editoriale di perfect element

Si è formato all' improvviso, dal nulla.

Possiamo definirlo figlio di imperizia o di un cedimento strutturale.

Niente di così esagerato, beninteso, una circonferenza, però, bastante a causare danni fisici, nel caso di una caduta o a lasciarci uno pneumatico se si viaggiasse a velocità sostenuta.

Per una settimana è rimasto nel totale anonimato. Successivamente, presumo su segnalazione di qualche solerte residente, la municipalità ha inviato una pattuglia di civich a presidiare il sito, senza soluzione di continuità.

La procedura in questione non rispetta il luogo comune secondo il quale ssendosi, il buco, creato in una strada consortile e quindi di scarso rilievo, avrebbe dovuto essere dimenticato.

In secondo luogo, posso solo immaginare con grande sforzo la solitudine della valente, nonché pregna di abnegazione, coppia di poliziotti comunali, votati alla causa come solo il soldato fascista a guardia della tanica di carburante soleva essere. Me li dipingo immersi nei propri pensieri, indecisi se approfittare dell' intelligent bonus del concessionario di fiducia e cambiare l'auto o sputtanarsi il gruzzolo tra le sale slot e quelle di scommesse sportive, tra un commento sul mercato calcistico di riparazione ed un insulto al V.A.R.

Poi, senza preavviso, dopo solo una settimana di bivacco, decisione tranchante, una bella ' nata ' gigante per colmare il buco, sporgente e sgraziata, ma utile alla bisogna, con tanto di transennamento in grande stile e lume segnaletico intermittente.

Sono trascorse tre settimane da allora....

.... To be continued

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editoriale di ThorsProvoni

(Avviso ai naviganti: prima di iniziare a leggere questa pagina di diario, è bene andare a guardare qui, dove è spiegato ciò di cui si tratta)

4 dicembre 2015

Quanto tempo è che non mangio un panino integrale ai cereali con la mortadella? Quel profumo di buono e genuino! Come quello dell'aria fresca del mattino, quando la notte è stata fredda e il sole arrossa l'oriente. Le camminate per i viali della mia città, la brina sulle auto, le mani in tasca per non congelarle e la sciarpa tirata fin sul naso. L'odore di cappuccini e brioche che esce dai bar in quell'attimo in cui un cliente apre la porta per venire fuori dopo aver fatto colazione. Maledizione!

Sono stato tra quelli che non hanno creduto al governo che consigliava di andare nelle zone 'sicure’ (vorrei sapere quanti di loro lo hanno fatto, bastardi!). E quindi eccomi qua, barricato in casa, costretto più dalla paura che da una necessità vera, perché io di persone strane ne ho viste veramente poche. Ma non bisogna fidarsi più di nessuno. Ho letto in questi giorni notizie di gente che invia offerte di aiuto, comunità di sopravvissuti che invitano a raggiungerli in posti sperduti. Tu ti fideresti? Spesso sono amici blogger con cui fino a pochi mesi fa si discuteva di libri, ci si scambiava storie. Ma ora? Ora che basta poco per essere infettati, che l'incubazione dura un paio di settimane e ci vogliono almeno due mesi per essere sicuri che un volontario della Croce Rossa non si sia tramutato definitivamente in Giallo? Beh, preferisco starmene rintanato in casa.

Ho fatto una grossa scorta di alimenti conservati, barrette energizzanti, acqua minerale. La corrente elettrica, per fortuna, va ancora abbastanza normalmente (te l'avevo detto che la mia è quasi un'isola felice) e io posso tenermi aggiornato con quello che resta della rete e dei blog. Per adesso le giornate passano, lente, ma passano.

Finalmente ho il tempo di fare una cosa che ho sempre avuto voglia di fare. Lo so, è stupido, anche tenendo conto anche del fatto che sicuramente nessuno la leggerà, visto che siamo destinati all'estinzione, o meglio a lasciare il posto a esseri privi di un'anima, di una coscienza. Sto scrivendo la mia autobiografia. Quante cose tornano alla memoria riandando indietro! Di quante persone ritrovi i volti e le vite! Forse questa maledizione chiamata pandemia non è poi tanto disgraziata, almeno se non devi fuggire continuamente come Alex, Glauco, il Vampirologo, Luca. Ti lascia tutto il tempo di pensare, ricordare, magari piangere per un occasione persa, per una persona andata. Se alla fine di questa storia tutto potesse tornare come prima, penso che molti di noi avranno deciso di cambiare vita. O forse resteremo gli stessi bastardi di sempre, se è vero che la natura umana è corrotta.

Ho letto di Ariano. È forse l'unico che apertamente dice di aver cambiato idea sulla realtà del mondo. Dice che questa nuova umanità, in cui imperversano e dominano dei semiuomini, più vicini alla scimmia che all’homo sapiens, è il futuro e noi dobbiamo adeguarci. Che questa è la nuova razza umana, dove l’istinto prevale sulla ragione.

Alex scriveva, una delle ultime volte che sono riuscito ad avere sue notizie, che questi Gialli sono quasi inattivi a temperature molto basse. E Glauco raccontava di un Giallo che, semicongelato, non ha reagito all’attacco di un uomo e si è lasciato tirare giù a calci. Magari per ricominciare dovremo inventarci un mondo sotto congelamento, almeno fino a che l'ultimo mutante non sia stato scoperto ed eliminato.
Proprio Alex ha messo a disposizione il suo blog per tutti quelli che vogliono lasciare un messaggio, per far sapere che sono ancora vivi.

Alla fine, però, voglio rischiare. Vedo l'alba dalla finestra della mia cucina. È troppo bello.

Ho preparato il cappotto e la sciarpa di là, sul divano in sala. A monte tutto! Devo ricominciare a vivere! Magari là fuori scoprirò che si può anche stare; magari mi accorgerò che di Gialli ce ne sono pochi o niente, e che basta farsi i fatti propri per essere lasciato in pace. Voglio rendermi conto, vedere con i miei occhi. Tra due minuti sarò fuori. Che qualche dio o la mia buona stella mi proteggano. Ora mi vesto e apro la porta.

Domani ti racconterò quello che ho fatto e quello che ho trovato per la città.

È arrivato il momento di … cos'è … un rumore, dal piano di sopra, sembra un tramestio concitato, un grido soffocato, qualcuno che …

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editoriale di ThorsProvoni

(Avviso ai naviganti: prima di iniziare a leggere questa pagina di diario, è bene andare a guardare qui, dove è spiegato ciò di cui si tratta)

26 Novembre 2015

Oggi sono fortunato, perché c’è la corrente elettrica e qualche satellite lassù è così buono da rimandarmi uno sprazzo di collegamento alla rete.

Così ho deciso di raccontare, da oggi in poi, quel che succede qui da me. Ho pensato che è giusto farlo perché resti memoria di quello che è accaduto e continua ad accadere in quello che è rimasto del mondo che ha ospitato l’umanità finora. O almeno l’umanità come l’abbiamo conosciuta e i libri di storia che l’hanno raccontata.

Ho pensato a questo proprio oggi, leggendo il blog di Alex. Abbiamo sempre pensato alla rete come ad uno spirito cattivo, madre di tutti i mali, quasi il demonio personificato, il pericolo pubblico n. 1 per la nostra gioventù e per tutti gli spiriti deboli. E invece si sta dimostrando l’unico mezzo che abbiamo per sapere quello che succede in giro, per tenere un filo di rapporti con quelli che fino a ieri erano il nostro mondo, seppur virtuale.

Il mondo dopo la pandemia ha abolito il “noi”, ha ucciso il vivere comune con tutte le sue espressioni, dai giornali ai libri. Oggi siamo tutti “io” e tutti vaghiamo alla ricerca di un modo per sopravvivere, per arrivare a sera con la pelle ancora attaccata alla carne e alle ossa.

Così la memoria del futuro, se ce ne sarà ancora uno per l’uomo, è legato ai blog che ancora funzionano, che registrano le vite delle singole esistenze alle prese con la lotta quotidiana. E magari così scopri che vicino a te c’è ancora qualcuno e che sarebbe anche contento di vederti, di raggiungerti, magari per ricominciare.

Glauco, per esempio. È riuscito a salvare la pelle con altri due, ma ha dovuto sopprimere la sua compagna quando ha scoperto che era infetta.

E dimenticavo Ferru. Starebbe organizzando una sorta di centro di resistenza in montagna, dalle sue parti. Lui tiene i collegamenti, dal suo blog, con eventuali altri gruppi di sopravvissuti; riesce ancora a gestire il suo sito con mezzi di fortuna, collegandosi sempre da un posto diverso, per non farsi rintracciare dai Gialli. Nessuno conosce ancora di preciso le loro potenzialità, quindi è meglio essere cauti e non esporsi troppo.

Non so a chi dovrò inviare queste mie mail. Non conosco nessuno al di fuori dei blogger che stanno cercando di sopravvivere come me. E poi ormai tutto il mondo è in questa mia stessa situazione, quindi conosce la realtà. Qualche tempo fa, ormai sono passati anche degli anni forse, un mio amico mi installò sul PC un programma che cercava indirizzi, mi sembra che l’abbia chiamato ‘randomizzatore’ , Mi affiderò a quello e sarà lui a scegliere il destinatario. Speriamo che chi legge ne faccia buon uso.

Sta scurando e c'è una strana neve rosa. Speriamo non sia infetta anche quella.

Per la storia, sono le 22,18 e sono ancora vivo.

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editoriale di ThorsProvoni

Ecco.

Da domani inizierò dalle sacre pagine (è pura piaggeria…) di DeBaser la (ri)pubblicazione di un mio blog book, un racconto pubblicato a puntate su un mio vecchio blog Survival Blog: Cronache da un altro mondo.

La sua particolarità è che faceva parte di un ‘progetto di scrittura’ (come dicono quelli bravi) iniziato da Alessandro Girola nel 2010, per la precisione il 26 novembre. In pratica su uno scenario prestabilito (più sotto il link esplicativo) ogni partecipante scriveva la storia dal suo punto di vista, sia che si intersecasse con un'altra sia che fosse totalmente autonoma.

Il progetto durò da quella data fino al gennaio – febbraio dell’anno successivo (qualcuno terminò prima, qualcuno dopo)

A questo link troverete tutte le informazioni che servono per capire il tipo di racconto; per scoprire chi sono stati gli altri partecipanti; di cosa parla la/le storia/e; di come a volte le storie si sono intrecciate; come poi tutto questo è diventato un libro; come altri ne hanno fatto dei libri ‘in proprio’ a partire dalla loro storia, ecc. ecc. .

Qui trovate scenario, cronistoria e ambientazione del Survival Blog, potrete cioè brevemente prendere visione della cronologia che ha portato a quegli eventi; avrete notizie sul Prione Lee-Chang; vi farete insomma un'idea del tutto: una specie di gioco di ruolo letterario.

A memoria di chi partecipò al blog book, fu il primo esperimento del genere in Italia su questo tema survivalistico (ci fu anche una polemica con un altro gruppo che dopo qualche mese iniziò una storia simile, ma non mi sono mai interessato alla questione).

L’unica cosa importante da sapere prima di (se volete) iniziare a seguire la storia è che questa si svolge in quello che allora era il futuro, cioè nel 2015. Essendo ora noi, se non sbaglio, nel 2018 bisogna tenerne conto per comprendere alcune cose che forse vedrete e leggerete.

(NB: la foto è quella 'ufficiale' del Survival Blog, tratta dal sito di Alessandro. Non so di chi siano -se ce ne sono- diritti d'autore).

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editoriale di Flame

Io odio me stesso!

Magari esagero un po’, diciamo che non mi sopporto più, ecco. Questo si. E più passa il tempo più trovo insopportabile ciò che di me non sopporto.

È una sensazione strana, è come avere due livelli di me stesso. Uno che si astrae dal reale e passa il tempo ad irritarsi per quel che fa l’altro, ciò che rimane sulla terra in seguito all’operazione di astrazione, e a bacchettarlo senza pietà. Probabilmente è anche una situazione un po’ malata. Ma non vado mai troppo a fondo in questa direzione con l’autoanalisi. Mi fa un po’ paura il pozzo nero in cui mi toccherebbe immergermi, e poi ho come la sensazione che ne uscirei conciato malissimo.

I miei piedi.

Odio i miei piedi!

Protuberanze bislunghe che si estendono ben oltre l’idea che il mio cervello si è fatto di loro. Li odio perché sono i miei piedi lo strumento preferito dalla mia goffaggine per manifestarsi nel mondo. Mi capita spesso di inciampare in oggetti, piedi o garretti di altre persone che con la mente avevo calcolato di scansare con un bel po’ di margine. Mi capita a volte di trascinarmi a presso tappeti, tavolini, e quando mi dice veramente male, di rovesciare per terra cose che per nulla al mondo avrei dovuto rovesciare, o di calpestare alluci e calli che mi sarei dovuto guardare bene dal calpestare.

Odio i negozi di scarpe!

Odio i negozianti dei negozi di scarpe!

Donne!

Nella maggior parte dei casi si tratta di donne!

Donne avvizzite e acide, per la precisione, capaci di una flemma esasperante per uno che vuole sbrigare la pratica il più in fretta possibile. È questo il quadretto nel negoziante tipo di negozio di scarpe che ho in testa, ce lo hanno ficcato dentro decine e decine di passate esperienze poco piacevoli.

“Buon giorno signora, mi piace un modello che ho visto in vetrina, quello nero in alto sulla sinistra, lo vede? Si, brava, quello li! Porto il quarantacinque.”

“a si ho capito, è molto bello in effetti, mi ha detto che porta il quarantacinque, vero?”

E a questo punto il copione di solito prevede che entri in gioco la flemma esasperante di cui dicevo, se ne arma la negoziante per controllare una ad una un gruppo di scatole dello stesso tipo ordinate su varie pile, in cui lei sa già non esserci il numero che le ho detto.

“Il quarantacinque ha detto?, uhmmm, è un bel piede il suo!...”.

Maledetta!

“… mi spiace, ho paura di non averne più di quel numero. Eh già, non ne ho proprio più.”.

Mai! Mai, che mi sia capitato di trovare il mio numero di un modello di scarpa che mi va a genio in quei dannati negozi. Poi arriva l’ultima parte del copione, che difficilmente mi viene risparmiata. La più odiosa. Quella che mi ricorda, nel caso fossi riuscito a non pensarci più, che noi popolo calzante numeri importanti veniamo considerati dal mondo delle calzature dei fenomeni da circo.

“Con quel numero mi sono rimasti questi modelli qua, vede? Sono molto belli anche questi, magari c’è qualcosa che le può interessare.”

Sono belli le palle, vecchia megera! Tutta roba bruttissima, fatta apposta per esasperare alla vista la già insopportabile lunghezza dei miei piedi. Ma dico io, se voglio un paio di scarpe dove devo andare, dal gommista?

Odio i fabbricatori di scarpe!

Li odio perché se i modelli che mi vanno bene sono così orrendi è colpa loro. C’è da giurarci che si siano messi d’accordo per utilizzare le persone con piedi bislunghi come cavie per le loro sperimentazioni più ardite su forme e colori.

Ma più della mia goffaggine odio la mia misantropia.

Probabilmente questa mia caratteristica è quella che maggiormente mi porta pena nella vita. Aziona contemporaneamente tutte le mie contraddizioni. È come fosse un vortice da cui è difficile uscirne. Le sue spire sono come una gabbia soffocante che serra la mia mente, a volte riesco a risalire un po’, altre volte mi trascinano più a fondo.

Odio la folla!

Non sopporto stare in luoghi affollati, in quelle situazioni la gente mi sta sull’anima più mai, e quando mi sorprendo ad odiare la gente mi do ai nervi da solo. Quante volte ho mandato al diavolo il mondo intero per poi trovarmi subito dopo a dirigere verso me stesso tutto il rancore che provavo contro il mondo, perché mi realizzavo che in fin dei conti quello che sarebbe dovuto andare realmente al diavolo ero io.

Odio chi si fa i cazzi degli altri!

Li odio non per il fatto in se di farsi i cazzi degli altri, e in certi casi quindi anche dei miei. Di questa loro attitudine non mi frega nulla. Li odio perché più di altra gente mi mettono davanti alla mia misantropia, e io non sopporto la mia misantropia. Sono incapace di provare alcun interesse per la vita delle altre persone, successi, fallimenti, fortune, disgrazie, anche dei miei amici più vicini. Potrei vivere mesi, anche anni, all’oscuro delle vicissitudini della vita di persone a me vicine e senza neanche accorgermene. Poi capita di incontrarle queste persone, e scopri che di te sanno tutto, e loro, scoprendo che per quel che ti riguarda invece di loro non sai nulla, e che non sai nulla manco di altra gente, fatti di cui è impossibile non essere venuto a conoscenza, queste ti guardano come se fossi uno fuori dal mondo, un disadattato.

“Avrai certamente sentito di quel che è successo a … (chessò) … Sempronio. Che ne dici?”

“……..?”

“Ma come fai a non saperlo? Lo sanno tutti!”

Io non so neanche chi sia Sempronio! C’è scritto forse da qualche parte che per essere accettati dalla società occorre tenersi informati su quel che è successo a Sempronio? Che lo si stabilisca per legge allora e lo si insegni a scuola, così uno impara la lezione da bambino, e non si ritrova da adulto ad essere incapace di fregarsene qualcosa del mondo.

Odio gli orsi!

Li odio perché odio me stesso, ed io sono quel che si dice un orso.

Torna no?

Escludendo le persone a me care, nella mia vita mi è capitato molto raramente di incontrare persone la cui compagnia fosse per me piacevole. Non so portare esempi in questo momento. Ricordo di averne incontrate di queste persone ma essendo passato davvero molto tempo dall’ultima volta che è successo le ho dimenticate tutte. Di norma la compagnia di altre persone non mi porta altro che noia, e anche la seccatura di dovermi impegnare nella conversazione, attività che trovo tra le più noiose che ci possano essere.

Quando faccio il punto della situazione sul livello raggiunto dalla mia misantropia mi viene sempre in mente un fatto che ritengo particolarmente strano ma che non centra nulla con l’analisi su me stesso. Trovo interessanti i chiacchieroni. Persone a cui piace sentire il rumore della propria voce, che intendono la conversazione come una forma di comunicazione ad una sola via. Quando mi capita di parlare assieme ad una di queste persone finisco immancabilmente a fare dei gran esercizi per il collo, brevi movimenti rotatori in su e giù con il capo in successione ad intervalli regolari, finalizzati a informare il mio interlocutore che sto prendendo atto di quel che mi sta dicendo. Ed intanto la mia mente approfitta del tempo libero a disposizione per visitare luoghi sperduti della mia fantasia, posti in cui normalmente non avrebbe il tempo di andare.

In quelle situazioni non è necessario prestare attenzione alle parole dell’altra persona, qualche “si” ogni tanto, magari intervallato ad un “certo” a macchie di leopardo, basta a farle credere che si reputa interessantissimo il suo discorso.

I chiacchieroni mi interessano da diversi punti di vista. Ad esempio, non so perché trovo molto buffa la loro convinzione che tutto ciò che capiti loro nella vita sia estremamente interessante per gli altri. Ricordo che un tizio una volta prese a parlami dei problemi che la sera prima della nostra conversazione aveva avuto ad evacuare prima di andare a letto, e di come la cosa lo avesse preoccupato dato che per tutta la giornata non vi era riuscito e lui si faceva un vanto della sua regolarità. Ricordo l’enfasi che metteva nel parlarne, il gusto che provava. Queste persone mi affascinano probabilmente perché sono così diverse dal mio modo di essere. Come si fa a pensare che ad un’altra persona possa fregare qualcosa dei propri problemi intestinali? Occorre, credo, tenere se stessi in grande considerazione. È qualcosa che ame manca del tutto.

Non si direbbe, potrebbe affermare l'eventuale lettore, visto che mi stai sfracellando le glorie da circa mille righe a questa parte con i razzi tuoi.

Ma io sono anche molto incoerente, contraddittorio, illogico ... sono altri mie difetti.

E li odio tutti, tranquillo eventuale lettore.

Va beh, era una riflessione così, che non centra nulla con il resto.

Odio le mie sopracciglia!

Un unico tappetino folto sopra gli occhi, perennemente spettinato.

Odio il vento!

Lo odio perché quando soffia di solito ama insinuarsi tra i capelli di capelloni e donne, ma nel mio caso invece ama insinuarsi nelle mie sopracciglia … caz..!

La caratteristica che però più odio di me stesso e il mia attitudine a vivere costantemente con la testa tra le nuvole. Odio quest’attitudine perché è con questa più che con altre mie caratteristiche che riesco a ficcarmi nelle situazioni più seccanti nei rapporti con gli altri. Mi perdo i particolari nella vita reale, li semino come fossero noccioline in un sacco bucato che mi porto tutti i gironi in giro in spalla. I particolari sono importanti, possono rivoltare la percezione della realtà come un calzino. Le tonalità di grigio, l’ho provato sulla mia pelle, sono più pericolose del bianco e del nero, perché esercitano il loro potere in modo subdolo, sotterraneo.

Se non se ne tiene in debito conto le conseguenze della loro azione, come ramificazioni di un male oscuro, procedono indisturbate, si moltiplicano, non lasciano scampo. La conseguenza è la caduta del proprio mondo, delle proprie certezze, in un lampo, quando meno ce lo si aspetta, nel momento più sbagliato, quando non c’è più nulla da fare. Facendosi un’idea su di una questione senza avere a mente tutti i particolari si può arrivare a ritenere di essere dalla parte della ragione in modo evidente e ad agire sulla base di questa convinzione.

Ed è un bel rischio, perché basta una data sbagliata, una riga a margine non letta molto tempo addietro per negligenza, e ci si può trovare un attimo ad avere completamente torto.

C’è però qualcosa che amo da matti.

Inizia per effe.

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editoriale di pier_paolo_farina

L'altro ieri se n'è andato da questo mondo uno bravo della chitarra: "Fast" Eddie Clarke.

Polmonite, 67 anni.

Gran bel musicista: fluido, melodico, profondo, intelligente.

Così nessuno dei Motorhead storici è riuscito ad arrivare alla vecchiaia, sacro e crudele tributo alla legge del vero rock'n'roll.

Ho un ricordo indelebile di Clarke, un concerto Motorhead al palasport di Bologna, sarà stato il 1981. Non tanta gente ad assistere, però molto agitata.

A un certo punto qualcuno gli tira un razzetto, di quelli usati per giocarci a cogliere i bersagli contro il muro.

Lo prende ad una coscia, sotto la chitarra. Gli si infila proprio nella carne, rimanendo un attimo a penzolare sui jeans.

Lui s'incazza molto e manda occhiate infuocate alla platea pogante, poi gli passa, e riprende a suonare concentrato.

Gli altri due compari non si erano intanto accorti di niente, Lemmy intento a sbraitare in quel microfono piazzato in quel curioso suo modo, spiovente verso la bocca, "Animal" perso a pestare come un dannato.

Grazie di tutto anche a te Fast, la tua chitarra ti sopravvive. Stasera dopo cena compio il tributo, e mi metto in cuffia un paio di ciddì dei Fastway.

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editoriale di ALFAMA

Tutta la notte sveglio a starnutire con gli occhi fuori dalle orbite. Non sento la sveglia, sono in ritardo al lavoro.

Cerco di farmi una doccia ma non c'è acqua.

Esco di corsa. La macchina ha una ruota a terra, cambio la ruota sporcandomi.

Sempre più in ritardo salgo a casa per lavarmi la faccia, ma dimentico che manca l'acqua.

Sempre più in ritardo chiamo in ufficio, ma non ho credito

Esco di corsa da casa e calpesto una merda di cane.

Ecco il tempo si ferma. Alzo lo sguardo verso una persona luminosa con due ali bianche, mi passa una busta di fazzolettini di carta.

Sopra la confezione leggo " La tua vita merita un fazzolettino così"

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editoriale di sotomayor

Benvenuti al nostro appuntamento settimanale. Eccoci qui collegati dalla nostra postazione radiofonica per una nuova intervista impossibile.

Come ogni settimana avremo anche oggi un ospite impossibile e che abbiamo intercettato grazie alla nostra strumentazione speciale e alla solerte opera dei nostri tecnici che con estrema perizia e cognizioni scientifiche operano ai fini di rendere possibile questa trasmissione che varca ogni confine spazio-temporale ivi compreso quello tra la vita e la morte.

Anche questa volta abbiamo un ospite internazionale e per la prima volta da quando abbiamo inaugurato la trasmissione, abbiamo come ospite un musicista. Uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi e per il quale ammetto di avere da sempre una particolare predilizione. Spero che data l’audience della nostra trasmissione, la scelta vi sia molto gradita.

Tutto cominciò per quanto riguarda il mio interesse nei confronti di questo grandissimo chitarrista e virtuoso dello strumento, effettivamente con un film che Woody Allen volle tributagli anni fa e intitolato "Sweet & Lowdown". Siamo nel 1999. Si tratta di un falso documentario imperniato su personaggi fittizi e centrato sulla figura del chitarrista Emmet Ray, interpretrato da uno straordinario Sean Penn. Fanno parte del cast anche Anthony LaPaglia, Uma Thurman e una incredibile Samantha Morton, bellissima e candidata a diversi premi come migliore attrice non protagonista.

Sto parlando di Django Reinhardt.

Nato a Liberchies in Belgio nel gennaio 1910, Django Reinhardt nasceva in una famiglia di etnia sinti. Oppure "manouche" secondo la terminologia francese. Dopo un lungo girovagare la sua carovana si fermò presso la periferia di Parigi in Francia, dove Django visse per lo più la sua intera esistenza.

Uno dei più grandi e influenti chitarristi della storia del jazz, Django Reinhardt seppe coniugare la tradizione musicale della musica gitana, derivata dalle radici nell'India subcontinentale e sviluppatasi nel corso dei secoli da quel crogiuolo e incontro di culture che fu l'Europa mitteleuropea, la antica Armenia e quella che oggi chiamamo Boemia, con la musica jazz importata dal Nord America.

Esponente di spicco della cultura della propria comunità, Django Reinhardt è considerato dagli zingari come un vero e proprio eroe e come la più grande personalità che si sia imposta al di là del jazz al di fuori della cerchia del mondo manouche.

Django è il viaggiatore che si è imposto presso i "contadini".

Dopo una menomazione alla mano sinistra, sviluppò una sua particolare tecnica chitarristica che è ancora oggi deliberatamente imitata da parte della moltitudine di chitarristi che si sono ispirati e che si ispirano a lui.

Sergio Corbucci lo omaggiò dandò il suo nome a uno dei personaggi più famosi della storia dello "spaghetti western" (un film ripreso poi in tempi recenti da Quentin Tarantino): "Django". Interpretato da Franco Nero.

Fu anche pittore e a modo suo poeta, che non sapeva leggere e scrivere, ma che "cantava" con la sua chitarra trasmettendo in via orale la cultura e la storia della sua comunità come fece a suo tempo Omero con i suoi poemi.

Che altro aggiungere?

D. Penso che vada bene così [Ndr. Sorride.].

Hai ragione, cominciamo pure con l'intervista allora.

D. Sì sì, va benissimo.

1. Buonasera Django e grazie di essere qui con noi stasera. Penso che questo sia uno di quei casi tipici in cui, pure interloquendo con un musicista, dobbiamo in qualche modo ampliare i nostri orizzonti e parlare anche di altro. Al contrario di quello che si pensa di fatto tu non sei esattamente un "gitano", ma nasci in Belgio da una famiglia di etnia sinti (quelli che i francesi chiamano "manouche"). Pure viaggiando molto, hai vissuto per lo più tutta la tua esistenza in Francia e attorno alla città di Parigi. Ciononostante tu sei considerato come l'eroe di un intero popolo. Gli zingari vedono in te l'equivalente di un dio, l'unico uscito da questa grande comunità che abbia varcato i tempi e le frontiere e imponendosi alle generazioni successive al di là del jazz. È una domanda sicuramente difficile, ma volevo chiederti quanto questo sia importante per te e se questa considerazione ti pesi in qualche modo. A parte questo se e quanto le tue origini abbiano influito sul tuo modo di suonare.

D. Penso che sia più facile rispondere alla seconda domanda. Quando mi chiedi quanto le mie origini abbiano influito sul mio modo di suonare.

Tutti quanti nella mia famiglia, nella mia comunità, suonavano. Suonavamo quelli che voi chiamate i valtzer tzigani, la musica tradizionale del nostro popolo. Così ho cominciato anche io. È stato un fatto naturale, non ho dovuto fare nessuno studio particolare quando ho cominciato a suonare. Probabilmente questo come dici, è il nostro modo per raccontare delle storie, trasmettere la nostra cultura di generazione in generazione, come fate voi con la storia scritta. Voi scrivete le vostre storie, noi le raccontiamo e le tramandiamo ai nostri figli attraverso la nostra musica. Penso che hai bisogno di un posto dove custodire le storie "scritte" e noi siamo un popolo nomade. Non abbiamo nessun posto dove conservare. La musica non ha bisogno di essere scritta. Non ci sono mai stati spartiti e tutto quello che abbiamo, lo portiamo dentro di noi.

Mi chiedi poi se mi sento come se fossi l'eroe di un intero popolo. Se è così, questa cosa non mi pesa affatto. Sono stato sicuramente un musicista molto conosciuto durante i miei anni, così in Europa come negli Stati Uniti d'America e forse sono stato il primo della mia comunità a diventare così famoso e se per questo ho fatto qualche cosa di buono per il mio popolo oltre che per me, questo è sicuramente positivo. Penso di essere ancora ricordato e non solo nella mia comunità. Ma penso anche che oggi i tempi siano diversi che in passato e che il nostro modo di vivere sia sempre più raro e che a causa di questi cambiamenti ci sono stati altri appartenenti alla nostra comunità che sono diventati molto conosciuti. Questo anche nel mondo della musica. Penso a Bireli Lagrene oppure Jimmy Rosenberg, Stochelo Rosenberg... Anche i miei figli Lousson e Babik. Mio nipote David... Ma questo è normale. Il mondo è diventato improvvisamente più piccolo. Forse è troppo piccolo perché una popolazione possa considerarsi ancora nomade.

2. Django, è il 2 novembre 1928. Hai diciotto anni, ti sei già sposato con Bella e sei andato a vivere con lei in una tua roulotte regalata da tuo suocero in occasione delle nozze. Avevi già cominciato a farti conoscere in giro come musicista: eri stato ingaggiato per suonare il banjo nella orchestra di Jack Hylton. Ma quella notte un terribile incendo scoppiato disgraziatamente nella roulette ti costrinse alla menomazione e la perdita dell'anulare e il mignolo della mano sinistra. Continuare a suonare il banjo era impossibile. Secondo il medico non avresti mai più potuto suonare. Poi tuo fratello Joseph ri regalò una chitarra...

D. Sì. È inutile ricordare questa storia: fu una disgrazia. Ritornai di notte a casa e Bella dormiva. Quando abbiamo acceso una candela per fare luce, questa ci scappò di mano e in poco tempo ci furono fuoco e fiamme dappertutto. Rimasi in ospedale per un anno e mezzo: volevano amputarmi la gamba destra ma rifiutai.

Fu allora che mio fratello Joseph mi regalò una chitarra. Non potevo più suonare il banjo. Il banjo è uno strumento troppo rumoroso per poter essere suonato in un ospedale e poi era veramente troppo pesante. Così cominciai a esercitarmi con la chitarra. All'inizio questa era una sfida con me stesso per vedere se riuscivo a recuperare l'utilizzo della mano, ma in seguito acquistai una familiarietà tale con la chitarra da farne il mio strumento principale e... Paradossalmente questa fu una fortuna perché è proprio come chitarrista che sono diventato famoso e ancora oggi ricordato da tutti.

Django, tu sei ricordato come un vero e proprio virtuoso dello strumento e un compositore fertilissimo. Eppure molti ti ricordano principalmente per il fatto che avevi rivoluzionato il modo di suonare la chitarra. A causa della menomazione sviluppasti infatti una tua tecnica particolare e che non prevedeva l'uso dell'anulare e del mignolo. Secondo alcuni storici però questa tecnica era già diffusa presso i musicisti manouche. In ogni caso è vero che oggi ci sono musicisti che suonano in quel modo per imitare il tuo stile?

D. Alla seconda domanda penso che tu possa rispondere meglio di me, perché si tratta di qualche cosa che riguarda il tempo presente. Il mio futuro. Però sì, so che ci sono molti musicisti manouche o che comunque diciamo che vogliono imitare la mia musica e il mio stile e che cercano di suonare anche loro senza usare l'anulare e il mignolo. Se vuoi sapere io che cosa penso, però, ti dico che questa mi sembra una grande sciocchezza: perché mai dovresti rinunciare a usare tutte e cinque le dita? Non c'è nessun motivo. Immagino che se avessi potuto farlo, se avessi potuto usare cinque dita invece che tre, avrei suonato ancora meglio. Ne sono sicuro.

Quello che dicono questi "storici" di cui parli invece è una bugia. È una storia inventata per la stessa ragione che ti ho spiegato: perché se hai cinque dita, devi usarne solo tre? Non ha nessun senso.

3. Il Quintette du Hot Club de France! Il critico Thom Jurek (ma non solo) lo hanno definito come uno dei gruppi più originali nella storia del jazz. Sicuramente era un ensemble rivoluzionario per come lo avevate concepito, composto da cinque elementi e da soli strumenti a corda. La formazione più celebre è quella composta da te e i chitarristi ritmici Roger Chaput e tuo fratello Joseph, il bassista Louis Vola e il violinista Stéphane Grappelli. Fondamentalmente tuttavia il gruppo aveva come componenti stabili e principali te e il Grappelli. Penso che la collaborazione tra voi due si possa definire una di quelle combinazioni uniche nel corso della storia della musica e l'incontro tra due virtuosi della storia del jazz senza pari. Ci racconti qualche cosa del vostro incontro?

D. È una storia curiosa. Io e Joseph passavamo un sacco di tempo in un bar a la Rode chiamato "Chez Thomas" o al "Café des Lions" dove suonavamo e chiedevamo l'elemosina. Qui conoscemmo sia il pittore e fotografo Emile Savitry che ci iniziò al jazz degli americani, musicisti che non avevamo mai ascoltato prima e di cui avevamo solo sentito parlare: Louis Armstrong, Duke Ellington, Joe Venut, Eddie Lang...

Poi conoscemmo Louis Vola, che allora suonava la fisarmonica e cominciammo a suonare con la sua orchestra... Dopo un po' di tempo incontrai Stéphane, suonavamo negli stessi cortili dove entrambi chiedevamo l'elemosina: lui allora suonava con l’orchestra di questo André Ekyan. Oggettivamente in quel contesto era sprecato. Fui molto colpito dal suo modo di suonare, così una sera lo invitai sul mio carro a cena e da quel momento cominciò la nostra collaborazione.

Stéphane ricorda che in quell'occasione suonaste "Honeysucle Rose".

D. Non lo so. Non riesco a ricordare con precisione. Ma se lo ha detto Stéphane allora sarà stato sicuramente così.

Ma è vero che avevate due caratteri radicalmente diversi?

D. Stéphane era un musicista incredibile, che sapeva associare la musica jazz degli americani alla musica più popolare e folkloristica e quella della tradizione manouche. Anche se lui non era un manouche. Aveva invece una storia molto particolare alle spalle. Suo padre era stato un professore di filosofia, aveva origini nobiliari e Stéphnane era per metà italiano. Aveva studiato al conservatorio ma non aveva finito gli studi: aveva una formazione culturale e musicale che raccontata in questo modo può sembrare incompleta, ma che invece si completava con tutti questi elementi diversi incastonati tra loro.

Avevamo caratteri diversi? Sì e no. Penso che il punto di vista differente fosse quello che riguardava il modo di considerare la nostra attività di musicisti. Lui pensava che suonare era qualche cosa di interessante ma che non bastava per guadagnarsi da vivere. Io non mi sono mai preoccupato di questo aspetto. Per me suonare è sempre stato una parte della mia vita, qualche cosa che avevo sempre fatto e che avrei continuato a fare sempre e in ogni caso possibile. L'unica differenza rispetto agli altri appartenenti alla mia comunità sta nel fatto che io ero il più bravo, il più bravo di tutti, e per questa ragione ho cercato di migliorarmi sempre di più e confrontarmi con i migliori musicisti in Europa e nel mondo.

4. Django, un film documentario uscito di recente [Ndr. Non è il primo film e/o documentario dedicato a Django Reinhardt ovviamente.] di un regista e produttore francese di nome Ètienne Comar, racconta la Francia nel 1943 sotto l'occupazione nazista e del fatto che la tua musica fosse ammirata anche dagli ufficiali tedeschi. Si racconta allo stesso modo sia di una tournée che avresti dovuto intraprendere a Berlino al cospetto di Goebbels e del Fuhrer stesso e della tua fuga in Svizzera con una amante doppiogiochista di nome Louise. Il film ti presenta in qualche maniera come una specie di eroe all'interno della comunità sinti. Che cosa pensi al riguardo?

D. Non ho visto questo film. So che sono stato "doppiato" da Stochelo Rosenberg, che ho già menzionato prima e che è un bravo chitarrista. Uno dei migliori. Ma la storia raccontata da questo signore in questo film-documentario è tanto bella quanto falsa e completamente inventata.

Mi piacevano le donne, questo è vero, ma non ho mai conosciuto nessuna Louise. Ho avuto due compagne stabili e che ho amato molto: la mia prima moglie Bella e Naguine [Ndr. Vero nome: Sophie Ziegler.], che sposai nel 1943. Sono state le madri dei miei due figli: Lousson e Babik. So che questa donna, questa Louise, è stata una specie di invenzione cinematografica del regista per raccontare la storia, ma non è mai esistita.

Allo scoppio della guerra mi trovavo in Inghilterra con Stéphane e il resto del quintetto. Ma non sono tornato in Francia perché volevo fare parte della resistenza o come simbolo di resistenza dei manouche. L'ho fatto perché avevo paura delle bombe e perché sapevo che i nazisti non mi avrebbero perseguitato: mi sembrava la soluzione migliore per sopravvivere. Inoltre, per quanto possa sembrare strano per uno zingaro, non mi piaceva stare troppo tempo lontano da casa e volevo ritornare a Parigi.

Una volta in Francia riformai il quintetto con Hubert Rostaing al clarinetto, perché Grappelli decise di rimanere in Inghilterra. La storia che riguarda questa tournée in Germania e a Berlino al cospetto di Goebbels e Adolf Hitler è completamente inventata ma è vero che ai nazisti piacesse sentirmi suonare. Del resto non potevo certo impedirglielo.

Tutto questo non significa infatti che io fossi un nazista (è vero che cercai anche di fuggire in Svizzera del resto) o che sia stato insensibile a quelle che sono state le persecuzioni e il genocidio delle popolazioni rom e sinti in Europa. È stata una pagina tragica per il mio popolo e per tutta l'umanità. Non penso che spetti a me raccontarla, sappiamo tutti che cosa è successo.

E tu hai scritto una delle tue canzoni più belle, "Nuages", come "requiem" in memoria di tutti i caduti...

D. Non andò esattamente così. Io continuai a suonare e scrivere canzoni durante quegli anni ovviamente. Tra queste canzoni vi fu "Nuages", diventò in maniera del tutto casuale una specie di inno di speranza per tutta la popolazione di Parigi. Durante un concerto al Salle Pleyel suonai la canzone tre volte di seguito...

5. Parliamo degli ultimi anni. Dopo la guerra e una reunion con Stéphane Grappelli, nell'autunno del l946 andasti per la prima volta in tour negli Stati Uniti d'America dove andasti in tournée con Duke Ellington. La storia vuole che in verità la prima cosa che tu abbia fatto una volta sbarcato in America sia stata quella di cercare Dizzy Gillespie, è vero? Che ci puoi raccontare comunque di questa esperienza?

D. Sì, è vero, volevo a tutti i costi ascoltare Dizzy Gillespie. Un musicista fantastico. Lui e la sua orchestra rappresentavano appieno la musica degli anni sessanta. Con questo voglio dire che erano praticamente avanti di vent'anni.

Ma le cose non andarono benissimo. Penso che l'America non mi abbia accolto come meritavo. Non mi ero portato la chitarra e me ne diedero una che somigliava a una grande casseruola, come se fossi l'ultimo arrivato. Inoltre il mio stile non piaceva ai critici americani. Ma gli Stati Uniti d'America non erano quel posto fantastico che mi avevano raccontato. C'era molta discriminazione nei confronti dei neri, figuriamoci nei confronti di uno zingaro come me.

Cominciai presto ad annoiarmi e decisi di ritornare in Francia.

Mercer Ellington, il figlio di Duke, dichiarò che "Esiste una vera parentela musicale tra i neri e gli indiani (dell'India da dove hanno origine gli tzigani), e in particolare nel loro rapporto con il ritmo. L'utilizzo delle terzine nella musica indiana è quasi evidente come nello swing - da... dada... da... dada... da... dada... Come se fosse un valzer rapido." Aggiungeva inoltre il fatto tu fossi un musicista straordinario e che il padre ti ammirasse molto.

D. Duke Ellington era un grande musicista e sono contento di avere suonato con lui, ma se vogliamo raccontare la verità, possiamo dire che io potevo suonare benissimo con questi musicisti, ma loro non potevano suonare con me. Non avevano una mentalità abbastanza flessibile. È il limite di molte grandi orchestre americane secondo me. Non riuscivano letteralmente a starmi dietro

Raccontai a Stéphane di questo viaggio e in generale della grande delusione. Dopotutto non avevo trovato nulla di nuovo negli Stati Uniti d'America. Stéphane rise e mi disse che ero un idealista e che il mio modo di suonare non avrebbe mai potuto avere nulla a che fare con le grandi orchestre americane e che la mentalità negli Stati Uniti d'America era diversa e che se volevo sentire del vero jazz avrei dovuto andare a Harlem o sulla cinquantaduesima strada, perché lì avrei forse potuto trovare qualche cosa in comune con la mia musica. Non lo so se questo fosse vero, ma la verità è che me ne ritornai in Francia molto deluso e non volli più saperne degli Stati Uniti d’America.

Erano gli anni in cui avveniva la scissione tra il be-bop e il jazz. Nasceva un nuovo tipo di linguaggio. Veniva introdotta la chitarra elettrica. Come hai vissuto queste innovazioni?

D. Bene. Francamente le nuove sonorità furono una sfida interessante, ma non ebbi nessun problema in questo passaggio. Lo stesso vale per la chitarra elettrica. Posso dire che il cambio fu naturale.

E della rivalità con Les Paul?

D. Nessuna rivalità. Lui ha sempre dichiarato di considerarmi un grande chitarrista.

E tu cosa pensi di lui?

D. Era bravo sì. Non ho molto da dire al riguardo.

Capisco. Be', che altro dire? Penso che sia stata una chiacchierata molto interessante e nella quale abbiamo soddisfatto la curiosità di molti dei nostri ascoltatori che sicuramente amano la tua bellissima musica.

D. Sono contento di avere potuto comunicare con loro e che nonostante siano passati tanti anni, ci siano ancora dei miei ascoltatori e appassionati. Li ringrazio e li saluto tutti.

E io ringrazio ancora te Django per questa intervista e ringrazio anche tutti i nostri ascoltatori a cui dò appuntamento la prossima settimana. Buona serata a tutti!

"Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai."

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editoriale di ALFAMA

Partire senza sapere la destinazione. Solo l'ultimo abito che indossi.

Partire senza un biglietto.

Sotto il braccio un libro di fotografie, attimi unici e irripetibili.

Sfogli le pagine, sorridi.

Le pagine diventano polvere, i ricordi svaniscono

Passa il controllore, ti chiede il biglietto. "Dovevo farlo alla partenza " rispondi.

Il controllore, grassoccio,sbuffa. " Siete tutti uguali" sbraita.

Soffia sulla polvere delle fotografie che volono dal finestrino, le vedi galleggiare via per sempre

Poteva andare peggio. Almeno non ho pagato il biglietto.

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editoriale di De...Marga...

Li ho persi ad un mese di distanza.

Prima mamma, dilaniata dal Parkinson.

Poi papà distrutto nel corpo e soprattutto nello spirito dall'Alzheimer.

Da una parte sono anche in qualche modo contento e "libero", perchè in tutti questi anni di malattia di entrambi i miei genitori mi sono fatto in "dodici" per cercare sempre di curarli al meglio. Prima in casa, poi in strutture più adeguate per gestire situazioni che mese dopo mese si sono fatte peggiori. Fino all'epilogo finale.

Ho trovato conforto nella mia Musica, nella mia compagna di vita Marina, nel mio Diamante Grezzo, negli amici (tanti), nei parenti. Ed anche nella comunità folle ed indispensabile di Debaser.

Tanti di voi mi hanno raggiunto con messaggi privati; poche parole da persone che difficilmente riuscirò ad incontrare nella vita.

Però siete stati davvero grandiosi e mi avete aiutato, mi state ancora aiutando. E di questo vi sarò grato per sempre.

Una frase che mi ha scritto uno di voi mi ha "scosso" più di ogni altra: "I tuoi hanno tirato su un uomo in gamba".

Credo, con nessun dubbio, che il ragazzo del Friuli abbia detto la verità.

Un abbraccio infinito.

Lorenzo.

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editoriale di ALFAMA

Eccomi qua per un nuovo anno.

Semplicemente.

Una lametta.

Ecco un nuovo anno. Una cicatrice dedicata a tutte le persone che pensavano che fossi diverso.

Brutto essere coscienti quando sei un perdente e pensare di chiudere il discorso.

Ma per sbattere la porta devi essere un vincente.

Difficile vincere, sempre meglio il pareggio.

L'arte del pareggio. Guardi gli occhi del portiere,nessuno perde e tutti sono contenti.

Ma tu in fondo ti senti una merda. Vorresti sfondare la rete, urlare in faccia ai tifosi ma.

Ma ti accontenti di essere un semplice pareggio.

Il pareggio fa tutti contenti. Senza vincitori,senza perdenti. Un lento galleggiare e qualche goccia di sangue.

Quando senti di essere un disturbo e ti apri le braccia pensando che il tuo male esca, invece è sempre dietro la porta.

Ho aperto una bottiglia. Sapeva di tappo.

Sapore di tappo

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editoriale di sotomayor

Bentrovati. Siamo di nuovo collegati dalla nostra postazione radiofonica per il consueto appuntamento settimanale con le nostre interviste impossibili.

Come ogni settimana abbiamo un ospite impossibile e che grazie alla nostra strumentazione e ai nostri tecnici, siamo riusciti a intercettare per una intervista nella quale oltrepassiamo quel confine suscettibile di alterazioni spazio-temporali tra la vita e la morte.

Questa volta ospitiamo un personaggio internazionale e ascrivibile di merito a quella che potremmo definire come la 'categoria degli infami'.

Questa è una specifica che gli abbiamo fatto quando gli abbiamo richiesto di concederci questa intervista. Del resto non abbiamo motivo di essere ipocriti e non siamo quelli che si possono definire dei mistificatori della verità.

Cionondimeno gli abbiamo garantito un trattamento pari agli altri ospiti che sono finora intervenuti e che questa sarebbe stata una chiacchierata amichevole. Del resto non avrebbe senso invitare un ospite e poi impedirgli di parlare.

Tanto vale a questo punto svelare l’ospite di oggi. Una personalità incredibilmente popolare e la cui popolarità è rimasta invariata negli anni anche grazie al cinema e alla letteratura.

Sto parlando del Generale George Armstrong Custer (1839-1876).

Formatosi all'Accademia Militare degli Stati Uniti d'America di West Point, testardo, ribelle, orgoglioso, permaloso e scarso amante dello studio, eccelleva invece nella schermo, nel tiro con la pistola e l'equitazione. Caratteristiche che gli permisero di fare carriera nelle forze armate in cui raggiunse il grado di tenente colonnello e quello di generale 'brevet' in via provvisoria tra il 1865 e il 1866.

Ufficiale dell'esercito degli Stati Uniti d'America, fu comandante di reparti di cavalleria durante la guerra di secessione americana e le guerre indiane. Morì durante la famigerata 'Custer's Last Stand', il 25 giugno 1876 durante la battaglia di Little Bighorn contro gli indiani Lakota Sioux, Cheyenne e Araphao.

Fatta questa breve presentazione, è il momento di introdurre il nostro ospite.

Buonasera Generale e bentrovato.

C. Buonasera a lei, ragazzo, e buonasera a tutti gli altri convenuti a questa chiacchierata che spero si rivelerà in qualche maniera proficua e non una inutile perdita di tempo.

Farò del mio meglio per non annoiarla Generale. Del resto abbiamo molti argomenti di cui parlare.

C. Molto bene. Cominciamo pure.

1. Generale, se non le dispiace, pensavo di cominciare dalla fine. Dalla sua fine. Cioè dalla battaglia di Little Bighorn, dove il suo 7º cavalleria fu sconfitto ma soprattutto dove lei trovò la morte sul campo di battaglia. Che cosa ricorda di quella giornata e di quella battaglia? La storia la addita come il principale responsabile della sconfitta. Pensa di avere sbagliato qualche cosa in quella occasione particolare?

C. Prima di risponderle, ragazzo, mi dica: lei è mai stato su un campo di battaglia?

Mai nella mia vita. Per fortuna. In verità sono un pacifista e ripudio ogni forma di violenza e l’utilizzo delle armi.

C. Ha! Un vile dunque. Un codardo. Una donnicciola... Ora capisco ogni cosa. Ma procediamo pure con questa intervista. Vediamo dove vuole andare a parare.

Come preferisce. Ma mi creda, non ho nessuna intenzione di denigrarla. Vorrei semplicemente portare avanti questa intervista. Allora, come andarono le cose quella volta?

C. Avevo preparato tutto alla perfezione. Come mio solito. Non avrei del resto ottenuto la carica di generale e non sarei diventato così famoso senza la mia bravura e il mio ingegno. Oltre che il mio coraggio. Ma, vede, in quel caso specifico fummo ingannati da degli informatori che sbagliarono ogni valutazione oppure che, chi lo sa, facevano il doppio gioco. Avevamo informazioni sbagliate per quanto riguarda lo schieramento nemico e il loro numero. La verità è che c'erano molti interessi economici in ballo in quella regione e sarebbero dipesi dall’esito di quello scontro. Senza considerare gli interessi politici, che mi riguardavano personalmente dopo una vita intera passata a servire il mio paese sul campo di battaglia e durante la quale mi ero fatto molti nemici.

A Little Bighorn io ho perso, ma i miei veri nemici erano a Washington nelle stanze del potere, non sulle Black Hills!

Si riferisce al presidente Grant?

C. Ha! Proprio lui. Tra gli altri. Non fu il primo di quei maledetti politicanti corrotti a mettermi i bastoni tra le ruote, ma sicuramente fu l’ultimo!

Si riguardi la storia com’è andata veramente: il generale George Armstrong Custer non avrebbe mai perso a Little Big Horn!

Ho perso perché hanno voluto che le cose andassero così, fu un complotto ai miei danni e io e i miei ragazzi abbiamo pagato con la vita quello che è stato il mio coraggio contro tutto e tutti. Parlo di veri patrioti americani, mandati a morire sul campo di battaglia dai massimi rappresentanti della classe politica degli Stati Uniti d'America!

Ma è vero che lei fu ucciso quasi subito durante la battaglia?

C. Questa è una domanda impertinente. Quello che le posso dire è che ho sempre combattuto in prima linea e senza nascondermi dal nemico e questo lo ha sempre riconosciuto anche ogni mio avversario.

2. Il 27 novembre del 1868 a capo del suo 7º cavalleria, attaccò un villaggio sul fiume Washita in Oklahoma. Era un accampamento di sole 250 persone disarmate. Molte di queste persone erano donne o bambini. Quelli superstiti vennero fatti prigionieri. Fu un attacco sferrato di sorpresa alle prime luci dell’alba e che le valse il soprannome di ‘Figlio della Stella del Mattino’. Ma lei odiava gli indiani? Voglio dire, a quei tempi era consapevole di stare prendendo parte a quello che sarebbe poi stato un vero e proprio genocidio? Perché compiere azioni militari di questo tipo?

C. Come ha riconosciuto precedentemente, lei non è mai stato su di un campo di battaglia quindi forse alcune questioni non le sono chiare.

Vede, la guerra non è qualche cosa che ammette compromessi. Questi al contrario possono comportare solo ulteriori problemi e incrementare il numero delle vittime da tutte e due le parti. Un inutile spargimento di sangue e senza che si arrivi a nessuna soluzione del conflitto. Tra parentesi: questo fu alla base dello scontro ideologico tra me e i miei superiori. Senza considerare i soliti politicanti.

Quando sei un ufficiale hai delle responsabilità e devi adempiere al tuo compito anche se questo possa apparire brutale. In quel momento devi agire in maniera ferma e irreprensibile, non sono ammessi tentennamenti e nessuna esitazione. Ci vuole decisione e il coraggio di andare fino in fondo anche se questo comporta azioni che possono spaventare e che non possiamo raccontare a casa alle nostre mogli e ai nostri bambini.

Va bene. Ma in questo caso infatti parliamo proprio di donne e bambini...

C. E lei cosa ne sa? C’era forse? Questo è quello che hanno raccontato, ma chi le può confermare che questo costituisca una verità? Anche quando attaccammo a Little Bighorn dissero che sarebbero stati in pochi e invece...

La storia viene raccontata sempre in maniera diversa a seconda delle situazioni.

Per chiarire la questione definitivamente: io non ho mai odiato gli indiani. Ma eravamo in guerra e la guerra è guerra. Eravamo avversari e ci dovevamo combattere. Io da una parte, gli indiani dall’altra. Ma c’erano anche alcuni indiani che del resto combattevano dalla nostra parte e che avevano capito che la scelta giusta fosse abbandonare il loro sistema di vita primitivo e passare allo stato di società più avanzata del nostro sistema.

Parlare di genocidio è ridicolo: semplicemente gli indiani, senza considerare quelli che sono gli incroci tra appartenenti a razze diverse, hanno scelto di vivere all'interno della nostra società e abbandonato le loro stupide abitudini e credenze primitive. Questo a parte uno sparuto numero di fannulloni, che vive nelle riserve pretendendo di ignorare lo scorrere del tempo e di ricevere comunque sussidi e assistenza dalle organizzazioni governative. Ma queste persone non fanno del bene a se stesse né a chi li circonda. Non fanno del bene ai loro figli!

Mi sembra un punto di vista sicuramente - diciamo - quantomeno discutibile, ma immagino che lei, Generale, sia irreprensibile su ogni sua affermazione. Posso chiederle comunque se è vero che sposò una donna indiana?

C. Non è così.

Io mi sposai una sola volta: con Elizabeth Cliff Bacon. Questo succedeva nel 1864. Ma non ho nessun problema a parlarle di Mo-nah-se-tah oppure ‘Erba di Primavera’ (Ndr. Era la figlia del capo Cheyenne Ho-han-i-no-o aka 'Piccola Roccia'), una donna bellissima e che mi diede anche un figlio e quello era figlio mio, non era un indiano. Così come Erba di Primavera era la mia donna. Mia e di nessun altro.

Ripeto: non ho mai avuto nulla contro gli indiani, ma questi erano il mio nemico e io dovevo combatterli e mi creda, non lo avrei fatto se loro avessero capito che noi eravamo portatori del vero progresso. Quando parla di genocidio sbaglia: oggi i discendenti di quegli indiani vivono assieme al resto della popolazione americana, sono integrati all'interno della nostra società e questo è merito degli uomini come me e dei nostri sacrifici.

Ha visto cosa succede in North Dakota? Mi riferisco alla protesta dei nativi americani e degli ambientalisti contro la costruzione della Dakota Access Pipeline. Cosa ne pensa?

C. Penso tutto il male possibile. La storia si ripete. Ci sono determinate persone che non vogliono accettare il progresso, ma le pretese di pochi non possono arrestare il progresso, lo sviluppo sociale e quello scientifico e tecnologico e la vita di una intera comunità. Queste persone sono dei criminali e vanno trattate come tali.

Penso che se si fa una scelta poi bisogna portarla a termine con decisione. Questa è una responsabilità di chi ci governa. Non sono ammessi tentennamenti, questi non fanno che aumentare i disordini e la possibilità di scontri. Ci vuole decisione e bisogna agire rapidamente e con la massima decisione.

3. Visto che abbiamo accennato a tematiche di attualità... Sicuramente conoscerà il Presidente Donald Trump. È una figura sicuramente controversa e molto discussa. Che sembrerebbe ricevere critiche dai suoi avversari e quindi dagli esponenti del partito democratico, ma anche da una componente del partito repubblicano. Da storico conservatore e uomo d’armi, sente una affinità con questo personaggio? Che giudizio ha di lui?

C. È un argomento per quanto mi riguarda molto doloroso. Lei dice bene: sono sempre stato un conservatore e ho combattuto per questo paese sia nella guerra civile che contro gli indiani. Sono morto per questo paese e i suoi ideali libertari e per la salvaguardia della nostra supremazia culturale. La tutela dei valori e dei principi repubblicani su cui si fonda la società americana.

Come dice, ho principalmente una formazione militare e penso che le forze armate siano uno dei cuori pulsanti di questo grande paese.

Ma non mi rivedo in questo presidente e penso con nostalgia ad altre grandi figure del partito repubblicano degli ultimi anni che hanno onorato la nostra bandiera: Bush padre e figlio, Ronald Reagan, Richard Nixon... Gente che ha fatto grande questo paese e onorato chi ha combattuto per esso e quelli che come me che sono morti per questa causa.

Tutte cose che un ricco industriale come Donald Trump non potrà mai capire. È solo un fantoccio e prima l’establishment del partito se ne accorgerà e lo priverà di ogni potere, tanto meglio sarà per l’America. Restituiamo l’America agli americani: quest’uomo ci ha venduto ai russi e ci ha coperti di ridicolo. Non è ammissibile.

4. Anche lei tuttavia aveva una fama, se posso permettermi, sicuramente controversa. È stato una persona ambiziosa ma con un carattere diciamo molto acceso e le sue 'fiammate' unitamente al suo carattere testardo e orgoglioso probabilmente hanno costituito un punto di forza ma anche il suo limite più grande. Che cosa mi può dire al riguardo? Pensa che alcune sue scelte siano state sbagliate e le abbiano impedito ad esempio di riuscire a raggiungere il traguardo di essere eletto presidente degli Stati Uniti d’America? Quello che molti ritengono sarebbe stato il suo vero obiettivo dopo avere vinto la guerra contro gli indiani.

C. Da questo punto di vista, come le dicevo, gran parte delle responsabilità venivano dalla ambiguità dei rappresentanti del mondo della politica che mi hanno storicamente sempre messo i bastoni tra le ruote e alla fine mi hanno usato senza dare nulla in cambio.

Fu anche arrestato...

C. Quella vicenda fu ridicola. Applicai lo stesso sistema che avevamo usato a Gettysburg: chi disertava, pagava con la vita e veniva giustiziato. Questo sistema mi permetteva un maggiore controllo sulle truppe e una maggiore forza di persuasione nei loro confronti. Il mio 7° Cavalleria era una armata compatta e perfettamente disciplinata e che rispettava i miei ordini fedelmente.

Comunque fui assolto e prosciolto anche da quest’altra infamante accusa. Immagino si possano ancora trovare degli atti che lo certificano.

Non so se avrei potuto diventare presidente, ma so che avevo il carattere adatto per guidare questa nazione che amo così tanto quanto lei amava me. Purtroppo la storia ha voluto che questo non si verificasse, ma non ho rimpianti, sono ricordato come e più di qualsiasi altro presidente o rappresentante politico dei miei tempi.

5. Ho solo un'altra domanda Generale. Come pensa di essere ricordato oggi nel mondo, ma in particolare negli Stati Uniti d’America. Sicuramente molti la considerano un grande patriota e un eroe senza macchia e senza paura. Uno degli eroi del selvaggio West. Esistono statue erette in suo onore e intere contee denominate come 'Contea di Custer'. Eppure una certa cultura che poi ha rivisto la storia americana da altre prospettive, la considera in maniera negativa e quasi la irride per la sua sconfitta a Little Bighorn...

C. Penso che una certa cultura hippie e pacifista diffusasi negli anni sessanta dello scorso secolo abbia scientificamente lavorato per oscurare la mia immagine e lo stesso è successo per quanto riguarda altri appartenenti alla storia delle forze armate degli Stati Uniti d’America. Hanno girato le spalle ha chi ha donato la vita per questo paese e salvaguardarne i principi libertari. Io ho sempre combattuto per questo paese per nessun altro: nella guerra civile ero dalla parte giusta e abbiamo vinto. Nella campagna contro gli indiani è stato lo stesso. Io sono morto ma noi abbiamo vinto. Abbiamo vinto le guerre mondiali salvaguardando i principi democratici in tutto il mondo, mentre questi erano messi in serio pericolo dai nazisti. Senza considerare la guerra fredda.

Un vero americano sa che io sono un simbolo importante di questa nazione e mi riconosce sicuramente come un vero eroe. Pensi che dopo la guerra civile mi fu offerto di andare in Messico e guidare l’esercito di Massimiliano d’Austria. Mi offrirono un sacco di soldi. Ma rifiutai. Non mi interessavano. Non sono mai stato interessato ai soldi. Io amavo e amo l’America e le ho dedicato tutta la mia vita. Sono un eroe nazionale tanto quando George Washington oppure Thomas Jefferson, Abraham Lincoln. Magari questo a qualche sciocco pacifista non piacerà ma per fortuna da questo punto di vista ce ne sono pochi come lei.

Che fortuna.

C. Ha! Esattamente.

Bene Generale, direi che adesso la nostra simpatica chiacchierata si può dire conclusa. È stato un piacere averla con noi. Io la ringrazio e la saluto così come saluto anche tutti i nostri ascoltatori a cui auguro anche un felice nuovo anno 2018!

C. Un saluto a tutti e un augurio per il nuovo anno. Dio benedica gli Stati Uniti d’America!

'Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai.'

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editoriale di CosmicJocker

Età di scoperte '80 - '93

Età di sensibilità '94 - '99

Età di chiusura e amarezze '00 - '04

Età di volontà e di sperimentazione '05 - '10

Età di ricerche, di trascendenze e segreti '11 - ?

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editoriale di zaireeka

Io da bambino sognavo spesso di volare.

Due cose sognavo più spesso delle altre: di volare e il diavolo buono ed il diavolo cattivo.

A quanto pare già da bambino avevo una mente alquanto complicata.

Volare era davvero una mia specialità.

Volavo per la casa arrivando a sfiorare con la schiena il soffitto della casa.

Non conoscevo ancora cosa fosse la forza di gravità, forse per questo mi risultava così facile farlo.

Crescendo ho conosciuto tante cose, che mi hanno tolto un po’ alla volta i miei super-poteri.

E così, un bel po' di anni fa, la conoscenza post-traumatica e scientifica della psicologia dell’approccio amoroso mi ha tolto la capacità di illudermi e volare con la fantasia solo per uno sguardo subito da una ragazza, e da una donna in seguito.

Due cose ancora mi sfuggono: la vera natura dell’Universo e quella della coscienza, come a tutti del resto, del mondo esteriore e del mondo interiore.

La prima ignoranza mi permette di essere ancora qui, in questo momento in questo posto, mentre scrivo.

La seconda ignoranza mi permette ancora di pensare, di sperare, di sognare.

E’ come quando si riesce a suonare un pezzo particolarmente difficile al pianoforte, solo se ci si dimentica definitivamente il funzionamento della partitura.

Da quando da bambino ho scoperto a scuola la gravità, ho sempre pensato che per vincerla si dovesse essere in grado di sollevarsi da terra, come fanno gli uccelli e gli aerei.

In verità l’unico modo per vincerla, lo dice la scienza, e’ abbandonarsi ad essa, lanciandosi nel vuoto.

E’ quello l’unico vero volo, libero davvero dalla gravità, ad occhi chiusi.

Una volta perso del tutto il contatto con la torre di controllo.

Pochi lo sanno, e di quei pochi, pochi ne hanno il coraggio, perché sanno che non può durare, se lo si vuole fare fino in fondo.

E forse è meglio così, anzi, sicuramente.

L’uomo è fatto di quelle cose che l’Universo non vuole conoscere di se stesso, o di cui ha paura.

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editoriale di ALFAMA

Solo una Parola

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editoriale di sotomayor

L'uomo ha il dovere di sopravvivere alla natura. Cioè di vincere ogni sfida che questa ci pone quotidianamente e pure in un contesto che da questo punto di vista è in costante evoluzione e ha subito delle alterazioni dettate proprio da questo rapporto di forza e dalle modifiche che vi abbiamo apportato nel tempo.

I naturalisti più estremisti considereranno questa mia dichiarazione in maniera negativa, ma non sto con questa sicuramente invitando alla distruzione di ciò che ci circonda.

Non sto dichiarando guerra alle forze della natura.

La sfida è aperta da quando il processo evolutivo ci ha condotto al nostro attuale stadio evoluto. Da allora combattiamo contro noi stessi. Da una parte siamo attaccati alla terra, dall’altra sappiamo che solo liberandoci da essa potremo essere salvi.

Il nostro pianeta, l’intero sistema solare non sono eterni. Allo stesso modo prima o poi le risorse naturali tenderanno inevitabilmente a diminuire fino a scomparire del tutto.

Abbiamo ancora molto tempo secondo me, ma vanno continuamente cercate nuove soluzioni.

È un lungo cammino ma che nell’ultimo secolo ci ha visto fare importanti passi in avanti in questo processo di emancipazione dalle forze della natura.

Il 7 febbraio 1984 Bruce McCandless compie la prima attività extraveicolare nello spazio in completa libertà.

La missione è la STS-41B. Lo scopo è posizionare due nuovi satelliti artificiali in orbita ma anche sperimentare il nuovo sistema di propulsione astronauta Manned Maneuvering Unit (MMU).

Bruce McCandless, che ha contribuito al programma in maniera determinante, lascia il Challenger e si lancia nello spazio aperto. Batte i denti, forse perché lo spazio è freddo come ce lo hanno raccontato, forse perché è in un momento di tensione particolare. Sarebbe naturale. Bruce McCandless non è un eroe come Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins. Ha paura. Dopo dirà che per Neil questo sarebbe stato dopo tutto solo un altro piccolo passo, ma che per lui invece è stato un balzo enorme.

Aveva paura che il salto potesse essere troppo grande e che non sarebbe mai più tornato indietro.

Non credo che Armstrong abbia mai risposto a questa affermazione. Ma che avrebbe dovuto dire. Gli eroi non devono dare spiegazioni a nessuno.

Bruce percorre i cento metri più lunghi della storia dell’uomo nello spazio mentre la moglie in ansia lo segue da Terra. Lavora anche lei per la Nasa. Poi Bruce rientra alla base. A bordo del Challenger. Tutti tirano un sospiro di sollievo.

Sembrava impossibile. Ma Bruce è rimasto, anche se per pochi minuti, completamente sospeso nello spazio e ha fatto quello che nessuno aveva mai fatto prima di lui: nessun cordone ombelicale lo teneva legato alla Terra. Nessuna astronave. Non c'era nessun suolo lunare da calpestare questa volta.

La sensazione deve essere stata simile a quella di essere in uno stato di sospensione sott’acqua, immaginiamo, e ci domandiamo quanto e se lo spazio gli possa essere apparso in qualche maniera denso. E se questo non significhi per l’essere umano una specie di ritorno ideale.

In quel momento fu completamente libero da ogni vincolo: è l'uomo che ha superato lo stadio evolutivo di Homo Sapiens e che ha avviato un processo di cambiamento che chissà quando avrà fine.

Pochi lo ricordano e pochi lo ricorderanno dopo la sua morte avvenuta lo scorso 21 dicembre, ma Bruce McCandless è stato il primo.

La sua anima, dopo la morte, è stata ritagliata nell'oscurità dello spazio, circondata dalle stelle che compongono la volta celeste.

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editoriale di ALFAMA

Perchè perdi tempo su questa pagina bianca ?

Noia, per pura noia. La noia di parlare senza risposte. La noia di aspettare. Per farti notare.

Ma scrivere stupidaggini?

Ma guarda le stupidaggini sono solo un caos di parole, mettile in ordine e ognuno trova il suo perchè.

La solitudine aiuta ?

Non credo, la solitudine è un male. Non aiuta,anche se sei in un centro commerciale. Devi vedere la folla per capire la solitudine.

La solitudine da solo non esiste, è un mito. Non esiste, sei sempre con i tuoi pensieri. Esiste solo la solitudine in mezzo alla folla e diventi in giullare,sorridi, salti, bevi. Con un tarlo che ti rode.

La solitudine è una tavola imbandita di falsi sorrisi

Sorridi e ti sentì più solo.

La solitudine è un falso sorriso

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editoriale di enbar77

E pensare che lo avevo lodato anche scrivendo una specie di recensione, o, più che altro, un tentativo di fugare qualche dubbio dove qualcuno mi ha anche preso in giro. Da bambino mi avevano indottrinato a pregarlo, a temerlo, a parlarci con convinzione e a maledirlo. Adesso non posso dire che non creda più nella sua presenza ma, certamente, ho smesso di crederci da un pezzo. E non è un caso se ho voluto spedire questo editoriale proprio oggi, dopo un ampio periodo di latitanza e a poche ore dalla Nascita.

Che poi, la Nascita ha un giorno certo evidenziato in rosso su tutti i calendari, il risultato di un 5X5 nell'ultimo mese di ogni anno. La morte con resurrezione annessa cambia in continuazione. Era una domenica allora e lo sarà per sempre, d'accordo. E allora il 25 dicembre dell'anno zero che giorno era?

Aveva ragione K. M. nel dichiarare che la religione è l'oppio dei popoli. Lobotomizzando stormi, mandrie, schiere, greggi o moltitudini di ignoranti, è stato creato un impero incrollabile dominato dalla fede, che è il malcelato sinonimo della violenza. Di ignoranti che possono esercitare anche qualche tipo di violenza ne esistono tuttora: in Italia come in Medio Oriente. Lì si scannano volentieri. Qui magari ti mandano a praticare nel didietro e poi vanno a confessarsi.

Per non dare torto a K. M. basta pensare a Papa (e ripeto, Papa) Giulio II, al Nome della Rosa e ai pretastri pedofili, tanto per essere banali, dozzinali, luogocomuni-sti (non falce e martello, eh) e retorici. Per una apparizione, Giovanna d'Arco venne condannata al rogo. Per il medesimo motivo, Bernadette ha creato un businness interplanetario. Pratica della compensazione. E quei preti che minacciavano di scomunicarti se ti azzardavi a votare per il Partito Comunista dei senzadio mangiabambini? Con questo motivo quanti voti sono stati veicolati nelle tasche e ripeto, tasche, della Democrazia Cristiana? Di credenti ignoranti ce ne sono stati a grappoli. E ce ne sono anche nell'Anno del Signore 2017 a due passi dal 2018....

Non puoi non divertirti a Pietrelcina (abito a qualche pugno di km di distanza), quando vedo torme di idioti che, sventolano orgogliosi un riquadro da 5mm quadrati di tela per puntocroce, spacciato per "Frammento del guanto di Padre Pio". Ancora più divertente è sentirli esclamare con commozione: "Tengo nu piezzo r'o guanto e Padrepppio!" - "Gentile signora, ma con tutti i frammenti che sono stati venduti negli anni non le sorge il dubbio che siano un falso clamoroso? O Padrepppio gestiva una fabbrica tessile?".

Ancora più divertenti, sono quelli che si recano a San Giovanni Rotondo per adorare quel pupazzo di silicone costruito sui resti ossei del frate, Non bastava conservarle in una apposita urna consacrata? No, un bel bambolone in silicone (ben fatto, devo riconoscere) per attirare quanta più gente per concretizzare una esclusiva operazione lucrosa al netto dei famelici risto-assaltatori, simili agli avvoltoi che svolazzano in circolo sulla preda ansimante, pronti a planare in picchiata nell'attimo successivo all'ultimo respiro. Potete anche darmi addosso, per carità, ma Padrepppio non è stato imbalsamato come Santa Rita. Andate a Cascia e vi chiederete per quale motivo non c'è la stessa folla di prefiche adoranti e piangenti...

L'apice del divertimento si tocca, ancora oggi, con quelle donne adulte o anziane, che si ostinano a pregare sull'immagine di Robert Powell, ostinandosi a credere che sia di Gesù Cristo. Ho provato a sostituire l'ingannevole effigie con una foto di Enrique Irazoqui. Non l'avessi mai fatto. Sono stato ammonito da uno sguardo accigliato e carico di inquietante sospetto, truce quanto basta per garantirmi la condanna alla rosolatura pubblica: "E chi è? Chishto nunn'è Ggesucrishto!". Ma le giuro che lo è stato! Come puoi non dare ragione a K. M.?

Personalmente, ho smesso di crederci perchè a seguito di varie udienze si ostina a non darmi un figlio. Per quante volte l'abbia pregato, implorato, scongiurato, non riesco a non diffidare se penso che per veicolare uno spermatozoo nel punto giusto basterebbe un battito di ciglia. E' tutto a posto, che bell'utero, le tube sono aperte, un pò di varicocele ma nulla di preoccupante, la percentuale di motilità è bassa ma con una decina di milioni attivi e scorazzanti hai voglia...ne basta uno, cazzo. Per avere il Suo dono sto versando un mucchio di soldi senza averlo ancora concepito. Forse riuscirò a comprarmelo con Santa ICSI o San FIVET...

Per anni ho voluto credere che si trattasse appunto di un Suo dono, ma troppo spesso ho visto e sentito che è finito, a volte nel posto ed altre nel grembo, sbagliato...chi li ha violentati, chi soffocati, chi accoltellati, chi abbandonati, per non parlare di quelli che sono nati e morti dopo poco tempo...se lo hai mandato in dono che cazzo te lo sei ripreso a fare? E quei doni più grandicelli, magari chierichetti, magari di bell'aspetto, che sono stati "scartati" dai Suoi Ministri? Come puoi dare torto a W. A.?

Volete sapete come si sono giustificati i sacerdoti a cui confidavo questi dubbi? "Lui ha dato all'uomo la libertà di fare tutto ciò che vuole!". Un pò come se costruissi un robot perfetto a mia immagine e somiglianza (non sarebbe proprio un belvedere), per lasciargli commettere ciò che vuole, anche nefandezze, senza preoccuparmi di togliere le batterie dal radiocomando. Credo proprio che W. A. abbia ragione.

E a questo punto ti rendi conto che forse, si tratta solo di un grosso inganno, di una farsa ben preparata e tuttora perpetrata. Parti con la testa e pensi alle guerre, all'Olocausto, ai femminicidi, tra qualche ora nasce e tanto per dare una prova della Sua presenza ti manda una pioggia tropicale nelle Filippine impedendo a qualche centinaio di famiglie di attendere la mezzanotte per festeggiarlo. Ma un miracolo a mezzo servizio? E' così che finisci per entrare a militare nelle file della dissidenza aggrappandoti con fermezza a qualcuno come W. A. Come fai a dargli torto?...in effetti, se Lui esiste, spero che abbia una buona scusa.

Buon Natale.

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editoriale di sotomayor

Dalla nostra postazione impossbile, dopo i fortunati episodi che ci hanno visto intercettare Serge Voronoff, Garrincha e il Presidente Saragat, ci colleghiamo per trasmettervi in diretta una nuova intervista impossibile.

Vi ricordiamo che tutto questo è reso impossibile dalla nostra strumentazione speciale che ci permette di abbattere ogni barriera spazio-temporale e quel confine sottile tra la vita e la morte, nonché dalla nostra preparatissima e accuratamente selezionata squadra di tecnici radio. Senza di loro questa trasmissione, ammesso che fosse veramente possibile, non esisterebbe.

Dopo avere ospitato una personalità, come dire, molto discussa come quella del Presidente Saragat, abbiamo oggi ospite un altro nostro connazionale e una figura che definirei 'unificatrice', trattandosi in questo caso di una persona dalla elevata caratura morale. Questo prima ancora che essere uno dei più grandi attori della storia del teatro e del cinema italiano.

Sto parlando del cavaliere Aldo Fabrizi.

Nato Aldo Fabbrizi (1905-1990) presso una umile famiglia romana, rimase giovanissimo orfano del padre Giuseppe, di professione vetturino, e per contribuire al sostentamento della famiglia (tra cui la sorella Elena, conosciuta come 'Sora Lella'), si adoperò a fare i lavori più disparati.

Questo non fermò la sua vocazione artistica. Già nel 1928 pubblicò un volumetto di poesie romanesche e cominciò a calcare le scene, fino a mettere in piedi una propria compagnia teatrale. Fece l'esordio sul grande schermo nel 1942.

Nel dopoguerra divenne uno degli attori più popolari del cinema italiano.

Fatta la debita presentazione, lasciatemi introdurre finalmente il nostro ospite.

A nome mio e di tutto i nostri ascoltatori, buonasera cavaliere.

F. Ma che cavaliere e cavaliere... Io sono Aldo Fabrizi e basta. Che bisogno ci sta di tutte queste formalità. Cavaliere ora. Ma lasciamo perdere.

Buonasera a te e a tutti i nostri ascoltatori.

Mi scusi cavalie...

F. Ahè...

Volevo dire: mi scusi signor Fabrizi. Benvenuto.

Se non le dispiace, comincerei con la nostra intervista.

F. Ma sì, facciamoci quattro chiacchiere.

1. Se permette, comincerei questa nostra intervista parlando dei suoi inizi. Mi riferisco agli anni venti, in cui cominciò - contemporaneamente allo svolgimento di altre attività - a esprimere la sua vocazione artistica prima scrivendo e successivamente calcando i palchi teatrali. Questo avveniva tra gli anni venti e gli anni trenta e in quelli che furono anni difficili per il nostro paese. Che cosa ci può raccontare di quegli anni e dei suoi inizi come attore di teatro? È vero che già durante quegli anni avvenne il suo primo incontro con Alberto Sordi?

F. Ma furono anni difficili all'inizio. Mio padre morì quando io avevo solo undici anni e allora mi dovetti impegnare a fare diversi tipi di lavoro: ho fatto il fattorino e il meccanico, il guardiano notturno e il postino... Insomma si faceva tutto quello che si poteva fare per andare avanti. Poi nel 1928 pubblicai un volumetto di poesie romanesche che si intitolava 'Lucciche ar sole' e da lì poi... Prima cominciai a scrivere sul 'Rugantino', che era un giornale dialettale che ci aveva una lunga storia e diciamo una certa fama tra i letterati dell'epoca. Quelli che erano interessati alla poesia, diciamo così. E poi cominciai a lavorare in teatro recitando le mie poesie e come si diceva allora, come 'macchiettista', interpretrando dei ruoli che poi ho ripreso nel corso degli anni: il vetturino, il tramviere, lo sciatore...

Alla fine mi riusciva pure facile perché molti di questi ruoli erano attività e professioni che io avevo veramente svolto. A parte il fatto che proprio mio padre prima di morire faceva il vetturino.

Ma come era la vita durante gli anni del fascismo e sotto l'occupazione dei tedeschi?

F. Io qua posso rispondere per quello che mi riguarda. E diciamo che se prima che cominciasse la guerra magari la pensavo in una certa maniera, dopo ecco facciamo che mi sono reso conto che le cose è che andavano poi tanto bene. Non so se mi sono spiegato...

Ritornando alla mia attività teatrale, alla metà degli anni trenta, mo non mi ricordo esattamente quando, fondai questa mia piccola compagnia teatrale. Ma non è che giravamo tanto, eh, stavamo per lo più sempre a Roma che a me non mi è mai piaciuto tanto viaggiare. E comunque sì, proprio in quegli anni conobbi Alberto Sordi.

Si accorse subito del suo talento?

F. Ma era un ragazzino e poi rimase nella compagnia per poco tempo, però si, si vedeva già che c'aveva talento e che aveva studiato.

È stato lui il più grande attore italiano di tutti tempi?

F. Questa è una bella domanda. Sicuramente Alberto Sordi è stato un grandissimo attore, ma se mi chiede chi sia stato il più grande e allora la risposta non può che essere una sola.

Totò?

F. E ma sì. Per forza. Totò è stato grandissimo. Un grandissimo attore e ancora più grande, se possibile, come persona. Lavorare con lui è stata una vera gioia. Non c'avevamo mica bisogno di un copione: molto spesso improvvisavamo. Oddio molto spesso... Quasi sempre per la verità. L'unico problema è che alla fine a volte era difficile non scoppiare a ridere perché eravamo come spettatori di noi stessi. Bei tempi.

2. Veniamo ai suoi inizi come attore di cinema. Il primo film è del 1942 quando recita in 'Avanti c'è posto' di Mario Bonnard, che la dirige anche nella pellicola seguente, 'Campo de' fiori'. Nel 1943 recita in 'L'ultima carrozzella' di Mario Mattioli e con Anna Magnani. Ma è vero che aveva un rapporto difficile con Anna Magnani?

F. Ma no. Che rapporto difficile. Ognuno faceva il suo ruolo di attore. Quello che si doveva fare. Lei in quel film faceva un'attrice di varietà, mentre io facevo la parte di questo vetturino che avevo ripreso dai miei vecchi personaggi che già facevo a teatro... E mi ricordo che io poi feci recitare nel film Scotti. Tino Scotti. Che era un caratterista bravissimo e che avevo conosciuto durante quegli anni. Scotti era veramente bravissimo, quando era ragazzo aveva pure giocato a pallone con l'Inter prima di cominciare a dedicarsi al teatro. Nel film gli feci fare un personaggio che era una specie di attore, che nella vita era uno spasso, ma davanti all'obiettivo proprio non ce la faceva. Un personaggio che lui fece a meraviglia.

E poi ci stava Mario Mattioli, che per me è stato più che un amico. Un fratello.

Nel 1945 invece fu la volta di 'Roma città aperta' di Roberto Rossellini e in cui lei interpreta la parte di Don Giuseppe Morosini...

F. Su questo film si raccontano un sacco di storie...

Intanto bisogna precisare che sto film non esisteva all'inizio. Ci stava 'La morte di Don Morosini' scritto da Alberto Consiglio che poi divenne capocronaca a 'Il tempo'. Fu un film girato a pezzi e girato dove capitava e in particolare in un teatrino che stava in Via degli Avignonesi e che stava vicino a un locale di quelli lì che... Insomma ci siamo capiti. E Rossellini era un frequentatore.

È vero che non ha avuto nessun compenso per...

F. Manco 'na lira.

E Rossellini come dirigeva?

F. Mmmmh... E dirigeva bene. Cioè s'è visto. Ha vinto un sacco di premi. Come doveva dirigere. Era bravo.

3. Il periodo di maggiore successo popolare possiamo dire che va dal dopoguerra fino all'inizio degli anni sessanta. In questo periodo credo che abbia interpretrato qualche cosa come 60-70 film e in alcuni casi delle parti che sono passate alla storia, disimpegnandosi in ruoli sia comici che drammatici. Abbiamo già accennato in particolare ai film interpretrati con Totò, ma anche con Peppino De Filippo ha scritto pagine importanti del cinema di quegli anni. Ad esempio 'La famiglia Passaguai' nel 1951, una commedia che possiamo dire che abbia definito un certo tipo di schemi che praticamente sono gli stessi che vengono adoperati ancora oggi e di cui oltre che attore protagonista, fu anche regista e sceneggiatore.

F. Probabilmente è film di maggiore successo tra tutti quelli che ho diretto. La sceneggiatura l'avevo scritta assieme a Mario Amendola e Ruggero Maccari. E la storia era quella lì di questo cavaliere, Peppe Valenzi detto Passaguai, che decide di passare una domenica al mare a Fiumicino con la famiglia, ma non gliene va bene manco una. Così alla fine 'la famiglia Passaguai' è diventato una specie di modo di dire quando a uno la fortuna diciamo che non gira dalla sua aprte.

Ci stava Peppino De Filippo, ma altri attori con cui lavorare assieme era un piacere. Innanzitutto ci stava Ave Ninchi che era un'attrice incredibile e una amicizia che mi è durata tutta la vita. Bravissima. E poi ci stavano Luigi Pavese, Enrico Luzi, ancora Tino Scotti e Carlo Delle Piane...

Lei ha diretto in tutto sette film. L'ultimo, 'Il maestro...' (1957), è uno dei suoi film dai contenuti più drammatici.

F. Il film era una produzione italo-spagnola. Lo girammo in Spagna... E sì, era un film sicuramente drammatico. Ma era pure una specie di favola. Ci sta la storia di questo maestro che perde il figlio a causa di un incidente e riesce a ritrovare se stesso solo attraverso la fede, quando appare nella sua vita sto ragazzino di nome Gabriele che lo sprona a andare avanti. Era un film difficile perché argomenti di questo tipo sono delicati e poi ci stava da affrontare anche argomenti religiosi e bisognava stare attenti a non essere troppo retorici. E niente... Era un lavoro difficile, ma alla fine ne uscì un buon film.

4. Dopo gli anni sessanta ha fatto invece prevalentemente teatro. Come mai? Fu una scelta quella di smettere di lavorare con il cinema? Poi le volevo domandare se nel corso degli anni, a partire diciamo già dagli anni sessanta e fino a oggi, c'è stato un attore in cui si è qualche modo identificato?

F. Ma no. Non mi sono rivisto e non mi rivedo in nessun attore. Ma questo mo non vuol dire che non ci sono stati altri attori bravi. Ma i tempi erano cambiati e hanno continuato a cambiare. Però ci sono stati grandi attori come Alberto Sordi, Nino Manfredi con il quale rimettemmo in scena il 'Rugantino'. Ma io già dopo il 1960 non mi ci rivedevo più in un certo tipo di cinema che si andava affermando e allora preferii dedicarmi principalmente al teatro. Poi, oh, qualche film lo ho fatto anche dopo eh. Penso per esempio a 'C'eravamo tanto amati' di Ettore Scola e dove facevo la parte di questo ricco palazzinaro nostalgico fascista. Un ex capomastro, un tipo rude, antipatico e con un caratteraccio, che poi diventa il suocero del personaggio interpretato da Gassman. Fui pure premiato col nastro d'argento come migliore attore non protagonista a Venezia.

5. Sicuramente lei è stato ed è tuttora uno dei maggiori rappresentanti di quella che si definisce la 'romanità' di una volta. Questo penso che sia un grande merito che le è riconosciuto anche da tutti quelli che non riconoscono il suo grande spessore artistico e la considerano semplicemente come un 'comico', adoperando questa espressione in maniera riduttiva. Durante la sua carriera cinematografica, al di là di quelle che sono state le sue rappresentazioni più 'macchiettistiche', lei ha sempre interpretrato ruoli di grande spessore morale: da questo punto di vista è stato ed è secondo me anche un grande esempio di moralità e di umanità e portatore di quelli che si possono considerare senza retorica come i valori di una volta. Che cosa pensa della Roma di oggi?

F. E che cosa ti posso dire. Su questi qui che dicono che sono stato solo un 'comico' non me ne importa proprio niente. A parte che per me essere stato un 'comico' è un complimento. Il resto sono problemi loro.

Per quanto riguarda la città di Roma e la romanità... Penso che la Roma di una volta, quella che conoscevo io, oggi non esiste più. Roma è diventata una brutta città. È semplicemente indecente il modo in cui viene degradata quella che è la più bella città al mondo. Non si capisce più niente. Ci stanno certi posti che non si può più nemmeno girare di giorno. Una volta non era così. Ci stava più umanità. La gente c'aveva un'anima. Ma oggi invece non è più così. Nessuno credo più in niente. La gente non si fida degli altri e ognuno cerca di fregare al prossimo suo. E questo è un peccato.

Che cosa pensa che si possa fare per fare ritornare Roma quella lì di una volta e anche per riportare alla città quella grande fama che la ha sempre giustamente accompagnata?

F. E chi lo sa. Però posso dire una cosa: che Roma ha e avrà sempre una grande fama, perché nonostante questi disgraziati è e resta una città unica al mondo. E questo primato non glielo toglierà mai nessuno.

Speriamo che questa sua convinzione possa in qualche maniera fare risvegliare quella anima di questa città che lei stesso ha richiamato.

Io la ringrazio ancora per averci concesso questa intervista a nome mio e di tutti i nostri ascoltatori, che sicuramente avranno riascoltato con grande piacere la sua voce.

F. Sono io che ti ringrazio. Sei un bravo ragazzo.

La ringrazio molto...

F. Be', che dire, è stata una bella chiacchierata. Ringrazio te e tutti quelli che ci hanno seguito. Buona serata a tutti.

Buonanotte a tutti.

Alla prossima settimana con un nuovo personaggio e una nuova intervista!

'Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai.'

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editoriale di ALFAMA

Io non sono Jim Morrison.

Sono stato trasformato in una statua, ma io sono vivo.

Sono fuggito, mi piace il vino, lontano scrivo stupidaggini e non voglio essere poeta.

Scrivo,scrivo e scrivo. Ma non capite una virgola delle mie parole.

Non sono un poeta.

Sono un semplice ubriacone che scrive belle parole copiando le mie belle letture.

Ma sono figo e tutto quello che dico è poesia, ma la poesia non si scrive,non si legge,non si fanno canzoni.

La poesia è una bugia che tu prendi per verità.

Io Non sono Jim Morrison.

Una verità.

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