari ha sbagliato scuola..."
Io: "E se provassimo a pensarla in altra maniera, cioè che lei sia più libera di noi? Lei ha visto due modelli diversi, quello europeo e quello africano, ha l'intelligenza critica per capire la coerenza fra i valori e la vita concreta a cui questi valori portano. E ha scelto, semplicemente non ha scelto il nostro modello, quello che lei e io crediamo "superiore" perché non riusciamo nemmeno a immaginarne un altro"
M: " Sì, forse... però magari se facesse l'università qui..."

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editoriale di CosmicJocker

C’è una cosa della massima importanza da sapere su di me: il vino bianco mi dà alla testa.

Non che ne beva molto (sono più il tipo da rosso fermo e strutturato), ma, soprattutto in concomitanza con la calura estiva, indugio in qualche bicchierino di troppo nel mio randagismo notturno. Sarà per il refrigerio (istantaneo, ma mendace) che ne traggo, sarà semplicemente perché a volte voglio che qualcosa mi dia alla testa… Chi lo sa.

Un paio di estati fa pascolavo per le vie del centro e, mentre la guerriglia con le zanzare diventava senza quartiere, chi trovo appollaiato sullo sgabello di un locale dimenticato da dio?!

Paolino!

Amico (non esattamente fraterno, ma comunque importante) dei miei vent’anni e prestigioso compagno di bagordi del tempo che fu, Paolino non era cambiato poi molto: stessa capigliatura disordinata (un po’ “imborghesita” ora, a dire il vero), stessa barbetta incolta (un po’ troppo “artificiale” ora, a dire il vero), stesso abbigliamento improbabile… No, questo no! L’ abbigliamento era decisamente cambiato: curato, ma senza dare l’impressione di esserlo.

Io e Paolino non ci vedevamo da parecchio e quindi, sfidando tutte le leggi del buon senso, decidemmo di bere qualcosa lì, immediatamente, all’aperto, proprio nell’ora di punta delle scorrerie dei maledetti insetti succhia-sangue.

Naturalmente, c’era solo una cosa che potevamo bere: il Bianco Sporco.

Comune ed onnisciente lubrificante delle farse, dei brividi e delle ricerche della nostra giovinezza il Bianco Sporco (bianco leggermente frizzante con aggiunta di Campari che, a quanto pare, aumenta la gradazione) avrebbe innaffiato degnamente quella serata, stordendoci gradatamente (e inevitabilmente) al punto giusto: i ricordi sarebbero emersi tra i flutti dell’alcool come i dorsi di pesci d’argento, il Campari ci avrebbe schermato dai pungiglioni di zanzara e le bollicine ci avrebbero strizzato l’occhio proprio come le ragazze che sarebbero passate di lì.

In effetti (ragazze a parte), la serata proseguiva bene: avevamo voglia di aggiornarci a vicenda sulle nostre vite e, tra una risata e l’altra, tra una puntura e l’altra, tra un bicchiere e l’altro, la mia musica e quella di Paolino erano perfettamente all’unisono.

Ma, come dicevo all’inizio, il vino bianco mi dà alla testa, figurarsi poi il Bianco Sporco.

Un bicchiere, due bicchieri, tre bicchieri… La testa gira e pensa:

Sì, lo so Paolino. Girava voce che tu ti fossi buttato in politica. Mah, contento tu. Sarai più onesto di altri immagino”.

Quattro bicchieri, cinque bicchieri, sei bicchieri… La testa vortica e pensa:

C’era scritto sul giornale che avete espulso uno dei vostri. Però non era chiaro il perché. Te lo chiedo? E’ il caso? Mah! non fare cazzate Cris, è una bella serata. Però perché dovrebbe incazzarsi? Glielo chiederei così, tranquillamente, stiamo parlando di tutto, perché dovrei farmi problemi su questo”.

Sette bicchieri, sette bicchieri e mezzo… La testa molla il freno e la voce prorompe:

Ma poi perché l’avete espulso quel tizio?”.

L’ho detto così, senza particolare veemenza, con tutta la tranquillità possibile di uno che non regge molto il vino bianco e che stava a poco a poco venendo dissanguato dalle zanzare.

Paolino (che non aveva bevuto quanto me, ma che era sempre dignitoso) ha sgranato gli occhi interdetto, raggelato.

Pausa lunga, pensierosa: “Anche tu provochi?”.

Pausa più corta, con rabbia a stento trattenuta: “Anche tu provochi?!”.

Pausa lunghissima e poi con voce metallica: “Me ne vado… Stammi bene”.

Io non ho capito benissimo lì per lì, ricordo però che sono andato al cesso e, mentre pisciavo, mi sono ricordato de “Il Grasso e il Magro”, racconto breve di Cechov. Mi sono ricordato di questi due amici russi che si ritrovavano per caso alla stazione di San Pietroburgo e ricordavo anche del piacere provato da entrambi nel rivedersi dopo tanto tempo.

Quando però uno dei due disse che lavorava come Consigliere Segreto per il Governo, l’altro cambiò subito atteggiamento diventando sgradevolmente ossequioso ed intriso di una ridicola protervia.

Una frase, una parola buttata lì con leggerezza, aveva spezzato la magia.

Paolino non lo rivedo da allora (anche se mi è parso che una volta per strada abbia fatto finta di non vedermi).

Quella sera invece sono uscito dal locale e ho concluso la serata su una panchina sul lungofiume: le zanzare mordevano la pelle, il Bianco Sporco fermentava nello stomaco e Cechov sorrideva nella testa.

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editoriale di Caspasian

"Ti rivelerò, Gilgameš,
Un triste mistero degli Dei:
Come essi si riunirono un giorno
Per decidere di sommergere la terra di
[Šuruppak".

Tanto mi è caro quel cappello di astrakan di Battiato, di Gurdjieff, di Mingus, perché lo aveva anche mio padre. Insieme al cappotto di cammello ricordo così mio papà che ci lasciò presto, che mi lasciò in eredità una prematura solitudine. Il cappotto ce l'ho ancora e lo porto con eleganza passata mentre il cappello Sufi è scomparso in convulsi traslochi subìti. Mi ricordo al tatto la vellutata sensazione che mi investiva, si sentiva il velluto dei petali di rose.

Dal punto di vista di Gurdjieff può venire chiamato "straordinario" soltanto l'uomo che si distingua da quelli che lo circondano per le risorse del suo spirito e che sappia contenere le manifestazioni provenienti dalla propria natura, pur mostrandosi giusto e indulgente verso le debolezze altrui. Io non so se Battiato fosse un uomo straordinario ma che ci abbia regalato tanti momenti gioiosi e intimi di questo sono sicuro.

E per ritornare sulla diatriba sterile che non sapesse cantare, supererei questo sofismo occidentale inquadrando Battiato come un ašowł, cioè come cantastorie e poeta. "Il nome di ašowł indica dappertutto, in Asia e nella penisola balcanica, i Bardi locali che compongono, recitano o cantano poemi, canzoni, leggende, racconti popolari e storie di ogni genere".

Per 76 anni "qui fece campo" il figlio di Grazia, il Venere di Milo Francesco aka Mustafà Mullah Barazani che, confuso dal "fumo di una sigaretta", si ritrovò nei campi del Tennessee, come c'era arrivato non si sa.
Ma inseguendo la Quarta Via quando stava prendendo un tè al Caffè de la Paix incontrò Giorgio che gli offriva "sigarette turche". Fumare senza filtro può trapassare la barriera bronchiale tra Oriente e Occidente e ricominciare tutto diversamente abbisognava di un Fetus(o) per la rinascita. Da lì il passo per una ritenzione seminale è breve e l'esclamazione Me cojoni che Pollution! iniziava ad essere sostituita sempre più da uno "Stockausen chi legge!".

Il Clic innescato stava più sulle corde dell'artista che con le sue Arie(s) musicali conquistava una Propiedad Prohibida di impasti e accumulazioni di tentativi di innesco linciaggi. Ma i datteri coltivati in quel rigoglioso Egitto di prima delle sabbie erano di un sapore irripetibile vista la loro invisibilità. Il "Gladiator" sazio del silenzio settenario pitagorico sposta il suo jukebox in un vaso di Pandora a doppio taglio mistificando eternità con formula canzonante un pop etnico delirante geografia di reincarnazioni dove "restano i nomi e cambiano le facce e l'incontrario, tutto può accadere".

E fedele al "chi non si aspetta l'inaspettato non troverà mai la verità" srotola la matassa di lava (presa direttamente dall'Etna) di eterni ritorni sventolando bandiere e cinghiali bianchi, diventando un Re del Mondo, con giullare annesso, sulla Venezia-Istanbul, passando per la Prospettiva Nevskij facendo scalo a Grado. Cercando un centro di gravità permanente in sella al suo antico tappeto volante, si vuole vedersi danzare derviscio e da aquila che è stata, data la pronunciata nasca che si ritrova, spicca il volo del successo definitivo dove uno stormo di Uccelli lo accompagna nel suo icaro planare a scalar classifiche trascendenti.

La stagione dell'amore è aperta e l'Animale è un po' liberato dove accoppiamenti artistici Russo-Alice-Milva appagano l'androgino ermetico in lui e con la collaborazione con Sibilla si ripassa Fisiognomica arcaica riconoscendo la sorella gemella monozigote di altre vite che lo aiutano a superare la dualità sessuale, ma che non va giù ai baroni di Sanremo che sabotano la nemesi siamese sdoppiando audii.

Rispondendo esotericamente al "perché un corvo è come uno scrittoio" partono i nuovi lavori all'insegna di: "è più facile che un cammello passi per la cruna di una grondaia", "ero in compagnia di una macchina da cucire sopra un ombrello" e Haiku sparsi, dove iniziamo a cogliere frasi occidentali dopo il diluvio orient express di un Patriots curdo che a bordo della sua arca invitava al viaggio verso mondi lontanissimi che stazionano nella nostra ombra cercando tramite campane tibetane di destare l'orizzonte.

In calici finemente screziati frusciano vini che inebriano l'obnubilazione di ricercare carnalmente di celebrare riti di sangue ma la presenza astrale di quell'armonium sfiatato ci riporta per terre ignote dove le legioni del nostro ego cercano di instradarci all'antica saggezza di "delendare" vanità, dove l'imboscata dell'inganno di "tutto quello sarà tuo" ci fa stare sul chi vive dalla delusione della perdita delle cose che possediamo, che in fin dei conti ci possiedono.

Lo shock addizionale risveglia kundalini di un'ottava e ricordiamo quella vita passata di Faraone a costruire piramidi alzando le tonnellate di pietra dei massi con la forza del pensiero, masticando con nonchalanche un chewing-gum di manna dal cielo nel mentre dell'accumulazione cubica. E la leggerezza del sorrisetto della Sfinge, di cui un frammento e altro sospesi in acqua, segna l'eterno ritorno di una boccaccia velata in faccia alla Gioconda.

"Se fossi più simpatica sarei meno antipatica" cantava Giuni dove l'epurazione dei "buoni sentimenti" lascia spazio a un Sentimiento Nuevo che non ha bisogno degli occhiali da sole dove carisma e mistero non fanno più parte neanche come complemento d'arredo vista la rincorsa alla sparizione tramite un'arrendevolezza definitiva di fronte allo scontro di psicosi da albero genealogico.

La Cura è fornita da argomenti di riflessione che constatano l'esigenza di andare a scovare l'esistenza di quel Dio interiore che tutti abbiamo, battere il Ferro finché è caldo di accettare che "macula non est in te" e mai più giustificarsi nel delegare la propria anima firmando taciti accordi col guru di turno. La responsabilità della propria vita, della propria libertà è un regalo cinico del Paradiso dove la conquista della noia del divino ci suggerisce che non siamo questo corpo ma siamo qui: beata solitudine, isola benedetta.

Ulteriori tentazioni suicide vengono mediate dal vecchio cameriere di quel piccolo pub che ci serve un cordiale, dove dispute egoiche si sciolgono nell'effluvio della libagione e del flusso di una voce amica che, sbilenca, ci Sgalambra in zone rarefatte del pensiero. Il circo burlesco psicomagico dell' amico Alejandro ci fa sorridere del disagio quando provochiamo la nostra invisibilità di fronte agli altri: l'unicità dell'Unità fa passare il martedì portoghese surfando di passaggio in questi strani giorni.

È stato molto bello fornicare mentre i Fleurs si schiudevano, il ricordo di gioventù si materializza sentendo la temperatura della borsa dell'acqua calda sulla mano e lo spavento supremo Fu quello che Fu quando riconosci il cammino interminabile e lo abbracci. Gli stratagemmi aiutano a sballottolare la carcassa in tutto questo miscuglio che è la vita, sai che sbadigli sennò senza i Krisma.

Resta solo il Vuoto in un'immersione atlantidea che ci ricorda che non sopportammo la felicità.

Vorrei continuare all'infinito la frantumazione di questo dialogo interiore ma fa capoccella un protagonismo pruriginoso che è fuori luogo e subitamente intervengo a tagliare la testa al metodo e al maestro. Ci vediamo nei Giardini della Preesistenza, ciao Fra'.

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editoriale di Falloppio

Ci sono persone che perdono la testa tutta la vita per una Band, per un disco, per un autore. Come fate? Io non ce la faccio. Ho un problema, sicuramente. Ho sempre preso delle sbandate incredibili per musica completamente diversa. Ho passato 6 mesi (in età avanzata) ad ascoltare solo Ramones. Era il periodo delle cassette. Ascoltavo e riascoltavo, senza capire bene i testi. Ho ascoltato La Sposa Occidentale di Battisti per un mese intero per imparare i testi, che anche in questo caso non capivo bene(!). Con l’amico fraterno Strega, tutta la discografia di Sergio Caputo perché aveva dei testi che capivo molto bene (?). Con Macho, mio primo chitarrista, Black Metal dei Venom perché era un burdel spaziale. Poi 2 dischi dei Duran Duran e degli Spandau Ballet, perché consideravo spaziali solo le ragazze e mi mancava l’argomento per l’approccio. I Rockets, fino ad Atomic, perché loro erano spaziali veramente. Adesso, mi perdo completamente nel Blues di Chicago perché è accessibile. E nello stesso tempo mi sparo Fragile degli Yes perché è inaccessibile. Oppure vivo una giornata intera con i Beatles per risollevarmi l’animo. Poi inciampo su Claudio Lolli, perché lo considero una malinconia sana. Metto Blizzard of Ozz in repeat, perché proprio sano sano, Ozzy non lo è mai stato. Scopro Paolo Benvegnù e più lo ascolto più mi fa pensare. I Manowar che non mi fanno pensare a niente. I CCCP con cui condividevo il pensiero. Gary Moore che penso sempre.

Sono confuso. Voi, invece, come fate. Ditemelo……

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editoriale di sfascia carrozze

Dopo la recrudescenza dell'Isis, l'aumento siderale dello Spread e l'aumento spropositato del prezzo al consumo delle barbabietole, la quarta minaccia più minacciosa in ordine di minacciosità del (prossimo ma anche attuale) 2019 è sicuramente quella relativa alla pubblicazione dei nuovi vàgiti discografici di diversi nomi e sigle che già in passato hanno pesantemente minacciato e messo a dura prova i nostri bisunti, scartavetrati padiglioni auricolari.

Voi ancora non lo sapete ma tra le minacce più subdole e imminenti c'è quella del ritorno in pompa magna dei Backstreet Boys: il loro "DNA" uscirà il prossimo 25 gennaio.
Come sia possibile che dei non cantanti, dei non ballerini, insomma dei non a tutti gli effetti siano giunti al non(o) disco, resta un enigma irrisolto e irrisolvibile che neppure approfonditi studi sul DNA hanno svelato.
Da quì il titolo.

Sul versante sciaqquette pseudo-Punk virate Pop direi che il ritorno della mondina di Campobasso Apri La Vigna (aka Avril Lavigne) sia l'evento per eccellenza: perlomeno "Head Above Water" ha il buon gusto di suggerirci un ottimo metodo per evitare di sentirlo.

Anche Dido, dopo cinque anni di silenzio, darà alle stampe il nuovo opus "Still On My Mind": ecco, appunto, ce l'abbiamo ancora tutti ben presente ciò che sei in grado di proporre: ma perché perseverare, dico io.

Anche sul fronte para-pseudo-proto-metal c'è di che aver congruo terrore:
a parte l'incombente ritorno dei veterani del metallo progredente Dream Theater, ci attende l’atteso (ma da chi?) ritorno dei Rammstein e altresì (sob) quello degli Slippikinotto: in effetti il primo disco faceva (anche) ridere. Il secondo già non faceva ridere più e anzi faceva sgorgare copioso il latte ai ginocchi: perché giungere addirittura al quinto? Beviamoci sopra un chinotto e non pensiamoci più.

L'annuncio del nuovo Tool poi è diventato una tale barzelletta che il giorno che sarà effettivamente pubblicato non ci crederà più nessuno. Nemmeno loro che l'hanno registrato: e infatti quando uscirà (se uscirà) auto-imploderanno diventando, di fatto, i nuovi Boney M.

Anche la casta ecclesiasta Madonna pare che nell'anno in corso ci regalerà un nuovo caposaldo della musica contemporanea: quella del 1980 virata ospizio.

Quando si dice che gli ultimi saranno i primi e al peggio non c'è mai fine conchiudiamo questa lugubre quanto desolante prospettiva che ci attende tutti inesorabilmente:
il 25 gennaio il pseudo-rapper Fedez pubblicherà il suo quinto disco solista, "Paranoia Airlines".
Ma io direi anche solo Paranoia.

E molta.

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editoriale di hypnosphere boy

Grazie

Per il riconoscimento di "Gran Visir della Recensione" che ritengo in larga misura immeritato. L'ho scritto molte volte e lo ripeto: delle oltre 70 Derecensioni scritte dal 2006 al 2017 (11 anni ) salvo pochissimo. "Man-Amplified" dei Clock DVA, "Eleven:Eleven" dei Coptic Rain, "The Infinite Circle" di Sophia, "Kveikur" dei Sigur Ros. Anche su queste quattro ho forti dubbi. Potendo, metterei off line tutto il resto, come nell'ultima strofa di "Hurt" dei NIN "if I could start again / a millions miles away (... )" ma purtroppo non si può.

Su DeBaser: è invece una realtà sorprendente e bellissima. Sorprendente per la inattesa longevità e capacità di rinnovamento che ha dimostrato (ed è merito di tutti: Editor, Staff, DeRecensori) sorprendente perché comunque sia l'archeologia storica del rock e degli altri generi è stata scandagliata per intero, parallelamente alla descrizione in tempo reale dell'attualità del rock e altre lingue del comune linguaggio musica-leggera (se posso). Sorprendente infine perché è davvero folto il pubblico dei lettori esterni. Con un lieve imbarazzo ho una volta sentito un mio amico dire "io leggo DeBaser e Rockerilla". Questo benché le mie recensioni in gran parte siano da cestinare mi fa sentire orgoglioso di essere (stato?) attivo. DeBaser è un involucro dotato della potenzialità interattiva di un social ma con i limiti dell'utilizzo e permette di sviluppare il senso di una "community" non infinita (come le piattaforme FB, Instagram, Twitter). DeBaser si sviluppa attorno a uno-due topics. Questo omogeneizza i mezzi espressivi. Tornando a me: il fatto è che scrivere recensioni musicali è un sogno che inseguo dall'età di 17 anni. Nel corso del tempo ho imparato ad apprezzare quelli che a mio parere sono i migliori critici: Fabio de Luca, Aldo Chimenti, Eddy Cilia, Carlo Bordone, Claudio Sorge, Federico Guglielmi, Alberto Campo. Ho studiato i loro stili quando ancora SA e Ondarock non esistevano. Nel web ho scritto con una insistenza maniacale a vari e-journals e la risposta è sempre stata:"_______". Finché quest'anno la webzine iyezine.com (spero si possano fare i nomi) mi propone di scrivere per loro. Dopo mesi di titubanza io declino. Perché è chiaro che non si può improvvisare qualcosa che non si è mai iniziato ad imparare. Ma non importa: perché su DeBaser e su SentireAscoltare e su Metallized e Rockol e Ondarock e... leggo delle stupende recensioni e va da se che chi le scrive ha un vero talento. E questo mi fa piacere. È tutto.

Ah: non ho ancora capito perché quella rece sui PWOG abbia oltre un mln di visualizzazioni... fosse almeno stata scritta in modo... commestibile ; -)

Ciao dalle periferie del sogno... W DeBaser. Takk fyrir.

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editoriale di kyra1

L'hotel si rivelò una truffa, un vecchio scannatoio su una strada polverosa e poco illuminata. Alla sera era illuminato da luci rosse, tanto per sottolinearne la funzione. Chiesi dove fosse il centro e mi risposero che bastava fare poche centinaia di metri. Li feci e mi trovai nel viale che attraversava la città : 4 corsie strapiene di BMW cannibalizzate, ridotte all'osso che sfrecciavano come se fossero gli ultimi metri della loro esistenza. E forse lo erano. Minibus stipati in cui la gente sedeva sul cruscotto accanto al guidatore. I marciapiedi erano da percorrere solo con scarpe da ginnastica o da lavoro. Ero a Chisinau, Moldavia, il luogo che riversava badanti sull'Europa fin dal crollo del Muro di Berlino. Avevo voluto fare quel viaggio per vedere i luoghi da cui provenivano le donne che nelle case italiane si occupavano degli anziani lasciando famiglie spezzate e figli senza madre .Bastava un'occhiata al centro di Chisinau, la capitale, per capire.

I negozi esponevano merce miseranda l'unica nota allegra sembrava essere un gruppetto di zingari che suonavano sui gradini di una scala. Camminai a lungo, il viale sembrava non finire mai, i ristoranti erano graziosi e poichè appartenevano ad una catena erano quasi tutti uguali Mi fermai e mi portarono il menù, tutti i cibi erano precotti e molto carini a vedersi, il sapore bisognava immaginarselo. I clienti erano quasi tutti stranieri, affaristi. Dai vetri della veranda vidi la gente diradarsi e dovetti affrettarmi a mangiare visto che chiudevano alle otto e mezzo. Dentro l'acquario in cui ero ci si poteva riprendere dall'inquinamento e dallo stupore per un pò di tempo.

All'uscita un ragazzo giovane era steso per terra e un paramedico lo stava visitando, il ragazzo parve riprendersi e l'ambulanza se ne andò per ritornare dopo pochi minuti, il ragazzo era di nuovo privo di sensi e stavolta lo caricarono. Tornai in albergo e fui di nuovo davanti all'hotel a luci rosse, sedetti su una poltrona di vimini all'esterno, leggermente imbarazzata, ma era ancora presto per i clienti fedeli. La strada era buia, c'era un ristorante chiuso da tempo, auto parcheggiate sui marciapiedi. L'asfalto pieno di buchi sembrava ricoperto di sabbia.

Dopo una notte piena di rumori soffocati la mattina dopo ritornai sul viale e feci colazione in un bar/pasticceria anche quello per stranieri. Al tavolo accanto al mio c'erano due uomini d'affari veneti sorpresi di trovarmi in quelle plaghe volontariamente, uno, il più corpulento, attaccò discorso e disse che aveva una fabbrica in Romania dove viveva con la famiglia, vi si trovava benissimo se era in Moldavia era solo per affari, non poteva darmi indicazioni su cosa vedere perchè, secondo lui, non c'era niente che ne valesse la pena. Dubbiosa. Arrivai , dopo una lunga camminata, fino ad un patetico Arco di Trionfo più piccolo dell'originale ma con una sua funzionalità vi era infatti un orologio incastrato, poi c'era un giardino ben tenuto con uno di quei ristoranti fratelli (Andy Pizzas), una palazzina bianca di cui non conoscevo l'uso e tutto intorno traffico e marciapiedi scassati, gente che trasportava borse piene e masserizie. Mi diressi al mercato che si annunciava con donne che esponevano mercanzia su teli per terra, oggetti vecchi e polverosi peluches consumati, scarpe vecchie e tristi, maglie usatissime. Cose di proprietà della venditrice generalmente abbastanza giovane e scorata. Ragazzini sporchissimi vicino al Mercato sgusciavano noci, sacchi e sacchi, -la Moldavia infatti è insieme alla Romania una grande produttrice di noci, si vendeva frutta per terra, 10 pomodori, uva, tutto polveroso. Il Mercato vero e proprio era immenso, era quello dei Kolchoz, dei tempi buoni, come dicevano alcuni clienti.

Il mercato della carne era grande, di cemento come tutti i manufatti ex sovietici, blocchi di carne sui banchi, petti enormi di tacchino grigiastro che mi tolsero definitivamente l'appetito quello dell'abbigliamento era fatto a scatole incastrate l'una nell'altra, entravi in un corridoio , uscivi in un altro e poi entravi ancora etc etc. La merce proveniva dalla Turchia, niente Cina ma la manifattura e la qualità erano simili. Minibus scassati erano parcheggiati e i buttadentro cercavano clienti spaesati come me. Decisi di farmi un giro a Soroca di cui avevo visto un servizio sulle fantastiche case zingare, chi abitava alla Casa Bianca o in una moschea, cose simili. Il viaggio si rivelò l'ennesimo fallimento: il minibus era privo di ammortizzatori e bisognava stringersi ai sedili, la schiena veniva sballottata violentemente, senza alcuna pietà. Le buche sulla strada non erano semplici buche: erano la strada stessa. Ovunque campagne abbandonate, sterpaglie, auto russe che eroicamente continuavano a funzionare cariche di tutto.Soroca sembrava dormire il sonno dei giusti, alzai lo sguardo sulle colline e là le vidi, colonne , pagode, cupole. Un signore che aveva fatto il viaggio con me disse che non c'era necessità di andare lassù, le case infatti erano abbandonate da tempo. Feci un giro sul lungofiume, una costruzione grande e bianca con un giardino inselvatichito davanti era l'ex casa della cultura, accanto il fiume scorreva, grande ed in apparenza pulito. Sull'altra riva c'era l'Ucraina.

In attesa dell'autobus mi fermai in un bar carino, dentro ad un giardino pubblico, fiori finti e ottoni mi ricordarono qualcosa, dentro c'era una deliziosa aria condizionata, guardai il menù e vidi che Andy Pizza aveva colpito anche lì.

Prima di ripartire feci un ulteriore giro a piedi fuori dal vialone, per fare ciò bisognava attraversare un sottopassaggio: i gradini non esistevano più, sembrava che un branco di topi se li fosse mangiati , arrivata alla fine della scala precipitai nel buio , non si vedeva assolutamente niente, neanche la fine del tunnel, pregando di non mettere piede su qualcosa di schifoso magari un ratto morto o peggio un cadavere o delle feci , proseguii coraggiosamente.. A un certo punto nell'oscurità vidi due lucine e rumore: erano due vigili che trafficavano intorno ad un tombino.Infine "giunsi a riveder le stelle" e mi trovai difronte ad un mega hotel abbandonato e alle più svariate coperture di terrazzi: andavano infatti da muri con finestre annesse a elaborate strutture di ferro battuto, persiane e tapparelle, bambù e forati, c'era da chiedersi come non crollassero sotto il peso .

Non andai a vedere il parco con il lago nè nessun altro parco nè accettai di andare a vedere le cantine e fare gli assaggi di vini, non poteva importarmene meno, ero stanca di quel paese. La sera mangiai per l'ennesima volta da Andy Pizza, in un altro indirizzo ma sempre uguale, e vidi all'ultimo piano di un palazzo luci roboscopiche dove forse si divertivano le ragazze e i proprietari di fabbriche veneti, feci un ultimo giro per la città: casinò e night e karaoke. Per l'ultima volta dormi nell'hotel a luci rosse incurante del via vai e il mattino seguente andai all' aereoporto dove mi disfeci delle banconote locali, piccole come quelle dei Monopoli, dandole di mancia allo stupefatto taxista. Certamente non ci sarei tornata mai più in Moldavia ed era inutile tenerle in qualche borsellino.

Capii anche perchè gli abitanti fuggissero da quel paese, perchè le donne affrontassero vite totalmente diverse da quelle a cui erano abituate , anch'io lo avrei fatto, e di corsa.

Tornata a casa parlai con una vicina ucraina, quando gli dissi che ero stata a Chisinau s'illuminò " Che bella città" disse " Io ho studiato lì, c'erano fiori dappertutto, come mi sono divertita".

Mi chiesi se avevamo visto la stessa città.

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editoriale di Armand

Vjačeslav Bolard, classe 1935, era il presidente dell'associazione sportiva TJ Petřiny, fondata a Praga negli anni '70. Mia moglie ed io facciamo parte di questa società allenando a pallavolo squadre giovanili. In questi anni Slávek (diminutivo di Vjačeslav) lo vedevo spesso perché lui e mia moglie coordinavano e organizzavano le attività sportive.

Era una persona "giovane", nonstante gli mancasse poco per i 90 anni, e anche se gli mancava qualche dente, era attivo, lucido, dinamico, instancabile. Era un amico, nostro, dello sport, dell'aggregazione, dei giovani, di una educazione senza fronzoli...

Adesso questo amico non c'è più, oggi è lunedì, ieri arriva una telefonata dalla figlia che sabato lo hanno trovato a casa morto. Viveva con la moglie ma questi giorni era andata con la figlia in vacanza per alcuni giorni, si sono allarmati che non rispondeva alle chiamate e sapendolo solo a casa sono rientrati prima constatando l'inevitabile.

La scorsa settimana si era sentito con mia moglie, oggi sono ricominciate le scuole qui e si dovevano vedere gli spazi e gli orari della palestra per il nuovo anno. Giovedì mia moglie lo chiama quattro volte ma non era raggiungibile, pensavamo che gli si fosse rotto il telefonino, visto che andava in giro con uno vecchio. E invece no, invece no... Volevamo passare a casa sua, visto che abitiamo vicino, per vedere come mai era spento il telefono. E invece non siamo passati, non siamo passati... Mia moglie già pensava di organizzare una festa a sorpresa per i suoi 90 anni, coinvolgendo la federazione per un "oscar" alla carriera, e invece ci ha buggerati, buggerati.

A giugno c'era stata una grande festa per la società al centro sportivo. Ondřej Perušič, uno dei più forti giocatori in circolazione del beach volley internazionale, Campione del Mondo in carica insieme al suo compagno David Schweiner, donava una somma di denaro alla nostra società perché al tempo aveva iniziato a giocare a pallavolo con TJ Petřiny, e il suo primo allenatore era stato Slávek.

È venuta la Česká Televize (ČT), la Rai ceca, a riprendere tutto, mandando dopo una settimana il filmato in televisione, Ondřej quel giorno ha avuto belle parole per Slávek, ha raccontato bei ricordi. Quella foto che ho mandato ritrae loro due, quel giorno, che bei sorrisi.

Voglio ricordarlo così a Slávek perché io non l'ho presa bene questa notizia, anzi, insieme a mia moglie, l'ho presa proprio male, non ho pensato che "c'est la vie", che era molto anziano e perciò data l'età prima o poi... Perché io alcune persone impersonalmente le mitizzo, le avvolgo di sorrisi, le custodisco apertamente nel cuore. Mi vado a creare dello psichico che va a tappare buchi della mia vita.

In questo caso, con delle figure maschili che incontro, vado a costruire nella realtà, neanche tanto simulando, quello che sarebbe potuto essere se mio padre fosse tutt'ora vivo, e non se ne fosse andato quando avevo quindici anni. Epicizzo l'albero genealogico mettendo qualche pezza ai vuoti passati e presenti. Slávek era del '35, mio padre del '36, quando ci incontravamo facevo questa similitudine, questo accostamento: "Ecco un pezzettino di mio padre", mi dicevo, e si passeggiava insieme un po'. Bastava, eccome se bastava.

E poi non si fermava mai, aveva sempre qualcosa da fare di manutenzione al centro sportivo, e allenava ancora i bambini a calcio, e faceva ancora l'arbitro di pallavolo ai tornei giovanili. Certe volte arrivava con tagli sulle mani, con lividi in faccia, deambulazione incerta; e poi venivamo a sapere che si era ferito montando quella cosa, spostando quell'altra, cadendo dalla scala mentre montava dei faretti. Un caro testone che faceva tutto da solo e che in nessun modo lo potevi fare desistere su una cosa che aveva deciso di fare, che andava ancora dai burini che avevano fatto i soldi ad aggiustargli qualcosa, gli "arricchiti" li chiamava lui.

Aveva quegli occhi chiari, vispi, quel sorriso appena accennato, di uno che se la diverte sotto i baffi, con la battuta sempre tagliente, lui sopravvissuto alla guerra, agli psicocomunisti del regime, al dopo '89, a tante altre cose...
E a me non mi va per niente che "lo spettacolo deve andare avanti", che si deve continuare, no, io mi fermo, mi fermo e piango, non scaccio la tristezza, non snobbo la solitudine, della vita "normale" se ne riparlerà tra qualche giorno. Perché anche se non ci vedevamo con Slávek, io so che c'era, e mi sentivo meno solo, ma da ieri è sadness, sadness. Non fraintendere non è un necrologio, né sofferenza spicciola, è un saluto, soltanto un saluto.

"Rivoglio il treno speciale a Tiburtina", diceva una certa combo romana, io rivorrei Slávek, rivorrei mio padre, rivorrei altri, lo so che non si può fare, ma mi piacerebbe... Il suo fantasma si aggirava per il quartiere oggi, solo per oggi, mia moglie mi ha detto che prima di rientrare a casa lo ha visto, è così.

Riposa adesso, dobrou noc (buona notte) "dolce Principe".
Ahoj (ciao) Slávek, s'aribbeccamo!

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editoriale di luludia

L'altro giorno ho rivisto Marco, uno dei quattro.

Ci siam mezzi ubriacati e ci siam messi a ricordare.

Ed ecco quello che mi ha detto il mio vecchio amico:

“Io non sopporto nessuno. E i discorsi degli altri, in genere, mi disgustano.

E ho sviluppato una tecnica perfetta per non ascoltare le persone quando mi parlano. Talmente perfetta che non se ne accorgono mai.

Che i discorsi degli altri mi interessano di passaggio, quando sono colti come per caso.

Che è bello passare in mezzo a una moltitudine anonima, cogliendo parole in qua e in la come fossero musica,

Oppure è bello quando ti ferma una vecchietta o un tipo dolcemente fuori posto.

Ma gli altri...gli altri, dopo cinque minuti, vorrei essere altrove.

Ci sono delle eccezioni, ovvio, ma non son certo tante.

E comunque tutto questo non nasce da un senso di superiorità, anzi...semmai nasce dall'esser fatto male.

Mi capita spesso di avere nostalgia degli anni giovani e il massimo della nostalgia è per quei pomeriggi quando ascoltavamo insieme tutti quei dischi.

Eravamo in quattro, il numero perfetto.

Mi è capitato di avere altre amicizie virili e nessuna ha mai avuto quello splendore.

Tolti voi, i maschi mi fanno un po' schifo.

Io parlo solo con le donne, forse per la loro bellezza, forse perché ho ben poco di maschile. O forse perché sono terribilmente stanco. (Avviso ai naviganti: il signore che sta parlando è provvisto di notevole fascino).

Ah, per me, gli unici uomini esistenti siete voi tre E, forse, amo tanto tanto la musica per il semplice fatto che mi riporta a quei pomeriggi.

Che poi era bello anche prima, quando al posto di Lou Reed c'era il Conte Oliver e al posto dell'impianto stereo il pallone. Ed è stato meno bello dopo, quando ci siamo mischiati.

Che per me quei pomeriggi eravate VOI .

VOI di cui son più stato geloso che di tutte le mie fidanzate messe insieme.

Ah, gli unici uomini esistenti sono tre ragazzi in realtà, tre ragazzi persi nella notte dei tempi.

Mentre ora sono un solitario quasi assoluto, non faccio praticamente mai niente, non vado da nessuna parte.

Ma va bene così, sto coi miei sogni...

Chissà, forse c'è una velata psicosi.

Si sa che una delle paure degli psicotici è quella di essere risucchiati dagli altri...gli altri sono ladri...

Ladri di energia, ladri di identità.

E' che io ho bisogno d'aria, quindi non trascinatemi a feste, e se si, lasciatemi andar via presto.

Io non vi reggo più di mezz'oretta. Quindi, datemi un angolino...

Se possibile “un posto pulito illuminato bene...”

Ecco, queste le parole del mio amico.

Parole eccessive, forse... ma che in me risuonano...

Risuonano magiche...

Che forse anch'io, se potessi scegliere un momento da rivivere, tornerei a uno di quei pomeriggi...

Tra il Conte Oliver e Lou Reed...

Quando eravamo principianti assoluti e tutta la vita era davanti a noi..

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editoriale di iside

"Alcune persone pensano di poter trovare soddisfazione nel buon cibo, nei bei vestiti, nella musica vivace e nel piacere sessuale. Tuttavia, quando hanno tutte queste cose, non sono soddisfatte. Si rendono conto che la felicità non è semplicemente saziare i propri bisogni materiali. Pertanto, la società ha istituito un sistema di “ricompense” che vanno oltre i beni materiali.

Queste includono titoli, riconoscimento sociale, status e potere politico, il tutto avvolto in un bel pacchetto chiamato “autorealizzazione”.

Attratti da questi premi e spinti dalla pressione sociale, le persone trascorrono la loro breve esistenza affaticando corpo e mente per inseguire tali obiettivi. Forse questo dà loro la sensazione di aver ottenuto qualcosa nella loro vita, ma in realtà hanno sacrificato molto nella vita.

Non possono più vedere, ascoltare, agire, sentire o pensare col loro cuore. Tutto ciò che fanno è regolato dal fatto che con le loro azioni possano ottenere guadagni sociali oppure no.

Alla fine, hanno passato la loro intera esistenza seguendo le richieste degli altri, senza aver mai vissuto una vita propria.

Quanto è diversa questa vita da quella di uno schiavo o di un prigioniero?”

vissuto fra il V e IV secolo a.C

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editoriale di sfascia carrozze

Mi permetto una pantagruelica riflessione|enoisselfir.

Meglio: una semplice constatazione derivante da quel che si è udito in fatto di sc(i)elte DeAscoltative preferite dal pubblico di DeBaser relative all'ultimo mese solare di marzopazzerello nella puntata di ieri de La Musica DeDentro su RadioTandem*.

Al netto della telefonata fantasma della nostra Undertaker Salentina amante di Chillavisto e del magniloquente Sampol d'antan del papà dell'avvocato Claudia Buongiorno
alle prese coi Pesci Morti, è del tutto evidente che l'anzianità, l'arcaicità o forse più semplicemente l'arte dell'esercizio della memoria l'ha fatta da padrone [o padrona].

E questo non è necessariamente un male.
Anzi.

In un paese in cui la memoria viene esercitata decisamente poco e male (o quando conviene: nella migliore tradizione italica) siam tutti orgoglionissimi che così sia.

Epperò scorrendo i brani che son stati snocciolati sia dai Trve DeBasers che quelli in contrapposizione dal diggei di turno si nota che il più "nuovo" tra quelli proposti risale, nella migliore delle ipotesi, al secolo scorso.

- Nicola Drago, si sà, è andato al creatore nei primi anni settanta.
- Il pezzo dei Bistibois è degli anni ottanta e loro non esistono più così come metà degli Slayer che lì imprestavano il chitarrista.
- Così come quello degli anemici Smith's: anche loro non esistono più da tre decadi.
- Per non dire del meravigliosamente (pallosissimo) brano dei FluidoRosa le cui prime versioni rupestri risalgono al Pleistocene.
- Il più moderno del lotto è sembrato qeullo propugnato dal CaneLunare: d'altronde lui era un sostenitore di Vichi Il Vichingo fin dal 1969. Quindi ci stà.

E' vero che più un brano è datato, più ha avuto modo e (appunto) tempo di farsi scoprire ed eventualmente amare. O detestare.

Vada per i due amabili bifolchi che ci consentono tutto qvesto e che si divertono à prenderci per i fondelli tramite l'etere e l'internette, che sono entrambi mezzosecolati certificati, però i DeAscolti non li determinano (mica) loro: data anche la facoltà di saltare appieppari (di frasca in palo) per giungere dove gli pare.

Ora io non lo so cosa possa pantagruelicamente significare tutto qvesto.

Che forse la musica aveva già detto tutto quel che poteva molto prima dell'avvento del secondo millennio e che quindi è sostanzialmente inutile cercare più avanti.
O che siam pigri.
O banalmente nostalgici.

(forse) DeBaser - e di conseguenza la sua estensione radiofonica LaMusica DeDentro - davvero non è un DeSito per giovani.
O forse è sì un sito anche per giovani, ma sostanzialmente di giovani (molto) vecchi dentro.

O forse di incartapecorite cariatidi che si sentono (ancora) giovani DeDentro.

* chiaramente chi non l'ha udito per guardarsi Chillavvisto, verrà bannato entro la (imminente) DeMezzanotte

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editoriale di ZiorPlus

Un giorno un condor adocchiando un topolino decide di farne il suo pasto.

Cala in picchiata e ne fà un solo boccone ingoiandolo ancora vivo.

Dopo essere passato dal becco attraverso la gola e giù giù lo stomaco il topolino infine giunge al colon, il bucio del culo e mette fuori la testa rendendosi conto di trovarsi a centinaia di metri d'altezza.

A quel punto esclamando terrorizzato verso il condor:

"Ciò, condor, non è che adesso ti metti a fare lo stronzo!"

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#LoZenPerTutti

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editoriale di Flo

Un accurato censimento del presepe di casa mia (ebbene sì, facciamo pure quello: ci pensa mio padre bestemmiando ogni volta che cade una statuina) ha rivelato, oltre a un uso spregiudicato e discutibile della prospettiva giottiana, la presenza di:

- una squadra di calcio di Re Magi, la FC Comet Betlemme, disposti in formazione 4-4-2 nel rettangolo del presepe, pronti a marcare a uomo i centurioni romani. Presenti in numero abbondante nel caso qualcuno si perda, così sono sicuri di recare oro, incenso e mirra al Bambinello;

- animali, di tutti i tipi e ovunque: pecore, mucche, cammelli di tutte le misure, cani, pecore, gatti, un coniglio andato smarrito nel presepe dell'anno scorso, galline, pesci, oche, cigni. Mancano pinguini e orsi polari, ma li abbiamo ordinati per l'anno prossimo. Ma la storia degli animali sull'arca non era in un altro capitolo?

- Panettieri, pizzaioli, pescivendoli, sarte, pastori, pescatori, prostitute, C.E.O. di multinazionali, astronauti, hostess di Alitalia animano le vie attorno alla capanna: Betlemme non conosce crisi, apparentemente;

- quattro giovani fanciulle identificabili come la Vergine Maria, poste sulle vie più trafficate della piccola Betlemme, lì a contrattare coi pastori;

- cinque o sei San Giuseppe, tutti muniti di bastone, probabilmente a cercare la Vergine Maria, ché già la questione dell'Angelo Gabriele non gli è andata giù tanto bene...

E la neve? La neve non c'è.

Niente nuvole di farina né zucchero a velo, niente cotone ovattato incollato a cazzo attorno alla capanna.
Perché? Perché, ha detto mia madre, il riscaldamento globale è arrivato pure là (che poi io la storia della neve in Palestina non l'ho mai capita, ma quello è un altro discorso).

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