Benvenuti al nostro appuntamento settimanale. Eccoci qui collegati dalla nostra postazione radiofonica per una nuova intervista impossibile.
Come ogni settimana avremo anche oggi un ospite impossibile e che abbiamo intercettato grazie alla nostra strumentazione speciale e alla solerte opera dei nostri tecnici che con estrema perizia e cognizioni scientifiche operano ai fini di rendere possibile questa trasmissione che varca ogni confine spazio-temporale ivi compreso quello tra la vita e la morte.
Anche questa volta abbiamo un ospite internazionale e per la prima volta da quando abbiamo inaugurato la trasmissione, abbiamo come ospite un musicista. Uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi e per il quale ammetto di avere da sempre una particolare predilizione. Spero che data l’audience della nostra trasmissione, la scelta vi sia molto gradita.
Tutto cominciò per quanto riguarda il mio interesse nei confronti di questo grandissimo chitarrista e virtuoso dello strumento, effettivamente con un film che Woody Allen volle tributagli anni fa e intitolato "Sweet & Lowdown". Siamo nel 1999. Si tratta di un falso documentario imperniato su personaggi fittizi e centrato sulla figura del chitarrista Emmet Ray, interpretrato da uno straordinario Sean Penn. Fanno parte del cast anche Anthony LaPaglia, Uma Thurman e una incredibile Samantha Morton, bellissima e candidata a diversi premi come migliore attrice non protagonista.
Sto parlando di Django Reinhardt.
Nato a Liberchies in Belgio nel gennaio 1910, Django Reinhardt nasceva in una famiglia di etnia sinti. Oppure "manouche" secondo la terminologia francese. Dopo un lungo girovagare la sua carovana si fermò presso la periferia di Parigi in Francia, dove Django visse per lo più la sua intera esistenza.
Uno dei più grandi e influenti chitarristi della storia del jazz, Django Reinhardt seppe coniugare la tradizione musicale della musica gitana, derivata dalle radici nell'India subcontinentale e sviluppatasi nel corso dei secoli da quel crogiuolo e incontro di culture che fu l'Europa mitteleuropea, la antica Armenia e quella che oggi chiamamo Boemia, con la musica jazz importata dal Nord America.
Esponente di spicco della cultura della propria comunità, Django Reinhardt è considerato dagli zingari come un vero e proprio eroe e come la più grande personalità che si sia imposta al di là del jazz al di fuori della cerchia del mondo manouche.
Django è il viaggiatore che si è imposto presso i "contadini".
Dopo una menomazione alla mano sinistra, sviluppò una sua particolare tecnica chitarristica che è ancora oggi deliberatamente imitata da parte della moltitudine di chitarristi che si sono ispirati e che si ispirano a lui.
Sergio Corbucci lo omaggiò dandò il suo nome a uno dei personaggi più famosi della storia dello "spaghetti western" (un film ripreso poi in tempi recenti da Quentin Tarantino): "Django". Interpretato da Franco Nero.
Fu anche pittore e a modo suo poeta, che non sapeva leggere e scrivere, ma che "cantava" con la sua chitarra trasmettendo in via orale la cultura e la storia della sua comunità come fece a suo tempo Omero con i suoi poemi.
Che altro aggiungere?
D. Penso che vada bene così [Ndr. Sorride.].
Hai ragione, cominciamo pure con l'intervista allora.
D. Sì sì, va benissimo.
1. Buonasera Django e grazie di essere qui con noi stasera. Penso che questo sia uno di quei casi tipici in cui, pure interloquendo con un musicista, dobbiamo in qualche modo ampliare i nostri orizzonti e parlare anche di altro. Al contrario di quello che si pensa di fatto tu non sei esattamente un "gitano", ma nasci in Belgio da una famiglia di etnia sinti (quelli che i francesi chiamano "manouche"). Pure viaggiando molto, hai vissuto per lo più tutta la tua esistenza in Francia e attorno alla città di Parigi. Ciononostante tu sei considerato come l'eroe di un intero popolo. Gli zingari vedono in te l'equivalente di un dio, l'unico uscito da questa grande comunità che abbia varcato i tempi e le frontiere e imponendosi alle generazioni successive al di là del jazz. È una domanda sicuramente difficile, ma volevo chiederti quanto questo sia importante per te e se questa considerazione ti pesi in qualche modo. A parte questo se e quanto le tue origini abbiano influito sul tuo modo di suonare.
D. Penso che sia più facile rispondere alla seconda domanda. Quando mi chiedi quanto le mie origini abbiano influito sul mio modo di suonare.
Tutti quanti nella mia famiglia, nella mia comunità, suonavano. Suonavamo quelli che voi chiamate i valtzer tzigani, la musica tradizionale del nostro popolo. Così ho cominciato anche io. È stato un fatto naturale, non ho dovuto fare nessuno studio particolare quando ho cominciato a suonare. Probabilmente questo come dici, è il nostro modo per raccontare delle storie, trasmettere la nostra cultura di generazione in generazione, come fate voi con la storia scritta. Voi scrivete le vostre storie, noi le raccontiamo e le tramandiamo ai nostri figli attraverso la nostra musica. Penso che hai bisogno di un posto dove custodire le storie "scritte" e noi siamo un popolo nomade. Non abbiamo nessun posto dove conservare. La musica non ha bisogno di essere scritta. Non ci sono mai stati spartiti e tutto quello che abbiamo, lo portiamo dentro di noi.
Mi chiedi poi se mi sento come se fossi l'eroe di un intero popolo. Se è così, questa cosa non mi pesa affatto. Sono stato sicuramente un musicista molto conosciuto durante i miei anni, così in Europa come negli Stati Uniti d'America e forse sono stato il primo della mia comunità a diventare così famoso e se per questo ho fatto qualche cosa di buono per il mio popolo oltre che per me, questo è sicuramente positivo. Penso di essere ancora ricordato e non solo nella mia comunità. Ma penso anche che oggi i tempi siano diversi che in passato e che il nostro modo di vivere sia sempre più raro e che a causa di questi cambiamenti ci sono stati altri appartenenti alla nostra comunità che sono diventati molto conosciuti. Questo anche nel mondo della musica. Penso a Bireli Lagrene oppure Jimmy Rosenberg, Stochelo Rosenberg... Anche i miei figli Lousson e Babik. Mio nipote David... Ma questo è normale. Il mondo è diventato improvvisamente più piccolo. Forse è troppo piccolo perché una popolazione possa considerarsi ancora nomade.
2. Django, è il 2 novembre 1928. Hai diciotto anni, ti sei già sposato con Bella e sei andato a vivere con lei in una tua roulotte regalata da tuo suocero in occasione delle nozze. Avevi già cominciato a farti conoscere in giro come musicista: eri stato ingaggiato per suonare il banjo nella orchestra di Jack Hylton. Ma quella notte un terribile incendo scoppiato disgraziatamente nella roulette ti costrinse alla menomazione e la perdita dell'anulare e il mignolo della mano sinistra. Continuare a suonare il banjo era impossibile. Secondo il medico non avresti mai più potuto suonare. Poi tuo fratello Joseph ri regalò una chitarra...
D. Sì. È inutile ricordare questa storia: fu una disgrazia. Ritornai di notte a casa e Bella dormiva. Quando abbiamo acceso una candela per fare luce, questa ci scappò di mano e in poco tempo ci furono fuoco e fiamme dappertutto. Rimasi in ospedale per un anno e mezzo: volevano amputarmi la gamba destra ma rifiutai.
Fu allora che mio fratello Joseph mi regalò una chitarra. Non potevo più suonare il banjo. Il banjo è uno strumento troppo rumoroso per poter essere suonato in un ospedale e poi era veramente troppo pesante. Così cominciai a esercitarmi con la chitarra. All'inizio questa era una sfida con me stesso per vedere se riuscivo a recuperare l'utilizzo della mano, ma in seguito acquistai una familiarietà tale con la chitarra da farne il mio strumento principale e... Paradossalmente questa fu una fortuna perché è proprio come chitarrista che sono diventato famoso e ancora oggi ricordato da tutti.
Django, tu sei ricordato come un vero e proprio virtuoso dello strumento e un compositore fertilissimo. Eppure molti ti ricordano principalmente per il fatto che avevi rivoluzionato il modo di suonare la chitarra. A causa della menomazione sviluppasti infatti una tua tecnica particolare e che non prevedeva l'uso dell'anulare e del mignolo. Secondo alcuni storici però questa tecnica era già diffusa presso i musicisti manouche. In ogni caso è vero che oggi ci sono musicisti che suonano in quel modo per imitare il tuo stile?
D. Alla seconda domanda penso che tu possa rispondere meglio di me, perché si tratta di qualche cosa che riguarda il tempo presente. Il mio futuro. Però sì, so che ci sono molti musicisti manouche o che comunque diciamo che vogliono imitare la mia musica e il mio stile e che cercano di suonare anche loro senza usare l'anulare e il mignolo. Se vuoi sapere io che cosa penso, però, ti dico che questa mi sembra una grande sciocchezza: perché mai dovresti rinunciare a usare tutte e cinque le dita? Non c'è nessun motivo. Immagino che se avessi potuto farlo, se avessi potuto usare cinque dita invece che tre, avrei suonato ancora meglio. Ne sono sicuro.
Quello che dicono questi "storici" di cui parli invece è una bugia. È una storia inventata per la stessa ragione che ti ho spiegato: perché se hai cinque dita, devi usarne solo tre? Non ha nessun senso.
3. Il Quintette du Hot Club de France! Il critico Thom Jurek (ma non solo) lo hanno definito come uno dei gruppi più originali nella storia del jazz. Sicuramente era un ensemble rivoluzionario per come lo avevate concepito, composto da cinque elementi e da soli strumenti a corda. La formazione più celebre è quella composta da te e i chitarristi ritmici Roger Chaput e tuo fratello Joseph, il bassista Louis Vola e il violinista Stéphane Grappelli. Fondamentalmente tuttavia il gruppo aveva come componenti stabili e principali te e il Grappelli. Penso che la collaborazione tra voi due si possa definire una di quelle combinazioni uniche nel corso della storia della musica e l'incontro tra due virtuosi della storia del jazz senza pari. Ci racconti qualche cosa del vostro incontro?
D. È una storia curiosa. Io e Joseph passavamo un sacco di tempo in un bar a la Rode chiamato "Chez Thomas" o al "Café des Lions" dove suonavamo e chiedevamo l'elemosina. Qui conoscemmo sia il pittore e fotografo Emile Savitry che ci iniziò al jazz degli americani, musicisti che non avevamo mai ascoltato prima e di cui avevamo solo sentito parlare: Louis Armstrong, Duke Ellington, Joe Venut, Eddie Lang...
Poi conoscemmo Louis Vola, che allora suonava la fisarmonica e cominciammo a suonare con la sua orchestra... Dopo un po' di tempo incontrai Stéphane, suonavamo negli stessi cortili dove entrambi chiedevamo l'elemosina: lui allora suonava con l’orchestra di questo André Ekyan. Oggettivamente in quel contesto era sprecato. Fui molto colpito dal suo modo di suonare, così una sera lo invitai sul mio carro a cena e da quel momento cominciò la nostra collaborazione.
Stéphane ricorda che in quell'occasione suonaste "Honeysucle Rose".
D. Non lo so. Non riesco a ricordare con precisione. Ma se lo ha detto Stéphane allora sarà stato sicuramente così.
Ma è vero che avevate due caratteri radicalmente diversi?
D. Stéphane era un musicista incredibile, che sapeva associare la musica jazz degli americani alla musica più popolare e folkloristica e quella della tradizione manouche. Anche se lui non era un manouche. Aveva invece una storia molto particolare alle spalle. Suo padre era stato un professore di filosofia, aveva origini nobiliari e Stéphnane era per metà italiano. Aveva studiato al conservatorio ma non aveva finito gli studi: aveva una formazione culturale e musicale che raccontata in questo modo può sembrare incompleta, ma che invece si completava con tutti questi elementi diversi incastonati tra loro.
Avevamo caratteri diversi? Sì e no. Penso che il punto di vista differente fosse quello che riguardava il modo di considerare la nostra attività di musicisti. Lui pensava che suonare era qualche cosa di interessante ma che non bastava per guadagnarsi da vivere. Io non mi sono mai preoccupato di questo aspetto. Per me suonare è sempre stato una parte della mia vita, qualche cosa che avevo sempre fatto e che avrei continuato a fare sempre e in ogni caso possibile. L'unica differenza rispetto agli altri appartenenti alla mia comunità sta nel fatto che io ero il più bravo, il più bravo di tutti, e per questa ragione ho cercato di migliorarmi sempre di più e confrontarmi con i migliori musicisti in Europa e nel mondo.
4. Django, un film documentario uscito di recente [Ndr. Non è il primo film e/o documentario dedicato a Django Reinhardt ovviamente.] di un regista e produttore francese di nome Ètienne Comar, racconta la Francia nel 1943 sotto l'occupazione nazista e del fatto che la tua musica fosse ammirata anche dagli ufficiali tedeschi. Si racconta allo stesso modo sia di una tournée che avresti dovuto intraprendere a Berlino al cospetto di Goebbels e del Fuhrer stesso e della tua fuga in Svizzera con una amante doppiogiochista di nome Louise. Il film ti presenta in qualche maniera come una specie di eroe all'interno della comunità sinti. Che cosa pensi al riguardo?
D. Non ho visto questo film. So che sono stato "doppiato" da Stochelo Rosenberg, che ho già menzionato prima e che è un bravo chitarrista. Uno dei migliori. Ma la storia raccontata da questo signore in questo film-documentario è tanto bella quanto falsa e completamente inventata.
Mi piacevano le donne, questo è vero, ma non ho mai conosciuto nessuna Louise. Ho avuto due compagne stabili e che ho amato molto: la mia prima moglie Bella e Naguine [Ndr. Vero nome: Sophie Ziegler.], che sposai nel 1943. Sono state le madri dei miei due figli: Lousson e Babik. So che questa donna, questa Louise, è stata una specie di invenzione cinematografica del regista per raccontare la storia, ma non è mai esistita.
Allo scoppio della guerra mi trovavo in Inghilterra con Stéphane e il resto del quintetto. Ma non sono tornato in Francia perché volevo fare parte della resistenza o come simbolo di resistenza dei manouche. L'ho fatto perché avevo paura delle bombe e perché sapevo che i nazisti non mi avrebbero perseguitato: mi sembrava la soluzione migliore per sopravvivere. Inoltre, per quanto possa sembrare strano per uno zingaro, non mi piaceva stare troppo tempo lontano da casa e volevo ritornare a Parigi.
Una volta in Francia riformai il quintetto con Hubert Rostaing al clarinetto, perché Grappelli decise di rimanere in Inghilterra. La storia che riguarda questa tournée in Germania e a Berlino al cospetto di Goebbels e Adolf Hitler è completamente inventata ma è vero che ai nazisti piacesse sentirmi suonare. Del resto non potevo certo impedirglielo.
Tutto questo non significa infatti che io fossi un nazista (è vero che cercai anche di fuggire in Svizzera del resto) o che sia stato insensibile a quelle che sono state le persecuzioni e il genocidio delle popolazioni rom e sinti in Europa. È stata una pagina tragica per il mio popolo e per tutta l'umanità. Non penso che spetti a me raccontarla, sappiamo tutti che cosa è successo.
E tu hai scritto una delle tue canzoni più belle, "Nuages", come "requiem" in memoria di tutti i caduti...
D. Non andò esattamente così. Io continuai a suonare e scrivere canzoni durante quegli anni ovviamente. Tra queste canzoni vi fu "Nuages", diventò in maniera del tutto casuale una specie di inno di speranza per tutta la popolazione di Parigi. Durante un concerto al Salle Pleyel suonai la canzone tre volte di seguito...
5. Parliamo degli ultimi anni. Dopo la guerra e una reunion con Stéphane Grappelli, nell'autunno del l946 andasti per la prima volta in tour negli Stati Uniti d'America dove andasti in tournée con Duke Ellington. La storia vuole che in verità la prima cosa che tu abbia fatto una volta sbarcato in America sia stata quella di cercare Dizzy Gillespie, è vero? Che ci puoi raccontare comunque di questa esperienza?
D. Sì, è vero, volevo a tutti i costi ascoltare Dizzy Gillespie. Un musicista fantastico. Lui e la sua orchestra rappresentavano appieno la musica degli anni sessanta. Con questo voglio dire che erano praticamente avanti di vent'anni.
Ma le cose non andarono benissimo. Penso che l'America non mi abbia accolto come meritavo. Non mi ero portato la chitarra e me ne diedero una che somigliava a una grande casseruola, come se fossi l'ultimo arrivato. Inoltre il mio stile non piaceva ai critici americani. Ma gli Stati Uniti d'America non erano quel posto fantastico che mi avevano raccontato. C'era molta discriminazione nei confronti dei neri, figuriamoci nei confronti di uno zingaro come me.
Cominciai presto ad annoiarmi e decisi di ritornare in Francia.
Mercer Ellington, il figlio di Duke, dichiarò che "Esiste una vera parentela musicale tra i neri e gli indiani (dell'India da dove hanno origine gli tzigani), e in particolare nel loro rapporto con il ritmo. L'utilizzo delle terzine nella musica indiana è quasi evidente come nello swing - da... dada... da... dada... da... dada... Come se fosse un valzer rapido." Aggiungeva inoltre il fatto tu fossi un musicista straordinario e che il padre ti ammirasse molto.
D. Duke Ellington era un grande musicista e sono contento di avere suonato con lui, ma se vogliamo raccontare la verità, possiamo dire che io potevo suonare benissimo con questi musicisti, ma loro non potevano suonare con me. Non avevano una mentalità abbastanza flessibile. È il limite di molte grandi orchestre americane secondo me. Non riuscivano letteralmente a starmi dietro
Raccontai a Stéphane di questo viaggio e in generale della grande delusione. Dopotutto non avevo trovato nulla di nuovo negli Stati Uniti d'America. Stéphane rise e mi disse che ero un idealista e che il mio modo di suonare non avrebbe mai potuto avere nulla a che fare con le grandi orchestre americane e che la mentalità negli Stati Uniti d'America era diversa e che se volevo sentire del vero jazz avrei dovuto andare a Harlem o sulla cinquantaduesima strada, perché lì avrei forse potuto trovare qualche cosa in comune con la mia musica. Non lo so se questo fosse vero, ma la verità è che me ne ritornai in Francia molto deluso e non volli più saperne degli Stati Uniti d’America.
Erano gli anni in cui avveniva la scissione tra il be-bop e il jazz. Nasceva un nuovo tipo di linguaggio. Veniva introdotta la chitarra elettrica. Come hai vissuto queste innovazioni?
D. Bene. Francamente le nuove sonorità furono una sfida interessante, ma non ebbi nessun problema in questo passaggio. Lo stesso vale per la chitarra elettrica. Posso dire che il cambio fu naturale.
E della rivalità con Les Paul?
D. Nessuna rivalità. Lui ha sempre dichiarato di considerarmi un grande chitarrista.
E tu cosa pensi di lui?
D. Era bravo sì. Non ho molto da dire al riguardo.
Capisco. Be', che altro dire? Penso che sia stata una chiacchierata molto interessante e nella quale abbiamo soddisfatto la curiosità di molti dei nostri ascoltatori che sicuramente amano la tua bellissima musica.
D. Sono contento di avere potuto comunicare con loro e che nonostante siano passati tanti anni, ci siano ancora dei miei ascoltatori e appassionati. Li ringrazio e li saluto tutti.
E io ringrazio ancora te Django per questa intervista e ringrazio anche tutti i nostri ascoltatori a cui dò appuntamento la prossima settimana. Buona serata a tutti!
"Le vite nei film sono perfette. Belle o brutte, ma perfette. Nei film non ci sono tempi morti. La vita è piena di tempi morti. Nei film sai sempre come va a finire. Nella vita non lo saprai mai."
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