editoriale di Flame

Io odio me stesso!

Magari esagero un po’, diciamo che non mi sopporto più, ecco. Questo si. E più passa il tempo più trovo insopportabile ciò che di me non sopporto.

È una sensazione strana, è come avere due livelli di me stesso. Uno che si astrae dal reale e passa il tempo ad irritarsi per quel che fa l’altro, ciò che rimane sulla terra in seguito all’operazione di astrazione, e a bacchettarlo senza pietà. Probabilmente è anche una situazione un po’ malata. Ma non vado mai troppo a fondo in questa direzione con l’autoanalisi. Mi fa un po’ paura il pozzo nero in cui mi toccherebbe immergermi, e poi ho come la sensazione che ne uscirei conciato malissimo.

I miei piedi.

Odio i miei piedi!

Protuberanze bislunghe che si estendono ben oltre l’idea che il mio cervello si è fatto di loro. Li odio perché sono i miei piedi lo strumento preferito dalla mia goffaggine per manifestarsi nel mondo. Mi capita spesso di inciampare in oggetti, piedi o garretti di altre persone che con la mente avevo calcolato di scansare con un bel po’ di margine. Mi capita a volte di trascinarmi a presso tappeti, tavolini, e quando mi dice veramente male, di rovesciare per terra cose che per nulla al mondo avrei dovuto rovesciare, o di calpestare alluci e calli che mi sarei dovuto guardare bene dal calpestare.

Odio i negozi di scarpe!

Odio i negozianti dei negozi di scarpe!

Donne!

Nella maggior parte dei casi si tratta di donne!

Donne avvizzite e acide, per la precisione, capaci di una flemma esasperante per uno che vuole sbrigare la pratica il più in fretta possibile. È questo il quadretto nel negoziante tipo di negozio di scarpe che ho in testa, ce lo hanno ficcato dentro decine e decine di passate esperienze poco piacevoli.

“Buon giorno signora, mi piace un modello che ho visto in vetrina, quello nero in alto sulla sinistra, lo vede? Si, brava, quello li! Porto il quarantacinque.”

“a si ho capito, è molto bello in effetti, mi ha detto che porta il quarantacinque, vero?”

E a questo punto il copione di solito prevede che entri in gioco la flemma esasperante di cui dicevo, se ne arma la negoziante per controllare una ad una un gruppo di scatole dello stesso tipo ordinate su varie pile, in cui lei sa già non esserci il numero che le ho detto.

“Il quarantacinque ha detto?, uhmmm, è un bel piede il suo!...”.

Maledetta!

“… mi spiace, ho paura di non averne più di quel numero. Eh già, non ne ho proprio più.”.

Mai! Mai, che mi sia capitato di trovare il mio numero di un modello di scarpa che mi va a genio in quei dannati negozi. Poi arriva l’ultima parte del copione, che difficilmente mi viene risparmiata. La più odiosa. Quella che mi ricorda, nel caso fossi riuscito a non pensarci più, che noi popolo calzante numeri importanti veniamo considerati dal mondo delle calzature dei fenomeni da circo.

“Con quel numero mi sono rimasti questi modelli qua, vede? Sono molto belli anche questi, magari c’è qualcosa che le può interessare.”

Sono belli le palle, vecchia megera! Tutta roba bruttissima, fatta apposta per esasperare alla vista la già insopportabile lunghezza dei miei piedi. Ma dico io, se voglio un paio di scarpe dove devo andare, dal gommista?

Odio i fabbricatori di scarpe!

Li odio perché se i modelli che mi vanno bene sono così orrendi è colpa loro. C’è da giurarci che si siano messi d’accordo per utilizzare le persone con piedi bislunghi come cavie per le loro sperimentazioni più ardite su forme e colori.

Ma più della mia goffaggine odio la mia misantropia.

Probabilmente questa mia caratteristica è quella che maggiormente mi porta pena nella vita. Aziona contemporaneamente tutte le mie contraddizioni. È come fosse un vortice da cui è difficile uscirne. Le sue spire sono come una gabbia soffocante che serra la mia mente, a volte riesco a risalire un po’, altre volte mi trascinano più a fondo.

Odio la folla!

Non sopporto stare in luoghi affollati, in quelle situazioni la gente mi sta sull’anima più mai, e quando mi sorprendo ad odiare la gente mi do ai nervi da solo. Quante volte ho mandato al diavolo il mondo intero per poi trovarmi subito dopo a dirigere verso me stesso tutto il rancore che provavo contro il mondo, perché mi realizzavo che in fin dei conti quello che sarebbe dovuto andare realmente al diavolo ero io.

Odio chi si fa i cazzi degli altri!

Li odio non per il fatto in se di farsi i cazzi degli altri, e in certi casi quindi anche dei miei. Di questa loro attitudine non mi frega nulla. Li odio perché più di altra gente mi mettono davanti alla mia misantropia, e io non sopporto la mia misantropia. Sono incapace di provare alcun interesse per la vita delle altre persone, successi, fallimenti, fortune, disgrazie, anche dei miei amici più vicini. Potrei vivere mesi, anche anni, all’oscuro delle vicissitudini della vita di persone a me vicine e senza neanche accorgermene. Poi capita di incontrarle queste persone, e scopri che di te sanno tutto, e loro, scoprendo che per quel che ti riguarda invece di loro non sai nulla, e che non sai nulla manco di altra gente, fatti di cui è impossibile non essere venuto a conoscenza, queste ti guardano come se fossi uno fuori dal mondo, un disadattato.

“Avrai certamente sentito di quel che è successo a … (chessò) … Sempronio. Che ne dici?”

“……..?”

“Ma come fai a non saperlo? Lo sanno tutti!”

Io non so neanche chi sia Sempronio! C’è scritto forse da qualche parte che per essere accettati dalla società occorre tenersi informati su quel che è successo a Sempronio? Che lo si stabilisca per legge allora e lo si insegni a scuola, così uno impara la lezione da bambino, e non si ritrova da adulto ad essere incapace di fregarsene qualcosa del mondo.

Odio gli orsi!

Li odio perché odio me stesso, ed io sono quel che si dice un orso.

Torna no?

Escludendo le persone a me care, nella mia vita mi è capitato molto raramente di incontrare persone la cui compagnia fosse per me piacevole. Non so portare esempi in questo momento. Ricordo di averne incontrate di queste persone ma essendo passato davvero molto tempo dall’ultima volta che è successo le ho dimenticate tutte. Di norma la compagnia di altre persone non mi porta altro che noia, e anche la seccatura di dovermi impegnare nella conversazione, attività che trovo tra le più noiose che ci possano essere.

Quando faccio il punto della situazione sul livello raggiunto dalla mia misantropia mi viene sempre in mente un fatto che ritengo particolarmente strano ma che non centra nulla con l’analisi su me stesso. Trovo interessanti i chiacchieroni. Persone a cui piace sentire il rumore della propria voce, che intendono la conversazione come una forma di comunicazione ad una sola via. Quando mi capita di parlare assieme ad una di queste persone finisco immancabilmente a fare dei gran esercizi per il collo, brevi movimenti rotatori in su e giù con il capo in successione ad intervalli regolari, finalizzati a informare il mio interlocutore che sto prendendo atto di quel che mi sta dicendo. Ed intanto la mia mente approfitta del tempo libero a disposizione per visitare luoghi sperduti della mia fantasia, posti in cui normalmente non avrebbe il tempo di andare.

In quelle situazioni non è necessario prestare attenzione alle parole dell’altra persona, qualche “si” ogni tanto, magari intervallato ad un “certo” a macchie di leopardo, basta a farle credere che si reputa interessantissimo il suo discorso.

I chiacchieroni mi interessano da diversi punti di vista. Ad esempio, non so perché trovo molto buffa la loro convinzione che tutto ciò che capiti loro nella vita sia estremamente interessante per gli altri. Ricordo che un tizio una volta prese a parlami dei problemi che la sera prima della nostra conversazione aveva avuto ad evacuare prima di andare a letto, e di come la cosa lo avesse preoccupato dato che per tutta la giornata non vi era riuscito e lui si faceva un vanto della sua regolarità. Ricordo l’enfasi che metteva nel parlarne, il gusto che provava. Queste persone mi affascinano probabilmente perché sono così diverse dal mio modo di essere. Come si fa a pensare che ad un’altra persona possa fregare qualcosa dei propri problemi intestinali? Occorre, credo, tenere se stessi in grande considerazione. È qualcosa che ame manca del tutto.

Non si direbbe, potrebbe affermare l'eventuale lettore, visto che mi stai sfracellando le glorie da circa mille righe a questa parte con i razzi tuoi.

Ma io sono anche molto incoerente, contraddittorio, illogico ... sono altri mie difetti.

E li odio tutti, tranquillo eventuale lettore.

Va beh, era una riflessione così, che non centra nulla con il resto.

Odio le mie sopracciglia!

Un unico tappetino folto sopra gli occhi, perennemente spettinato.

Odio il vento!

Lo odio perché quando soffia di solito ama insinuarsi tra i capelli di capelloni e donne, ma nel mio caso invece ama insinuarsi nelle mie sopracciglia … caz..!

La caratteristica che però più odio di me stesso e il mia attitudine a vivere costantemente con la testa tra le nuvole. Odio quest’attitudine perché è con questa più che con altre mie caratteristiche che riesco a ficcarmi nelle situazioni più seccanti nei rapporti con gli altri. Mi perdo i particolari nella vita reale, li semino come fossero noccioline in un sacco bucato che mi porto tutti i gironi in giro in spalla. I particolari sono importanti, possono rivoltare la percezione della realtà come un calzino. Le tonalità di grigio, l’ho provato sulla mia pelle, sono più pericolose del bianco e del nero, perché esercitano il loro potere in modo subdolo, sotterraneo.

Se non se ne tiene in debito conto le conseguenze della loro azione, come ramificazioni di un male oscuro, procedono indisturbate, si moltiplicano, non lasciano scampo. La conseguenza è la caduta del proprio mondo, delle proprie certezze, in un lampo, quando meno ce lo si aspetta, nel momento più sbagliato, quando non c’è più nulla da fare. Facendosi un’idea su di una questione senza avere a mente tutti i particolari si può arrivare a ritenere di essere dalla parte della ragione in modo evidente e ad agire sulla base di questa convinzione.

Ed è un bel rischio, perché basta una data sbagliata, una riga a margine non letta molto tempo addietro per negligenza, e ci si può trovare un attimo ad avere completamente torto.

C’è però qualcosa che amo da matti.

Inizia per effe.

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editoriale di pier_paolo_farina

L'altro ieri se n'è andato da questo mondo uno bravo della chitarra: "Fast" Eddie Clarke.

Polmonite, 67 anni.

Gran bel musicista: fluido, melodico, profondo, intelligente.

Così nessuno dei Motorhead storici è riuscito ad arrivare alla vecchiaia, sacro e crudele tributo alla legge del vero rock'n'roll.

Ho un ricordo indelebile di Clarke, un concerto Motorhead al palasport di Bologna, sarà stato il 1981. Non tanta gente ad assistere, però molto agitata.

A un certo punto qualcuno gli tira un razzetto, di quelli usati per giocarci a cogliere i bersagli contro il muro.

Lo prende ad una coscia, sotto la chitarra. Gli si infila proprio nella carne, rimanendo un attimo a penzolare sui jeans.

Lui s'incazza molto e manda occhiate infuocate alla platea pogante, poi gli passa, e riprende a suonare concentrato.

Gli altri due compari non si erano intanto accorti di niente, Lemmy intento a sbraitare in quel microfono piazzato in quel curioso suo modo, spiovente verso la bocca, "Animal" perso a pestare come un dannato.

Grazie di tutto anche a te Fast, la tua chitarra ti sopravvive. Stasera dopo cena compio il tributo, e mi metto in cuffia un paio di ciddì dei Fastway.

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editoriale di ALFAMA

Tutta la notte sveglio a starnutire con gli occhi fuori dalle orbite. Non sento la sveglia, sono in ritardo al lavoro.

Cerco di farmi una doccia ma non c'è acqua.

Esco di corsa. La macchina ha una ruota a terra, cambio la ruota sporcandomi.

Sempre più in ritardo salgo a casa per lavarmi la faccia, ma dimentico che manca l'acqua.

Sempre più in ritardo chiamo in ufficio, ma non ho credito

Esco di corsa da casa e calpesto una merda di cane.

Ecco il tempo si ferma. Alzo lo sguardo verso una persona luminosa con due ali bianche, mi passa una busta di fazzolettini di carta.

Sopra la confezione leggo " La tua vita merita un fazzolettino così"

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editoriale di sotomayor

Benvenuti al nostro appuntamento settimanale. Eccoci qui collegati dalla nostra postazione radiofonica per una nuova intervista impossibile.

Come ogni settimana avremo anche oggi un ospite impossibile e che abbiamo intercettato grazie alla nostra strumentazione speciale e alla solerte opera dei nostri tecnici che con estrema perizia e cognizioni scientifiche operano ai fini di rendere possibile questa trasmissione che varca ogni confine spazio-temporale ivi compreso quello tra la vita e la morte.

Anche questa volta abbiamo un ospite internazionale e per la prima volta da quando abbiamo inaugurato la trasmissione, abbiamo come ospite un musicista. Uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi e per il quale ammetto di avere da sempre una particolare predilizione. Spero che data l’audience della nostra trasmissione, la scelta vi sia molto gradita.

Tutto cominciò per quanto riguarda il mio interesse nei confronti di questo grandissimo chitarrista e virtuoso dello strumento, effettivamente con un film che Woody Allen volle tributagli anni fa e intitolato "Sweet & Lowdown". Siamo nel 1999. Si tratta di un falso documentario imperniato su personaggi fittizi e centrato sulla figura del chitarrista Emmet Ray, interpretrato da uno straordinario Sean Penn. Fanno parte del cast anche Anthony LaPaglia, Uma Thurman e una incredibile Samantha Morton, bellissima e candidata a diversi premi come migliore attrice non protagonista.

Sto parlando di Django Reinhardt.

Nato a Liberchies in Belgio nel gennaio 1910, Django Reinhardt nasceva in una famiglia di etnia sinti. Oppure "manouche" secondo la terminologia francese. Dopo un lungo girovagare la sua carovana si fermò presso la periferia di Parigi in Francia, dove Django visse per lo più la sua intera esistenza.

Uno dei più grandi e influenti chitarristi della storia del jazz, Django Reinhardt seppe coniugare la tradizione musicale della musica gitana, derivata dalle radici nell'India subcontinentale e sviluppatasi nel corso dei secoli da quel crogiuolo e incontro di culture che fu l'Europa mitteleuropea, la antica Armenia e quella che oggi chiamamo Boemia, con la musica jazz importata dal Nord America.

Esponente di spicco della cultura della propria comunità, Django Reinhardt è considerato dagli zingari come un vero e proprio eroe e come la più grande personalità che si sia imposta al di là del jazz al di fuori della cerchia del mondo manouche.

Django è il viaggiatore che si è imposto presso i "contadini".

Dopo una menomazione alla mano sinistra, sviluppò una sua particolare tecnica chitarristica che è ancora oggi deliberatamente imitata da parte della moltitudine di chitarristi che si sono ispirati e che si ispirano a lui.

Sergio Corbucci lo omaggiò dandò il suo nome a uno dei personaggi più famosi della storia dello "spaghetti western" (un film ripreso poi in tempi recenti da Quentin Tarantino): "Django". Interpretato da Franco Nero.

Fu anche pittore e a modo suo poeta, che non sapeva leggere e scrivere, ma che "cantava" con la sua chitarra trasmettendo in via orale la cultura e la storia della sua comunità come fece a suo tempo Omero con i suoi poemi.

Che altro aggiungere?

D. Penso che vada bene così [Ndr. Sorride.].

Hai ragione, cominciamo pure con l'intervista allora.

D. Sì sì, va benissimo.

1. Buonasera Django e grazie di essere qui con noi stasera. Penso che questo sia uno di quei casi tipici in cui, pure interloquendo con un musicista, dobbiamo in qualche modo ampliare i nostri orizzonti e parlare anche di altro. Al contrario di quello che si pensa di fatto tu non sei esattamente un "gitano", ma nasci in Belgio da una famiglia di etnia sinti (quelli che i francesi chiamano "manouche"). Pure viaggiando molto, hai vissuto per lo più tutta la tua esistenza in Francia e attorno alla città di Parigi. Ciononostante tu sei considerato come l'eroe di un intero popolo. Gli zingari vedono in te l'equivalente di un dio, l'unico uscito da questa grande comunità che abbia varcato i tempi e le frontiere e imponendosi alle generazioni successive al di là del jazz. È una domanda sicuramente difficile, ma volevo chiederti quanto questo sia importante per te e se questa considerazione ti pesi in qualche modo. A parte questo se e quanto le tue origini abbiano influito sul tuo modo di suonare.

D. Penso che sia più facile rispondere alla seconda domanda. Quando mi chiedi quanto le mie origini abbiano influito sul mio modo di suonare.

Tutti quanti nella mia famiglia, nella mia comunità, suonavano. Suonavamo quelli che voi chiamate i valtzer tzigani, la musica tradizionale del nostro popolo. Così ho cominciato anche io. È stato un fatto naturale, non ho dovuto fare nessuno studio particolare quando ho cominciato a suonare. Probabilmente questo come dici, è il nostro modo per raccontare delle storie, trasmettere la nostra cultura di generazione in generazione, come fate voi con la storia scritta. Voi scrivete le vostre storie, noi le raccontiamo e le tramandiamo ai nostri figli attraverso la nostra musica. Penso che hai bisogno di un posto dove custodire le storie "scritte" e noi siamo un popolo nomade. Non abbiamo nessun posto dove conservare. La musica non ha bisogno di essere scritta. Non ci sono mai stati spartiti e tutto quello che abbiamo, lo portiamo dentro di noi.

Mi chiedi poi se mi sento come se fossi l'eroe di un intero popolo. Se è così, questa cosa non mi pesa affatto. Sono stato sicuramente un musicista molto conosciuto durante i miei anni, così in Europa come negli Stati Uniti d'America e forse sono stato il primo della mia comunità a diventare così famoso e se per questo ho fatto qualche cosa di buono per il mio popolo oltre che per me, questo è sicuramente positivo. Penso di essere ancora ricordato e non solo nella mia comunità. Ma penso anche che oggi i tempi siano diversi che in passato e che il nostro modo di vivere sia sempre più raro e che a causa di questi cambiamenti ci sono stati altri appartenenti alla nostra comunità che sono diventati molto conosciuti. Questo anche nel mondo della musica. Penso a Bireli Lagrene oppure Jimmy Rosenberg, Stochelo Rosenberg... Anche i miei figli Lousson e Babik. Mio nipote David... Ma questo è normale. Il mondo è diventato improvvisamente più piccolo. Forse è troppo piccolo perché una popolazione possa considerarsi ancora nomade.

2. Django, è il 2 novembre 1928. Hai diciotto anni, ti sei già sposato con Bella e sei andato a vivere con lei in una tua roulotte regalata da tuo suocero in occasione delle nozze. Avevi già cominciato a farti conoscere in giro come musicista: eri stato ingaggiato per suonare il banjo nella orchestra di Jack Hylton. Ma quella notte un terribile incendo scoppiato disgraziatamente nella roulette ti costrinse alla menomazione e la perdita dell'anulare e il mignolo della mano sinistra. Continuare a suonare il banjo era impossibile. Secondo il medico non avresti mai più potuto suonare. Poi tuo fratello Joseph ri regalò una chitarra...

D. Sì. È inutile ricordare questa storia: fu una disgrazia. Ritornai di notte a casa e Bella dormiva. Quando abbiamo acceso una candela per fare luce, questa ci scappò di mano e in poco tempo ci furono fuoco e fiamme dappertutto. Rimasi in ospedale per un anno e mezzo: volevano amputarmi la gamba destra ma rifiutai.

Fu allora che mio fratello Joseph mi regalò una chitarra. Non potevo più suonare il banjo. Il banjo è uno strumento troppo rumoroso per poter essere suonato in un ospedale e poi era veramente troppo pesante. Così cominciai a esercitarmi con la chitarra. All'inizio questa era una sfida con me stesso per vedere se riuscivo a recuperare l'utilizzo della mano, ma in seguito acquistai una familiarietà tale con la chitarra da farne il mio strumento principale e... Paradossalmente questa fu una fortuna perché è proprio come chitarrista che sono diventato famoso e ancora oggi ricordato da tutti.

Django, tu sei ricordato come un vero e proprio virtuoso dello strumento e un compositore fertilissimo. Eppure molti ti ricordano principalmente per il fatto che avevi rivoluzionato il modo di suonare la chitarra. A causa della menomazione sviluppasti infatti una tua tecnica particolare e che non prevedeva l'uso dell'anulare e del mignolo. Secondo alcuni storici però questa tecnica era già diffusa presso i musicisti manouche. In ogni caso è vero che oggi ci sono musicisti che suonano in quel modo per imitare il tuo stile?

D. Alla seconda domanda penso che tu possa rispondere meglio di me, perché si tratta di qualche cosa che riguarda il tempo presente. Il mio futuro. Però sì, so che ci sono molti musicisti manouche o che comunque diciamo che vogliono imitare la mia musica e il mio stile e che cercano di suonare anche loro senza usare l'anulare e il mignolo. Se vuoi sapere io che cosa penso, però, ti dico che questa mi sembra una grande sciocchezza: perché mai dovresti rinunciare a usare tutte e cinque le dita? Non c'è nessun motivo. Immagino che se avessi potuto farlo, se avessi potuto usare cinque dita invece che tre, avrei suonato ancora meglio. Ne sono sicuro.

Quello che dicono questi "storici" di cui parli invece è una bugia. È una storia inventata per la stessa ragione che ti ho spiegato: perché se hai cinque dita, devi usarne solo tre? Non ha nessun senso.

3. Il Quintette du Hot Club de France! Il critico Thom Jurek (ma non solo) lo hanno definito come uno dei gruppi più originali nella storia del jazz. Sicuramente era un ensemble rivoluzionario per come lo avevate concepito, composto da cinque elementi e da soli strumenti a corda. La formazione più celebre è quella composta da te e i chitarristi ritmici Roger Chaput e tuo fratello Joseph, il bassista Louis Vola e il violinista Stéphane Grappelli. Fondamentalmente tuttavia il gruppo aveva come componenti stabili e principali te e il Grappelli. Penso che la collaborazione tra voi due si possa definire una di quelle combinazioni uniche nel corso della storia della musica e l'incontro tra due virtuosi della storia del jazz senza pari. Ci racconti qualche cosa del vostro incontro?

D. È una storia curiosa. Io e Joseph passavamo un sacco di tempo in un bar a la Rode chiamato "Chez Thomas" o al "Café des Lions" dove suonavamo e chiedevamo l'elemosina. Qui conoscemmo sia il pittore e fotografo Emile Savitry che ci iniziò al jazz degli americani, musicisti che non avevamo mai ascoltato prima e di cui avevamo solo sentito parlare: Louis Armstrong, Duke Ellington, Joe Venut, Eddie Lang...

Poi conoscemmo Louis Vola, che allora suonava la fisarmonica e cominciammo a suonare con la sua orchestra... Dopo un po' di tempo incontrai Stéphane, suonavamo negli stessi cortili dove entrambi chiedevamo l'elemosina: lui allora suonava con l’orchestra di questo André Ekyan. Oggettivamente in quel contesto era sprecato. Fui molto colpito dal suo modo di suonare, così una sera lo invitai sul mio carro a cena e da quel momento cominciò la nostra collaborazione.

Stéphane ricorda che in quell'occasione suonaste "Honeysucle Rose".

D. Non lo so. Non riesco a ricordare con precisione. Ma se lo ha detto Stéphane allora sarà stato sicuramente così.

Ma è vero che avevate due caratteri radicalmente diversi?

D. Stéphane era un musicista incredibile, che sapeva associare la musica jazz degli americani alla musica più popolare e folkloristica e quella della tradizione manouche. Anche se lui non era un manouche. Aveva invece una storia molto particolare alle spalle. Suo padre era stato un professore di filosofia, aveva origini nobiliari e Stéphnane era per metà italiano. Aveva studiato al conservatorio ma non aveva finito gli studi: aveva una formazione culturale e musicale che raccontata in questo modo può sembrare incompleta, ma che invece si completava con tutti questi elementi diversi incastonati tra loro.

Avevamo caratteri diversi? Sì e no. Penso che il punto di vista differente fosse quello che riguardava il modo di considerare la nostra attività di musicisti. Lui pensava che suonare era qualche cosa di interessante ma che non bastava per guadagnarsi da vivere. Io non mi sono mai preoccupato di questo aspetto. Per me suonare è sempre stato una parte della mia vita, qualche cosa che avevo sempre fatto e che avrei continuato a fare sempre e in ogni caso possibile. L'unica differenza rispetto agli altri appartenenti alla mia comunità sta nel fatto che io ero il più bravo, il più bravo di tutti, e per questa ragione ho cercato di migliorarmi sempre di più e confrontarmi con i migliori musicisti in Europa e nel mondo.

4. Django, un film documentario uscito di recente [Ndr. Non è il primo film e/o documentario dedicato a Django Reinhardt ovviamente.] di un regista e produttore francese di nome Ètienne Comar, racconta la Francia nel 1943 sotto l'occupazione nazista e del fatto che la tua musica fosse ammirata anche dagli ufficiali tedeschi. Si racconta allo stesso modo sia di una tournée che avresti dovuto intraprendere a Berlino al cospetto di Goebbels e del Fuhrer stesso e della tua fuga in Svizzera con una amante doppiogiochista di nome Louise. Il film ti presenta in qualche maniera come una specie di eroe all'interno della comunità sinti. Che cosa pensi al riguardo?

D. Non ho visto questo film. So che sono stato "doppiato" da Stochelo Rosenberg, che ho già menzionato prima e che è un bravo chitarrista. Uno dei migliori. Ma la storia raccontata da questo signore in questo film-documentario è tanto bella quanto falsa e completamente inventata.

Mi piacevano le donne, questo è vero, ma non ho mai conosciuto nessuna Louise. Ho avuto due compagne stabili e che ho amato molto: la mia prima moglie Bella e Naguine [Ndr. Vero nome: Sophie Ziegler.], che sposai nel 1943. Sono state le madri dei miei due figli: Lousson e Babik. So che questa donna, questa Louise, è stata una specie di invenzione cinematografica del regista per raccontare la storia, ma non è mai esistita.

Allo scoppio della guerra mi trovavo in Inghilterra con Stéphane e il resto del quintetto. Ma non sono tornato in Francia perché volevo fare parte della resistenza o come simbolo di resistenza dei manouche. L'ho fatto perché avevo paura delle bombe e perché sapevo che i nazisti non mi avrebbero perseguitato: mi sembrava la soluzione migliore per sopravvivere. Inoltre, per quanto possa sembrare strano per uno zingaro, non mi piaceva stare troppo tempo lontano da casa e volevo ritornare a Parigi.

Una volta in Francia riformai il quintetto con Hubert Rostaing al clarinetto, perché Grappelli decise di rimanere in Inghilterra. La storia che riguarda questa tournée in Germania e a Berlino al cospetto di Goebbels e Adolf Hitler è completamente inventata ma è vero che ai nazisti piacesse sentirmi suonare. Del resto non potevo certo impedirglielo.

Tutto questo non significa infatti che io fossi un nazista (è vero che cercai anche di fuggire in Svizzera del resto) o che sia stato insensibile a quelle che sono state le persecuzioni e il genocidio delle popolazioni rom e sinti in Europa. È stata una pagina tragica per il mio popolo e per tutta l'umanità. Non penso che spetti a me raccontarla, sappiamo tutti che cosa è successo.

E tu hai scritto una delle tue canzoni più belle, "Nuages", come "requiem" in memoria di tutti i caduti...

D. Non andò esattamente così. Io continuai a suonare e scrivere canzoni durante quegli anni ovviamente. Tra queste canzoni vi fu "Nuages", diventò in maniera del tutto casuale una specie di inno di speranza per tutta la popolazione di Parigi. Durante un concerto al Salle Pleyel suonai la canzone tre volte di seguito...

5. Parliamo degli ultimi anni. Dopo la guerra e una reunion con Stéphane Grappelli, nell'autunno del l946 andasti per la prima volta in tour negli Stati Uniti d'America dove andasti in tournée con Duke Ellington. La storia vuole che in verità la prima cosa che tu abbia fatto una volta sbarcato in America sia stata quella di cercare Dizzy Gillespie, è vero? Che ci puoi raccontare comunque di questa esperienza?

D. Sì, è vero, volevo a tutti i costi ascoltare Dizzy Gillespie. Un musicista fantastico. Lui e la sua orchestra rappresentavano appieno la musica degli anni sessanta. Con questo voglio dire che erano praticamente avanti di vent'anni.

Ma le cose non andarono benissimo. Penso che l'America non mi abbia accolto come meritavo. Non mi ero portato la chitarra e me ne diedero una che somigliava a una grande casseruola, come se fossi l'ultimo arrivato. Inoltre il mio stile non piaceva ai critici americani. Ma gli Stati Uniti d'America non erano quel posto fantastico che mi avevano raccontato. C'era molta discriminazione nei confronti dei neri, figuriamoci nei confronti di uno zingaro come me.

Cominciai presto ad annoiarmi e decisi di ritornare in Francia.

Mercer Ellington, il figlio di Duke, dichiarò che "Esiste una vera parentela musicale tra i neri e gli indiani (dell'India da dove hanno origine gli tzigani), e in particolare nel loro rapporto con il ritmo. L'utilizzo delle terzine nella musica indiana è quasi evidente come nello swing - da... dada... da... dada... da... dada... Come se fosse un valzer rapido." Aggiungeva inoltre il fatto tu fossi un musicista straordinario e che il padre ti ammirasse molto.

D. Duke Ellington era un grande musicista e sono contento di avere suonato con lui, ma se vogliamo raccontare la verità, possiamo dire che io potevo suonare benissimo con questi musicisti, ma loro non potevano suonare con me. Non avevano una mentalità abbastanza flessibile. È il limite di molte grandi orchestre americane secondo me. Non riuscivano letteralmente a starmi dietro

Raccontai a Stéphane di questo viaggio e in generale della grande delusione. Dopotutto non avevo trovato nulla di nuovo negli Stati Uniti d'America. Stéphane rise e mi disse che ero un idealista e che il mio modo di suonare non avrebbe mai potuto avere nulla a che fare con le grandi orchestre americane e che la mentalità negli Stati Uniti d'America era diversa e che se volevo sentire del vero jazz avrei dovuto andare a Harlem o sulla cinquantaduesima strada, perché lì avrei forse potuto trovare qualche cosa in comune con la mia musica. Non lo so se questo fosse vero, ma la verità è che me ne ritornai in Francia molto deluso e non volli più saperne degli Stati Uniti d’America.

Erano gli anni in cui avveniva la scissione tra il be-bop e il jazz. Nasceva un nuovo tipo di linguaggio. Veniva introdotta la chitarra elettrica. Come hai vissuto queste innovazioni?

D. Bene. Francamente le nuove sonorità furono una sfida interessante, ma non ebbi nessun problema in questo passaggio. Lo stesso vale per la chitarra elettrica. Posso dire che il cambio fu naturale.

E della rivalità con Les Paul?

D. Nessuna rivalità. Lui ha sempre dichiarato di considerarmi un grande chitarrista.

E tu cosa pensi di lui?

D. Era bravo sì. Non ho molto da dire al riguardo.

Capisco. Be', che altro dire? Penso che sia stata una chiacchierata molto interessante e nella quale abbiamo soddisfatto la curiosità di molti dei nostri ascoltatori che sicuramente amano la tua bellissima musica.

D. Sono contento di avere potuto comunicare con loro e che nonostante siano passati tanti anni, ci siano ancora dei miei ascoltatori e appassionati. Li ringrazio e li saluto tutti.

E io ringrazio ancora te Django per questa intervista e ringrazio anche tutti i nostri ascoltatori a cui dò appuntamento la prossima settimana. Buona serata a tutti!

"Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai."

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editoriale di ALFAMA

Partire senza sapere la destinazione. Solo l'ultimo abito che indossi.

Partire senza un biglietto.

Sotto il braccio un libro di fotografie, attimi unici e irripetibili.

Sfogli le pagine, sorridi.

Le pagine diventano polvere, i ricordi svaniscono

Passa il controllore, ti chiede il biglietto. "Dovevo farlo alla partenza " rispondi.

Il controllore, grassoccio,sbuffa. " Siete tutti uguali" sbraita.

Soffia sulla polvere delle fotografie che volono dal finestrino, le vedi galleggiare via per sempre

Poteva andare peggio. Almeno non ho pagato il biglietto.

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editoriale di De...Marga...

Li ho persi ad un mese di distanza.

Prima mamma, dilaniata dal Parkinson.

Poi papà distrutto nel corpo e soprattutto nello spirito dall'Alzheimer.

Da una parte sono anche in qualche modo contento e "libero", perchè in tutti questi anni di malattia di entrambi i miei genitori mi sono fatto in "dodici" per cercare sempre di curarli al meglio. Prima in casa, poi in strutture più adeguate per gestire situazioni che mese dopo mese si sono fatte peggiori. Fino all'epilogo finale.

Ho trovato conforto nella mia Musica, nella mia compagna di vita Marina, nel mio Diamante Grezzo, negli amici (tanti), nei parenti. Ed anche nella comunità folle ed indispensabile di Debaser.

Tanti di voi mi hanno raggiunto con messaggi privati; poche parole da persone che difficilmente riuscirò ad incontrare nella vita.

Però siete stati davvero grandiosi e mi avete aiutato, mi state ancora aiutando. E di questo vi sarò grato per sempre.

Una frase che mi ha scritto uno di voi mi ha "scosso" più di ogni altra: "I tuoi hanno tirato su un uomo in gamba".

Credo, con nessun dubbio, che il ragazzo del Friuli abbia detto la verità.

Un abbraccio infinito.

Lorenzo.

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editoriale di ALFAMA

Eccomi qua per un nuovo anno.

Semplicemente.

Una lametta.

Ecco un nuovo anno. Una cicatrice dedicata a tutte le persone che pensavano che fossi diverso.

Brutto essere coscienti quando sei un perdente e pensare di chiudere il discorso.

Ma per sbattere la porta devi essere un vincente.

Difficile vincere, sempre meglio il pareggio.

L'arte del pareggio. Guardi gli occhi del portiere,nessuno perde e tutti sono contenti.

Ma tu in fondo ti senti una merda. Vorresti sfondare la rete, urlare in faccia ai tifosi ma.

Ma ti accontenti di essere un semplice pareggio.

Il pareggio fa tutti contenti. Senza vincitori,senza perdenti. Un lento galleggiare e qualche goccia di sangue.

Quando senti di essere un disturbo e ti apri le braccia pensando che il tuo male esca, invece è sempre dietro la porta.

Ho aperto una bottiglia. Sapeva di tappo.

Sapore di tappo

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editoriale di sotomayor

Bentrovati. Siamo di nuovo collegati dalla nostra postazione radiofonica per il consueto appuntamento settimanale con le nostre interviste impossibili.

Come ogni settimana abbiamo un ospite impossibile e che grazie alla nostra strumentazione e ai nostri tecnici, siamo riusciti a intercettare per una intervista nella quale oltrepassiamo quel confine suscettibile di alterazioni spazio-temporali tra la vita e la morte.

Questa volta ospitiamo un personaggio internazionale e ascrivibile di merito a quella che potremmo definire come la 'categoria degli infami'.

Questa è una specifica che gli abbiamo fatto quando gli abbiamo richiesto di concederci questa intervista. Del resto non abbiamo motivo di essere ipocriti e non siamo quelli che si possono definire dei mistificatori della verità.

Cionondimeno gli abbiamo garantito un trattamento pari agli altri ospiti che sono finora intervenuti e che questa sarebbe stata una chiacchierata amichevole. Del resto non avrebbe senso invitare un ospite e poi impedirgli di parlare.

Tanto vale a questo punto svelare l’ospite di oggi. Una personalità incredibilmente popolare e la cui popolarità è rimasta invariata negli anni anche grazie al cinema e alla letteratura.

Sto parlando del Generale George Armstrong Custer (1839-1876).

Formatosi all'Accademia Militare degli Stati Uniti d'America di West Point, testardo, ribelle, orgoglioso, permaloso e scarso amante dello studio, eccelleva invece nella schermo, nel tiro con la pistola e l'equitazione. Caratteristiche che gli permisero di fare carriera nelle forze armate in cui raggiunse il grado di tenente colonnello e quello di generale 'brevet' in via provvisoria tra il 1865 e il 1866.

Ufficiale dell'esercito degli Stati Uniti d'America, fu comandante di reparti di cavalleria durante la guerra di secessione americana e le guerre indiane. Morì durante la famigerata 'Custer's Last Stand', il 25 giugno 1876 durante la battaglia di Little Bighorn contro gli indiani Lakota Sioux, Cheyenne e Araphao.

Fatta questa breve presentazione, è il momento di introdurre il nostro ospite.

Buonasera Generale e bentrovato.

C. Buonasera a lei, ragazzo, e buonasera a tutti gli altri convenuti a questa chiacchierata che spero si rivelerà in qualche maniera proficua e non una inutile perdita di tempo.

Farò del mio meglio per non annoiarla Generale. Del resto abbiamo molti argomenti di cui parlare.

C. Molto bene. Cominciamo pure.

1. Generale, se non le dispiace, pensavo di cominciare dalla fine. Dalla sua fine. Cioè dalla battaglia di Little Bighorn, dove il suo 7º cavalleria fu sconfitto ma soprattutto dove lei trovò la morte sul campo di battaglia. Che cosa ricorda di quella giornata e di quella battaglia? La storia la addita come il principale responsabile della sconfitta. Pensa di avere sbagliato qualche cosa in quella occasione particolare?

C. Prima di risponderle, ragazzo, mi dica: lei è mai stato su un campo di battaglia?

Mai nella mia vita. Per fortuna. In verità sono un pacifista e ripudio ogni forma di violenza e l’utilizzo delle armi.

C. Ha! Un vile dunque. Un codardo. Una donnicciola... Ora capisco ogni cosa. Ma procediamo pure con questa intervista. Vediamo dove vuole andare a parare.

Come preferisce. Ma mi creda, non ho nessuna intenzione di denigrarla. Vorrei semplicemente portare avanti questa intervista. Allora, come andarono le cose quella volta?

C. Avevo preparato tutto alla perfezione. Come mio solito. Non avrei del resto ottenuto la carica di generale e non sarei diventato così famoso senza la mia bravura e il mio ingegno. Oltre che il mio coraggio. Ma, vede, in quel caso specifico fummo ingannati da degli informatori che sbagliarono ogni valutazione oppure che, chi lo sa, facevano il doppio gioco. Avevamo informazioni sbagliate per quanto riguarda lo schieramento nemico e il loro numero. La verità è che c'erano molti interessi economici in ballo in quella regione e sarebbero dipesi dall’esito di quello scontro. Senza considerare gli interessi politici, che mi riguardavano personalmente dopo una vita intera passata a servire il mio paese sul campo di battaglia e durante la quale mi ero fatto molti nemici.

A Little Bighorn io ho perso, ma i miei veri nemici erano a Washington nelle stanze del potere, non sulle Black Hills!

Si riferisce al presidente Grant?

C. Ha! Proprio lui. Tra gli altri. Non fu il primo di quei maledetti politicanti corrotti a mettermi i bastoni tra le ruote, ma sicuramente fu l’ultimo!

Si riguardi la storia com’è andata veramente: il generale George Armstrong Custer non avrebbe mai perso a Little Big Horn!

Ho perso perché hanno voluto che le cose andassero così, fu un complotto ai miei danni e io e i miei ragazzi abbiamo pagato con la vita quello che è stato il mio coraggio contro tutto e tutti. Parlo di veri patrioti americani, mandati a morire sul campo di battaglia dai massimi rappresentanti della classe politica degli Stati Uniti d'America!

Ma è vero che lei fu ucciso quasi subito durante la battaglia?

C. Questa è una domanda impertinente. Quello che le posso dire è che ho sempre combattuto in prima linea e senza nascondermi dal nemico e questo lo ha sempre riconosciuto anche ogni mio avversario.

2. Il 27 novembre del 1868 a capo del suo 7º cavalleria, attaccò un villaggio sul fiume Washita in Oklahoma. Era un accampamento di sole 250 persone disarmate. Molte di queste persone erano donne o bambini. Quelli superstiti vennero fatti prigionieri. Fu un attacco sferrato di sorpresa alle prime luci dell’alba e che le valse il soprannome di ‘Figlio della Stella del Mattino’. Ma lei odiava gli indiani? Voglio dire, a quei tempi era consapevole di stare prendendo parte a quello che sarebbe poi stato un vero e proprio genocidio? Perché compiere azioni militari di questo tipo?

C. Come ha riconosciuto precedentemente, lei non è mai stato su di un campo di battaglia quindi forse alcune questioni non le sono chiare.

Vede, la guerra non è qualche cosa che ammette compromessi. Questi al contrario possono comportare solo ulteriori problemi e incrementare il numero delle vittime da tutte e due le parti. Un inutile spargimento di sangue e senza che si arrivi a nessuna soluzione del conflitto. Tra parentesi: questo fu alla base dello scontro ideologico tra me e i miei superiori. Senza considerare i soliti politicanti.

Quando sei un ufficiale hai delle responsabilità e devi adempiere al tuo compito anche se questo possa apparire brutale. In quel momento devi agire in maniera ferma e irreprensibile, non sono ammessi tentennamenti e nessuna esitazione. Ci vuole decisione e il coraggio di andare fino in fondo anche se questo comporta azioni che possono spaventare e che non possiamo raccontare a casa alle nostre mogli e ai nostri bambini.

Va bene. Ma in questo caso infatti parliamo proprio di donne e bambini...

C. E lei cosa ne sa? C’era forse? Questo è quello che hanno raccontato, ma chi le può confermare che questo costituisca una verità? Anche quando attaccammo a Little Bighorn dissero che sarebbero stati in pochi e invece...

La storia viene raccontata sempre in maniera diversa a seconda delle situazioni.

Per chiarire la questione definitivamente: io non ho mai odiato gli indiani. Ma eravamo in guerra e la guerra è guerra. Eravamo avversari e ci dovevamo combattere. Io da una parte, gli indiani dall’altra. Ma c’erano anche alcuni indiani che del resto combattevano dalla nostra parte e che avevano capito che la scelta giusta fosse abbandonare il loro sistema di vita primitivo e passare allo stato di società più avanzata del nostro sistema.

Parlare di genocidio è ridicolo: semplicemente gli indiani, senza considerare quelli che sono gli incroci tra appartenenti a razze diverse, hanno scelto di vivere all'interno della nostra società e abbandonato le loro stupide abitudini e credenze primitive. Questo a parte uno sparuto numero di fannulloni, che vive nelle riserve pretendendo di ignorare lo scorrere del tempo e di ricevere comunque sussidi e assistenza dalle organizzazioni governative. Ma queste persone non fanno del bene a se stesse né a chi li circonda. Non fanno del bene ai loro figli!

Mi sembra un punto di vista sicuramente - diciamo - quantomeno discutibile, ma immagino che lei, Generale, sia irreprensibile su ogni sua affermazione. Posso chiederle comunque se è vero che sposò una donna indiana?

C. Non è così.

Io mi sposai una sola volta: con Elizabeth Cliff Bacon. Questo succedeva nel 1864. Ma non ho nessun problema a parlarle di Mo-nah-se-tah oppure ‘Erba di Primavera’ (Ndr. Era la figlia del capo Cheyenne Ho-han-i-no-o aka 'Piccola Roccia'), una donna bellissima e che mi diede anche un figlio e quello era figlio mio, non era un indiano. Così come Erba di Primavera era la mia donna. Mia e di nessun altro.

Ripeto: non ho mai avuto nulla contro gli indiani, ma questi erano il mio nemico e io dovevo combatterli e mi creda, non lo avrei fatto se loro avessero capito che noi eravamo portatori del vero progresso. Quando parla di genocidio sbaglia: oggi i discendenti di quegli indiani vivono assieme al resto della popolazione americana, sono integrati all'interno della nostra società e questo è merito degli uomini come me e dei nostri sacrifici.

Ha visto cosa succede in North Dakota? Mi riferisco alla protesta dei nativi americani e degli ambientalisti contro la costruzione della Dakota Access Pipeline. Cosa ne pensa?

C. Penso tutto il male possibile. La storia si ripete. Ci sono determinate persone che non vogliono accettare il progresso, ma le pretese di pochi non possono arrestare il progresso, lo sviluppo sociale e quello scientifico e tecnologico e la vita di una intera comunità. Queste persone sono dei criminali e vanno trattate come tali.

Penso che se si fa una scelta poi bisogna portarla a termine con decisione. Questa è una responsabilità di chi ci governa. Non sono ammessi tentennamenti, questi non fanno che aumentare i disordini e la possibilità di scontri. Ci vuole decisione e bisogna agire rapidamente e con la massima decisione.

3. Visto che abbiamo accennato a tematiche di attualità... Sicuramente conoscerà il Presidente Donald Trump. È una figura sicuramente controversa e molto discussa. Che sembrerebbe ricevere critiche dai suoi avversari e quindi dagli esponenti del partito democratico, ma anche da una componente del partito repubblicano. Da storico conservatore e uomo d’armi, sente una affinità con questo personaggio? Che giudizio ha di lui?

C. È un argomento per quanto mi riguarda molto doloroso. Lei dice bene: sono sempre stato un conservatore e ho combattuto per questo paese sia nella guerra civile che contro gli indiani. Sono morto per questo paese e i suoi ideali libertari e per la salvaguardia della nostra supremazia culturale. La tutela dei valori e dei principi repubblicani su cui si fonda la società americana.

Come dice, ho principalmente una formazione militare e penso che le forze armate siano uno dei cuori pulsanti di questo grande paese.

Ma non mi rivedo in questo presidente e penso con nostalgia ad altre grandi figure del partito repubblicano degli ultimi anni che hanno onorato la nostra bandiera: Bush padre e figlio, Ronald Reagan, Richard Nixon... Gente che ha fatto grande questo paese e onorato chi ha combattuto per esso e quelli che come me che sono morti per questa causa.

Tutte cose che un ricco industriale come Donald Trump non potrà mai capire. È solo un fantoccio e prima l’establishment del partito se ne accorgerà e lo priverà di ogni potere, tanto meglio sarà per l’America. Restituiamo l’America agli americani: quest’uomo ci ha venduto ai russi e ci ha coperti di ridicolo. Non è ammissibile.

4. Anche lei tuttavia aveva una fama, se posso permettermi, sicuramente controversa. È stato una persona ambiziosa ma con un carattere diciamo molto acceso e le sue 'fiammate' unitamente al suo carattere testardo e orgoglioso probabilmente hanno costituito un punto di forza ma anche il suo limite più grande. Che cosa mi può dire al riguardo? Pensa che alcune sue scelte siano state sbagliate e le abbiano impedito ad esempio di riuscire a raggiungere il traguardo di essere eletto presidente degli Stati Uniti d’America? Quello che molti ritengono sarebbe stato il suo vero obiettivo dopo avere vinto la guerra contro gli indiani.

C. Da questo punto di vista, come le dicevo, gran parte delle responsabilità venivano dalla ambiguità dei rappresentanti del mondo della politica che mi hanno storicamente sempre messo i bastoni tra le ruote e alla fine mi hanno usato senza dare nulla in cambio.

Fu anche arrestato...

C. Quella vicenda fu ridicola. Applicai lo stesso sistema che avevamo usato a Gettysburg: chi disertava, pagava con la vita e veniva giustiziato. Questo sistema mi permetteva un maggiore controllo sulle truppe e una maggiore forza di persuasione nei loro confronti. Il mio 7° Cavalleria era una armata compatta e perfettamente disciplinata e che rispettava i miei ordini fedelmente.

Comunque fui assolto e prosciolto anche da quest’altra infamante accusa. Immagino si possano ancora trovare degli atti che lo certificano.

Non so se avrei potuto diventare presidente, ma so che avevo il carattere adatto per guidare questa nazione che amo così tanto quanto lei amava me. Purtroppo la storia ha voluto che questo non si verificasse, ma non ho rimpianti, sono ricordato come e più di qualsiasi altro presidente o rappresentante politico dei miei tempi.

5. Ho solo un'altra domanda Generale. Come pensa di essere ricordato oggi nel mondo, ma in particolare negli Stati Uniti d’America. Sicuramente molti la considerano un grande patriota e un eroe senza macchia e senza paura. Uno degli eroi del selvaggio West. Esistono statue erette in suo onore e intere contee denominate come 'Contea di Custer'. Eppure una certa cultura che poi ha rivisto la storia americana da altre prospettive, la considera in maniera negativa e quasi la irride per la sua sconfitta a Little Bighorn...

C. Penso che una certa cultura hippie e pacifista diffusasi negli anni sessanta dello scorso secolo abbia scientificamente lavorato per oscurare la mia immagine e lo stesso è successo per quanto riguarda altri appartenenti alla storia delle forze armate degli Stati Uniti d’America. Hanno girato le spalle ha chi ha donato la vita per questo paese e salvaguardarne i principi libertari. Io ho sempre combattuto per questo paese per nessun altro: nella guerra civile ero dalla parte giusta e abbiamo vinto. Nella campagna contro gli indiani è stato lo stesso. Io sono morto ma noi abbiamo vinto. Abbiamo vinto le guerre mondiali salvaguardando i principi democratici in tutto il mondo, mentre questi erano messi in serio pericolo dai nazisti. Senza considerare la guerra fredda.

Un vero americano sa che io sono un simbolo importante di questa nazione e mi riconosce sicuramente come un vero eroe. Pensi che dopo la guerra civile mi fu offerto di andare in Messico e guidare l’esercito di Massimiliano d’Austria. Mi offrirono un sacco di soldi. Ma rifiutai. Non mi interessavano. Non sono mai stato interessato ai soldi. Io amavo e amo l’America e le ho dedicato tutta la mia vita. Sono un eroe nazionale tanto quando George Washington oppure Thomas Jefferson, Abraham Lincoln. Magari questo a qualche sciocco pacifista non piacerà ma per fortuna da questo punto di vista ce ne sono pochi come lei.

Che fortuna.

C. Ha! Esattamente.

Bene Generale, direi che adesso la nostra simpatica chiacchierata si può dire conclusa. È stato un piacere averla con noi. Io la ringrazio e la saluto così come saluto anche tutti i nostri ascoltatori a cui auguro anche un felice nuovo anno 2018!

C. Un saluto a tutti e un augurio per il nuovo anno. Dio benedica gli Stati Uniti d’America!

'Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai.'

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editoriale di CosmicJocker

Età di scoperte '80 - '93

Età di sensibilità '94 - '99

Età di chiusura e amarezze '00 - '04

Età di volontà e di sperimentazione '05 - '10

Età di ricerche, di trascendenze e segreti '11 - ?

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editoriale di zaireeka

Io da bambino sognavo spesso di volare.

Due cose sognavo più spesso delle altre: di volare e il diavolo buono ed il diavolo cattivo.

A quanto pare già da bambino avevo una mente alquanto complicata.

Volare era davvero una mia specialità.

Volavo per la casa arrivando a sfiorare con la schiena il soffitto della casa.

Non conoscevo ancora cosa fosse la forza di gravità, forse per questo mi risultava così facile farlo.

Crescendo ho conosciuto tante cose, che mi hanno tolto un po’ alla volta i miei super-poteri.

E così, un bel po' di anni fa, la conoscenza post-traumatica e scientifica della psicologia dell’approccio amoroso mi ha tolto la capacità di illudermi e volare con la fantasia solo per uno sguardo subito da una ragazza, e da una donna in seguito.

Due cose ancora mi sfuggono: la vera natura dell’Universo e quella della coscienza, come a tutti del resto, del mondo esteriore e del mondo interiore.

La prima ignoranza mi permette di essere ancora qui, in questo momento in questo posto, mentre scrivo.

La seconda ignoranza mi permette ancora di pensare, di sperare, di sognare.

E’ come quando si riesce a suonare un pezzo particolarmente difficile al pianoforte, solo se ci si dimentica definitivamente il funzionamento della partitura.

Da quando da bambino ho scoperto a scuola la gravità, ho sempre pensato che per vincerla si dovesse essere in grado di sollevarsi da terra, come fanno gli uccelli e gli aerei.

In verità l’unico modo per vincerla, lo dice la scienza, e’ abbandonarsi ad essa, lanciandosi nel vuoto.

E’ quello l’unico vero volo, libero davvero dalla gravità, ad occhi chiusi.

Una volta perso del tutto il contatto con la torre di controllo.

Pochi lo sanno, e di quei pochi, pochi ne hanno il coraggio, perché sanno che non può durare, se lo si vuole fare fino in fondo.

E forse è meglio così, anzi, sicuramente.

L’uomo è fatto di quelle cose che l’Universo non vuole conoscere di se stesso, o di cui ha paura.

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editoriale di sotomayor

L'uomo ha il dovere di sopravvivere alla natura. Cioè di vincere ogni sfida che questa ci pone quotidianamente e pure in un contesto che da questo punto di vista è in costante evoluzione e ha subito delle alterazioni dettate proprio da questo rapporto di forza e dalle modifiche che vi abbiamo apportato nel tempo.

I naturalisti più estremisti considereranno questa mia dichiarazione in maniera negativa, ma non sto con questa sicuramente invitando alla distruzione di ciò che ci circonda.

Non sto dichiarando guerra alle forze della natura.

La sfida è aperta da quando il processo evolutivo ci ha condotto al nostro attuale stadio evoluto. Da allora combattiamo contro noi stessi. Da una parte siamo attaccati alla terra, dall’altra sappiamo che solo liberandoci da essa potremo essere salvi.

Il nostro pianeta, l’intero sistema solare non sono eterni. Allo stesso modo prima o poi le risorse naturali tenderanno inevitabilmente a diminuire fino a scomparire del tutto.

Abbiamo ancora molto tempo secondo me, ma vanno continuamente cercate nuove soluzioni.

È un lungo cammino ma che nell’ultimo secolo ci ha visto fare importanti passi in avanti in questo processo di emancipazione dalle forze della natura.

Il 7 febbraio 1984 Bruce McCandless compie la prima attività extraveicolare nello spazio in completa libertà.

La missione è la STS-41B. Lo scopo è posizionare due nuovi satelliti artificiali in orbita ma anche sperimentare il nuovo sistema di propulsione astronauta Manned Maneuvering Unit (MMU).

Bruce McCandless, che ha contribuito al programma in maniera determinante, lascia il Challenger e si lancia nello spazio aperto. Batte i denti, forse perché lo spazio è freddo come ce lo hanno raccontato, forse perché è in un momento di tensione particolare. Sarebbe naturale. Bruce McCandless non è un eroe come Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins. Ha paura. Dopo dirà che per Neil questo sarebbe stato dopo tutto solo un altro piccolo passo, ma che per lui invece è stato un balzo enorme.

Aveva paura che il salto potesse essere troppo grande e che non sarebbe mai più tornato indietro.

Non credo che Armstrong abbia mai risposto a questa affermazione. Ma che avrebbe dovuto dire. Gli eroi non devono dare spiegazioni a nessuno.

Bruce percorre i cento metri più lunghi della storia dell’uomo nello spazio mentre la moglie in ansia lo segue da Terra. Lavora anche lei per la Nasa. Poi Bruce rientra alla base. A bordo del Challenger. Tutti tirano un sospiro di sollievo.

Sembrava impossibile. Ma Bruce è rimasto, anche se per pochi minuti, completamente sospeso nello spazio e ha fatto quello che nessuno aveva mai fatto prima di lui: nessun cordone ombelicale lo teneva legato alla Terra. Nessuna astronave. Non c'era nessun suolo lunare da calpestare questa volta.

La sensazione deve essere stata simile a quella di essere in uno stato di sospensione sott’acqua, immaginiamo, e ci domandiamo quanto e se lo spazio gli possa essere apparso in qualche maniera denso. E se questo non significhi per l’essere umano una specie di ritorno ideale.

In quel momento fu completamente libero da ogni vincolo: è l'uomo che ha superato lo stadio evolutivo di Homo Sapiens e che ha avviato un processo di cambiamento che chissà quando avrà fine.

Pochi lo ricordano e pochi lo ricorderanno dopo la sua morte avvenuta lo scorso 21 dicembre, ma Bruce McCandless è stato il primo.

La sua anima, dopo la morte, è stata ritagliata nell'oscurità dello spazio, circondata dalle stelle che compongono la volta celeste.

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editoriale di ALFAMA

Perchè perdi tempo su questa pagina bianca ?

Noia, per pura noia. La noia di parlare senza risposte. La noia di aspettare. Per farti notare.

Ma scrivere stupidaggini?

Ma guarda le stupidaggini sono solo un caos di parole, mettile in ordine e ognuno trova il suo perchè.

La solitudine aiuta ?

Non credo, la solitudine è un male. Non aiuta,anche se sei in un centro commerciale. Devi vedere la folla per capire la solitudine.

La solitudine da solo non esiste, è un mito. Non esiste, sei sempre con i tuoi pensieri. Esiste solo la solitudine in mezzo alla folla e diventi in giullare,sorridi, salti, bevi. Con un tarlo che ti rode.

La solitudine è una tavola imbandita di falsi sorrisi

Sorridi e ti sentì più solo.

La solitudine è un falso sorriso

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editoriale di enbar77

E pensare che lo avevo lodato anche scrivendo una specie di recensione, o, più che altro, un tentativo di fugare qualche dubbio dove qualcuno mi ha anche preso in giro. Da bambino mi avevano indottrinato a pregarlo, a temerlo, a parlarci con convinzione e a maledirlo. Adesso non posso dire che non creda più nella sua presenza ma, certamente, ho smesso di crederci da un pezzo. E non è un caso se ho voluto spedire questo editoriale proprio oggi, dopo un ampio periodo di latitanza e a poche ore dalla Nascita.

Che poi, la Nascita ha un giorno certo evidenziato in rosso su tutti i calendari, il risultato di un 5X5 nell'ultimo mese di ogni anno. La morte con resurrezione annessa cambia in continuazione. Era una domenica allora e lo sarà per sempre, d'accordo. E allora il 25 dicembre dell'anno zero che giorno era?

Aveva ragione K. M. nel dichiarare che la religione è l'oppio dei popoli. Lobotomizzando stormi, mandrie, schiere, greggi o moltitudini di ignoranti, è stato creato un impero incrollabile dominato dalla fede, che è il malcelato sinonimo della violenza. Di ignoranti che possono esercitare anche qualche tipo di violenza ne esistono tuttora: in Italia come in Medio Oriente. Lì si scannano volentieri. Qui magari ti mandano a praticare nel didietro e poi vanno a confessarsi.

Per non dare torto a K. M. basta pensare a Papa (e ripeto, Papa) Giulio II, al Nome della Rosa e ai pretastri pedofili, tanto per essere banali, dozzinali, luogocomuni-sti (non falce e martello, eh) e retorici. Per una apparizione, Giovanna d'Arco venne condannata al rogo. Per il medesimo motivo, Bernadette ha creato un businness interplanetario. Pratica della compensazione. E quei preti che minacciavano di scomunicarti se ti azzardavi a votare per il Partito Comunista dei senzadio mangiabambini? Con questo motivo quanti voti sono stati veicolati nelle tasche e ripeto, tasche, della Democrazia Cristiana? Di credenti ignoranti ce ne sono stati a grappoli. E ce ne sono anche nell'Anno del Signore 2017 a due passi dal 2018....

Non puoi non divertirti a Pietrelcina (abito a qualche pugno di km di distanza), quando vedo torme di idioti che, sventolano orgogliosi un riquadro da 5mm quadrati di tela per puntocroce, spacciato per "Frammento del guanto di Padre Pio". Ancora più divertente è sentirli esclamare con commozione: "Tengo nu piezzo r'o guanto e Padrepppio!" - "Gentile signora, ma con tutti i frammenti che sono stati venduti negli anni non le sorge il dubbio che siano un falso clamoroso? O Padrepppio gestiva una fabbrica tessile?".

Ancora più divertenti, sono quelli che si recano a San Giovanni Rotondo per adorare quel pupazzo di silicone costruito sui resti ossei del frate, Non bastava conservarle in una apposita urna consacrata? No, un bel bambolone in silicone (ben fatto, devo riconoscere) per attirare quanta più gente per concretizzare una esclusiva operazione lucrosa al netto dei famelici risto-assaltatori, simili agli avvoltoi che svolazzano in circolo sulla preda ansimante, pronti a planare in picchiata nell'attimo successivo all'ultimo respiro. Potete anche darmi addosso, per carità, ma Padrepppio non è stato imbalsamato come Santa Rita. Andate a Cascia e vi chiederete per quale motivo non c'è la stessa folla di prefiche adoranti e piangenti...

L'apice del divertimento si tocca, ancora oggi, con quelle donne adulte o anziane, che si ostinano a pregare sull'immagine di Robert Powell, ostinandosi a credere che sia di Gesù Cristo. Ho provato a sostituire l'ingannevole effigie con una foto di Enrique Irazoqui. Non l'avessi mai fatto. Sono stato ammonito da uno sguardo accigliato e carico di inquietante sospetto, truce quanto basta per garantirmi la condanna alla rosolatura pubblica: "E chi è? Chishto nunn'è Ggesucrishto!". Ma le giuro che lo è stato! Come puoi non dare ragione a K. M.?

Personalmente, ho smesso di crederci perchè a seguito di varie udienze si ostina a non darmi un figlio. Per quante volte l'abbia pregato, implorato, scongiurato, non riesco a non diffidare se penso che per veicolare uno spermatozoo nel punto giusto basterebbe un battito di ciglia. E' tutto a posto, che bell'utero, le tube sono aperte, un pò di varicocele ma nulla di preoccupante, la percentuale di motilità è bassa ma con una decina di milioni attivi e scorazzanti hai voglia...ne basta uno, cazzo. Per avere il Suo dono sto versando un mucchio di soldi senza averlo ancora concepito. Forse riuscirò a comprarmelo con Santa ICSI o San FIVET...

Per anni ho voluto credere che si trattasse appunto di un Suo dono, ma troppo spesso ho visto e sentito che è finito, a volte nel posto ed altre nel grembo, sbagliato...chi li ha violentati, chi soffocati, chi accoltellati, chi abbandonati, per non parlare di quelli che sono nati e morti dopo poco tempo...se lo hai mandato in dono che cazzo te lo sei ripreso a fare? E quei doni più grandicelli, magari chierichetti, magari di bell'aspetto, che sono stati "scartati" dai Suoi Ministri? Come puoi dare torto a W. A.?

Volete sapete come si sono giustificati i sacerdoti a cui confidavo questi dubbi? "Lui ha dato all'uomo la libertà di fare tutto ciò che vuole!". Un pò come se costruissi un robot perfetto a mia immagine e somiglianza (non sarebbe proprio un belvedere), per lasciargli commettere ciò che vuole, anche nefandezze, senza preoccuparmi di togliere le batterie dal radiocomando. Credo proprio che W. A. abbia ragione.

E a questo punto ti rendi conto che forse, si tratta solo di un grosso inganno, di una farsa ben preparata e tuttora perpetrata. Parti con la testa e pensi alle guerre, all'Olocausto, ai femminicidi, tra qualche ora nasce e tanto per dare una prova della Sua presenza ti manda una pioggia tropicale nelle Filippine impedendo a qualche centinaio di famiglie di attendere la mezzanotte per festeggiarlo. Ma un miracolo a mezzo servizio? E' così che finisci per entrare a militare nelle file della dissidenza aggrappandoti con fermezza a qualcuno come W. A. Come fai a dargli torto?...in effetti, se Lui esiste, spero che abbia una buona scusa.

Buon Natale.

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editoriale di sotomayor

Dalla nostra postazione impossbile, dopo i fortunati episodi che ci hanno visto intercettare Serge Voronoff, Garrincha e il Presidente Saragat, ci colleghiamo per trasmettervi in diretta una nuova intervista impossibile.

Vi ricordiamo che tutto questo è reso impossibile dalla nostra strumentazione speciale che ci permette di abbattere ogni barriera spazio-temporale e quel confine sottile tra la vita e la morte, nonché dalla nostra preparatissima e accuratamente selezionata squadra di tecnici radio. Senza di loro questa trasmissione, ammesso che fosse veramente possibile, non esisterebbe.

Dopo avere ospitato una personalità, come dire, molto discussa come quella del Presidente Saragat, abbiamo oggi ospite un altro nostro connazionale e una figura che definirei 'unificatrice', trattandosi in questo caso di una persona dalla elevata caratura morale. Questo prima ancora che essere uno dei più grandi attori della storia del teatro e del cinema italiano.

Sto parlando del cavaliere Aldo Fabrizi.

Nato Aldo Fabbrizi (1905-1990) presso una umile famiglia romana, rimase giovanissimo orfano del padre Giuseppe, di professione vetturino, e per contribuire al sostentamento della famiglia (tra cui la sorella Elena, conosciuta come 'Sora Lella'), si adoperò a fare i lavori più disparati.

Questo non fermò la sua vocazione artistica. Già nel 1928 pubblicò un volumetto di poesie romanesche e cominciò a calcare le scene, fino a mettere in piedi una propria compagnia teatrale. Fece l'esordio sul grande schermo nel 1942.

Nel dopoguerra divenne uno degli attori più popolari del cinema italiano.

Fatta la debita presentazione, lasciatemi introdurre finalmente il nostro ospite.

A nome mio e di tutto i nostri ascoltatori, buonasera cavaliere.

F. Ma che cavaliere e cavaliere... Io sono Aldo Fabrizi e basta. Che bisogno ci sta di tutte queste formalità. Cavaliere ora. Ma lasciamo perdere.

Buonasera a te e a tutti i nostri ascoltatori.

Mi scusi cavalie...

F. Ahè...

Volevo dire: mi scusi signor Fabrizi. Benvenuto.

Se non le dispiace, comincerei con la nostra intervista.

F. Ma sì, facciamoci quattro chiacchiere.

1. Se permette, comincerei questa nostra intervista parlando dei suoi inizi. Mi riferisco agli anni venti, in cui cominciò - contemporaneamente allo svolgimento di altre attività - a esprimere la sua vocazione artistica prima scrivendo e successivamente calcando i palchi teatrali. Questo avveniva tra gli anni venti e gli anni trenta e in quelli che furono anni difficili per il nostro paese. Che cosa ci può raccontare di quegli anni e dei suoi inizi come attore di teatro? È vero che già durante quegli anni avvenne il suo primo incontro con Alberto Sordi?

F. Ma furono anni difficili all'inizio. Mio padre morì quando io avevo solo undici anni e allora mi dovetti impegnare a fare diversi tipi di lavoro: ho fatto il fattorino e il meccanico, il guardiano notturno e il postino... Insomma si faceva tutto quello che si poteva fare per andare avanti. Poi nel 1928 pubblicai un volumetto di poesie romanesche che si intitolava 'Lucciche ar sole' e da lì poi... Prima cominciai a scrivere sul 'Rugantino', che era un giornale dialettale che ci aveva una lunga storia e diciamo una certa fama tra i letterati dell'epoca. Quelli che erano interessati alla poesia, diciamo così. E poi cominciai a lavorare in teatro recitando le mie poesie e come si diceva allora, come 'macchiettista', interpretrando dei ruoli che poi ho ripreso nel corso degli anni: il vetturino, il tramviere, lo sciatore...

Alla fine mi riusciva pure facile perché molti di questi ruoli erano attività e professioni che io avevo veramente svolto. A parte il fatto che proprio mio padre prima di morire faceva il vetturino.

Ma come era la vita durante gli anni del fascismo e sotto l'occupazione dei tedeschi?

F. Io qua posso rispondere per quello che mi riguarda. E diciamo che se prima che cominciasse la guerra magari la pensavo in una certa maniera, dopo ecco facciamo che mi sono reso conto che le cose è che andavano poi tanto bene. Non so se mi sono spiegato...

Ritornando alla mia attività teatrale, alla metà degli anni trenta, mo non mi ricordo esattamente quando, fondai questa mia piccola compagnia teatrale. Ma non è che giravamo tanto, eh, stavamo per lo più sempre a Roma che a me non mi è mai piaciuto tanto viaggiare. E comunque sì, proprio in quegli anni conobbi Alberto Sordi.

Si accorse subito del suo talento?

F. Ma era un ragazzino e poi rimase nella compagnia per poco tempo, però si, si vedeva già che c'aveva talento e che aveva studiato.

È stato lui il più grande attore italiano di tutti tempi?

F. Questa è una bella domanda. Sicuramente Alberto Sordi è stato un grandissimo attore, ma se mi chiede chi sia stato il più grande e allora la risposta non può che essere una sola.

Totò?

F. E ma sì. Per forza. Totò è stato grandissimo. Un grandissimo attore e ancora più grande, se possibile, come persona. Lavorare con lui è stata una vera gioia. Non c'avevamo mica bisogno di un copione: molto spesso improvvisavamo. Oddio molto spesso... Quasi sempre per la verità. L'unico problema è che alla fine a volte era difficile non scoppiare a ridere perché eravamo come spettatori di noi stessi. Bei tempi.

2. Veniamo ai suoi inizi come attore di cinema. Il primo film è del 1942 quando recita in 'Avanti c'è posto' di Mario Bonnard, che la dirige anche nella pellicola seguente, 'Campo de' fiori'. Nel 1943 recita in 'L'ultima carrozzella' di Mario Mattioli e con Anna Magnani. Ma è vero che aveva un rapporto difficile con Anna Magnani?

F. Ma no. Che rapporto difficile. Ognuno faceva il suo ruolo di attore. Quello che si doveva fare. Lei in quel film faceva un'attrice di varietà, mentre io facevo la parte di questo vetturino che avevo ripreso dai miei vecchi personaggi che già facevo a teatro... E mi ricordo che io poi feci recitare nel film Scotti. Tino Scotti. Che era un caratterista bravissimo e che avevo conosciuto durante quegli anni. Scotti era veramente bravissimo, quando era ragazzo aveva pure giocato a pallone con l'Inter prima di cominciare a dedicarsi al teatro. Nel film gli feci fare un personaggio che era una specie di attore, che nella vita era uno spasso, ma davanti all'obiettivo proprio non ce la faceva. Un personaggio che lui fece a meraviglia.

E poi ci stava Mario Mattioli, che per me è stato più che un amico. Un fratello.

Nel 1945 invece fu la volta di 'Roma città aperta' di Roberto Rossellini e in cui lei interpreta la parte di Don Giuseppe Morosini...

F. Su questo film si raccontano un sacco di storie...

Intanto bisogna precisare che sto film non esisteva all'inizio. Ci stava 'La morte di Don Morosini' scritto da Alberto Consiglio che poi divenne capocronaca a 'Il tempo'. Fu un film girato a pezzi e girato dove capitava e in particolare in un teatrino che stava in Via degli Avignonesi e che stava vicino a un locale di quelli lì che... Insomma ci siamo capiti. E Rossellini era un frequentatore.

È vero che non ha avuto nessun compenso per...

F. Manco 'na lira.

E Rossellini come dirigeva?

F. Mmmmh... E dirigeva bene. Cioè s'è visto. Ha vinto un sacco di premi. Come doveva dirigere. Era bravo.

3. Il periodo di maggiore successo popolare possiamo dire che va dal dopoguerra fino all'inizio degli anni sessanta. In questo periodo credo che abbia interpretrato qualche cosa come 60-70 film e in alcuni casi delle parti che sono passate alla storia, disimpegnandosi in ruoli sia comici che drammatici. Abbiamo già accennato in particolare ai film interpretrati con Totò, ma anche con Peppino De Filippo ha scritto pagine importanti del cinema di quegli anni. Ad esempio 'La famiglia Passaguai' nel 1951, una commedia che possiamo dire che abbia definito un certo tipo di schemi che praticamente sono gli stessi che vengono adoperati ancora oggi e di cui oltre che attore protagonista, fu anche regista e sceneggiatore.

F. Probabilmente è film di maggiore successo tra tutti quelli che ho diretto. La sceneggiatura l'avevo scritta assieme a Mario Amendola e Ruggero Maccari. E la storia era quella lì di questo cavaliere, Peppe Valenzi detto Passaguai, che decide di passare una domenica al mare a Fiumicino con la famiglia, ma non gliene va bene manco una. Così alla fine 'la famiglia Passaguai' è diventato una specie di modo di dire quando a uno la fortuna diciamo che non gira dalla sua aprte.

Ci stava Peppino De Filippo, ma altri attori con cui lavorare assieme era un piacere. Innanzitutto ci stava Ave Ninchi che era un'attrice incredibile e una amicizia che mi è durata tutta la vita. Bravissima. E poi ci stavano Luigi Pavese, Enrico Luzi, ancora Tino Scotti e Carlo Delle Piane...

Lei ha diretto in tutto sette film. L'ultimo, 'Il maestro...' (1957), è uno dei suoi film dai contenuti più drammatici.

F. Il film era una produzione italo-spagnola. Lo girammo in Spagna... E sì, era un film sicuramente drammatico. Ma era pure una specie di favola. Ci sta la storia di questo maestro che perde il figlio a causa di un incidente e riesce a ritrovare se stesso solo attraverso la fede, quando appare nella sua vita sto ragazzino di nome Gabriele che lo sprona a andare avanti. Era un film difficile perché argomenti di questo tipo sono delicati e poi ci stava da affrontare anche argomenti religiosi e bisognava stare attenti a non essere troppo retorici. E niente... Era un lavoro difficile, ma alla fine ne uscì un buon film.

4. Dopo gli anni sessanta ha fatto invece prevalentemente teatro. Come mai? Fu una scelta quella di smettere di lavorare con il cinema? Poi le volevo domandare se nel corso degli anni, a partire diciamo già dagli anni sessanta e fino a oggi, c'è stato un attore in cui si è qualche modo identificato?

F. Ma no. Non mi sono rivisto e non mi rivedo in nessun attore. Ma questo mo non vuol dire che non ci sono stati altri attori bravi. Ma i tempi erano cambiati e hanno continuato a cambiare. Però ci sono stati grandi attori come Alberto Sordi, Nino Manfredi con il quale rimettemmo in scena il 'Rugantino'. Ma io già dopo il 1960 non mi ci rivedevo più in un certo tipo di cinema che si andava affermando e allora preferii dedicarmi principalmente al teatro. Poi, oh, qualche film lo ho fatto anche dopo eh. Penso per esempio a 'C'eravamo tanto amati' di Ettore Scola e dove facevo la parte di questo ricco palazzinaro nostalgico fascista. Un ex capomastro, un tipo rude, antipatico e con un caratteraccio, che poi diventa il suocero del personaggio interpretato da Gassman. Fui pure premiato col nastro d'argento come migliore attore non protagonista a Venezia.

5. Sicuramente lei è stato ed è tuttora uno dei maggiori rappresentanti di quella che si definisce la 'romanità' di una volta. Questo penso che sia un grande merito che le è riconosciuto anche da tutti quelli che non riconoscono il suo grande spessore artistico e la considerano semplicemente come un 'comico', adoperando questa espressione in maniera riduttiva. Durante la sua carriera cinematografica, al di là di quelle che sono state le sue rappresentazioni più 'macchiettistiche', lei ha sempre interpretrato ruoli di grande spessore morale: da questo punto di vista è stato ed è secondo me anche un grande esempio di moralità e di umanità e portatore di quelli che si possono considerare senza retorica come i valori di una volta. Che cosa pensa della Roma di oggi?

F. E che cosa ti posso dire. Su questi qui che dicono che sono stato solo un 'comico' non me ne importa proprio niente. A parte che per me essere stato un 'comico' è un complimento. Il resto sono problemi loro.

Per quanto riguarda la città di Roma e la romanità... Penso che la Roma di una volta, quella che conoscevo io, oggi non esiste più. Roma è diventata una brutta città. È semplicemente indecente il modo in cui viene degradata quella che è la più bella città al mondo. Non si capisce più niente. Ci stanno certi posti che non si può più nemmeno girare di giorno. Una volta non era così. Ci stava più umanità. La gente c'aveva un'anima. Ma oggi invece non è più così. Nessuno credo più in niente. La gente non si fida degli altri e ognuno cerca di fregare al prossimo suo. E questo è un peccato.

Che cosa pensa che si possa fare per fare ritornare Roma quella lì di una volta e anche per riportare alla città quella grande fama che la ha sempre giustamente accompagnata?

F. E chi lo sa. Però posso dire una cosa: che Roma ha e avrà sempre una grande fama, perché nonostante questi disgraziati è e resta una città unica al mondo. E questo primato non glielo toglierà mai nessuno.

Speriamo che questa sua convinzione possa in qualche maniera fare risvegliare quella anima di questa città che lei stesso ha richiamato.

Io la ringrazio ancora per averci concesso questa intervista a nome mio e di tutti i nostri ascoltatori, che sicuramente avranno riascoltato con grande piacere la sua voce.

F. Sono io che ti ringrazio. Sei un bravo ragazzo.

La ringrazio molto...

F. Be', che dire, è stata una bella chiacchierata. Ringrazio te e tutti quelli che ci hanno seguito. Buona serata a tutti.

Buonanotte a tutti.

Alla prossima settimana con un nuovo personaggio e una nuova intervista!

'Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai.'

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editoriale di ALFAMA

Io non sono Jim Morrison.

Sono stato trasformato in una statua, ma io sono vivo.

Sono fuggito, mi piace il vino, lontano scrivo stupidaggini e non voglio essere poeta.

Scrivo,scrivo e scrivo. Ma non capite una virgola delle mie parole.

Non sono un poeta.

Sono un semplice ubriacone che scrive belle parole copiando le mie belle letture.

Ma sono figo e tutto quello che dico è poesia, ma la poesia non si scrive,non si legge,non si fanno canzoni.

La poesia è una bugia che tu prendi per verità.

Io Non sono Jim Morrison.

Una verità.

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editoriale di sotomayor

Bentrovati. Siamo qui come sempre in collegamento dai nostri studi radiofonici per proporre ai nostri ascoltatori una nuova intervista a uno dei nostri personaggi.

Ricordiamo che tutto questo è reso impossibile come sempre dalla nostra strumentazione speciale e dalla grande perizia dei nostri tecnici, che ci permettono di valicare il confine tra la vita e la morte e intervistare una persona che è stata ma che in qualche maniera è ancora. Del resto la morte, come la vita, è imperfetta e tante cose succedono dove regna il caos e ci sono quelle incongruenze tipiche che poi sono alla base della nascita del nostro universo.

Dopo Serge Voronoff e Garrincha questa volta intervistiamo un nostro connazionale.

Si tratta di una personalità molto importante e che per quella che è stata la sua storia politica e la storia politica del nostro paese anche molto discussa.

A maggior ragione, soprattutto per questo, non posso che ringraziarlo per avere accettato di sottoporsi a questa breve intervista.

L’ospite di oggi è Giuseppe Saragat (1898-1988).

Quinto Presidente della Repubblica Italiana, Giuseppe Saragat è stato una delle figure più importanti nella storia della Prima Repubblica. Iscritto al PSI sin dal 1922, confluì successivamente al seguito di Filippo Turati nel PSU di Giacomo Matteotti. Esule in Austria e in Francia, al ritorno in Italia entrò nella resistenza e fu condannato a morte dai nazi-fascisti ma scampò alla esecuzione. Presidente della assemblea costituente nel dopoguerra, ha rappresentato l’anima socialista democratica del PSI sin dalla scissione di Palazzo Barberini.

Storico il dualismo con l’amico-rivale, il ‘caro nemico’, Pietro Nenni, negli anni Saragat ha ricoperto diversi incarichi di governo e dal 1964 al 1971 è stato Presidente della Repubblica, il primo socialista a ricoprire questa carica.

Fatte tutte queste premesse, penso che sia giunto il momento di dargli la parola.

Buonasera Presidente e benvenuto a nome mio e di tutti gli ascoltatori.

S. La ringrazio e la saluto e saluto con grande affetto tutti gli italiani e le italiane che ci stanno ascoltando in questo momento.

Presidente la ringrazio molto per avere accettato questa intervista. Se per lei va bene adesso comincerei con le domande. Ci sono veramente tanto argomenti da trattare. Cercherò nei miei limiti di provare a toccare quelli più rilevanti.

S. Sono sicuro che farà del suo meglio. Cominciamo pure.

1. Presidente, come dicevo, ci sono così tanti argomenti da affrontare che è stato difficile per me decidere da dove cominciare. Così ho deciso di farlo da quello che è il momento più oscuro della storia del nostro paese: l'uccisione di Giacomo Matteotti per mano di una squadra fascista e volontà di Benito Mussolini. Che ricordo ha di quei giorni? Ricordiamo peraltro che lei faceva parte con Giacomo Matteotti di quella corrente riformista 'turatiana' che nel 1922 diede vita al Partito Socialista Unitario. Come commenta quella fase decisiva della storia del nostro paese e decisioni come la Secessione dell’Aventino? Rivendica ancora ora la giustezza di quelle scelte o ritiene che queste furono un errore.

S. Lei comincia effettivamente parlando di quella che giustamente definisce come la parte più oscura della storia del nostro paese, ma, vede, il delitto Matteotti - al di là del brutale atto omicida - fu effettivamente anche una delle pagine più oscure nella storia della democrazia in occidente nel ventesimo secolo. Alcuni storici, come ben saprà, fanno risalire alla gravità di questo episodio in maniera diretta quello che accadde negli anni seguenti fino ad Auschwitz. Un punto di vista forse poco condivisibile ma che spiega la portata e la gravità di questo momento.

Come lei dice, nel 1922 vi fu una scissione in seno al PSI, che seguiva come ben sappiamo quanto avvenuto nel 1921 con i fatti che portarono alla formazione del PCI.

Il PSU è storicamente ricordato come un partito riformista, ma è bene ricordare comunque la ispirazione al pensiero marxista, rivendicando tuttavia da una parte la propria indipendenza nell'azione politica dall'Unione Sovietica e dall'altro richiamando alla necessità di partecipare alla vita e alla lotta parlamentare e in maniera particolare in quel determinato contesto storico.

Furono queste dunque le ragioni alla base della nascita del PSU, un partito di ispirazione democratica e che non a caso fu per questa ragione il più perseguitato dal fascismo, così come successe ai socialdemocratici nella Germania hitleriana.

Senza dilungarmi troppo, poiché ci sarebbero sicuramente molte cose da raccontare, questi eventi ci conducono alla cosiddetta secessione dell'Aventino del 26 maggio 1924.

La storia ricorda ancora oggi questa scelta come un gravissimo errore e che di fatto devo dolorosamente considerare spianò la strada al fascismo. Ma fu una scelta condivisa da tutte le forze di opposizione e che probabilmente tutti quanti avremmo rifatto in osservanza a quei principi che vogliono il parlamento come la massima espressione del pensiero democratico.

Purtroppo nel frattempo Mussolini aveva già, come dire, tessuto la sua tela e legato a se stesso tutti i poteri forti nel paese. Non secondariamente la figura del re, che si fece praticamente beffe delle nostre lamentele.

Credo che la secessione dell'Aventino fosse l'unica scelta possibile all'interno di un contesto democratico. Solo che quello, oggi me ne rendo conto, non era più evidentemente un contesto democratico.

Da questo punto di vista fu commesso un errore di valutazione e anche da parte di rappresentanti storici del socialismo italiano, come Filippo Turati e Anna Kuliscioff che ancora in quei giorni sottovalutarono la portata di quegli aventi e la forza che aveva ottenuto il Partito Nazionale Fascista e Benito Mussolini. Ma non le posso dire che cosa sarebbe successo se avessimo agito diversamente. Nessuno può saperlo. L’unica alternativa sarebbe stata la guerra civile. Però probabilmente a quel punto sarebbe stato in ogni caso troppo tardi.

I fascisti erano pronti a questa evenienza e avevano il re dalla loro parte. Noi ci eravamo divisi per ragioni ideologiche senza considerare che una base comune poteva esserci: cioè la difesa e il rispetto della democrazia nel nostro paese.

2. Sul periodo relativo la seconda guerra mondiale e prima ancora il suo esilio forzato a partire dal 1926 in Austria e successivamente in Francia ci sarebbe moltissimo da dire. Lo stesso vale per la resistenza cui prese parte al rientro in Italia all'indomani del 25 luglio 1943. Ma vorrei domandarle in particolare di uno degli episodi più noti che la riguardano e che la videro protagonista assieme al Presidente Sandro Pertini. Entrambi foste catturati dalle autorità tedesche alla fine del 1943 e condannati a morte. Come avvenne l’evasione? Ma è vero che Pietro Nenni, che fu tra i principali organizzatori di questa operazione, scriveva ai compagni di partito che occorreva vi si liberasse il prima possibile aggiungendo 'Soprattutto Saragat,' richiamando una certa maggiore resistenza di Sandro Pertini rispetto alla sua?

S. Intanto devo dire che il mio periodo da esule, diciamo così, mi fu in qualche maniera molto utile per formare e completare il mio pensiero confrontandomi con delle realtà politiche diverse da quella italiana. In particolare fu rilevante l'incontro con l'austromarxismo e figure come Max Adler, Otto Bauer, Karl Renner... Tutto questo contribuì in maniera rilevante alla formazione del mio pensiero socialista democratico e che sviluppai negli anni successivi.

Ma furono anni duri. In Francia io e Pietro Nenni stringemmo una alleanza che poi avrebbe portato alla ricostituzione del partito socialista. Ma in Italia la situazione per tutti i compagni era difficile. Poi scoppiò la guerra. Fu un massacro con tanti italiani mandati a morire al fronte per la causa fascista. E come sappiamo le cose per quelli che restarono nel paese non andarono sicuramente meglio.

Quando rientrammo, ricostituito il partito socialista italiano, ne assunsi la direzione e entrai a fare parte della resistenza.

La vera o presunta frase pronunciata da Nenni è diventata leggenda. Secondo questa storia Pietro Nenni rimarcava il fatto che si dovesse procedere alla liberazione per entrambi - ovviamente - ma che la cosa andasse fatta con una certa urgenza soprattutto per me. Dando in questo senso per scontato che Pertini fosse oramai abituato alla prigionia e che vi avrebbe resistito senza problemi mente io ne avrei giustamente sofferto come ogni individuo costretto in quelle condizioni. [Ndr. Ride.].

Vera o no, questa resta una storia sulla quale in privato abbiamo sempre scherzato.

Mi lasci aggiungere che ho un ricordo molto affettuoso di Sandro Pertini, una persona eccezionale, brillante, sincera e onesta, dall’elevata caratura morale. Un vero socialista e che anche in quella occasione dimostrò tutta la sua grandezza adoperandosi al massimo per salvare la vita ad altri cinque compagni oltre che la mia e la sua.

La nostra fuga avvenne in maniera rocambolesca, grazie a un gruppo di partigiani socialisti delle Brigate Matteotti e a degli ordini di scarcerazioni falsi. Fu un piano ideato e diretto da Giuliano Vassalli. Che poi, ironia della sorte, fu egli stesso fatto più tardi prigioniero dai nazisti e fortunatamente successivamente liberato per intercessione, pare, del Papa Pio XII.

3. Finisce la guerra. Lei viene eletto presidente della Assemblea Costituente preposta alla stesura della Costituzione, lavori che si protrassero a tutto il 1948. Intanto le cose all'interno del partito socialista cominciano di nuovo a scricchiolare e nel 1947 si arriva alla famosa scissione di Palazzo Barberini e alla conseguente formazione del Partito Socialista Democratico Italiano. Si parlerà da quel momento in poi nel corso degli anni di dualismo tra lei e Pietro Nenni, che venne definito come il suo 'caro nemico'. Questa scissione fu la prima nel dopoguerra di una serie di errori compiuti dal partito socialista in Italia. Condivide oggi questa analisi? Col senno di poi avrebbe forse agito in maniera diversa? Oggi la storia ha in qualche modo condannato tutta la storia del socialismo italiano. Questo anche per quello che è successo con Bettino Craxi negli anni ottanta. Non si sente comunque in qualche modo responsabile di tutto questo?

S. Finita la guerra e risolta la questione monarchica con il referendum del 2 giugno 1946, era chiaramente centrale lavorare alla stesura della costituzione e nel frattempo garantire una certa stabilità in un momento comunque difficile come il dopoguerra. Ho ricoperto il ruolo di presidente dell'assemblea costituente dal giugno del 1946 fino al febbraio del 1947, fu un incarico di prestigio ma molto impegnativo e fu un momento molto importante nella storia del nostro paese e del quale mi sembra che oggi ci sia poca memoria. La repubblica e la costituzione sono le basi della vita democratica nel nostro paese.

Come arrivammo alla scissione di Palazzo Barberini?

È vero che il Presidente Sandro Pertini fece di tutto per evitare la scissione?

S. Sì. Sandro Pertini, come le ho detto precedentemente, fu un uomo eccezionale e anche in quei momenti difficili dimostrò tutto il suo spessore umano e politico. Ma nemmeno lui poté impedire ciò che era inevitabile.

Del resto, guardi, tutto avvenne in maniera naturale. Non vi furono forzature. Chiaramente poi a suo tempo la cosa fu presentata quasi come una questione personale tra me e Pietro Nenni, ma tra di noi c'è sempre stata amicizia e una grandissima stima. La verità è che c'erano delle differenza sul piano ideologico e politico che erano insormontabili e che neppure gli avvenimenti che seguirono nel corso degli anni, e mi riferisco in particolare alle conseguenze del XX Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietico e alla divulgazione del testo di Nikita Kruscev, riuscirono mai a superare.

La verità, al riguardo, è che sapevamo tutti benissimo che cosa succedeva in Unione Sovietica. Ma questo non lo dico solo in riferimento alla adozione di una politica autoritaria da parte di Stalin: la questione era soprattutto di natura ideologica. La eccessiva burocratizzazione dell'apparato statale in Unione Sovietica aveva creato un sistema dove appariva quasi inevitabile si arrivasse a quelle conseguenze.

Intanto la vita politica del paese andava avanti e ci poneva davanti a delle scelte. Come leader del partito socialista democratico ho sempre riconosciuto la priorità della lotta parlamentare e la considerazione di ogni processo rivoluzionario sottoposto a quello che si ritiene necessario essere un contesto democratico.

La nostra fu una scelta netta e priva di ambiguità. Mentre il PSI non riuscì effettivamente mai a slegarsi completamente dal PCI così come dall'Unione Sovietica e finì per diventare un partito minoritario e dipendente dalla linea massimalista del PCI, che in Italia era il principale referente dei sovietici.

Ma la sua scelta, per quanto netta e priva di ambiguità non fu effettivamente una vera e propria svolta a destra?

S. Il mio orientamento politico è sempre stato rivolto a quello che è il pensiero marxista e al socialismo democratico. La mia scelta, per quanto anche dolorosa, fu netta e qualche cosa che ancora oggi non rimpiango nella maniera più assoluta: spostò in maniera decisiva l'asse delle scelte governative in una certa direzione, impedendo il possibile insorgere di derive verso destra che avrebbero in quel momento particolare potuto portare al ripetersi di situazioni da cui eravamo appena usciti.

Molti chiaramente criticarono e criticano ancora questa mia scelta, sono stato addirittura accusato di essere un fascista, ma penso che la mia assunzione di responsabilità sia stata importante in quel momento storico e anche per quello che riguarda l'adesione al patto atlantico che comunque ha rafforzato un blocco, quello occidentale, cui la storia ha dato in qualche maniera ragione rispetto a quello che accadde in Unione Sovietica.

Infine: no. Non mi sento colpevole per quelli che sono stati i fatti politici di queli anni, né per quelli che furono gli eventi molti anni dopo del Partito Socialista. A parte che io presi sin da subito una decisione netta rispetto al resto dei socialisti del nostro paese, a quel punto la mia fase storica e quella di altri uomini che fecero la storia del PSI come Pietro Nenni oppure Sandro Pertini si poteva considerare chiusa. Probabilmente quello che accadde in quel momento fu figlio delle tante divisioni interne al partito, ma ricercare delle colpe in figure del passato sarebbe sbagliato.

Mi sembra peraltro giusto sottolineare medie cose. Gli avvenimenti di quegli anni e quelle che possiamo considerare le 'derive' di un certo tipo riguardarono anche altri partiti politici e non solo il partito socialista.

4. Ha ricoperto per sette anni la carica più alta dello Stato ed è stato il primo socialista a ricoprire la carica di presidente della Repubblica. Che cosa ricorda di quei sette anni? Come ha voluto interpretrare il suo ruolo istituzionale? Peraltro lei è uno dei pochi che dopo avere ricoperto questa carica è ritornato a fare politica attivamente. Perché?

S. La mia nomina avvenne in un contesto particolare, perché il presidente uscente, Antonio Segni, dovette rinunciare alla carica a causa di problemi di salute. Peraltro ebbe un malore proprio durante una discussione con me e l'onorevole Aldo Moro.

Peraltro si era già parlato di una mia possibile nomina nel 1962, quando fu eletto proprio eletto proprio Antonio Segni. Nel 1964, invece, la scelta cadde su di me dopo una specie di 'scontro' - se così vogliamo dire - contro il mio amico Pietro Nenni. Per l'ennesima volta si parlò della rivalità tra noi due, ma alla fine fu proprio lui a sostenere in maniera diretta la mia candidatura.

Interpretrai gli anni della mia presidenza come avevo sempre considerato andasse svolto questo delicatissimo ruolo all'interno del sistema costituzionale: difendendo il ruolo centrale del parlamento e di cui rispettavo diciamo religiosamente l'azione.

Nel frattempo, è vero, mi adoperai personalmente nel tentativo di portare alla unificazione le forze socialiste. Tentativo che riuscì ma solo in parte e per un breve termine, perché dopo tre anni, il calo di voti alle elezioni politiche del 1968 comportarono una nuova scissione. Quella definitiva.

Finito il mio mandato, ritornai alla guida del mio partito per un breve periodo. L'ho fatto perché erano anni difficili e c'era bisogno di figure importanti di riferimento e io avevo fatto la resistenza, ero stato presidente della repubblica... Insomma si riteneva avessi un profilo importante e potessi essere la persona cui attaccarsi in un momento difficile e che peraltro era stato tra i fondatori del partito e tra i principali ispiratori del pensiero socialista democratico in Italia. Ma già allora il mio tempo era probabilmente passato: fu una esperienza breve ma nella quale comunque cercai di offrire la mia esperienza al servizio dei più giovani.

5. Con l'ultima domanda proviamo a costruire un ponte dal tempo passato fino ai giorni nostri. Perché la socialdemocrazia? Che cosa significava allora fare questa scelta e per quello che da osservatore è la sua idea, che significa essere socialdemocratico oggi? È sempre convinto che questa ideologia politica sia la giusta via al socialismo?

S. Intanto alla definizione di socialdemocratico, io ho sempre preferito quella di 'socialista democratico'. Il termine 'socialdemocrazia' può facilmente cogliere in errore e portare a sottovalutare il contenuto rivoluzionario del pensiero socialista democratico.

Perché il socialismo democratico? Perché avevamo capito che bisognava mettere al centro del processo rivoluzionario quelle che sono le libertà individuali e di conseguenza che si potesse pervenire al socialismo solo attraverso la democrazia.

Sono convinto peraltro che la storia mi abbia dato in qualche modo ragione. Lei mi chiede di costruire un ponte dal tempo passato fino ai nostri giorni. Ebbene, se c'è un ponte, questo è idealmente costituito dal pensiero socialista democratico, che oggi è ancora diffuso e costituisce una realtà in tutto il mondo occidentale. Compresi gli Stati Uniti d'America dove non a caso il principale leader del Partito Democratico è dichiaramente un socialista democratico.

Ma c'è di più. Penso che il fallimento del socialismo reale e dell'esperienza dell'Unione Sovietica ci abbiano insegnato molte cose sulla via giusta da percorrere per il socialismo e sulla importanza delle libertà individuali.

Oggi il mondo è molto diverso da quello che mi ha visto attivo sulla scena politica, ma sì, oggi più che ieri sono convinto che quella sia la giusta via da percorrere e a chi dice che non ci sono più ideali, rispondo di guardare dentro se stesso e di guardarsi attorno e di battersi in primo luogo per la democrazia, per le libertà individuali e la rivendicazioni dei diritti sociali. Un processo che può passare anche attraverso dei compromessi e se necessario anche spostando il baricentro secondo quello che si può ritenere una spinta centrifuga e la collaborazione internazionale con le altre forze democratiche, sia europee che gli stessi Stati Uniti d'America se necessario. Solo attraverso questo processo si potrà poi spianare la via al socialismo.

Presidente, ma quanto le ha pesato essere in qualche maniera considerato come l'uomo più odiato dalla sinistra italiana?

S. Mi ha pesato perché sono state dette delle cose sul mio conto che non corrispondono al vero e perché sono stato attacco anche su quella che era la mia vita personale e privata e purtroppo alcune di queste cose penso continuino ancora oggi a macchiare la mia immagine. Ma chi conosce la mia storia e chi sa come sono andate veramente le cose, penso che mi ricorderà come una persona coerente e soprattutto per quello che ho significato per il socialismo e la democrazia in questo paese. Questo peraltro vale anche per le persone che a suo tempo avevano idee politiche differenti dalle mie, a partire dagli altri appartenti al partito socialista con cui ci fu sempre uno scontro leale.

Ma alla fine con Pietro Nenni come vanno le cose adesso?

S. Come vuole che vadino. Stiamo sempre lì a litigare. Cane e gatto. Diciamolo pure ai nostri ascoltatori. In fondo ci sono miti che meritano di superare la prova nel tempo e se questo è un modo per ricordare sia me che Pietro Nenni allora va bene.

Con questa ultima domanda e un saluto ideale anche all'onorevole Pietro Nenni, concludiamo anche questa intervista.

Presidente io la ringrazio ancora per la disponibilità e auguro una buona serata a lei e a tutti i nostri ascoltatori. Ci vediamo alla prossima puntata.

S. Grazie a lei e a tutti gli ascoltatori. Buona serata a tutti.

'Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai.'

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editoriale di zaireeka

Oggi è Natale.

La “festa più bella dell’anno”.

Ne sono venuto a conoscenza un anno fa, tramite un forum non ricordo dove.

Da allora ho cercato negli archivi storici della Rete informazioni a riguardo.

Ho trovato delle pagine molto particolari, su cui la gente si scambiava gli auguri.

In un caso, risalente addirittura al dicembre di cento anni fa, davvero in una maniera molto originale e divertente.

A quanto pare celebrava una ricorrenza, forse storica, o forse no, forse qualcos'altro.

Su questo non sono riuscito a trovare ulteriori informazioni.

Mi sono iscritto a questo forum.

Chiedono solo una data, un numero di carta di credito, ed il gioco e’ fatto.

Oggi, 21 maggio, siamo qui con un altro milione di utenti in tutto il mondo che festeggiamo il Natale, scambiandoci auguri e regali.

E’ davvero “la festa più bella dell’anno".

Almeno di questo 2117.

Auguri a tutti.

Appendice del 23/12/2017

Lo ritengo un compleanno, quello di Gesù bambino, e come ogni compleanno ha una data fissa: ti faccio un invito e tu non vuoi venire, tutto qui... Il resto è un contorno💝

(@[Geo@Geo])

Bellissimo commento .. Forse vincere la morte nel messaggio cristiano significa proprio questo, continuare nei millenni a festeggiare una nascita. Grazie del passaggio, auguri ed un abbraccio

(zaireeka)

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editoriale di lector

Auguri di serene festività a tutti i DeBaseriani.

(Aziendale): DeBaser è lieta di augurare Buone Feste a tutti i suoi iscritti.

(Allitterazione): Auguri beneauguranti di festività festose. Sento che le debbo a voi DeBaserioti.

( @De...Marga...): Alegar bei fiol. Buon Natale da una nevosa Domodossola. Che poi, quel Natale lì, io l’ho visto due volte in concerto a Mezzago!

(Ossimoro): Che siano tranquillamente eccitanti le vostre laboriose festività, amorevoli DeBaseriani.

(Telegrafico): Pregiomi augurare Buone Feste-stop-DeBaseriani tutti-stop -

(Buzzin\ @Alfama): Nevosi alberelli luccicanti. Festanti DeBaseriani. Palle.

(Preterizione): Inutile dirvi per quali feste ed a chi sono dedicati questi auguri.

(Onomatopea): Dlìn Dlòn, gnam gnam, tpitiptip, lalala, sbùm, clap clap, bùrp.

(Ribaldo\ @Cialtronius): Annatevene a pijarvelo n’saccoccia voi e il Natale. Fighetti.

(Cameratesco): Impavidi affronteremo questi giorni che non temiamo. Cercheranno di piegarci, di abbuffarci, di blandirci, ma noi non cederemo. Mai!

( @Sotomayor): Cioè, io volevo dire che, tutto considerato e tenuto conto di quanto già detto in altre occasioni, senza per questo voler dimenticare il contesto e, sempre ricordando la lezione di certo cinema ed anche fatta salva la forza delle nuove leve della psychedelia californiana (ma considerando anche la sci-fi classica), ecco, credo di poter affermare e ribadire il mio concetto: Buone Feste.

(Ellissi): Auguri a tutti.

(Burocratico): Visto: l’avvicinarsi di un dato numero di giorni festivi. Visto: il riempirsi di dispense e frigoriferi ed affini. Tenuto conto: della quantità di sonno da recuperare. Considerato: l’assieparsi alle porte di nipoti, nonni, zie, parenti vari e correlati. Si decreta: di augurare ai debaseriani tutti Buone Feste.

( @Pinhead): qui

(Prosopopea): Le Feste si avvicinano a noi per donarci, lo auguro ai DeBaserioti tutti, pace e serenità.

(Depresso): Ok, divertitevi pure, voi, non pensate a me….

( @Sergio 60): auvguri…di sere nefestivta…a tuttti…i debwaseriani. Bella a Flanagan.

(Iperbato): Serene Feste, a voi DeBaseriani, auguro.

( @Flo): Vi ho voluto bene, bastardi. Auguri lo stesso.

(Pubblicitario): A partire dal 24 dicembre, allegato in omaggio per tutti gli iscritti a DeBaser, oltre ad un augurio di buone feste anche un esclusivo “Buon 2018”. Solo con DeBaser. Approfittatene!

(Apostrofe): Andate, miei sentiti auguri, nelle case dei DeBaseriani tutti.

( @Mikinicagi): Uno zaino protonico a Scrooge, un giro di basso decente ai Future of the Left. Woa, mica facile il mestiere di Babbo Natale! Che se non fosse Natale, allora tutti da Gino a farci un chinotto e giù gran manate sulle spalle. Invece tocca pensarci, tipo: una trama sensata per Scurati e per voi tutti cinque alto e una paccata di auguri.

(Allusivo): A chi so io, voi sapete cosa e sapete per quando….

( @Luludia & prole): Che gli alberelli illuminati sono malinconici come gli organetti del circo. Che, a Orsetto, è proprio quella melanconia che gli piace più di tutto del Natale. Ed anche alle ragazze furetto piace quella bruma spumosa. Che tutti gli auguri, poi, si dimenticano ma nell’aria rimane appiccicata la magia. Trallalla.

(Sineddoche): Nel giorno di festa, mille e mille auguri porgo al DeBaseriano.

(Metereologico): Previsto, per fine dicembre, l’arrivo di una estesa perturbazione che porterà sul DeB una pioggia di auguri. Più o meno graditi.

[ @NAB (m-l)]: Comunicato n°241 dal NAB: non ci può esser festa finché il proletariato continuerà ad essere sfruttato. Quando tutte le catene saranno spezzate, quando il DeB verrà liberato dai gioghi gerarchici che sbarrano la strada all'avvento di una nuova e futura umanità, allora festeggeremo. Guardatevi dal rammollimento borghese. Vigilate compagni!

(Giornalistico): Arrestato anziano lappone colto nel tentativo di introdurre illegalmente nel nostro paese giocattoli di provenienza sconosciuta.

(Zot): Auguri.

( @Odradek): Grassi indigesti e fritture pericolose. Dolci duri che attentano alla dentiera. Chiasso. Natale non è un paese per vecchi (cacacazzi).

(Cleuasmo): In fondo, chi sono io, per porgervi i miei auguri? Ma, sappiate, che sono sentiti.

( @Sfasciacarrozze): Deauguri ad iòsam a tutt_ i/le Debaserian_ dal vostro Sphascia(carrozam) di fiducia. Aiò.

(Finto giovanile): Bella lì, raga. Inutile sbalconare, ci aspetta uno sbattone. Giorni pesi, e allora scialla e tanti auguri al DeB. Evvai di like.

(Asindeto): Natale, vociare festante, scontata allegrezza, incontri. Auguri.

( @Imasoulman): “Come? ... pranzare in casa? | Pranzare in casa è male | Oggi ch'è la vigilia di Natale!” (La Bohème). Che Wittgenstein mi perdoni….

(Elettorale): Una proposta chiara: Auguri per tutti!

( @Heartshapedbox): qui

(Anacoluto): Si sa che a noialtri DeBaseriani, ci piace di farci gli auguri.

(Il Conte): Tanti nobili auguri a tutti. Vabbé, però adesso mi emoziono…. Sono grande e grosso e pure sensibile e posseduto dai demoni del blues.

(Preciso): augùrio s. m. [dal lat. augurium, der. di augur «augure»]. – 1. a. In senso proprio, la cerimonia con cui gli àuguri ricavavano presagi dall’osservazione del volo degli uccelli o da altri fenomeni; anche, il presagio stesso. b. non com. L’arte divinatoria degli àuguri. 2. Presagio in genere, indizio, previsione di eventi buoni o cattivi: essere di buono, lieto, felice, o di cattivo, tristo, sinistro a.; questo fatto mi pare di ottimo a.; le sue parole mi suonano di pessimo a. (v. anche malaugurio). Quindi anche presentimento: Or tristi auguri e sogni e penser negri Mi danno assalto (Petrarca). 3. Desiderio che accada qualcosa di bene, e l’espressione stessa di questo desiderio: formulare un a.; a. di felicità, di buona fortuna; ti faccio l’a. di guarir presto; gradisci i miei più sinceri augurî; cerca di riuscire: questo è il mio a. più cordiale. Inoltre: fare, porgere, mandare, inviare gli augurî; lettera, cartolina, biglietto di augurî, per le maggiori solennità o per qualche avvenimento particolare, come compleanno, onomastico, matrimonio, ecc. (e in questi casi si adopera sempre al plurale). [fonte: Dizionario Treccani online]

No, non ne faccio 99, in fondo queste sono esercitazioni, mica esercizi (di stile).

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editoriale di sotomayor

Rieccoci in collegamento dal nostro studio radiofonico per una nuova intervista di cinque domande a un personaggio impossibile e che è passato alla storia per il suo contributo rilevante a quello che possiamo considerare come il grande viaggio della nostra specie.

Ricordiamo che tutto questo è reso impossibile dalla speciale strumentazione in dotazione al nostro studio e dai nostri tecnici, che con la loro perizia ci permettono questa occasione unica di potere entrare in contatto diretto con il mondo dei morti. Parlare con i morti per parlare della loro vita e ricordare a tutti i nostri ascoltatori che la vita è bella, ma non è mai perfetta.

Questa volta sono, come dire, felicissimo di introdurre il nostro ospite speciale. Un personaggio che sicuramente tutti gli appassionati di calcio conosceranno e riconosceranno come una delle stelle più luminose che hanno fatto la storia di questo sport.

Parlo di Manoel Francisco dos Santos meglio noto come 'Garrincha'.

Mané è nato a Magé nello Stato di Rio de Janeiro il 28 ottobre 1933. Ala destra. Fu uno dei giocatori simbolo del Botafogo, uno dei club più importanti del paese, e in particolare della Nazionale brasiliana con la quale giocò più di dieci anni, collezionando 50 presenze e 12 reti, ma soprattutto vincendo due edizioni della Coppa del mondo.

Deceduto a Rio de Janeiro il 30 gennaio 1983 all'età di soli quarantanove anni, ancora oggi Garrincha resta uno dei giocatori di calcio più amati dai brasiliani. Forse più dello stesso Pelé.

Per me che sono un grande appassionato di questo sport, possiamo dire che intervistare Garrincha costituisce una opportunità unica.

Benvenuto Mané.

G. Buonasera a tutti.

Vi ringrazio per avermi invitato. È sicuramente molto strano per me, dopo tutto questo tempo, ricevere tutta questa attenzione. Ma sono molto contento. La considero una opportunità per, come dire, parlare di calcio e del mio calcio ai più giovani che magari non mi hanno mai visto giocare. Quindi va bene. Va benissimo così.

1. Cominciamo con la prima domanda. La storia ci racconta che sin dalla nascita tu sia stato afflitto da diversi difetti congeniti: strabismo, la spina dorsale deformata, uno sbilanciamento del bacino e sei centimetri di differenza in lunghezza tra le gambe nonostante un interento chirugico correttivo. Una malformazione dovuta alla poliomielite che praticamente avrebbe dovuto impedirti di giocare al calcio e invece... Molti sostengono tu avessi una andatura sbilenca e che quelli che avrebbero dovuto costituire dei limiti in realtà fossero i punti di forza e il segreto del tuo dribbling. Che cosa c'è di vero in tutto questo?

G. Tutto quello che hai detto corrisponde alla verità. Sono nato in una famiglia molto povera e credo che se pure ci fossero state delle cure a quei problemi, non avrei potuto accedervi. Mio padre, che discendeva da una tribù di indios dell'Alagoas, pensò allora di curarmi secondo i metodi tradizionali della sua gente e somministandomi una mistura a base di cachaca, quella che voi chiamate 'acquavite'. Ma chi lo sa se questa abbia veramente avuto effetto.

Ma non lo so se questi problemi siano stati per me un vantaggio come calciatore. Alcuni dicevano effettivamente che avessi una andatura particolare e poiché da bambino ero anche molto piccolo una delle mie sorelle cominciò a chiamarmi 'Garrincha’. Un piccolo passerotto.

Quello che posso dire è che penso di essere stato fortunato. Non sono mai stato molto religioso ma ecco possiamo dire che io abbia ricevuto una specie di dono del signore. Sapevo giocare a calcio. Sapevo giocare a calcio molto bene.

Alcuni dicono che Dio ti toglie delle cose e te ne dà delle altre. Io non lo se questo sia vero, ma nel mio caso è andata veramente così.

2. Mané senza dubbio sei stato un grandissimo calciatore. Universalmente sei considerato come uno dei giocatori più forti di tutti i tempi. Alcuni critici e storici del gioco del calcio ti considerano anzi proprio come il più forte calciatore di tutti i tempi alla pari di Pelé e di Diego Armando Maradona. Che cosa ne pensi di questo confronto? Ti sembra troppo impegnativo?

G. Intanto voglio dire che essere accostato a due grandi del gioco del calcio come Pelé e Maradona mi fa molto piacere. Parliamo di due calciatore che come me sono stati degli spiriti liberi sul campo da gioco. Due calciatori che avevano una grande fantasia e che giocavano per i tifosi e per la loro gioia oltre che per se stessi. Però non ti posso dire molto su Maradona perché dopo che ho smesso di giocare non ho più seguito tanto il calcio. Ho chiuso quella pagina della mia vita, ma mi è dispiaciuto perché allo stesso tempo anche il mondo del calcio ha chiuso con me e sono stato in qualche modo dimenticato.

Non penso comunque che questo paragone sia troppo impegnativo. Sono stato un calciatore, come dire, abbastanza bravo da reggere il confronto.

Ma Pelè era veramente così forte come dicono?

G. Pelé era fortissimo. Chi sostiene che sia sopravvalutato allora non lo ha mai visto giocare. Ha segnato più di mille goal, ha vinto tre Mondiali... Pelé è il calcio e giocare con lui era fantastico.

Quando abbiamo giocato assieme con la maglia amarella non abbiamo mai perso. Ma del resto io ho perso una sola partita con la Nazionale brasiliana. L'ultima. Nel 1966 contro l'Ungheria...

3. Il 1966 è stato il tuo ultimo Mondiale, ma si può dire che in quel momento tu fossi già in una fase calante della tua carriera? Allo stesso tempo possiamo dire che il tuo momento migliore sia stato invece il Mondiale del 1962 in Cile?

G. Probabilmente questo è successo anche a causa dell'infortunio di Pelé.

Parlo del Mondiale del 1962 in Cile.

Chiariamoci. Non voglio dire che questo fu una fortuna. Anzi. Però dopo l'infortunio di Pelé, dato che c'erano comunque grandissime aspettative nei confronti della squadra, ognuno di noi ha dovuto caricarsi sulle spalle una responsabilità ancora più grande. Così penso che durante quel Mondiale io abbia offerto le migliori prestazioni della mia carriera: la squadra puntava molto su di me e le mie giocate e alla fine sono stato capocannoniere e il migliore giocatore del torneo.

Purtroppo da quel momento in poi ho cominciato a essere bersagliato dagli infortuni.

Ho fatto tutto quello che potevo per continuare a giocare, perché avevo bisogno di soldi, perché non potevo stare lontano da un campo di calcio. Avevo bisogno di giocare perché il calcio per me era motivo di gioia e era motivo di gioia per tutti quelli che tifavano per me e questo mi dava una carica incredibile. Il calcio era la mia unica vera ragione di vita.

Quando ho dovuto smettere definitivamente è stato tutto più difficile.

4. Ci parli della tua relazione con Elza Soares? Fu una relazione molto discussa. Così come il vostro trasferimento in Italia nel 1969. Cosa ricordi di quegli anni in Italia?

G. Elza era una donna bellissima e una grande artista e che per me ha fatto molto. Molto più di quanto io abbia fatto per lei.

Fu lei a insistere perché io mi rimettessi in piedi per giocare i Mondiali del 1966.

Si prese cura di me anche dopo la morte di Donna Rosaria (Ndr. La madre di Elza Soares, morta in un incidente stradale, mentre alla guida dell'automobile era proprio Garrincha.) e durante tutti gli anni che abbiamo passato assieme. Anche nel periodo che abbiamo passato in Italia. Mi è stata accanto fino all'ultimo giorno.

Molti dicono che siamo venuti in Italia perché io ero in depressione e avevo problemi con l'alcol, ma in verità questo è successo perché in Brasile c'erano i militari e gli artisti come Elza non erano ben visti. Non è stata l'unica artista brasiliana che è venuta a stare in Italia durante quel periodo.

Non ricordo però molto di quegli anni nel vostro paese: non è stata una fase felice della mia vita. Mi sono rimasti solo ricordi confusi. Forse ho voluto semplicemente dimenticare.

Per quanto riguarda Elza poi è finito tutto. È stata colpa mia, spero che almeno dopo tutto questo tempo mi abbia perdonato e conoscendola so che deve essere così.

5. Possiamo parlare di come tutto è finito Mané? So che è un argomento delicato, ma spero tu non abbia problemi a parlarne oggi dopo tutto questo tempo. Dopo la rottura definitiva con Elza Soares, la tua situazione di salute, mi riferisco alla depressione e ai problemi di alcolismo, si aggravarono ulteriormente fino alla tua morte. Sei morto triste, malato e completamente in solitudine. Eppure quando giocavi eri 'la gioia del popolo', il calciatore che ha regalato più allegria di chiunque altro quando calcava un campo di calcio. Un giornalista italiano (Ndr. Franco Rossi.) ha scritto che tu sei più amato di Pelé dai brasiliani. Perché Pelé è quello che i brasiliani vorrebbero diventare, mentre tu sei esattamente come loro sentano di essere. Che loro si identificano con te. Che ti considerano uno di loro. Perché sei morto da solo e dimenticato da tutti allora?

G. Parlare di problemi come la depressione è qualche cosa di difficile per tutti ancora al mondo di oggi a più di trent’anni dalla mia morte.

Penso di essere sempre stato triste. Ho sempre avuto una specie di buco dentro, ma quando giocavo a calcio, quando giocavo davanti a tutti quei tifosi che facevano il tifo per me, io mi sentivo speciale. Loro erano felici, io ero felice. Ero veramente 'la gioia del popolo'.

Quanto tutto questo è finito non avevo più niente e provavo a riempire questo vuoto con le donne, ne ho amate tante, mi piacevano le donne. Con l'alcol. Ho cominciato a bere e fumare quando ero solo un bambino. Ma niente mi aiutava veramente a colmare quella sensazione di vuoto.

Durante gli anni in cui giocavo, il calcio mi spingeva a stare lontano da queste tentazioni, dava veramente senso alla mia vita, ma quando tutto è finito e dopo l'incidente e la morte di Rosaria, Garrincha non è stato più la gioia del popolo. Anzi non c'è stato più nessun Garrincha, quello era rimasto su qualche campo da calcio alla ricerca di se stesso, mentre Mané è rimasto solo e Mané era triste e depresso.

Ma penso che i brasiliani mi abbiano voluto bene e mi vogliano bene ancora oggi e questo per me significa molto, perché significa che loro lo sanno che io ho giocato per la loro gioia e che la loro gioia era la mia, perché eravamo tutti tristi e avevamo bisogno di vedere rotolare quel pallone nel quale c’erano dentro tutti i nostri sogni. C’era un legame speciale tra me e loro e che anche il tempo non potrà mai spezzare.

Mané, ti ringrazio molto per questa intervista e perché oltre che parlare di calcio, ci hai aperto il tuo cuore e parlato di temi molto difficili.

Permetti? Se non ti dispiace, prima di salutarti, vorrei darti un abbraccio.

G. Perché no...

(Ndr. Il conduttore e Mané si alzano dalle rispettive postazioni e si stringono in un abbraccio fraterno.)

Con questo abbiamo chiuso anche questa intervista impossibile.

Dalla nostra postazione è tutto. Da parte mia, di Mané e di tutto lo staff tecnico che ha reso possibile la trasmissione, un augurio di buona serata a tutti gli ascoltatori.

G. Buonasera. Ciao. Deus vos guarde.

'Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai.'

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