editoriale di Flo

Non c’è dubbio che io, a diciotto anni, fossi (già) una persona strana.

Per il mio compleanno, invece di feste con tanti invitati quanto potrebbero essercene a un matrimonio, mi feci regalare un viaggio a Lisbona con i miei.
Erano i primi di settembre, di certo non sapevo che quel viaggio, a posteriori, mi avrebbe segnata tanto.

Ma ricordo perché avevo scelto Lisbona: Pessoa, il suo Livro do Desassossego, il Libro dell’inquietudine tradotto da Tabucchi, aveva già scavato un solco nella mia adolescenza, nella mia anima e nelle mie tasche: me l’ero portato ovunque, era l’unico libro in italiano che mi aveva seguita nel mio anno in Norvegia, quando avevo diciassette anni, e ha ancora il suo posto d’onore sulla mia libreria, tenuto come un cimelio, neanche troppo spiegazzato.

Di quel viaggio ricordo tanto caldo e tanta pioggia.
Tantissima, come raramente ho visto piovere nella mia vita, tanta pioggia da costringerci, una sera, ad aspettare mezz’ora rintanati nel foyer del Teatro Politeama.
Ricordo anche tanta insonnia da crampi da disidratazione: le salite di Lisbona non perdonano.
Ricordo gli amici pigri e rompiscatole dei miei che viaggiavano con noi.
Ricordo un senso di incompleto, di amaro in bocca, di non visto che mi lasciò quel viaggio.

Soprattutto, ricordo una sensazione di meraviglia, la sorpresa per la luce accecante sul lastricato nel primo pomeriggio, l’incanto per la lingua meravigliosa e strascicata dei portoghesi, la grandezza dell’oceano di Cascais, il profumo di pesce e la puzza di baccalà, l’odore di dolci appena sfornati. Il fascino di quella decadenza malinconica che pervade ogni angolo della città e che ti entra dentro o ti ripugna.
Le stesse sensazioni che ho provato ogni singolo giorno quando a Lisbona ci sono tornata in Erasmus.

La voglia di tornare.

A Lisbona, poi, ci sono tornata in un altro viaggio, ci ho vissuto per cinque mesi, e sono castigata ogni giorno da quel sentimento pieno di sospiri che è la saudade, un sentimento tutto portoghese, di cui Lisbona rappresenta la concretizzazione.

Nella vita, io non mi sono mai innamorata, se non di Lisbona e del Portogallo. Del portoghese, a cui mi dedico da cinque anni e che mi hanno impedito di continuare a studiare, strappandomi un pezzettino di cuore. Di Pessoa e del suo Libro dell’inquietudine, quella reliquia della mia adolescenza su cui ho scritto pagine e pagine inutili di tesi.

Di quel viaggio a Lisbona conservo ancora un piccolo dettaglio, un libro che mio padre contrattò con il commesso di una libreria antichissima (l’ho scoperto dopo, detiene il Guinness come libreria in attività più antica del mondo), parlandogli in italiano.
Era un libro di poesie, un’antologia, ovviamente di Fernando Pessoa.
Sfogliandolo, ore dopo, scoprii con rammarico che era difettoso, che mancavano alcune pagine, rimaste bianche, e che non avrei potuto cambiarlo. Cercai comunque di comprenderne il contenuto, aggrappandomi ai pochi appigli che quella lingua che ancora non conoscevo mi offriva.

Mai avrei pensato che il futuro fosse scritto tra le pagine bianche di un libro stampato male.



di più
editoriale di Bartleboom

Recensire, giudicare, analizzare, sezionare, in una parola "criticare" puo' apparire a molti come un mero esercizio di confutazione, affossamento o elogio iper realista. All'università, gli insegnamenti in tal senso affondano radici in quel sociologismo positivista di stampo marxista che separa e incanala i temi a seconda della loro derivazione anche (ideo)logica. A tutto questo bisognerebbe dire stop.

Leggendo molti commenti, e non solo su questo divertente sito, salta al nasocchio che il "gusto" spesso si confonde con la capacità "tecnica" dell'autore-regista.
Un film puo' essere contemporaneamente eccellente (ovvero mi è piaciuto tanto) e orripilante ( dialoghi piatti, montaggio farraginoso, interpretazione latente). Mi si chiederà allora: "cos'è che ha reso quella pellicola così attraente? E si torna al vecchio caro positivismo marxista. Al sapore sciapo e a un uso approssimativo della cinepresa, si contrappone un forte messaggio ( o contenuto) atto a ribaltare l'esito della "critica" facendo sì che alla fatidica monosteletta (i parametri sono solitamente da una a quattro o cinque) si giunga addirittura ad elargirne quattro.

Rifiutandomi di annoiarvi con dieci cartelle, concluderò con questa dichiarazione d'intenti che da ormai 30 anni mi segue.

Si rifugga il compiacimento politico, si eviti di affidare al contenuto la corona del giudizio, si tenga conto della capacità attoriale e tecnica dell'intero cast, si valuti l'opera da almeno due punti di vista (tecnico-emotivo), infine al minestrone potremo aggiungere quel pizzico di sale che corrisponde al nostro specifico gusto personale.
Servita in tavola la pietanza troverà ugualmente detrattori e folle acclamanti evitando però quei paradossi che almeno alla mia persona infastidiscono.

Puo' un film essere considerato da un recensore CAPOLAVORO e da un altro "ignobile PASTICCIO?"

No, non dal punto di vista critico.
Una forbice tanto ampia è comprensibile solo nel parametro gusto e non rientra nel compito di un'analista, foss'anche egli un neofita o un appassionato privo di attestati universitari.

Ognuno di voi, indossati i panni del giornalista cinematografico, dello storico, si ricordi che dietro a una produzione c'è sempre un lavoro complesso, nella maggior parte dei casi, difficile e faticoso che merita se non altro un briciolo di rispetto.

Se vi sarà una prossima volta potremo così affrontare la parabola del "commerciale"......ma questa è un'altra faccenda. Buone letture e buone visioni.

P.C.


di più
editoriale di G

Ti ricordi quel film?

Quello claustrofobico, giapponese, c’era una tipa che finiva in una stanza, tutta spoglia e verde. Mi ricordo solo questo di tutto il film. Forse doveva prostituirsi. Non ricordo altro.

Di Johnny Mnemonic ricordo poco di più: quello strano personaggio. Una lei virtuale che stava invecchiando, perdendo segmenti della propria memoria.
L’ho visto al cinema quando è uscito. Parecchi anni fa. Andava di moda il “cyber punk”.

C’erano degli ideali nell’aria, si respiravano.
Si immaginava quanto la rete avrebbe potuto fare e si ragionava in termini idealistici. Informazione libera, per tutti, conoscenza libera, sapere immediato.
C’erano entusiasmi. Tutto quello che prima era difficile da raggiungere ora sembrava a portata di mano. E noi giù a comprare modem, monitor, portatili, server, tutti di corsa a preparare le avveniristiche autostrade dell’informazione, a lavorare nel settore, a progettare spazi di interazione.

Ho fatto parte di tutto questo in un modo o nell’altro e oggi, se mi guardo attorno, ho la sgradevole sensazione che quell’occasione sia andata persa.
Mi sembra che, alla fine di una parabola, tutta “‘st’infrastruttura”, serva solo per “informarci” su cosa twitta il politico di turno e su cosa gli ritwitta l’oppositore farlocco di turno.
Per farci conoscere le svendite sul sito d’occasioni e attaccarci il virus di qualche video della tal casa automobilistica che “guardalo, fa morire darridere”.
Per farci apprezzare la dolorante clavicola rotta dall’impavido skater, l’ilarissimo spavento del collega ischerzato, le comiche del gatto, la rabbia del cane, il dramma del coccodrillo, le tette ballerine della bulgara di turno, lo schianto in autostrada filmato per errore e quello che si lancia su un cactus.

La sensazione è sgradevole perché se quello che sento è vero, allora è anche vero che io mi sbagliavo, che mi sono sbagliato per anni.

Ho sempre lottato contro l’idea che voleva DeBaser diventasse un salottino chiuso e riservato, dove pochi snob parlassero tra di loro a un livello inaccessibile agli altri.
Ho sempre sperato in un DeBaser se vogliamo proletario, confidando in un qualche proletariato illuminato, per anni soffocato dall’impossibilità di esprimersi, di trovare canali di comunicazione.
Pensavo che, una volta che avesse avuto lo spazio, l’idea luminosa che immaginavo in tutti, sarebbe potuta emergere.

Ero candidamente convinto che la gente non esistesse, che esistessero persone, pensavo che queste persone, una volta che si fossero potute incontrare avrebbero preso il meglio le une dalle altre.

Però mi sembra di capire che da alte parti, dove sì, si è riusciti a conquistarlo quel proletariato, dove la gente va a farsi bombardare di informazioni inutili, contrastanti, parziali, dannose, a sovraesporsi fino a perdere del tutto la memoria, mi sembra di capire, dalla schiuma che lì emerge, come sotto non fermenti nulla di particolarmente illuminato.

Forse allora, in tutta questa storia che mi sembra di ricordare meno di quel film giapponese, qualche scusa è dovuta, da parte mia a chi non la pensava come me.
E qualche ripensamento andrebbe valutato su come potrebbero andare le cose qui.


di più
editoriale di andisceppard

Pensatela come vi pare, io piango Marco Pantani.

E non solo, anche se pure, per l'uomo solo al comando. L'uomo che parte, e ti fa saltare sulla sedia. L'eroe, quello che lo segui, lo guardi, vuoi sapere.
E nemmeno solo per quella roba, piantata nella mia testa, del perché vai così veloce in salita, risposta perché così si abbrevia la mia agonia.

Piango Marco Pantani, drogato oppure no, perché è il mio ultimo eroe.

Droga, nel ciclismo, c'è da sempre, inutile fare finta di no. Parlate con chiunque, questo sport, lo pratica. Anche a livello semiprofessionistico. Ve lo dice. Papale papale. O prendi la bomba o non vai avanti.
Dai tempi di Coppi, forse anche prima. C'è. Piantiamola con le cagate, le idee dei complotti, Vallanzasca che dice che uno gli ha detto di scommettere, quelle robe lì.

C'è e c'è da sempre. Ma, nonostante ciò, rispetto.

Pantani, dalla sua carriera, bella, sfolgorante e indimenticabile, ne ricava una villa, poco lontana da Cesenatico.
L'ho vista, quella villa lì. Bella. Tipo che qualunque calciatore, chiunque giochi diciamo in serie c, se ne fa una grande il doppio.

Ma lui l'ha pagata, quella villa lì. L'ha pagata con la sua agonia, con la droga, con la cancellazione dalla memoria. Sei solo un drogato, vatteneaffanculo, e maledetto me, che per te ci ho gioito, e sofferto.

Lo sport, come tutti i maschietti, lo seguo fin da quando ero bambino. E c'ho i miei eroi, i miei amori, le mie preferenze. E quando sei bambino pensi che sia una cosa vera, lo sport, il tifo, voler bene a una squadra, seguirla, anche quando va male.

Fare - ad esempio, come è capitato a me - coraggio a un pippone come Luther Blissett. Perché è della tua squadra. Oppure piangere al goal di Mark Hateley, nel derby di mille anni fa. Quel goal di testa, liberatorio, dopo milioni di derby persi. O condividere la sua gioia, così vicina ad un orgasmo, dopo un goal di rapina contro la Roma.

Poi cresci.
E ti rendi conto che di te, alla tua squadra, ai tuoi idoli, non gliene frega niente. E allora trovi un altro modo, per condividere, per gioire.
Cerchi, e trovi, qualcuno che ti racconta una storia.
Perché questo - di fondo - è quanto di bello c'è nello sport. Che qualche volta, inaspettatamente, inspiegabilmente, ti racconta una storia.

Come la storia dell'Olanda del '74, a Monaco di Baviera, la squadra più rivoluzionaria di ogni tempo. All purpose, come dicono gli americani. In ogni sport, in ogni cosa. O l'Italvolley di Velasco. L'orgoglio. Inaspettato e insperato. O l'Olimpia del Nano Ghiacciato, bella e sfortunata. O i Kardiac Kids, da sempre nel mio cuore, o mille altri.

E persone, anche. Come gli Unti Dal Signore. Maradona, Tomba, Kasparov, solo per citare i primi tre che mi vengono in mente. Anche un po' teste di cavolo, per carità. Ma insomma, se si parla di quello sport lì (il calcio, lo sci, gli scacchi) non c'è niente da dire. Stai lì e li guardi.
E dici nessuno potrà mai essere come te. Mai. Si spegne. Si chiudono le iscrizioni. FInita.
Belli, gli Unti Dal Signore (chiunque egli sia).

Ancora più bello, indimenticabile, Uno che, prima di una tappa in salita, gli chiedono: cosa farai, che piano hai. E lui risponde non lo so. Non so che Marco Pantani sarò oggi. E spero di esserlo, il Pirata. Uno che il signore non l'ha baciato. Uno che - per lui - ogni cosa che ottieni è sofferenza. Droga o non droga. Uno che - sul traguardo, vincitore - non ha mai sorriso. Ma solo tirato il fiato. E detto, madonna, guarda che Pantani sono stato oggi. Non lo so se riuscirò mai più ad esserlo.

Uno che non solo non lo sa di essere eroe. Ma nemmeno sa se riuscirà ad essere sé stesso. Mai.

Ecco, da quel giorno lì, da quel giorno a Madonna di Campiglio, dello sport non me ne frega più niente.

E piango Marco Pantani, pensatela come vi pare.


di più
editoriale di RIBALDO

A casa mia, in camera da letto, sul comodino accanto al letto matrimoniale dei miei genitori, c'è sempre stata una fotografia che ormai da molti anni non c'è più.
Chissà se esiste ancora riposta nell'armadio ...o se è andata perduta.

E' una fotografia bellissima in b/n, direi artistica,sebbene non fu scattata con questo intento.
Ritrae in primo piano mio fratello Lorenzo il primogenito, di due anni e mezzo più grande di me, il quale, divincolatosi dalle grinfie di mia madre che invano cerca di tenerlo a bada, scatta in avanti e, camminando a passo di marcia emette una pernacchia.

Insomma c'è questo bambino in primo piano, immortalato mentre cammina, si vede un piede a mezz'aria, la lingua leggermente all'infuori, sapete come si fa una pernacchia no? Ebbene lo scatto avvenne proprio nel preciso istante in cui spernacchiava, quante pernacchie fece!

Un braccio è proteso in avanti, non è disteso ma curvo col pugnetto chiuso ed il gomito a 90°.
Lui è raggiante di felicità, sta facendo delle pernacchie bellissime, è al centro dell'attenzione e lo sa, tanta gente lo sta guardando.

Ricordo perfettamente quella scena, nella foto ci sono anch'io con mamma, lei mi tiene per mano e guarda mio fratello che è avanti di qualche metro, con un misto di vergogna e divertimento. Siamo in un viale alberato, si sta sposando sua sorella, zia Dina, più giovane di mamma di qualche anno.

Ricordo non solo la scena ma cosa sto pensando in quel momento. Invidio mio fratello "libero" che fa le pernacchie. Muoio dalla voglia di farle anch'io ma non ho scampo, il più grande è fuggito ok ma a me non sarà permesso.

Perchè Lorenzo fa quelle pernacchie? Perchè la sera prima vediamo un film, o meglio uno spezzone al tg e c'è questo bambino che fa la stessa cosa. Ricordo anche la sera precedente dunque.

Ma come è possibile che io mi ricordi questa cosa? Ero troppo piccolo, avevo 2 anni e 10 mesi! Eppure ricordo quella sera, quella scena, lo spezzone di film nel tg della sera e l'espressione sgomenta dei miei nell'apprendere la triste notizia. Ed io capivo tutto, capivo perfettamente che era accaduta una cosa grave o perlomeno assai spiacevole.
Qualcosa di ingiusto, qualcosa di sbagliato.

Sono sicuro che è solo grazie alla fotografia, che ha fatto bella mostra di se nella camera dei miei e che avrò visto centinaia di volte che il ricordo si è "impresso" nella memoria.

Man mano che passavano gli anni mi capitava di guardare la fotografia e di ricordare quel giorno.

Era il 27 settembre del 1973.

Il giorno prima, il 26 settembre del 1973, moriva Anna Magnani.


di più
editoriale di Bartleboom

Di notte, in ospedale, non si riesce proprio a dormire.

Il campanello suona in continuazione, le infermiere parlano ad alta voce per tenersi sveglie, c’è uno, nella stanza a fianco, che chiama la moglie perché vuole andare a casa. A te hanno dato una sedia su cui dormire e porca la miseria averlo saputo almeno mi portavo un cuscino per appoggiare la testa.
Hai i piedi gonfi per la giornata appena trascorsa.
Gli occhi stanchi per dovere stare al buio.
Il caffè della macchinetta ti fa capire che no, non hai risolto del tutto quel problema di reflusso.
E di uscire a fumare non se ne parla, perché se magari “lui” o “lei” si sveglia, vuoi essere lì.
Mica che succede qualcosa…


E allora, di notte, in ospedale, cammini. Cammini nella stanza, intorno ai letti. Conti i passi dalla porta alla finestra.
Cammini nei corridoi, passando davanti agli ascensori, intercetti le chiacchiere delle infermiere
E speri che il tempo passi in fretta.
E di solito no, non passa in fretta.

Di notte, in ospedale, conosco Antonio, un signore non esattamente distinto, sulla cinquantina, che mi risulta subito simpatico quando, al momento delle presentazioni, si gioca il tutto per tutto con un: “Dammi pure del tu, che tanto siamo praticamente coetanei”.

E’ lì per sua madre, a suo dire “una cacacazzi pluridecorata”, di quelle che dormono 10 minuti alla volta, solo per il gusto di svegliarsi e lamentarsi per il caldo/freddo/fame/dolore/noia/stanchezza, con una brutta tosse che mi sa tanto che nasconde qualcosa di ancora più brutto.

Fin dalla prima sera, io e Antonio chiacchieriamo un sacco, ma è lui quello che ha più urgenza di parlare.
E così, in circa due settimane, da mezzanotte alle sei, Antonio mi racconta di fatti, persone, case e cose talmente belli che non possono non essere veri.
Mi parla di un viaggio a Parigi fatto a vent’anni, che gli ha cambiato la vita perché “c’eravamo noi che puzzavamo di pasta al sugo cucinata da mammà e c’erano tutti sti ragazzi di 17, 18 anni che vivevano in 6 in un sottotetto pur di andarsene da casa”.
Mi racconta della Milano da bere degli anni ’80, di un frego di soldi persi al gioco, di vacanze sulla barca del suo amico figlio di cotanto padre, di cene in ristoranti di lusso che oggi nemmeno esistono più. Non mi parla quanto vorrei dei due anni vissuti da single con due hostess per vicine di casa.
Mi parla di una donna con cui è stato fidanzato 10 anni, di quando l’ha lasciata, e di come, dopo solo pochi mesi, si è messo con quella che, oggi, è sua moglie e la madre di sua figlia.

Mi parla di suo padre.
Mi dice che non si rivolgevano la parola da un sacco di tempo. Da anni, addirittura.
Finché al suo vecchio non hanno diagnosticato un male di quelli brutti e ad un certo punto i dottori gli hanno detto “Forse è il caso che vi salutiate come si deve”.
E allora padre e figlio hanno ricominciato a parlare.
E a camminare insieme.

Perché il padre di Antonio aveva una specie di infezione alla gamba e l’unico modo per avere un po’ di sollievo era camminare.
E visto che le forze poco alla volta lo stavano abbandonando, Antonio se lo prendeva sottobraccio e lo accompagnava in giro per i corridoi dell’ospedale.
Di notte, soprattutto.
Che tanto di dormire, la notte, in ospedale, proprio non se ne parla.

Finché, un giorno, Antonio non ce l’ha fatta più.
Perché di notti, in ospedale, non ne puoi mica fare tante, a rischio di crollare e di lasciare indietro la tua, di vita.

E allora Antonio mi racconta di Italo, un ragazzo sui vent’anni, studente di chissà quale facoltà, che per pagarsi i libri assisteva gli anziani di notte.
E io Italo me lo immagino come uno sfigatone pazzesco, di quelli che non parlano mai, con la faccia da babbazzo e i baffetti puberali pure a vent’anni. Ma buono.
E mi immagino che, col tempo, abbia preso la laurea e sia diventato un professionista affermato e apprezzato, magari ricco e magari con la moglie figa. Ma comunque buono.

Antonio mi dice che una volta, sarà stata l’alba o giù di lì, se ne stava a casa, nel suo letto, ma proprio non ce la faceva a dormire. Manco fosse in ospedale.
E allora s’è vestito ed è andato a vedere come stava suo padre.
Entrando nella stanza, lo ha trovato piegato in due dal dolore, con le mani strette intorno alla gamba malata. E, in un angolo, seduto tutto storto su una poltrona, il buon Italo che se la dormiva della grossa.

E Antonio s’è subito incazzato, è partito come un missile pronto ad indorare il culo del povero Italo con un rosone di calcinculo eccheccazzotipaghiamoafare.

Ma subito suo padre lo ha fermato.
“Lascialo stare, Antò… Hai visto come dorme bene? Se lo guardo non mi sembra nemmeno di stare in ospedale…”



Immagine: "Uncomfortable sleeping position" di Julia Boersma;

di più
editoriale di Bartleboom

Libertà

by Zaireeka (10 gennaio 2014)


Fra le tante vignette pubblicate sul web in questi giorni, disegnate in tutto il mondo in omaggio alle vittime della strage del 7 gennaio 2015 nella sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo, ce n'è una una che mi ha colpito particolarmente.

n questa vignetta (in francese) c'è San Pietro contrariato ed indispettito che, in piedi sulla nuvola più alta e con le chiavi del paradiso in mano, guarda tutte quelle intorno imbrattate con segni inequivocabilmente a forma di membro maschile, e recita: "Hanno già disegnato cazzi dovunque".

La trovo molto bella perchè è triste (tristissima), fantasiosa, e divertente (divertentissima), tutto insieme.

Tanto bella che ho deciso di farla diventare la foto del mio profilo.

Io non so se la libertà in fondo è una cosa "ultraterrena" come sembra suggerire la vignetta.

So solo che in queste circostanze mi sento molto piccolo, e non posso essere giustificato dal fatto che il direttore di Charlie Hebdo non avesse, a differenza mia, nè moglie, nè figli, e nemmeno un'auto.

Poi penso che non tutti nasciamo così coraggiosi da farci uccidere per la libertà di pubblicare delle vignette per poi finire a fare disegni sconci direttamente in paradiso.

C'è chi la libertà, piuttosto che esercitarla fino in fondo, si limita ad ammirarla quando è esercitata in pieno dagli altri, e questo è già qualcosa, oppure a sognarla, e nel migliore dei casi a suonarla sulle note dolci di una chitarra Pagina Web

Dio è misericordioso ed ha il coraggio di ospitare gli uni e gli altri, anzi ha bisogno di tutti e due.





Parigi e seguenti

by Geenoo (15 gennaio 2015)


Il Papa, in ritorno da un viaggio dallo Sri Lanka, il 14.01.2015 risponde ai giornalisti sui fatti di Parigi.

«[...] Credo che tutti e due siano diritti umani fondamentali, la libertà religiosa e la libertà di espressione. Non si può nascondere una verità: ognuno ha il diritto di praticare la propria religione senza offendere, liberamente, e così dobbiamo fare tutti. Non si può offendere o fare la guerra o uccidere in nome della propria religione, cioè in nome di Dio. A noi quello che succede adesso ci stupisce, no?, ma pensiamo alla nostra storia: quante guerre di religione abbiamo avuto! Lei pensi alla notte di San Bartolomeo. Anche noi siamo stati peccatori su questo. Ma non si può uccidere in nome di Dio. È una aberrazione. Con libertà, senza offendere, ma senza imporre, senza uccidere…Parlava della libertà di espressione. Ognuno non solo ha la libertà, ha il diritto e anche l’obbligo di dire quello che pensa per aiutare il bene comune. L’obbligo! [...] Abbiamo l’obbligo di parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. E vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasbarri, che è un amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno! Ma è normale! Non si può provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere in giro la fede. Papa Benedetto, in un discorso, ha parlato di questa mentalità post-positivista, della metafisica post-positivista, che portava alla fine a credere che le religioni o le espressioni religiose siano una sorta di sottocultura: tollerate ma poca cosa, non sono nella cultura illuminata. E questa è una eredità dell’illuminismo. Tanta gente che sparla di altre religioni o delle religioni, che prende in giro, diciamo “giocattolizza” la religione degli altri, questi provocano. E può accadere quello che accadrebbe al dottor Gasbarri se dicesse qualcosa contro la mia mamma! C’è un limite. Ogni religione ha dignità, ogni religione che rispetta la vita e la persona umana, e io non posso prenderla in giro. Questo è un limite. Ho preso questo esempio per dire che nella libertà di espressione ci sono limiti. Come quello della mia mamma».

Religione. Sottocultura. Libertà religiosa. Libertà di espressione. Provocazione. Reazione. Limiti. Giocattolizzare (=Ridicolizzare).

Ci sono limiti alla libertà di espressione?

P.s. Delfeil de Ton: «Ce l’ho veramente con te, Charb - ha scritto uno dei padri fondatori in una sorta di lettera al direttore e disegnatore assassinato -. Che bisogno c’era di trascinare tutti in questa escalation?». L’accusa, pesante, è di aver portato alla morte la sua redazione. Delfeil de Ton riconosce Charb ancora come «il mio capo», dalle colonne del Nouvel Obs’, di cui è opinionista dal 1975. Ne parla come «un ragazzo brillante», ma «un testardo». Ricorda la sua disapprovazione quando Charb, Stéphane Charbonnier, 47 anni, pubblicò il famoso numero con la testata modificata da Charlie Hebdo a Charia Hebdo (con un gioco di parole sulla Sharia) e «Maometto direttore» in un circoletto sulla copertina. Quel numero costò l’incendio dei locali della redazione, con una molotov, ma per fortuna nessuna vittima. «Charb non avrebbe dovuto rifarlo e invece lo ha rifatto nel settembre del 2012».

Ma, quel che è più doloroso, Delfeil de Ton testimonia nel suo articolo che Wolinski, il celebre caricaturista ucciso a 80 anni con il resto dei collaboratori, non condivideva la pervicacia di Charb e glielo avrebbe confidato: «Credo che siamo degli incoscienti e degli imbecilli che corriamo un rischio inutile. Tutto qui – gli avrebbe detto Wolinski un giorno.







di più
editoriale di De...Marga...

Sono ormai sei anni che ho degli enormi problemi lavorativi; da quando nel 2008 siamo entrati in questa subdola crisi economica, sto trovando grosse difficoltà nel guadagnarmi da vivere. Ed essendo padre il tutto si complica terribilmente.

Per mia fortuna collaboro con una ditta di spettacoli della mia zona e nel periodo natalizio mi diletto nel fare il Babbo Natale nei Centri Commerciali, in special modo nella zona di Milano, Torino ed ovviamente nella mia Ossola.

Tutto agghindato a dovere mi posiziono sul mio trono, al centro di una coreografia prettamente a tema con tanto di fondale invernale, renne (finte), alberi di Natale, cassetta della posta per ricevere le lettere dei bimbi, pacchi e pacchettini vari.

Credetemi sono momenti davvero belli ed intensi quelli che provo nel dedicarmi a questo gratificante lavoro: accolgo i numerosissimi bimbi, la maggior parte dei quali estasiati e sorridenti, capaci in quei pochi secondi che rimangono in braccio sulle mie gambe di donarmi emozioni vere, semplici. Con quella innata innocenza che li accompagna.

Ed è meraviglioso fare foto con loro, interagendo e cercando di soddisfare le domande che la loro curiosità li spinge a pormi; domande di ogni tipo, alcune ovvie e scontate, alcune di difficile risposta anche per Babbo "De..Marga..." Natale.

Ma tu non sei il vero Babbo Natale, ma solo un aiutante perché non hai la pancia!!!

Ma perché l'anno scorso non mi hai portato quel regalo che ti avevo chiesto?

Ma come fai la notte di Natale a girare tutto il mondo con la tua slitta?

Ma non ti senti un po' vecchio per fare ciò?

E potrei andare avanti ancora a lungo; ripeto che sono momenti unici, puri, innocenti. I meravigliosi bimbi che sono il nostro futuro, come amo ricordare.

E a loro, alla loro innocenza, ai loro semplici sorrisi che va il mio ultimo pensiero prima di lasciarVi, cari colleghi, cogliendo l'occasione per augurarVi un migliore 2015: ne abbiamo davvero bisogno.

Un abbraccio da Babbo Natale.

di più
editoriale di Flo

Un accurato censimento del presepe di casa mia (ebbene sì, facciamo pure quello: ci pensa mio padre bestemmiando ogni volta che cade una statuina) ha rivelato, oltre a un uso spregiudicato e discutibile della prospettiva giottiana, la presenza di:

- una squadra di calcio di Re Magi, la FC Comet Betlemme, disposti in formazione 4-4-2 nel rettangolo del presepe, pronti a marcare a uomo i centurioni romani. Presenti in numero abbondante nel caso qualcuno si perda, così sono sicuri di recare oro, incenso e mirra al Bambinello;

- animali, di tutti i tipi e ovunque: pecore, mucche, cammelli di tutte le misure, cani, pecore, gatti, un coniglio andato smarrito nel presepe dell'anno scorso, galline, pesci, oche, cigni. Mancano pinguini e orsi polari, ma li abbiamo ordinati per l'anno prossimo. Ma la storia degli animali sull'arca non era in un altro capitolo?

- Panettieri, pizzaioli, pescivendoli, sarte, pastori, pescatori, prostitute, C.E.O. di multinazionali, astronauti, hostess di Alitalia animano le vie attorno alla capanna: Betlemme non conosce crisi, apparentemente;

- quattro giovani fanciulle identificabili come la Vergine Maria, poste sulle vie più trafficate della piccola Betlemme, lì a contrattare coi pastori;

- cinque o sei San Giuseppe, tutti muniti di bastone, probabilmente a cercare la Vergine Maria, ché già la questione dell'Angelo Gabriele non gli è andata giù tanto bene...

E la neve? La neve non c'è.

Niente nuvole di farina né zucchero a velo, niente cotone ovattato incollato a cazzo attorno alla capanna.
Perché? Perché, ha detto mia madre, il riscaldamento globale è arrivato pure là (che poi io la storia della neve in Palestina non l'ho mai capita, ma quello è un altro discorso).

di più
editoriale di Hank Monk

Lungi dal credere che, in qualche modo, si possa estrarre un significato dal tuo sguardo.
Non promette gioie, non alimenta il mio ego, non mi fa fremere la carne; un nero opalino che schiarisce il sangue con la sua intensità. Bello in sé. Significato e significante.
Non sorridere, non ti sto adulando.
Solo, per un momento, ho smesso di amare me in te. Di cercare in te il mio compimento. Solo, per un brevissimo istante, finalmente, mi sono sganciato da questa angoscia che mi insapidiva le membra.

Affretto il passo, mi allontano con la curiosità di osservare il resto del mondo con i tuoi occhi. Dietro ai tuoi bruni riflessi sembra tutto più gentile. No, non sto cercando nemmeno una guida: non mi prendere per mano. Scomponi i miei riflessi; dirigili altrove. Circondami col tuo tenero brumore. L'allegria, è tutto uno scherzo. Mi sento ora veramente in pace, e non ho bisogno di schiamazzarlo. Senti come pulsa, come pulsa la vita.

Ritrovo poco alla volta la gioia della semplicità.
E ricordo.
Ricordo con quanta energia mi si riversava dallo stomaco alle gambe, dagli occhi al cuore, l'entusiasmo. Era così genuino; come è potuto mai trasformarsi così tanto.
Come è potuto diventare lo spauracchio che fino a poco fa mi si muoveva sotto la pelle. Come un prurito, una smania. Una fretta di esaltare, e informare tutti. Tutti informati. Tutti attenti; e a loro volta così prodighi di dettagli.

Grazie; è stata una risata liberatoria.
Ricordi?
Il vento di Novembre sul sudore della fronte. Gli odori erano così forti. E d'estate, sudati e rossi di vita. Era sempre una festa; un piccolo oscuro giardino che ogni volta si illuminava a giorno: bastava accendere una piccola candela.
Scusami se mi abbandono a questi ricordi; non voglio escluderti.
È che li contieni, e me li riversi addosso.

Bene, direi che ora possa bastare.
Sciogliti i capelli: un mosaico nero sulle tue spalle bianche.
Sì, sotto questa luce hanno riflessi quasi violacei.
Sì, sono così spessi.
Sì, sto andando a parare proprio lì: ma ora è diverso.
Ora siamo solo io e te.

Anzi; ci sei solo tu.

di più
editoriale di little horn 2.0

Era qualcosa di estremamente pesante, qualcosa che rischiava di soffocarmi. La cosa divertente è che una persona a 17 anni non ci pensa nemmeno; certo, mille avvertimenti, centinaia di migliaia di informazioni. Lo apprendi grazie ai tuoi genitori, alla televisione e a scuola. Solo che poi ti dimentichi e non ci pensi, credendo che questa cosa non ti riguarderà mai. Poi rimani fregato.

La parola con la C, quella che spaventa tutti. Quella che leggi sui pacchetti di sigarette. Leucemia. A 17 anni. Non potrò mai dimenticare quella mattina: la faccia costernata del medico, la voce strozzata di mia madre e lo sguardo perso nel vuoto di mio padre. Il tempo si ferma, e un istante diventa lungo una vita. I colori iniziano a sbiadire, fino a che il luogo che mi circonda diventa bianco e nero. Il cuore impazzisce e inizia a mancarmi il fiato.

Poi la mano di mio padre sulla mia spalla mi riporta alla realtà. Tutto riacquista colore e il tempo riprende il suo tranquillo scorrere. Sento parlare di terapia, di chemio e di radio. Cose quasi incomprensibili; introdurre del veleno per battere il veleno che mi possiede. Non lo so, voglio solo andare a casa e sdraiarmi sul letto.

I giorni passano rapidi, mentre in una casa solitamente dominata dal rumore causato dai rimproveri di mio padre e dalle improvvisazioni canore di mia madre che ama da morire Renato Zero, ora regna un silenzio tombale. Un atmosfera quasi sacra, che per un qualche strano motivo pare non possa essere interrotta; potrebbe essere peccato.

Devo farmi forza: ora come ora devo affrontare la più grande battaglia della mia vita e devo farlo da solo. Non so con che coraggio, ma devo lasciare Beatrice. Dio mio, la amo così tanto. No, non posso addossarle un simile peso. Ha 17 anni, è giovane e bellissima, perchè dovrebbe sprecare i suoi migliori anni piangendo e pregando per me? Non se lo merita.

Usciamo insieme e la porto al parco: una splendida giornata, anche se un po fredda. Il sole ce la mette tutta a scaldare, ma fallisce nel tentativo. Lei è splendida, anche più di quanto mi ricordassi. Le parlo e mi invento qualche bugia: le dico che non la amo più, che mi sono innamorato di un'altra e che trovo sia stupido continuare su questa strada. Il cuore sta morendo, lo sento. Lei piange e il mio cervello parte. Mi dice che non capisce, che non ha senso, ma io non sento ragioni. Non posso sentirle, mio Dio. Mi alzo e me ne vado, lasciandola li da sola. Non mi volto, e continuo a camminare mentre le lacrime inondano il mio viso. Non potevo davvero affidarle questo pesante fardello: la battaglia è mia e di nessun altro. L'unico sacrificio è la mia vita, nient'altro.

Passano 3 giorni: in realtà nemmeno mi rendo conto del tempo che passa. Tutto sembra aver perso il suo significato. Suona il campanello. Cazzo è lei. Oddio ma che ci fa qua? Sento che devo aprirle, anche se è sbagliato. Devo farlo, la voglio rivedere ancora. Apro e aspetto sul ciglio della porta. Entra. Il suo sguardo pare quello di uno che vuole ucciderti. Velocissima mi tira uno schiaffo; barcollo per un nanosecondo. Non capisco cosa stia succedendo.

"Ma che cazzo ti prende all'improvviso?" le urlo. Il suo sguardo cambia, e dai suoi occhi iniziano a scendere lacrime. Non capisco davvero più nulla.

"Pensavi davvero che non lo scoprissi, brutto iodita? Pensavi davvero che fossi così stupida? Perchè cazzo lo hai fatto?" mi dice con aria affranta. Pare davvero annichilita, e capisco anche il perchè. E so che anche lei ha capito il perchè delle mie azioni. Glielo leggo. "Se tu pensi che ti lascerò affrontare da solo questa cosa, hai capito proprio male! Puoi anche arrivare a odiarmi che poco mi frega, ma io non ti lascio. Questa non è la tua battaglia è la NOSTRA ! Ficcatelo in quella maledetta testaccia, brutto idiota. E ti giuro che andrà tutto bene, che quelle terapie funzioneranno e in breve tornerai a stare bene. E allora inizieremo un'altra vita, e se vorrai lasciarmi, fai pure. Ma fino ad allora io ti starò a fianco, che tu lo voglia o meno. Ti amo..."

La interrompo e la stringo forte tra le mie braccia, piangendo come un bambino. Le dico che mi dispiace e lei mi stringe ancora più forte. Restiamo per qualche minuto così, e per qualche minuto riscopro la vita.

Ora, sono 3 anni che mi batto come un leone contro questa maledetta cosa. 3 fottuti anni e cazzo, ho anche più grinta che all'inizio. Voglio vedere mia madre invecchiare e un giorno, ripagarla per tutti i sacrifici fatti; voglio vedere quello stronzo di mio padre arrivare a 80 anni e, nel caso dovesse stare male e avere bisogno di cure, ripetergli costantemente "Vecchio non ti preoccupare, che ci penso io a te". Voglio arrivare a coronare i miei sogni, prima di diventare un mucchietto di polvere. E quando penso di mollare, mi basta vedere il suo volto per riacquistare la forza. Non posso morire, neanche se lo volessi e mi sta benissimo.Questa malattia ha i minuti contati. La si prende per la gola e la si strozza fino a soffocarla. Perchè è così che facciamo!!!



di più
editoriale di soulonice

Conoscete il significato del termine “globish”?

La parola deriva dalla fusione di “globe” e “english”; il cosiddetto “inglese globale”, quindi, che sarebbe poi praticamente una versione semplificata de l’inglese.

Il primo ad adoperare questa espressione fu l’informatico francese Jean-Paul Nerrière, che si prese pure la briga di stilare una specie di dizionario di circa 1.500 parole tra le più comuni, semplici e diffuse della lingua inglese. Nel tempo, il termine ha assunto un significato più ampio e sottointende, nella pratica, il linguaggio di tutti coloro che si esprimano e comunichino tra di loro in lingua inglese, pure se non perfettamente padroni della lingua e della grammatica e, anzi, pure mescolando di volta in volta la lingua inglese originale, pura, con espressioni, termini o comunque accenti tipici della propria lingua madre (la cosiddetta L1).

Questo fa sì il concetto di globlish sia soggetto a critiche di diverso tipo. Tra quelle principali, è evidente, sussiste quella secondo la quale questa non corrisponda affatto alla lingua inglese. Una critica che viene mossa innanzitutto da coloro che parlino l’inglese come prima lingua e, poi, secondariamente da tutti coloro che siano una specie di “puristi” della linguistica e dell’uso corretto della grammatica inglese. La seconda, invece, ha un carattere più strettamente politico. La diffusione dell’inglese e il tentativo, la possibilità il globish possa divenire in qualche modo una nuova lingua ufficiale internazionale viene vista con sospetto e come una specie di nuovo tentativo imperialista.

Ma tutte e due le critiche fondano a mio parere le proprie basi su fondamenti ampiamente discutibili. In verità, infatti, il globish costituirebbe nella pratica la realizzazione di un sogno e una ambizione storicamente perseguita dall’essere umano, sin da quando il crollo della torre di Babele generò in esso totale confusione e incomunicabilità. Il globish costituisce la realizzazione pratica di quel sogno che fu l’esperanto. Ma dove l’esperanto costituì un tentativo pratico e razionale, sistematico di costruire a tavolino una nuova lunga internazionale; il globish, invece, è una lingua nata sul campo. La sua creazione è in toto da considerarsi come empirica; è qualche cosa di completamente diverso da l’esperanto e nasce, piuttosto che dai tentativi di catalogazione di Nerrière, dal confronto quotidiano tra persone che abbiano un background culturale e sociale radicalmente differente e lontano nello spazio geografico. Non è possibile stilare un vocabolario della lingua “Globish”; questa costituisce un surrogato della lingua inglese, ma essa è in continuo divenire e in costante mutazione. Cosa che, del resto, rende le critiche dei puristi della grammatica assolutamente irrilevanti; dove anch’essi a un certo punto debbano convenire come sia possibile sacrificare la perfezione linguistica e le regole a fronte della possibile universale di comunicare tra gli esseri umani di tutto il mondo.

Ma veniamo a noi. Sussiste, generalmente, in Italia il falso mito che da noi si parli il peggiore inglese d’Europa e che, invece, allo stesso tempo altrove si parli alla perfezione la lingua inglese. Questo è un falso mito ovviamente. Uno dei tanti, ingiustamente alimentato dai media e pure dal fatto che, generalmente, viaggiando, ci capiti inevitabilmente di intefacciarci per lo più con soggetti che per lavoro e abitudini professionali siano abituati a parlare la lingua inglese. Più di noi stessi medesimi, che magari costituiamo, presi nel mucchio, dei viaggiatori occasionali. Ma questo non vuole essere un alibi. Al contrario, ritengo che dovremmo noi italiani, ma noi europei tutti, spingere ancora di più nella direzione di migliorare il nostro utilizzo della lingua inglese, fino a fare di questa la nostra lingua ufficiale. Questo obiettivo, questa realtà, è evidente sia ancora lontana dal divenire; questo perché ci sono troppi interessi in gioco e una generale diffidenza da parte dei singoli stati membri, ancora diffidenti nei confronti della struttura comunitaria e tesi, per questo, a guardare primariamente ai loro interessi piuttosto che all’interesse comune. Ma, se tutti parlassimo la stessa lingua, se tutti parlassimo l’inglese, allora, proprio all’interno di questa struttura comunitaria, saremmo finalmente veramente tutti uguali, perché avremmo finalmente tutti le stesse possibilità. Sarebbe questa la vera base su cui costruire qualche cosa di unito e un presupposto importante per stabilire finalmente questa unità anche sul piano istituzionale e legislativo.

Affinché questo accada, tuttavia, bisognerebbe scegliere. E scegliere, fare delle scelte importanti e decise, è ciò che manca oggi a livello comunitario, ma pure a livello nazionale.

Sono un uomo del sud… sono un uomo del sud solo perché sono nato al sud. Ma avrei potuto nascere ovunque. In generale, non mi sento tanto cittadino del sud, quanto piuttosto cittadino italiano; quanto cittadino del mondo, essendo da sempre stato votato a una ispirazione di tipo internazionalista. Ne consegue io non abbia mai avuto storicamente pregiudizi oppure difficoltà, ove io abbia dovuto per lavoro interfacciarmi con realtà geografiche diverse o più o meno lontane dalla mia. Qualche giorno fa, tuttavia, non entrerò strettamente nel merito della questione, ma dalla cittadina di Bressanone ho ricevuto un documento ufficiale scritto e redatto in lingua tedesca. Rispetto le tradizioni culturali di ognuno, ma nel 2014 ritrovarsi tra le mani un documento (italiano) scritto in una lingua straniera ritengo sia una forma di provincialismo; una forma di ostruzionismo linguistico e provinciale e una vera e propria barriera culturale. Questo, questo tipico provincialismo, allora, è una vera macchia di cui dobbiamo liberarci il più presto possibile. Pure sacrificando sull’altare degli interessi di tutti l’utilizzo della grammatica. Questa poi, la riscriveremo dopo, tutti quanti assieme.

di più
editoriale di zaireeka

Mi capita spesso, in questi ultimi anni, di mettermi in testa di fare un esercizio che potrei definire di immaginazione retro-futurista.

Consiste in questo. Chiudere gli occhi e pensare intensamento al mio presente come immaginato dal ragazzo che sono stato, nell'atto di pensare ad uno dei suoi possibili tanti futuri.

Sono convinto che, se mi concentro abbastanza, dopo un po' potrei avere seri dubbi se mi trovo nel 1981 ed immaginare il 2014 o viceversa. Potrei forse recuperare a quel punto del tutto i ricordi e le sensazioni di un istante vissuto di uno di quei giorni lontani. Praticamente potrei tornare ad avere sedici anni, anche se per un tempo molto limitato. Il presente del resto, come affermano famosi scienziati, non e' altro che il passato che riusciamo a ricordare (o immaginare?) con piu' facilita'.

Fra qualche mese compiro' cinquantanni.

A pensarci gli ultimi venticinque anni della mia vita mi sembra siano davvero vola ti.

La percezione soggettiva del tempo trascorso, ne sono sempre piu' convinto, e' soggetta nella nostra mente ad una forma di compressione simile a quella che si fa sui file. Blocchi di vita piu' o meno sempre uguali vengono trascritti solo una volta con un numerino affianco a dire quante volte e' successo, cosi' da occupare meno spazio. E cosi' il tempo trascorso sembra molto meno di quello effettivo, sembra davvero volato.

E' dai sei ai diciotto anni che il tempo sembra davvero incomprimibile, almeno algoritmicamente parlando, almeno quando ci troviamo da quelle parti.

Intanto, senza neanche tanto accorgermene, sono diventato mio padre. E nel mio vecchio ruolo di campione della incontentabilita' ci ho messo mia figlia.

Ora mi limito ad apprezzare le cose che ho, a tentare di non essere troppo pesante in casa (raramente ci riesco) e sul lavoro, ed ogni tanto penso spesso (cit.) al futuro che ci aspetta, con un po' di angoscia possibilmente, vista l'aria che tira.

E qualche volta mi capita di misurare me stesso, noto insensibile, con la commozione che provo pensando a quelli che ho conosciuto e non conosciuto e che sono scesi dal treno, volontariamente o no, prima di arrivare alla fermata dei cinquantanni: artisti, amori, amici di infanzia, quel cantautore americano che in questi giorni non faccio altro che ascoltare su YouTube e riprodurre sulla mia chitarra, cani, tute da ginnastica, retine (quelle nell'occhio) ancora attaccate, cotte, sogni.

Un Aleph degno del racconto di Borges, che spero (quando saro' prossimo ai centanni, vabbe', ai novanta...), di essere cosi' stanco e svogliato da non riuscire a ricordarne la faccia.

Ed allora saro' di nuovo un bimbo appena nato, con gli occhi chiusi, e con un pannolone attaccato al sedere. E una badante ucraina di nome Maria (e' una fortuna che si chiamino tutte cosi', cosi' non c'e' modo di sbagliarsi se ne hai in casa piu' di una) a farmi da mamma.

Kurt Vonnegut nel suo "La colazione dei campioni", alla vigilia dei suoi cinquantanni, libera tutti i personaggi dei suoi romanzi. Io molto piu' modestamente mi sono limitato a liberare i miei pensieri.

Non dimenticatevi di me quando sarete lontani.

di più
editoriale di soulonice

Che il mondo del cinema, oggi, attinga moltissimo dal mondo dei fumetti è un fatto.

Se da una parte è difficile stilare una statistica esatta e, sebbene a occhio e per “evidenza” il numero di film la cui trama sia stata ricavata dal mondo della letteratura e non da quello dei fumetti continui ad essere di gran lunga maggiore, il gap risulta essere di gran lunga inferiore, probabilmente, mettendo a confronto le pellicole cinematografiche che ottengano il maggiore successo di pubblico presso il botteghino. Questo mentre, forse, la critica continui a preferire pellicole e film che abbiano delle trame inedite, oppure comunque originate dal mondo della letteratura.

Ma il mondo del cinema, quello di Hollywood in particolare, continua a essere legato a schemi e regole pretederminate, che raramente vengano violate; è difficile che da Hollywood salti fuori qualche cosa di nuovo. A livello di premiazioni e riconoscimenti perlomeno.

Ad ogni modo, gli spettatori, quelli che pagano il biglietto, soprattutto i più giovani, di questa cosa se ne fregano e i film la cui trama è stata presa da un fumetto piuttosto che da un’opera letteraria li guardano eccome. E ne fanno oggetto di culto. V for Vendetta, Watchmen, 300 sono solo alcuni dei titoli che avrebbero riscosso grande successo negli ultimi anni. Senza tenere conto, ovviamente, di tutti i film ispirati e tratti da storie del mondo della Marvel e dei supereroi. Il successo della trilogia di Batman diretta da Christopher Nolan è stato universale e, pure grazie alle interpretazioni sopra le righe di un grande attore come Christian Bale, ha riscosso apprezzamenti a tutti i livelli.

Fumettisti come Alan Moore e Frank Miller e le loro opere, siano queste serie o miniserie, oppure veri e propri romanzi grafici, sono considerati oggi alla stregua di autori letterari, come se avessero pari dignità di autori letterari e sicuramente, a certi livelli e presso determinate categorie di soggetti, godono di una popolarità pure maggiore.

Naturalmente queste riflessioni portano in alcuni casi i più bacchettoni a esternare considerazioni di tipo assai negativo nei confronti degli appassionati. Che poi, generalmente, sarebbero i più giovani; quelli appartenenti a una fascia di età definibile tra i dieci e i quarant’anni. Quindi in molti casi neppure tanto più giovani in verità. Riflessioni che comunque porterebbero, a fronte del successo del fumetto, dati secondo i quali si diffonda sempre più un generale disinteresse nella letteratura, arte definita assai superiore a quella dell’arte fumettistica. Che, anzi, dai più non sarebbe neppure definito un’arte.

Che cosa porti un soggetto a preferire il fumetto rispetto a un’opera letteraria è evidente: l’immediatezza, nella fruizione delle immagini, oltre che dei testi e dei contenuti complessivi dell’opera. In genere potremmo dire sia la stessa motivazione per la quale la televisione abbia alla fine avuto facilmente la meglio sulla radio. L’immagine vince su tutto e questo non accade necessariamente perché il soggetto che si ponga innanzi all’opera in questione sia schiavo delle immagini. Non è neppure necessariamente una questione di superficialità. Del resto, ad esempio, osservare un quadro, ammirarlo, è molto meglio che sentirselo descrivere e raccontare. In genere.

Personalmente sono un fruitore dei fumetti occasionale. Continuo a preferire la letteratura tradizionale, i romanzi in particolare; preferisco continuare a leggere delle avventure piuttosto che guardare delle immagini. Ma non ritengo questo faccia di me un uomo migliore di un appassionato di fumetti.

Penso, al contrario, che ci voglia comunque una certa forza per avere a che fare continuamente con delle immagini. Che guardare delle immagini e, magari, fare di queste termini di paragone con la propria esistenza non significhi necessariamente schiavitù; il confronto con le immagini, come con i testi infatti, può anche essere costruttivo. Al contrario, penso che, per quanto mi riguardi, io non riesca ad approcciare al mondo dei fumetti proprio perché, queste immagini, io le lascio scorrere sotto i miei occhi troppo rapidamente. Senza prestare la dovuta attenzione.

Quindi, non voglio considerare il fumetto come se fosse necessariamente un antagonista della letteratura; appare questa una lettura troppo semplicistica e, a fronte della quale, chissà, magari andando a fondo nelle analisi e nelle rilevazioni statistiche, alla fine potremmo scoprire e rilevare come i maggiori fruitori e lettori di fumetti possano alla fine coincidere con dei perfetti, costanti consumatori di opere letterarie. Insomma, il crollo dell’interesse alla letteratura (peraltro non so se sarebbe corretto parlare di crollo, non avendo mai riscontrato tutto questo interesse alla materia, guardandomi in giro e alla storia del nostro paese) andrebbe eventualmente ricercato altrove.

Non raccontiamoci balle.

di più
editoriale di Alessio

Ma che bella cosa, questa dell'editoriale.

Certo mi mette sempre un po' a disagio scrivere qualcosa che verrà pubblicato. Una cosa è un commento, un'altra ancora la recensione. Ma l'editoriale è davvero troppo. E' troppo anche per me che l'abitudine di scrivere in rete l'ho presa abbastanza presto.

Che, forse lo dimenticate che fino a poco tempo fa tutto questo era fantascienza?

No, calmi, non fraintendetemi.
Non sto facendo il nostalgico, dico solo che per me che non sono un giornalista (tanto meno uno scrittore), ma semplicemente uno comune, è davvero facile intrufolarsi nel www e dire la mia, a tutti, in maniera anche piuttosto veloce. E nonostante io sia cresciuto di pari passo con lo sviluppo della rete, mi rimane disagio. Chiaro, è carattere. E' insicurezza, è genetica.

No, lo sottolineo, non è la fiera della banalità. E' che qualche volta, che problema c'è se si spende qualche parola in più per spiegare qualcosa? Il tanto ambito "dono della sintesi", la pragmaticità. Sì, per carità, hanno il loro fascino.
Però se le parole che abbiamo a disposizione non hanno un limite di numero, forse un motivo c'è?
Chiaro che anche il silenzio può essere la migliore comunicazione e quindi anche una sillaba può dire più di un poema, e qui siamo tutti d'accordo, però sto cominciando a trovarlo un danno per chi non è predisposto a questo tipo di comunicazione. Io non sono predisposto ad avere il dono della sintesi.

Dunque?
Beh, dunque, mi spiego meglio: per chi come me ha paura che gli caschi la terra sotto i piedi se ogni punto del suo discorso non è chiaro all'interlocutore, se ogni singola metafora non è chiarita in tutte le sue sfumature, è deleterio continuare a cercare di trovare nella "sintesi" la soluzione. No. E se portasse ad un mutismo schematico perfetto per chi in realtà non si è costruito nulla da dire?

Visto che il tutto si sta facendo molto noioso inserisco l'esempio che mi ha fatto pensare a tutto questo.
Trattasi proprio del boom mediatico di Bello Figo Gu.

Non so quanti di voi conoscano questo personaggio. Vi basti sapere che è legato ad Andrea Diprè e tutto quel mondo lì.

La mia critica è proprio alla critica che viene rivolta a questo fenomeno. Si tratta di un ragazzo come tanti, invece che provare a fare il grande fratello dice alcune parole (un numero tipo sei o sette) su una base musicale. Non sono un bacchettone e non ho nessun interesse a fare critiche tecniche (a mio avviso fuori luogo), semplicemente sto descrivendo in maniera schietta un personaggio senza nessun apparente talento, che sfrutta i nuovi canali mediatici per ottenere notorietà. Come ce ne sono a MILIARDI. Non nego né che ci rido su, né che mi capiti di ricanticchiarlo, ma io se sento due colpi di clacson che vanno a tempo comincio a canticchiarli, quindi non faccio testo.

Questo è esattamente il punto dell'editoriale dove i troppi temi toccati potrebbero confluire creando un gran casino.

Quindi, dicevo, muovendosi in giro per la rete, scopro che questo personaggio (come altri prima di lui) ha un vero ritorno da tutto questo. Tutto l'hype che si crea genera curiosità, quindi genera richiesta, dappertutto, non solo su youtube, anche nei locali. Che facciamo? Organizziamo una bella serata, magari con un migliaio di paganti. E che si scopre? Che la serata va alla grande. Forse c'è qualcosa, come diceva Tozzi (il grandissimo Tozzi, vado subito a definirlo) che ci prende in giro. Immeritato? Assolutamente no! Sono invidioso? Ma certo!
Non del successo perché sono ansioso come se vivessi costantemente in procinto di fare bungee jumping, ma sicuramente dell'interesse che genera, questo certo che mi rende invidioso. Che devo fare, lo ammetto.

Sono invidioso e curioso. Vorrei capire, perché penso: il punto di vista che avrò io sarà condiviso, avrò qualcuno con cui parlarne, perché lo so, io mi trovo bene a parlare di queste questioni, e parlandone tanto, facendo uscire tutto, senza preoccuparsi della sintesi, possono uscire fuori un sacco di concetti interessanti, anche se si parte da Bello Figo Gu.

Ma la critica qual è? Che cosa pensiamo di questi fenomeni? Nella maggiorparte dei casi ci ridiamo sopra e facciamo bene, ma quando ci lamentiamo? Cosa esce fuori? Insulti lapidari e magari anche razzisti. Maluccio come critica. Ma peggio c'è, c'è di peggio. C'è la critica del qualunquista.

"Mamma mia l'Italia quanto è caduta in basso....."

E basta. Questo tipo di reazione non avrà mai l'effetto che l'autore della frase ha in mente. Almeno non nei miei confronti, è inutile, è vuoto, è tutto ed è niente. Mi fa cagare. Non mi trova d'accordo. Non porta a niente. La sintesi se l'è mangiato. Il commento sul sito, l'SMS, il saluto, la telefonata veloce dell'operatore, il telegramma, l'augurio, l'in bocca al lupo, il voto a un film.

Ci sta mangiando.

Nessuno si aspetta dei trattati di sociologia su youtube, ma mi viene il dubbio che le gente cominci a capire e distinguere ciò che è bene da ciò che è male, ciò che è giusto da cosa è sbagliato, ma forse non sappia bene il perché.

Proprio per questo dilungarsi non è sempre sbagliato, proprio perché la sintesi non sempre è la soluzione. Perché io e te possiamo essere tutti e due atei e scoprire che non la pensiamo lo stesso in maniera uguale. Lo sanno tutti che il fondamentalismo è il male del mondo.

Quindi tu, se hai letto questa marea di cazzate, che in fondo è quello di cui amo parlare perché sono alla base dell'esistenza, se puoi, chiedimi e spiegami, per favore.
E se puoi dimmi che non sei d'accordo che son più felice. Ricordati sempre che non rileggo però!

di più
editoriale di soulonice

Nel nostro paese, il “fumetto” ha sempre avuto grosso successo e una larga diffusione.
Basti considerare come, ad esempio, in Italia la Disney abbia storicamente ottenuto seguito secondo solo a quello ottenuto negli USA.

Personaggi del mondo dei fumetti come Superman, in origine conosciuto nel nostro paese come Nembo Kid, e Batman sono popolari in Italia da oltre mezzo secolo.
Nel tempo, poi, ha avuto modo di svilupparsi e consolidarsi anche una traduzione fumettistica tipicamente italiana, di cui Tex Willer e Dylan Dog, rappresentativi di due diverse generazioni, costituiscano le pubblicazioni più celebri.

Tutti questi sono comunque personaggi generalmente portatori di valori positivi. Nessuno di questi (oddio, in realtà la figura di Batman meriterebbe di essere oggetto di considerazioni a parte) avrebbe caratteristiche che si discostino da quelle della figura tipico dell’eroe tradizionale.
Ovviamente anche i personaggi classici della Disney costituiscono dei modelli positivi. Dei modelli, del resto, in cui sia difficile identificarsi.

Questo accade per diversi motivi. In primo luogo è evidente che sia oggettivamente difficile identificarsi in Topolino o in Tiramolla, soprattutto se si abbiano più di sette-otto anni. Ma questo è solo un aspetto secondario della questione. E’ chiaro, difatti, che i processi di identificazioni si concretizzino più facilmente con dei modelli imperfetti; tutti, guardando al mondo della fantasia, preferiscono identificarsi piuttosto che con il “buono”, invece con un personaggio negativo; sì, deve essere un eroe, ma allo stesso tempo deve pure avere delle macchie e dei problemi con se stesso da risolvere.

Questo è naturale. Perché tutti noi abbiamo dei problemi; perché probabilmente oggi, in una società sempre più globalizzata, siamo tutti portati a affrontare primariamente noi stessi.
Nella nostra personale solitudine, innanzi a un mondo così grande e dove tutto appare alla portata di mano, ci rendiamo conto che combattere contro tutto e tutti sarebbe inutile; ci rendiamo conto di non avere realmente dei nemici, perché tutti quelli che ci circondano in realtà di noi se ne fregano.
L’unico vero nemico, il nostro nemico siamo noi.

Gli eroi di fumetti di oggi ci insegnano a combattere una lotta contro la nostra stessa identità, contro quelli che sono i nostri problemi e i nostri limiti strutturali.
Anch’essi, infatti, fingono di combattere dei nemici spietati, ma i cattivi, i vari Joker e Magneto, questi non sarebbero alla fine meno spietati e cattivi degli stessi eroi che così affannosamente appaiono cercare in tutti i modi di rovinare i loro piani.

Cosa possiamo imparare, oggi, da questi eroi/antieroi?
Le loro imprese eroiche non sono altro che una parodia di come dovremmo quotidianamente, nella nostra normale esistenza, cercare di migliorare noi stessi, di superare i nostri limiti e, infine, battere idealmente il nostro unico vero nemico: che poi saremmo noi stessi.
Ma è altresì indubbio questa lettura individualistica, tipica poi dell’eroe, sia figlia di una visione negativa relativamente al genere umano e, in particolar modo, per quanto riguarda le relazioni e le interazioni tra gli esseri umani.

Tutti gli eroi portano una maschera, conta poco se la loro identità sia universalmente nota o meno, ma tutti questi, tutti questi eroi portano una maschera.
Che poi sarebbe questa maschera, questo nascondersi agli altri, la causa principale della loro sofferenza.

Del resto gli eroi dei fumetti svolgono azioni ripetitive. Questi vestono sempre allo stesso modo, perché sono degli insicuri, e le loro serie non hanno mai fine perché essi non addivengono mai a una soluzione finale delle loro problematiche. Né, altresì, nel corso degli eventi che si succedano di pubblicazione in pubblicazione, possiamo generalmente rilevare un superamento di se stessi. La situazione di partenza ad ogni nuova avventura è sempre la stessa e, solo alla fine di questa, avviene un superamento, una vittoria, un risultato positivo. Ma la loro è un’esistenza circolare. Saranno sempre punto e daccapo.

Naturalmente pure nella vita reale è impossibile addivenire a un punto di arrivo che sia definitivo; ci possiamo infatti attaccare a delle persone e degli eventi come alle cose; ma ogni giorno dobbiamo impegnarci per superare ciò che siamo stati il giorno precedente.
Dobbiamo farlo perché è la nostra natura; perché questo è tipico della natura degli esseri umani. A differenza di Batman e Superman, de l’Uomo ragno, noi possiamo spezzare questo circolo e proseguire la nostra esistenza in linea più o meno retta, ma comunque infinita.

di più
editoriale di Bartleboom

“Qual è la sofferenza che non può essere condivisa?" (Don De Lillo, “Cosmopolis”, 2003)

"I've been living so long with my pictures of you that I almost believe that the pictures are all I can feel" (The Cure, "Pictures oy you", 1989)


Mia sorella è più grande di me di sei anni.

Ciò ha, e ha avuto, molteplici ripercussioni sul nostro rapporto. Non ultimo il fatto che quando lei era in preda alle turbe pubero-adolescenziali, io ero un moccioso curiosone e scemo.

Al tempo, mia sorella teneva un diario: era un quaderno rosa, con la copertina rigida e un piccolo lucchetto, sul bordo, con cui poterlo sigillare e tenerlo lontano dagli sguardi indiscreti. Soprattutto quelli di un fratello, curiosone e scemo, di sei anni più piccolo.
Ricordo di averla spiata, non so quante volte, mentre passava pomeriggi interi a scrivere su quel maledetto quaderno.
E, appena usciva di casa, mi fiondavo nella sua camera, sperando che si fosse dimenticata di chiudere il lucchetto.
Solo di recente, a distanza di quasi trent’anni, ho scoperto che in quel periodo si era presa una cotta pazzesca per un suo compagno di classe e che, su quel diario, scriveva ogni giorno i suoi tormenti di quindicenne perdutamente innamorata e non corrisposta.

Il 31 agosto 2014 un hacker è entrato nei profili iCloud di alcune famose attrici hollywoodiane e ne ha prelevato un discreto numero di foto private, per lo più di contenuto caliente, per poi pubblicarle in rete.

E si potrebbe stare ore a parlare di violazione della privacy, della morbosità e della cattiveria delle persone che sono corse a scaricare e a diffondere quelle immagini, dei social network impazziti e di sicurezza informatica.
Però forse il problema è anche che, a ben vedere, non abbiamo più un posto in cui custodire quello che vorremmo che rimanesse davvero “segreto”.
Un luogo “solo nostro”, privato, inaccessibile a tutti.

E possiamo dare la colpa a Bill Gates che si pastrugna a guardarti la cronologia del pc, a quel cornuto di Zuckenberg che ti conta le faccine che mandi con whatsapp, alla polizia che ti ascolta le telefonate e poi ti leggono le trascrizioni con le voci simulate a Studio Aperto, prima ancora che lo sappia la Procura.

Ma forse il problema è anche che, sotto sotto, siamo noi i primi a non volere che questo posto “solo nostro” esista.
Su Facebook pubblichiamo aggiornamenti di stato in cui riversiamo le nostre ansie, le nostre paure, i nostri successi e le nostre speranze.
Su Instagram, le foto dei nostri figli appena partoriti, dei nostri matrimoni e delle nostre vacanze.
Abbiamo gruppi di whatsapp con i colleghi di lavoro, i compagni di scuola e i vicini di casa.
La logica del “sei ciò che condividi” ha instaurato un meccanismo perverso per cui sentiamo la necessità di far sapere sempre e comunque ciò che ci succede al maggior numero di persone possibile.
Come se l’intensità di un’esperienza dipendesse non da quello che ci fa provare, ma da come viene accolta dagli altri, dalle reazioni che riesce a suscitare.

Abbiamo perso il gusto per l’intimità e l’abbiamo sostituito con il narcisismo di chi misura l’empatia e la solidarietà con il numero di “mi piace”, senza capire che in questa maniera stiamo distribuendo tranci delle nostre vite a chiunque ne voglia prendere un pezzo.

Tutti ora parlano di Jennifer Lawrence e delle sue poppe da sballo.
Ma tutti noi ci “spogliamo” quotidianamente e mostriamo e condividiamo ogni giorno il nostro intimo e il nostro privato, facendolo rimbalzare in giro per il mondo, dandolo in pasto alla gente.

Continuiamo a scrivere diari, proprio come mia sorella faceva più di 30 anni fa. Solo pensiamo di non avere bisogno di lucchetti.


Immagine di copertina: "Slide to unlock", Evan Roth, 2012.

di più
editoriale di algol

Spiaggia

Sul lettino alla mia sinistra sculetta giovane madre tanoressica e pheega di legno dall'epitelio color Plasmon, sugli avambracci tatuati i nomi dei figli. Un classico, quante volte ci capita di scordare come si chiama la propria creatura, "And... no, macheccazz…" uno sguardo al braccio "Ah sì… Andrea corri subito qui!".

Pratico, efficace.

Alla mia destra manzo slavo: insulso pene tribale intarsiato sul polpaccio, spalle con fregi che suscitano in me sentimenti a cavallo tra lo sconcerto e l’irrefrenabile ilarità; non si capisce checcazzo raffigurano neanche potessi esaminarli a un centimetro di distanza coadiuvato dal team di CSI Miami.

Poi alzo il coolo e comincio a passeggiare sul bagnasciuga… in ordine sparso:
Cavolfiore (Jesus … non potevano essere rose).
Spongebob, i pinguini di Madagascar e Scooby-Doo sullo stesso braccio di adulto padre di famiglia.
Testa di tigre contornata da foglie di lattuga.
Vagina alata.
Cubitale messaggio su schiena costellata da nefandezze assortite che così recita:
"ONLY GOD CAN JUDGE ME"
...si, certo, e non sarà un responso benevolo ...coglione!!!

Incrocio una signora albina con il naso ustionato, l'ossido di zinco di cui è cosparso lo rende della medesima surreale tonalità rosa Barbapapà del costume... probabilmente camminando sono giunto sino al set del prossimo episodio della serie Star Wars senza rendermene conto, rapito da cotanta estasi estetico / antropologica.

Sparite tutti cazzooooo

Basta, per sublimare tutta la mia indignazione vado immediatamente ad erigere un enorme membro di sabbia!

di più
editoriale di soulonice

Oggi pomeriggio, ventiquattro marzo (ndr), Repubblica ha pubblicato una rassegna fotografica di una giovane fotografa coreana, Ji Yeo, che documenta gli orrori della chirugia estetica sul corpo delle donne. In breve, pare che la chirurgia estetica in Sud Corea sia una specie di rituale di massa, tanto che nella sola capitale vi si sottoponga in media una donna su cinque tra i 19 e i 49 anni. Il progetto di Ji Yeo vuole quindi essere un monito, un invito alle donne ad accettare se stesse e allo stesso tempo praticamente una stigmatizzazione, una demonizzazione della chirurgia estetica.Bene, diciamolo subito: l’intento di Ji Yeo è lodevole. Tutti, ma proprio tutti, a prescindere dal proprio sesso e dalla propria età, dovremmo imparare ad accettare e, perché no, ad apprezzare noi stessi e quello che siamo. E’ solo attraverso un percorso di pacificazione interiore, infatti, che possiamo realmente ottenere quello che vogliamo, che possiamo alla fine acchiappare, stringere quella immagine di noi che più crediamo ci rappresenti. In questo senso, è tutta una questione di testa; bisogna fare sì che questa, la testa, si allinei con il corpo, che ci sia una perfetta armonia ed equilibrio tra i nostri pensieri e la nostra struttura fisica. E’ un processo difficile e che potrebbe richiedere tutta la vita; che richiede necessariamente tutta la vita, se consideriamo che, come uomini, siamo per questo portati a mutare, a crescere e modificare continuamente nel corso del tempo i nostri pensieri e le nostre idee.

Ma questo è solo un aspetto della questione. L’altro aspetto, infatti, riguarda più strettamente la chirurgia estetica e il ruolo che questa ha assunto nella nostra società oggi; il ruolo cui questa sarà destinata nella società di domani. Perché siamo invitati tutti a modificare il nostro atteggiamento di naturale diffidenza nei confronti della chirurgia estetica e questo a partire da oggi prima ancora che dal domani più prossimo.

Mettiamo da parte le cosiddette problematiche di natura estetica e quelli che potrebbero da subito essere i nostri pensieri più materiali. Io stesso, in prima persona, sarei subito pronto ad ammettere di preferire un bel paio di tette nature al 100% che quelle mega-siliconate della televisione. Pamela Anderson, per dire, non mi è mai piaciuta, eppure vi posso garantire di non avere mai avuto dubbi circa la mia sessualità. Oddio, forse qualche volta sì, ma sicuramente non perché io non mi sia mai eccitato guardando Pamela Anderson.

Qualche anno fa, due o tre, sono stato molto colpito dalle dichiarazioni di Angelina Jolie. La nota attrice di Hollywood, peraltro figlia del grande Jon Voight (è quello di Un uomo da marciapiede! Lo dico perché l’ho scoperto solo di recente), dichiarò pubblicamente di essersi sottoposta a un intervento di chirurgia estetica presso una c linica privata di Hollywood. L’intervento, nello specifico, fu un intervento di mastectomia; in pratica la famosa attrice si fece togliere entrambi i seni perché, secondo il parere dei medici e pure considerando dei gravi precedenti in famiglia, questa sarebbe stata soggetta a elevate percentuali di rischio di cancro al seno e alle ovaie. Di conseguenza, ha proceduto a un intervento di chirurgia estetica per “ricostruire” il seno e quanto tolto precedentemente.

Naturalmente, a queste dichiarazioni, fecero seguito da una parte cori di approvazione e di comprensione delle problematiche sollevate e ammesse pubblicamente dall’attrice; dall’altra non mancarono e non mancano ancora oggi altre tipologie di atteggiamento, volte a demonizzare il fatto e a parlare quasi con orrore di quanto avrebbe fatto la Jolie, colpevole secondo molti pure di aver diffuso e generato delle idee sbagliate nei confronti del pensiero e dell’opinione pubblica.

Ora, è evidente io non sia un medico; nonostante io abbia vissuto direttamente e nella mia famiglia casistiche assai simili e pure più gravi a quelle che furono le vicende di Angelina Jolie, non posso e non mi permetto assolutamente ancora oggi di avere la pretesa di formulare un pensiero medico che io stesso possa ritenere in qualche modo attendibile. So, tuttavia, che stigmatizzare e demonizzare l’importanza della medicina e, in questo caso specifico, della chirurgia, pure estetica, sia un atteggiamento oscurantista e assolutamente negativo. Perché l’importanza della chirurgia, pure estetica, nella nostra società è destinata a crescere e questo pure giustamente, ove questa possa risolvere dei problemi che non siano semplicemente estetici e frutto del desiderio impossibile di personalità eternamente insoddisfatte; ma questa volta veramente destinate a salvare nel concreto l’esistenza fisica e spirituale degli individui.

Solo venti, anzi trenta anni fa, assistevamo alla ricostruzione della mano di Luke Skywalker come se fosse un miracolo, qualche cosa di impossibile; oggi la medicina e la chirurgia ci insegnano che molte cose che solo ieri ci apparivano impraticabili potrebbero invece essere fatte. Che si possono salvare delle vite umane, pure facendo degli atti che, apparentemente, potrebbero apparire blasfemi, delle vere e proprie violenze e orrori commessi sul proprio corpo. Eppure, chi lo sa, un domani tutte le donne potrebbero avere dei seni artificiali; perché no? Perché non dovrebbe essere così, se questo potrebbe impedire loro di morire o, almeno, di vivere una vita più sana. E’ veramente così terrificante questa cosa? No, non sto cercando di convincere nessuno di questa cosa e della bontà dell’operazione cui si è sottoposta Angelina Jolie. Anche io del resto, poche righe più su, mi sarei effettivamente macchiato di una certa forma di qualunquismo, dichiarando candidamente di preferire delle tette naturali al 100%. Questa cosa, questa mia ammissione, fino ad oggi, potrebbe essere pure lodevole. Fino ad oggi. E se domani, invece, fosse in qualche discriminatoria? Forse dovremmo tutti rivedere i nostri preconcetti, la nostra idea di “orrore”.

di più
editoriale di Bartleboom

Colpo di calore, strano di questi tempi: febbre, delirio e ti incavoli per la sfiga. Quattro stagioni: la più attesa, amata e odiata è l’Estate e mi chiedo spesso il perché.

Non sarò l’unica persona al mondo a non amare visceralmente questo periodo: caldo, afa, zanzare, sudore, stress, obbligo al divertimento sfrenato, obbligo all’abbronzatura che fa Tanta Salute (e melanomi!), notti lunghe al Karaoke (ma perché?), cibi esotici e “afrodisiaci” (ché devi cuccare!), liti in famiglia per cosa fare, dove andare e con chi… non continuo, sarebbe una seconda Hiroshima.

Eppure i ricordi dell’adolescenza non sono conditi da tanta insofferenza, magari da Noia, pure tanta, ma salutare, indispensabile Noia in quelle sere assolate e afose che non ti permettono di fare nulla (o erano i genitori che ti bloccavano in casa a sudare sul letto della tua stanza?) e che comunque ti servono per crescere, capire, porti domande sopite, le cui risposte non vorresti dare…

Il tutto è forse più comico che tragico, ma la mente ricorda a modo suo, è risaputo, e spesso ti confonde rendendo insipidi alcuni ricordi, come eccessivamente sublimi altri: in sintesi, ti fai fottere dai ricordi!

L’estate è un appuntamento obbligato, dipende da come ti trova: è un po’ crudele pensare che quando uno muore lascia dietro di se scatole di pasta aperte, latte in frigo inacidito, rotoli di carta igienica iniziati, eppure è proprio così le cose di tutti i giorni ti sopravvivono e tu non puoi farci niente; la terza stagione dell’anno, allo stesso modo, arriverà puntuale (più o meno) e farà le sue vittime senza preoccuparsene, come sempre, e tu non puoi farci niente.

Non ho il tempo di rileggere o di correggere lo scritto, qualcuno ha chiamato il 118 e la Neuro-Deliri è già sotto casa mia: saluti a tutti, carissimi, spero che almeno lì funzioni l’aria condizionata...

Ho solo il tempo per un pensiero: che splendida foto verrà abbinata, sempre che...

di più