editoriale di enbar77

La confraternita dell’olio, ovvero un campionario semi-rurale di allegrie e tristezze. Fine ottobre, inizio novembre. Terminata la raccolta dell’uva, si passa a quella delle olive che, forse ha un valore ancora maggiore rispetto alla prima. Il famigerato “oro verde”. Per i lettori, dal momento che si tratta di un contesto estremamente volgo-familiare, mi vedo costretto a riportare dialoghi in dialetto locale. Seguirà traduzione per i non campani assicurando che leggere le frasi in dialetto, è molto divertente, efficace sia per i termini bizzarri che per le assonanze. Ho amici friulani che si sganasciano dalle risate quando mi fanno leggere ad ogni buona occasione il monito goliardico stampato sulle etichette in tiratura numerata della “Sgnape dal Checo”, quindi…

Stessa famiglia di persone antiche, madre sarta che a causa della crisi non ha dovuto richiedere giorni di ferie approfittandone quindi di uno di magra, padre sempre alle prese con il pulmino della scuola con qualche milione di chilometri in più sulla testata, figlio ribelle e scapocchione 2.0, il nonno partigiano, un invidiabile, energico fascio di nervi novantenne ed io, non più novizio ma neanche navigato, raccoglitore manuale.

La terra è diversa. L’estensione è più o meno la stessa, quasi un moggio, ossia circa 33 are, meno di 4.000 metri quadrati per più di un centinaio di piante. Né poco né molto, considerando che un ettaro è pari a circa 100 are.
Protagoniste della raccolta, tre qualità di olive. Le "ortici", conosciute anche come “coglioni di gallo”, per via della forma quasi sferica, la superficie raggrinzita e di piccole dimensioni, presumendo quindi che siano simili ai gioielli familiari del pennuto crestato. Poi le "racioppelle", dalla superficie liscia, pregiate pur non essendo molto redditizie nella spremitura. In compenso, crescendo a grappoli, sono numerosissime e la resa può considerarsi comunque interessante. Infine le "melelle", molto simili alle olive presenti nelle gastronomie. Polpose, croccanti, con una resa discreta se consideriamo che 90 su 100 finiscono per abbellire il desco negli antipasti.

Armamento individuale: setaccio, bacinella e pinze per la madre, abbacchiatore a benzina ed aria compressa per padre e figlio, io e il nonno partigiano a mani nude. Al massimo il rastrello di plastica, simile a quelli che fanno parte del kit da spiaggia per i bambini. Quelli che, l’uomo non verrà mai superato dalla macchina! I teli, le casse da 60 litri per la raccolta preliminare, i cassoni da 500 per quella definitiva e il cesto per il pranzo, gelosamente custoditi sul carrello del vecchio trattore Carraro che ruggisce ancora nonostante il decorso temporale di almeno tre generazioni.
La mattina è fresca, il cielo ancora terso ed in lontananza si ode qualche colpo di fucile dei cacciatori in ritirata. Dopo aver steso tutti i teli si potrebbe procedere alla raccolta ma l’abbacchiatore non parte. Manca la benzina ed il padre si rivolge con delicatezza al figlio, testa di bossolo 2.0: ”Guagliò chi era purtà ‘a benzina? T’ann appenn’ a te e stu cos’ che tien’ semp mman! Ma addò a tien’ sta capa? Torna ‘a casa e và a piglià ‘a tanica! Nu juorno e chist’ te faccio nà rotta d’osse a te e stu fesebbumm!” (1) E sulle note di questo teatro inizia la raccolta delle olive, Anno Domini 2015.

Il nonno sghignazza, attorciglia le maniche della camicia a righe fino ai gomiti, scoprendo due braccia nodose come i tronchi degli ulivi da spogliare. “Facite cu ‘e mman! Stu cos’ fa cchiù dann che at’! A ffuria è sbatt’, i ram cchiù fin’ se spezzano e nu creschene cchiù!” (2). Parole sagge.
Il nonno avvolge i tronchi con i teli, li chiude con le pinze per evitare che le olive cadano sul terreno e comincia a sgranare i rami più bassi. Poi si rivolge a me ricordandomi che le estremità dei teli devono essere necessariamente sovrapposte al fine di concentrare tutte le olive sull’ultimo telo steso, prima di gettarle nel setaccio. Quest’ultimo, artigianalmente costruito, consiste in una rete rettangolare in metallo, capace a far filtrare le olive, delle dimensioni di un metro per cinquanta ad occhio e croce.  A farle da cornice, quattro assi lignee rafforzate da un fermo inchiodato su uno dei lati lunghi. Il setaccio verrà poi appoggiato su tre casse unite che una volta riempite confluiranno nel cassone.  

La benzina arriva, il compressore parte e gli abbacchiatori cominciano a flagellare le piante fortunatamente floride. Come operaio manovale, mi aggrappo alla corteccia del nonno che sgretola con cura i grappoli di racioppe. E gli aneddoti sulle azioni antifasciste non tardano ad arrivare. Mi fa sempre un certo effetto immaginare che questa terra che sto calpestando per una “banale” raccolta di olive, in quegli anni terribili nascondeva sotto una epidermide farinosa qualche pistola rubata ai crucchi o qualche doppietta presa in prestito da qualche cacciatore. E all’epoca non esistevano altisonanti nomi di battaglia come gli eroici guerriglieri dell’appennino centro-settentrionale. In una piccola realtà, ad indossare l’uniforme da partigiano era il barbiere della piazza principale, il contadino della terra accanto, il medico di famiglia o l’unico bottegaio. I più abbienti, ma anche abbietti, ricoprivano naturalmente le cariche della gerarchia fascista locale e tutti, in entrambi i lati della trincea, avevano un “contronome” affibbiatogli dai compaesani più fantasiosi.
Il nonno, d’orgoglio fervente, racconta: “…au ’43, int’a stà terra venevamo a nasconne e ppistole pè fa fore i tedeschi… ‘cca ‘u podestà era l’avvocato, Vicienz Sittantun’ (non è il cognome ma appunto il contronome. Il numero 71 nella smorfia napoletana è “L’uomo di merda”, valutate voi la considerazione che aveva questa persona in paese, nda) che comm’ verette a mala apparata, che vuttava malacqua, aizatt’ ncuoll’ e se ne fujette! Buono pè isso sinò feneva a carte ‘e quarantotto! (3) Nuje venevamo cca ‘e notte, io, Ettoruccio Sausicchiello, Giuvann’ Uocchie ‘e Brigant’ e Pascalotto ‘u Chianchiere. Pigliavamo da sott ‘a terra chelle quatt’ scassunette che manc’ sparavano e ce ne fujavamo pe coppa ‘e muntagne! (3bis) Il racconto venne interrotto da una lunga, singhiozzante e contagiosa risata: “Io tenevo nù fierro viecchio che s’encagliava una continuazione e ogni vota, pè sparà aera caricà. Quanno caricavo ‘u carrello fischiava e po’ sparava…pareva ‘a notte e Capudann’, nù fischio e nà botta, nù fischio e nà botta!” (4)

Geniale.

E’ ora di pranzo e tutti abbandonano ogni mansione per collegarsi a reti unificate alla tovaglietta da osteria a quadri rossi e bianchi, adagiata su un gruppo di cassette necessariamente capovolte. Altre cassette possono fungere da sedie, purché ci si segga solo sulle giunture, al fine di evitare rovinosi sfondamenti dai risvolti comici.
La pausa non può protrarsi molto, fa notte presto e prima che il sole passi le consegne alla luna bisogna riempire almeno due cassoni per evitare magri risultati al frantoio. Quest’anno ha piovuto abbastanza, c’è stata anche l’alluvione e molte olive sono cariche d’acqua. Si spera di poterne vendere qualche quintale che a 8/10 euro al litro non è mai da buttare.

E quanto prima sentire quel piacevole raschio, tra l’acidulo e il piccante, solleticarti la gola. 

 

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(1) Ragazzo, chi doveva portare la benzina? Ti devono appendere a te e questo coso (uno smartphone) che tieni sempre in mano! Ma dove hai la testa? Torna a casa e vai a prendere la tanica! Un giorno di questi ti devo frantumare le ossa a te e questo Facebook!
(2) Fate con le mani! Questo coso fa più danni che altro! A furia di sbattere, i rami più sottili si spezzano e non crescono più!
(3) “…nel ’43 in questa terra venivamo a nascondere le pistole per fare fuori i tedeschi…qui il podestà era l’avvocato, Vincenzo Settantuno, che come capì che le cose si mettevano male (“mala apparata” e “vuttava malacqua”, letteralmente “brutta parata” e “buttava cattiva acqua”, due modi per dire che la situazione sta prendendo una brutta piega. Mentre “aizatt’ ncuoll’”, letteralmente “alzò addosso-tirò sulle spalle”, è un modo per dire che caricò i bagagli. Nda) se ne scappò! Buon per lui altrimenti finiva molto male (“a carte ‘e quarantotto” per l’appunto. Nda).
(3bis) Noi venivamo qui di notte, io, Ettoruccio il salsicciotto, (evidentemente trattasi di persona corpulenta, nda) Giovanni occhi di brigante (non oso immaginare perché chiamato così, nda) e Pasqualotto il macellaio (il bottegaio del paese, probabilmente di costituzione tarchiata vista l’etimologia del nome, nda). Prendavamo da sotto la terra quelle quattro cose scassate che neanche sparavano e ce ne scappavamo su per le montagne!
(4) Io avevo un ferro vecchio che si inceppava continuamente e ogni volta per sparare dovevo caricare. Quando caricavo il carrello fischiava e poi sparava…sembrava la notte di Capodanno, un fischio e un colpo, un fischio e un colpo! 

Immagine: Vincent Van Goh - Olive Grove with Picking Figures (1889)

 

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editoriale di geenoo

Estate. Molto caldo. Immigrati, migranti, regolari, irregolari, clandestini, naufragio, chiedenti asilo, barche, barconi, mare, frontiere, muri, filo spinato, morti, sangue, caos, gas lacrimogeno, Salvini, Del Debbio, Merkel, Grillo, Maroni, Meloni, Toti, “marchiatura rifugiati”, “52 morti asfissiati nella stiva”, “morti soffocati in 70 in un camion”, “impossibile identificazione”, “Oltre 2.000 morti nel Mediterraneo nel 2015”, tortura, frustate, “avvistati 200 corpi in mare”, “qui non li vogliamo”, “dove sta l’Europa”, “aiutiamoli a casa loro”, “non devono partire”, “I musulmani? Li ammazzerei tutti", "I migranti? Vadano tutti a casa loro". “Stop immigrati islam”, “Clandestini rispediti da dove venivano”, “Non sono razzista ma tutti ‘sti zingari non li posso sopportare, se poi portano malattie?”, “È in atto un genocidio del popolo italiano e il premier Renzi è complice degli scafisti. Migranti e profughi stanno sostituendo gli italiani”, "Lasciate gli immigrati al largo" “E’ cinico chi fa intravedere una vita migliore a persone a cui non possiamo dare nulla di più di una vita grama che li conduce ai margini della società e alla delinquenza", “Carcere per chi ospita stranieri irregolari”, “Gli immigrati danneggiano il turismo”.

Come sarà morire in mare lontano da casa, di notte, da soli, di giorno, da soli? Acqua salata intorno, nessun appiglio, acqua fredda al largo. Acqua nera sotto, cielo bianco sopra. Può durare un attimo, non sai nuotare, la bocca si riempie di acqua imbevibile e salata. Fa male, non respiri, vedi nero. Non senti più nulla. Oppure hai un salvagente, muori lentamente, arso dal sole, di sete, di freddo. Dov’è tuo figlio? Tua madre? Solo, apri gli occhi e si riempiono di sale. Terrore assoluto e profondo, non vuoi morire ma senti che puoi solo morire e morirai.

Ieri, sopra un piatto di spaghetti, con un conoscente che al mio fianco blaterava “questi negri ci uccidono a casa nostra, è ora di fare come dice Salvini”, il telegiornale si ferma per due secondi su una immagine che per me ha avuto lo stesso disgustoso impatto dell’aereo nero che fende un grattacielo pieno di gente: un bambino con i pantaloncini rossi, una maglietta blu e delle scarpe da tennis marroni. Sta sul bagnasciuga di una spiaggia, ma non come tanti bambini questa estate. Non corre, non ride e non fa casino. Sta disteso a pancia in giù, immobile, con la maglietta tirata un po’ sulla pancia, i capelli marroni bagnati ed appiccicati sulla testa, bianco, con l’acqua che gli sbatte sulla bocca aperta. E’ piccolo. Nell’immagine c’è lui in primo piano solo e sullo sfondo un mare immenso turchese, un po’ mosso, senza nessuno. Solo e morto.

Aylan, tre anni.

I media dicono che scappava dalla guerra in Siria. Ma cambia poco.

Una foto che è uno spartiacque nella vita. Una immagine che gela. Che ci dice SVEGLIA PER DIO! SVEGLIA!

Il mio collega di pranzo commenta, con la bocca piena, che gli potevano mettere il salvagente. Io di spaghetti ne ho già abbastanza. Ne ho già abbastanza di tutto. Perché devo sopportare Salvini? Meloni? Grillo? Il mio vicino di sedia? I cretini al bar? Perché devo sopportare tutto questo, tutti questi politici che cercano voti sulle disgrazie delle persone? Mi viene da vomitare. Ed ho deciso che farò tutto quello che posso, so che è poco, ma farò tutto quello che posso per dare un senso a quel viso bianco pieno di acqua di mare. A cominciare dal semplice mandare a fare in culo chiunque mi si ponga davanti anche con un “aiutiamoli a casa loro”.

“Respingere gli immigrati è un atto di guerra”. Papa Francesco

Sondaggio Euromedia per Panorama del 2 settembre 2015: PD 30,6% - M5S 26,1% - Lega Nord 16,5% - Forza Italia 11,9% - Fratelli d’Italia 3,1% = 56,6 % di RAZZISTI in Italia.

Siamo un Paese di merde che per paura, per pararsi il culo, per ingordigia, per proteggere il proprio piccolo fortino pieno di caramelle e iphone non vede al di là della linea di orizzonte.

Facciamo, anzi fate schifo!


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editoriale di Bartleboom

I - Il Capo, la Tigre e il Pecoraio

Calogero “Don Calò” Vizzini, importante esponente mafioso della provincia di Caltanisetta, impropriamente ricordato come il primo “Capo dei Capi”, muore nel 1954. Al suo funerale parteciparono importanti esponenti politici ed amministrativi della regione Sicilia e, in prima fila, il boss Genco Russo. Nella sua epigrafe funeraria si legge: “La sua mafia non fu mai delinquenza”

Giuseppe Di Cristina, nato nel 1923, soprannominato “la tigre’’, nel 1975 divenne membro della "Commissione regionale” di Cosa Nostra. Alla sua morte, avvenuta nel 1978 per mano del clan avversario dei Corleonesi di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, il Comune di Riesi proclamò il lutto cittadino, vennero chiuse scuole e uffici pubblici e una bandiera a lutto sventolò per tre giorni e tre notti dalla sede comunale della DC.

Salvatore Pirrello, detto “u’ pecuraru”, indicato dal pentito Leonardo Messina come "il referente degli stiddari a Caltanissetta...", condannato per associazione a delinquere, è morto all’età di 74 anni. Al suo funerale, tenutosi nel 1994 nella Cattedrale di Caltanisetta, il feretro venne condotto al cimitero da una carrozza trainata da 4 cavalli bianchi coperti da drappi neri, mentre una banda intonava un requiem.

II – Il TULPS, due Questori e forse un Protocollo

p>A norma dell’art. 27 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza: «Il Questore può vietare che il trasporto funebre avvenga in forma solenne ovvero può determinare speciali cautele a tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini».

Tale norma ha trovato, in anni recenti, numerose applicazioni:

29 febbraio 2012 - “Si sono svolti questa mattina, in forma privata, a Gioia Tauro e a Seminara, in provincia di Reggio Calabria, i funerali di Giuseppe Priolo, 52 anni, ucciso a colpi d'arma da fuoco il 26 febbraio e di Giuseppe Gioffrè, 64 anni, scomparso ieri. Il questore di Reggio Calabria, Carmelo Casabona, nel seguire la linea già adottata in analoghe occasioni, a garanzia dell'ordine e della sicurezza pubblica, ha disposto il divieto dei funerali di entrambi in forma solenne, con la partecipazione alle esequie solo dei più stretti congiunti. Priolo, pluripregiudicato, era legato da vincoli di parentela alla cosca mafiosa dei Piromalli di Gioia Tauro: Gioffré, invece, era il reggente dell'omonima cosca, operante a Seminara e in zone limitrofe. Al momento della morte era agli arresti domiciliari.” (fonte La Presse);

Roma, 20 settembre 2008 - "Il Questore della Provincia di Bari ha emesso un provvedimento di divieto dei funerali in forma pubblica e solenne, per esigenze di ordine e sicurezza pubblica, del pregiudicato Marino Catacchio, ucciso in un agguato nella serata del 18 settembre scorso. Pertanto, le esequie - si sottolinea in una nota - si svolgeranno in forma strettamente privata. Dopo il caso di Priebke, anche per il boss della camorra Angelo Nuvoletta scatta il divieto a celebrare i funerali in forma solenne. A stabilirlo il questore di Napoli, Luigi Merolla, che impedisce così i funerali previsti alle 11 di domani nella chiesa di Marano di Napoli. (fonte Quotidiano Nazionale).

Inoltre, pare (ho cercato sulla rete, ma non ho trovato conferme da canali “ufficiali”) che nelle regioni Sicilia, Calabria e Campania dagli anni ’80 si applichi un protocollo per i funerali dei mafiosi: è vietata la forma solenne, la cerimonia si celebra al mattino presto, alla presenza dei soli famigliari e della polizia.

III – Il sito più fiko dell'internet, il sexy, l'anonimo e la capricciosa

sexyajax
Opera: | Recensione: | Il 24 marzo 2006
conosci i casamonica?tu non sai chi sono...meglio per te che non mi conosci..senno te impanichi e nun vieni all'appuntamento...

Anonimo
Opera: | Recensione: | Il 24 marzo 2006
Casamonica eh ? mò cominciamo a controllà l'ip del ragazzo e vedemo se corrisponde tutto...se la foto è vera te sei fatto li cazzi tua.

sexyajax
Opera: | Recensione: | Il 24 marzo 2006
SOLO DA QUI CAPISCO ER COJONE CHE SEI..IO SO QUELLO DELLA FOTO...SE BECCAMO LA E SE NON ME TROVI CHIEDI DE DANIELE CASAMONICA....STO DENTRO..PERCHE' ALLE 8 DE SOLITO STO SEMPRE A FA A PIZZE....HO PAURA DE NON BECCATTE...

Fidia
Opera: | Recensione: | Il 24 marzo 2006
Ah ho capito quindi, sei un pizzaiolo.. senti a me fammi una capricciosa, per favore... con poca mozzarella se è possibile



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editoriale di Bartleboom

Qualche mese fa decisi di fare qualche ricerca in vari blog e site di notizie, per vedere come va il mondo oggi nel suo assetto geopolitico. Trovai molte informazioni che difficilmente avrei saputo gestire se non avessi alle mie spalle una certa immagine, formata e mai completa, degli strumenti esistenti atti a configurare le strutture mondiali.

Visto che l´argomento é vastissimo e non detengo le capacitá per approfondimento specifico, cercheró di correlare alcuni fatti accaduti nel mese di maggio usando opinioni e informazioni prese esclusivamente in rete e organizzate secondo quella che ritengo essere la visione corretta del sistema politico mondiale.

Primo di maggio, expo 2015. Alle colorate e artificiose animazioni di frutta e verdura, si contrappone la cruda esposizione del vandalismo dei blocchi neri. Slegati dai manifestanti ed estremamente organizzati agiscono indisturbati per le vie delle cittá. La visione dei loro atti disturba il comune cittadino, crea una senzazione di insicurezza che lascia molta gente a casa e genera un odio anticomunista, anacronistico e inopportuno.

Non ho dubbi che nei centri sociali ci siano molti elementi che adottino la guerra urbana come strumento di lotta e che viene spesso usata contro la polizia in questioni come le disoccupazioni. Non ho mai visto invece, filmato, uno scontro diretto fra i black bloc e la polizia. L´unico video che ritrae di dentro tutte le fasi dell´azione; aggregazione, vestimento, azione, svestimento, disintegrazione é stato filmato dal Giornale.

Tre maggio, festa dell´unitá alla montagnola, luogo tardizionalmente alternativo, a cui non é permesso l´accesso ai manifestanti troppo calorosi. E se Renzi dedica un´ora del suo tempo al colloquio con le parti, fuori si adotta un linguaggio piú concreto. Il braccio forte del potere spezza quello piú debole e lascia una sensazione di impotenza e disgusto.

La settimana precedente, la negligenzia di alcuni poliziotti americani provocó la morte di un afroamericano e la conseguente rivolta degli oppressi. Se il cerchio continuerá a chiudersi potremmo veder ripetere ancora queste scene; sono sintomi di una reazione contraria alle pressioni che vengono dall´alto, sopra il potere politico che non é piú rappresentativo da molto tempo, come si puó vedere anche in questo specifico caso; il presidente e il sindaco sono afroamericani.

E l´Italia dove si inserisce oggi nella struttura geopolitica dell´impero?

Indebolita nella struttura industriale e nello stato sociale, si prepara ad essere la grande riviera romagnola dell´europa, dovendo allo stesso tempo gestire un imponente flusso migratorio dovuto alla instabilitá creata nel continente africano.

Intanto l´Europa non funziona, la Germania sempre in testa (ma non avevano anche loro perso la guerra?), succedono cose mai viste in finanza, le controversie sul Ttip, il debito della Grecia, i governi fantoccio di Italia e Francia.

Si, avete letto bene, i governi fantoccio; nel senso che i primi ministri Renzi e Sarkosy, sono arrivati al potere guidati dalla mano silenziosa dell´impero che, attraverso delle reti occulte é riuscito a tessere trame sofisticate, utilizzando l´efficace metodo di annullare politicamente l´avversario del pupazzo prediletto. Basta tirar fuori dal cassetto i fascicoli dell´fbi, trovare qualche macchia del passato per creare uno scandalo mediatico in tempo di elezioni, e indipendentemente dalla colpevolezza o meno dell´avversario, l´impatto sull´opinione pubblica é forte. Questo é il metodo piú usato, ma non l´unico.

Quando invece si deve creare scompiglio in situazioni che esulano dal campo politico, la polizia va benissimo, come successo nello scandalo FIFA, dove il marciume della corruzione impera da tempo ma nessuno interviene fino a quando non giunge il momento propizio.
Propizio perché? Per gettare discredito nei dirigenti sudamericani? Perché i prossimi mondiali si dovranno svolgere in russia? Perché l´america há perso il diritto di ospitare i mondiali del 2022 in favore del Quatar? Perché qualche giorno dopo gli arresti, si sarebbe svolto il congresso della Fifa, dove si sarebbe votata la mozione della palestina di escludere Israele dai prossimi mondiali in quanto irrispettosi dei diritti umani?

Questi pochi fatti descritti finora, sono solo alcune tessere di un grande mosaico, che si fa sempre piú complesso e indefinito nella sua visione particolare, ma che mostra una struttura ben delineata nella sua visione d´insieme.

I black bloc sono l´emblema mediatico della strategia del terrore, che continua da troppi decenni nel nostro paese. L´episodio accaduto durante la festa dell´unitá rappresenta la separazione fra politica e societá, i cui limiti vengono sempre tenuti sotto controllo mediante l´uso della violenza . I Baltimora Riot del 2015 rappresentano la segregazione delle minorie, nelle quali anche noi dovremmo identificarci.
Chi non si sente rappresentato da nessuno é minoria, e tutte le minorie diventano poi moltitudini, che si .gettano nelle strade spinti dalla forza collettiva o tentano di cambiare il loro quotidiano in direzione ad uno stile di vita contrario a quello che vogliono farci vivere. Il caso Fifa, invece mostra come funzionano tutti i grandi gruppi di potere; corruzione come idea di base, non solo intesa come mazzette, ma in un senso piú ampio che vuol significare che l´interesse personale é sempre posto al di sopra dell´interesse della collettivitá, quasi niente fugge a questo infame sistema.

L´impero avanza... e io mi sento giú, un idealista coglione e qualunquista, che ama questa stronza umanitá e questo bel pianeta che nutre i miei sensi. Mi sento impotente e mi consolo con le piccole cose della vita; un orto, il progetto di casa ecologica, la musica, la famiglia, pensare ad altro e tirare avanti.


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editoriale di soulonice

Ci ho pensato solo di recente, dopo aver letto uno degli editoriali pubblicati qui sulla home di DeBaser. Internet, il web sono stati questo posto fantastico dove chiunque di noi si poteva sentire un cybernauta, il Neuromante di William Gibson; dove tutti noi di volta in volta potevamo adottare una, ma pure due, dieci, mille, centomila identità differenti; eravamo tutti dei pirati e degli idealisti che navigavamo in questo mondo libero e privo di inibizioni e di vincoli di qualsiasi tipo. Eravamo dei pirati e allo stesso tempo eravamo come Peter Pan perché questo mondo era la nostra Isola che non c'è.

Poi, ne abbiamo già parlato, a un certo punto le cose sono cambiate. Navigare in intenet è diventata una cosa di vastissima diffusione e il moltiplicarsi dei social network (FaceBook su tutti) ecc. ecc. hanno radicalmente modificato le modalità di approccio dell'individuo al web. Tanto che internet, più di prima, costituisce oggi una specie di prolungamento della realtà. Non è un caso, per dire, che molti si connettano al web direttamente via smartphone, che usino più lo smartphone che un computer desktop o laptop. Perché internet, oggi, è diventato finalmente quello che doveva costituire all'inizio secondo i suoi ideatori, praticamente una estensione, un miglioramento di quello che era il sistema di comunicazione telefonico. Oltre che una immensa e sconfinata banca dati e di informazioni di tutti i generi.

Queste cose ce le siamo già dette. Però, quand'è che, esattamente, Internet è diventato anche il posto dove si danno i voti alle cose? Fateci caso. Qualunque cosa facciamo, dopo ci affrettiamo ad attribuire a questa un qualche voto online, a condividere con gli altri il nostro giudizio che, generalmente, va da una a cinque stellette. Sì, proprio come su DeBaser.

Siamo stati a mangiare al ristorante e ci siamo trovati malissimo? Tac, ecco che appioppiamo al ristorante una stelletta, magari due, se proprio non vogliamo essere cattivi. Diamo i voti ai film che guardiamo, ai libri che leggiamo e ovviamente ai dischi che ascoltiamo e facciamo delle classifiche, selezioniamo, diciamo a tutti quello che preferiamo. Compriamo qualche cosa su eBay oppure su amazon? Perfetto. Dopo ecco che diamo un voto al venditore e, poiché abbiamo comprato, ecco che alla fine anche il venditore ci dà un voto. Un voto che può essere pure un "voto di scambio" perché, per quanto la cosa possa apparire assurda, è chiaro che, se tu al venditore dai un voto basso, difficilmente questo dopo ti darà cinque stellette piene. Infine, la cosa potrà apparire scandalosa ai più benpensanti, ma, come diamo dei voti ai video su YouTube oppure su YouPorn, pare ci siano pure dei siti dedicati dove gli utenti attribuiscono delle stellette, sempre da uno a cinque, alle "lucciole" secondo dei criteri che variano dalle loro qualità fisiche alle loro performance e ai prezzi.

Non voglio parlare di moralità comunque. Il fatto è che la nostra esistenza è diventata una specie di gigantesco fantacalcio, dove, tuttavia, anziché essere solo dei "selezionatori" e quindi aspettare passivamente la pubblicazione delle pagelle da parte del quotidiano sportivo relativamente le prestazioni sportive dei nostri campioni, siamo invece allo stesso tempo protagonisti, spettatori e infine giudici. Come nella vita di tutti i giorni del resto. Di più, sembra quasi che dare i voti sia diventato più importante delle stesse esperienze; dare un voto, è lo scopo di tutto quello che facciamo, la motivazione ultima e principale.

A questo punto, tuttavia, perché non ipotizzare che, domani, i nostri profili "ufficiali" su di un gigantesco archivio governativo non possano essere accompagnati da delle stellette? Diamo delle stellette a tutto, a questo punto perché escludere che gli altri possano dare un voto da uno a cinque alla nostra persona. Del resto, è innegabile, se fosse data la possibilità di farlo, tutti darebbero senza neppure pensarci su solo un attimo un voto da uno a cinque ai loro amici, ai loro parenti, ai loro conoscenti e a tutte le persone con cui interagisc0no nella loro vita di tutti i giorni oppure in quella virtuale. Lo farebbero magari senza cattiveria e senza nessuna malizia, ma lo farebbero, pure solo semplicemente perché sarebbe data loro questa possibilità. E allora domani, di punto in bianco, potresti essere una persona da una stelletta e questo potrebbe fare curriculum, costituire una macchia nella tua esistenza. Potresti persino non trovare lavoro oppure nessuno potrebbe affittarti un appartamento, perché la tua vita, tu vali una cazzo di stelletta e valere una stelletta, nella società di domani, sarebbe lo stesso che non valere un soldo bucato.

Non lo so voi. Io comunque ho smesso di dare voti anche ai dischi oppure ai libri. Ho smesso perché ho pensato che, delle volte, dietro questi lavori, che questi lavori costituiscono un pezzo della vita di una persona, non sono semplicemente un servizio reso agli ascoltatori oppure ai lettori. Dietro, non sempre ma molto spesso, c'è molto altro, ci sono la vita di intere persone e come fai a dare un voto all'esistenza di una persona? Come puoi votare una persona e decidere che questa vale una, due, tre, quattro, cinque stellette. Quando parliamo di voti, quando mettiamo questi tutti assieme è evidente che la maggioranza possa, in alcuni casi addirittura debba necessariamente costituire la "verità". Ma questo, quello delle votazioni a un certo punto diviene invece qualche cosa fine a se stesso e autoreferenziale, che esuli da ogni principio di confronto e di interazione che sarebbe poi alla base del grande concetto di "rete".


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editoriale di Bartleboom

Ma vogliamo, o no, parlare un po'?

Chi sei?
Io sono quello che se la cava, sempre. Ti sorrido e entrambi sappiamo che me la sono cavata. Ma dai che mi conosci, io dico sempre la cosa giusta al momento giusto. Tu pensi A, quell'altro pensa B, io arrivo e vi trovo la C, e vi si apre un mondo.

Tu invece chi sei?

Che cosa vuoi. Io sono così. Io non la abbasso la testa. Mi frega il cazzo di chi sei figlio, io sono proprio un osso duro.

Chi sei?
Ti chiedo scusa se non sono riuscito a rivelarmi dall'inizio, spero che tu lo voglia sapere ancora; è solo che non lo so nemmeno io. Io ho, semplicemente, l'età che ho. Forse non mi sono impegnato abbastanza in questi anni, o forse mi serve ancora del tempo. Dammi un'altra opportunità, ti prometto che è l'ultima.

Chi sei.
Guarda che ho capito perfettamente, per questo rido. Io non c'entro niente con questo trucco per imbecilli: cos'è? Una "SCORCIATOIA INTELLETTUALE"? Brutto fan di Carmelo Bene dei miei coglioni? Guarda che io non ho MAI pagato una donna per fare sesso, hai capito STRONZO. E ora lasciami lavorare.

Chi sei tu?
Io ho trovato quello che cercavo. Se ti può bastare. Per me invece è stato addirittura troppo, ora ho capito cosa vedo io, e ho capito che vedo tutto, vedo anche me, e adesso anche senza specchio.

Tu chi sei?
Piuttosto tu chi sei. Domanda più del cazzo non la potevi fare. Noi non siamo. E finché siamo, non abbiamo da temere, perché fare delle domande. Perché chiudere la frase con un punto interrogativo.

Chi sei?
Sono il colore nero che si sparge di sera. E mentre mi confondo penso all'evoluzione del pensiero. Al muro di lettere e al recinto di frasi. Le parole sono staccionate da dipingere. In cambio di qualche focaccia nei periodi di fame.

E tu quindi sei veramente un bugiardo. Hai provato a vendermi la verità perché la verità è il desiderio, e si vende da solo. Il desiderio d'essere vero.

La sola verità è la memoria, così come viene conservata.

E non sei libero, neanche di non ridere se non ti va. Se è così, significa che menti. E se dici che non è così, è perché stai mentendo. Che ti dicevo? Non sai cosa sia l'onestà, ma non lo sa nessuno. Il significato che gli abbiamo dato noi, quello invece lo conoscono tutti.

Però siete stati anche capaci, e tanto, tanto coraggiosi. Chi dice di no, sta mentendo.


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editoriale di Flo

Non c’è dubbio che io, a diciotto anni, fossi (già) una persona strana.

Per il mio compleanno, invece di feste con tanti invitati quanto potrebbero essercene a un matrimonio, mi feci regalare un viaggio a Lisbona con i miei.
Erano i primi di settembre, di certo non sapevo che quel viaggio, a posteriori, mi avrebbe segnata tanto.

Ma ricordo perché avevo scelto Lisbona: Pessoa, il suo Livro do Desassossego, il Libro dell’inquietudine tradotto da Tabucchi, aveva già scavato un solco nella mia adolescenza, nella mia anima e nelle mie tasche: me l’ero portato ovunque, era l’unico libro in italiano che mi aveva seguita nel mio anno in Norvegia, quando avevo diciassette anni, e ha ancora il suo posto d’onore sulla mia libreria, tenuto come un cimelio, neanche troppo spiegazzato.

Di quel viaggio ricordo tanto caldo e tanta pioggia.
Tantissima, come raramente ho visto piovere nella mia vita, tanta pioggia da costringerci, una sera, ad aspettare mezz’ora rintanati nel foyer del Teatro Politeama.
Ricordo anche tanta insonnia da crampi da disidratazione: le salite di Lisbona non perdonano.
Ricordo gli amici pigri e rompiscatole dei miei che viaggiavano con noi.
Ricordo un senso di incompleto, di amaro in bocca, di non visto che mi lasciò quel viaggio.

Soprattutto, ricordo una sensazione di meraviglia, la sorpresa per la luce accecante sul lastricato nel primo pomeriggio, l’incanto per la lingua meravigliosa e strascicata dei portoghesi, la grandezza dell’oceano di Cascais, il profumo di pesce e la puzza di baccalà, l’odore di dolci appena sfornati. Il fascino di quella decadenza malinconica che pervade ogni angolo della città e che ti entra dentro o ti ripugna.
Le stesse sensazioni che ho provato ogni singolo giorno quando a Lisbona ci sono tornata in Erasmus.

La voglia di tornare.

A Lisbona, poi, ci sono tornata in un altro viaggio, ci ho vissuto per cinque mesi, e sono castigata ogni giorno da quel sentimento pieno di sospiri che è la saudade, un sentimento tutto portoghese, di cui Lisbona rappresenta la concretizzazione.

Nella vita, io non mi sono mai innamorata, se non di Lisbona e del Portogallo. Del portoghese, a cui mi dedico da cinque anni e che mi hanno impedito di continuare a studiare, strappandomi un pezzettino di cuore. Di Pessoa e del suo Libro dell’inquietudine, quella reliquia della mia adolescenza su cui ho scritto pagine e pagine inutili di tesi.

Di quel viaggio a Lisbona conservo ancora un piccolo dettaglio, un libro che mio padre contrattò con il commesso di una libreria antichissima (l’ho scoperto dopo, detiene il Guinness come libreria in attività più antica del mondo), parlandogli in italiano.
Era un libro di poesie, un’antologia, ovviamente di Fernando Pessoa.
Sfogliandolo, ore dopo, scoprii con rammarico che era difettoso, che mancavano alcune pagine, rimaste bianche, e che non avrei potuto cambiarlo. Cercai comunque di comprenderne il contenuto, aggrappandomi ai pochi appigli che quella lingua che ancora non conoscevo mi offriva.

Mai avrei pensato che il futuro fosse scritto tra le pagine bianche di un libro stampato male.



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editoriale di Bartleboom

Recensire, giudicare, analizzare, sezionare, in una parola "criticare" puo' apparire a molti come un mero esercizio di confutazione, affossamento o elogio iper realista. All'università, gli insegnamenti in tal senso affondano radici in quel sociologismo positivista di stampo marxista che separa e incanala i temi a seconda della loro derivazione anche (ideo)logica. A tutto questo bisognerebbe dire stop.

Leggendo molti commenti, e non solo su questo divertente sito, salta al nasocchio che il "gusto" spesso si confonde con la capacità "tecnica" dell'autore-regista.
Un film puo' essere contemporaneamente eccellente (ovvero mi è piaciuto tanto) e orripilante ( dialoghi piatti, montaggio farraginoso, interpretazione latente). Mi si chiederà allora: "cos'è che ha reso quella pellicola così attraente? E si torna al vecchio caro positivismo marxista. Al sapore sciapo e a un uso approssimativo della cinepresa, si contrappone un forte messaggio ( o contenuto) atto a ribaltare l'esito della "critica" facendo sì che alla fatidica monosteletta (i parametri sono solitamente da una a quattro o cinque) si giunga addirittura ad elargirne quattro.

Rifiutandomi di annoiarvi con dieci cartelle, concluderò con questa dichiarazione d'intenti che da ormai 30 anni mi segue.

Si rifugga il compiacimento politico, si eviti di affidare al contenuto la corona del giudizio, si tenga conto della capacità attoriale e tecnica dell'intero cast, si valuti l'opera da almeno due punti di vista (tecnico-emotivo), infine al minestrone potremo aggiungere quel pizzico di sale che corrisponde al nostro specifico gusto personale.
Servita in tavola la pietanza troverà ugualmente detrattori e folle acclamanti evitando però quei paradossi che almeno alla mia persona infastidiscono.

Puo' un film essere considerato da un recensore CAPOLAVORO e da un altro "ignobile PASTICCIO?"

No, non dal punto di vista critico.
Una forbice tanto ampia è comprensibile solo nel parametro gusto e non rientra nel compito di un'analista, foss'anche egli un neofita o un appassionato privo di attestati universitari.

Ognuno di voi, indossati i panni del giornalista cinematografico, dello storico, si ricordi che dietro a una produzione c'è sempre un lavoro complesso, nella maggior parte dei casi, difficile e faticoso che merita se non altro un briciolo di rispetto.

Se vi sarà una prossima volta potremo così affrontare la parabola del "commerciale"......ma questa è un'altra faccenda. Buone letture e buone visioni.

P.C.


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editoriale di G

Ti ricordi quel film?

Quello claustrofobico, giapponese, c’era una tipa che finiva in una stanza, tutta spoglia e verde. Mi ricordo solo questo di tutto il film. Forse doveva prostituirsi. Non ricordo altro.

Di Johnny Mnemonic ricordo poco di più: quello strano personaggio. Una lei virtuale che stava invecchiando, perdendo segmenti della propria memoria.
L’ho visto al cinema quando è uscito. Parecchi anni fa. Andava di moda il “cyber punk”.

C’erano degli ideali nell’aria, si respiravano.
Si immaginava quanto la rete avrebbe potuto fare e si ragionava in termini idealistici. Informazione libera, per tutti, conoscenza libera, sapere immediato.
C’erano entusiasmi. Tutto quello che prima era difficile da raggiungere ora sembrava a portata di mano. E noi giù a comprare modem, monitor, portatili, server, tutti di corsa a preparare le avveniristiche autostrade dell’informazione, a lavorare nel settore, a progettare spazi di interazione.

Ho fatto parte di tutto questo in un modo o nell’altro e oggi, se mi guardo attorno, ho la sgradevole sensazione che quell’occasione sia andata persa.
Mi sembra che, alla fine di una parabola, tutta “‘st’infrastruttura”, serva solo per “informarci” su cosa twitta il politico di turno e su cosa gli ritwitta l’oppositore farlocco di turno.
Per farci conoscere le svendite sul sito d’occasioni e attaccarci il virus di qualche video della tal casa automobilistica che “guardalo, fa morire darridere”.
Per farci apprezzare la dolorante clavicola rotta dall’impavido skater, l’ilarissimo spavento del collega ischerzato, le comiche del gatto, la rabbia del cane, il dramma del coccodrillo, le tette ballerine della bulgara di turno, lo schianto in autostrada filmato per errore e quello che si lancia su un cactus.

La sensazione è sgradevole perché se quello che sento è vero, allora è anche vero che io mi sbagliavo, che mi sono sbagliato per anni.

Ho sempre lottato contro l’idea che voleva DeBaser diventasse un salottino chiuso e riservato, dove pochi snob parlassero tra di loro a un livello inaccessibile agli altri.
Ho sempre sperato in un DeBaser se vogliamo proletario, confidando in un qualche proletariato illuminato, per anni soffocato dall’impossibilità di esprimersi, di trovare canali di comunicazione.
Pensavo che, una volta che avesse avuto lo spazio, l’idea luminosa che immaginavo in tutti, sarebbe potuta emergere.

Ero candidamente convinto che la gente non esistesse, che esistessero persone, pensavo che queste persone, una volta che si fossero potute incontrare avrebbero preso il meglio le une dalle altre.

Però mi sembra di capire che da alte parti, dove sì, si è riusciti a conquistarlo quel proletariato, dove la gente va a farsi bombardare di informazioni inutili, contrastanti, parziali, dannose, a sovraesporsi fino a perdere del tutto la memoria, mi sembra di capire, dalla schiuma che lì emerge, come sotto non fermenti nulla di particolarmente illuminato.

Forse allora, in tutta questa storia che mi sembra di ricordare meno di quel film giapponese, qualche scusa è dovuta, da parte mia a chi non la pensava come me.
E qualche ripensamento andrebbe valutato su come potrebbero andare le cose qui.


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editoriale di andisceppard

Pensatela come vi pare, io piango Marco Pantani.

E non solo, anche se pure, per l'uomo solo al comando. L'uomo che parte, e ti fa saltare sulla sedia. L'eroe, quello che lo segui, lo guardi, vuoi sapere.
E nemmeno solo per quella roba, piantata nella mia testa, del perché vai così veloce in salita, risposta perché così si abbrevia la mia agonia.

Piango Marco Pantani, drogato oppure no, perché è il mio ultimo eroe.

Droga, nel ciclismo, c'è da sempre, inutile fare finta di no. Parlate con chiunque, questo sport, lo pratica. Anche a livello semiprofessionistico. Ve lo dice. Papale papale. O prendi la bomba o non vai avanti.
Dai tempi di Coppi, forse anche prima. C'è. Piantiamola con le cagate, le idee dei complotti, Vallanzasca che dice che uno gli ha detto di scommettere, quelle robe lì.

C'è e c'è da sempre. Ma, nonostante ciò, rispetto.

Pantani, dalla sua carriera, bella, sfolgorante e indimenticabile, ne ricava una villa, poco lontana da Cesenatico.
L'ho vista, quella villa lì. Bella. Tipo che qualunque calciatore, chiunque giochi diciamo in serie c, se ne fa una grande il doppio.

Ma lui l'ha pagata, quella villa lì. L'ha pagata con la sua agonia, con la droga, con la cancellazione dalla memoria. Sei solo un drogato, vatteneaffanculo, e maledetto me, che per te ci ho gioito, e sofferto.

Lo sport, come tutti i maschietti, lo seguo fin da quando ero bambino. E c'ho i miei eroi, i miei amori, le mie preferenze. E quando sei bambino pensi che sia una cosa vera, lo sport, il tifo, voler bene a una squadra, seguirla, anche quando va male.

Fare - ad esempio, come è capitato a me - coraggio a un pippone come Luther Blissett. Perché è della tua squadra. Oppure piangere al goal di Mark Hateley, nel derby di mille anni fa. Quel goal di testa, liberatorio, dopo milioni di derby persi. O condividere la sua gioia, così vicina ad un orgasmo, dopo un goal di rapina contro la Roma.

Poi cresci.
E ti rendi conto che di te, alla tua squadra, ai tuoi idoli, non gliene frega niente. E allora trovi un altro modo, per condividere, per gioire.
Cerchi, e trovi, qualcuno che ti racconta una storia.
Perché questo - di fondo - è quanto di bello c'è nello sport. Che qualche volta, inaspettatamente, inspiegabilmente, ti racconta una storia.

Come la storia dell'Olanda del '74, a Monaco di Baviera, la squadra più rivoluzionaria di ogni tempo. All purpose, come dicono gli americani. In ogni sport, in ogni cosa. O l'Italvolley di Velasco. L'orgoglio. Inaspettato e insperato. O l'Olimpia del Nano Ghiacciato, bella e sfortunata. O i Kardiac Kids, da sempre nel mio cuore, o mille altri.

E persone, anche. Come gli Unti Dal Signore. Maradona, Tomba, Kasparov, solo per citare i primi tre che mi vengono in mente. Anche un po' teste di cavolo, per carità. Ma insomma, se si parla di quello sport lì (il calcio, lo sci, gli scacchi) non c'è niente da dire. Stai lì e li guardi.
E dici nessuno potrà mai essere come te. Mai. Si spegne. Si chiudono le iscrizioni. FInita.
Belli, gli Unti Dal Signore (chiunque egli sia).

Ancora più bello, indimenticabile, Uno che, prima di una tappa in salita, gli chiedono: cosa farai, che piano hai. E lui risponde non lo so. Non so che Marco Pantani sarò oggi. E spero di esserlo, il Pirata. Uno che il signore non l'ha baciato. Uno che - per lui - ogni cosa che ottieni è sofferenza. Droga o non droga. Uno che - sul traguardo, vincitore - non ha mai sorriso. Ma solo tirato il fiato. E detto, madonna, guarda che Pantani sono stato oggi. Non lo so se riuscirò mai più ad esserlo.

Uno che non solo non lo sa di essere eroe. Ma nemmeno sa se riuscirà ad essere sé stesso. Mai.

Ecco, da quel giorno lì, da quel giorno a Madonna di Campiglio, dello sport non me ne frega più niente.

E piango Marco Pantani, pensatela come vi pare.


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editoriale di RIBALDO

A casa mia, in camera da letto, sul comodino accanto al letto matrimoniale dei miei genitori, c'è sempre stata una fotografia che ormai da molti anni non c'è più.
Chissà se esiste ancora riposta nell'armadio ...o se è andata perduta.

E' una fotografia bellissima in b/n, direi artistica,sebbene non fu scattata con questo intento.
Ritrae in primo piano mio fratello Lorenzo il primogenito, di due anni e mezzo più grande di me, il quale, divincolatosi dalle grinfie di mia madre che invano cerca di tenerlo a bada, scatta in avanti e, camminando a passo di marcia emette una pernacchia.

Insomma c'è questo bambino in primo piano, immortalato mentre cammina, si vede un piede a mezz'aria, la lingua leggermente all'infuori, sapete come si fa una pernacchia no? Ebbene lo scatto avvenne proprio nel preciso istante in cui spernacchiava, quante pernacchie fece!

Un braccio è proteso in avanti, non è disteso ma curvo col pugnetto chiuso ed il gomito a 90°.
Lui è raggiante di felicità, sta facendo delle pernacchie bellissime, è al centro dell'attenzione e lo sa, tanta gente lo sta guardando.

Ricordo perfettamente quella scena, nella foto ci sono anch'io con mamma, lei mi tiene per mano e guarda mio fratello che è avanti di qualche metro, con un misto di vergogna e divertimento. Siamo in un viale alberato, si sta sposando sua sorella, zia Dina, più giovane di mamma di qualche anno.

Ricordo non solo la scena ma cosa sto pensando in quel momento. Invidio mio fratello "libero" che fa le pernacchie. Muoio dalla voglia di farle anch'io ma non ho scampo, il più grande è fuggito ok ma a me non sarà permesso.

Perchè Lorenzo fa quelle pernacchie? Perchè la sera prima vediamo un film, o meglio uno spezzone al tg e c'è questo bambino che fa la stessa cosa. Ricordo anche la sera precedente dunque.

Ma come è possibile che io mi ricordi questa cosa? Ero troppo piccolo, avevo 2 anni e 10 mesi! Eppure ricordo quella sera, quella scena, lo spezzone di film nel tg della sera e l'espressione sgomenta dei miei nell'apprendere la triste notizia. Ed io capivo tutto, capivo perfettamente che era accaduta una cosa grave o perlomeno assai spiacevole.
Qualcosa di ingiusto, qualcosa di sbagliato.

Sono sicuro che è solo grazie alla fotografia, che ha fatto bella mostra di se nella camera dei miei e che avrò visto centinaia di volte che il ricordo si è "impresso" nella memoria.

Man mano che passavano gli anni mi capitava di guardare la fotografia e di ricordare quel giorno.

Era il 27 settembre del 1973.

Il giorno prima, il 26 settembre del 1973, moriva Anna Magnani.


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editoriale di Bartleboom

Di notte, in ospedale, non si riesce proprio a dormire.

Il campanello suona in continuazione, le infermiere parlano ad alta voce per tenersi sveglie, c’è uno, nella stanza a fianco, che chiama la moglie perché vuole andare a casa. A te hanno dato una sedia su cui dormire e porca la miseria averlo saputo almeno mi portavo un cuscino per appoggiare la testa.
Hai i piedi gonfi per la giornata appena trascorsa.
Gli occhi stanchi per dovere stare al buio.
Il caffè della macchinetta ti fa capire che no, non hai risolto del tutto quel problema di reflusso.
E di uscire a fumare non se ne parla, perché se magari “lui” o “lei” si sveglia, vuoi essere lì.
Mica che succede qualcosa…


E allora, di notte, in ospedale, cammini. Cammini nella stanza, intorno ai letti. Conti i passi dalla porta alla finestra.
Cammini nei corridoi, passando davanti agli ascensori, intercetti le chiacchiere delle infermiere
E speri che il tempo passi in fretta.
E di solito no, non passa in fretta.

Di notte, in ospedale, conosco Antonio, un signore non esattamente distinto, sulla cinquantina, che mi risulta subito simpatico quando, al momento delle presentazioni, si gioca il tutto per tutto con un: “Dammi pure del tu, che tanto siamo praticamente coetanei”.

E’ lì per sua madre, a suo dire “una cacacazzi pluridecorata”, di quelle che dormono 10 minuti alla volta, solo per il gusto di svegliarsi e lamentarsi per il caldo/freddo/fame/dolore/noia/stanchezza, con una brutta tosse che mi sa tanto che nasconde qualcosa di ancora più brutto.

Fin dalla prima sera, io e Antonio chiacchieriamo un sacco, ma è lui quello che ha più urgenza di parlare.
E così, in circa due settimane, da mezzanotte alle sei, Antonio mi racconta di fatti, persone, case e cose talmente belli che non possono non essere veri.
Mi parla di un viaggio a Parigi fatto a vent’anni, che gli ha cambiato la vita perché “c’eravamo noi che puzzavamo di pasta al sugo cucinata da mammà e c’erano tutti sti ragazzi di 17, 18 anni che vivevano in 6 in un sottotetto pur di andarsene da casa”.
Mi racconta della Milano da bere degli anni ’80, di un frego di soldi persi al gioco, di vacanze sulla barca del suo amico figlio di cotanto padre, di cene in ristoranti di lusso che oggi nemmeno esistono più. Non mi parla quanto vorrei dei due anni vissuti da single con due hostess per vicine di casa.
Mi parla di una donna con cui è stato fidanzato 10 anni, di quando l’ha lasciata, e di come, dopo solo pochi mesi, si è messo con quella che, oggi, è sua moglie e la madre di sua figlia.

Mi parla di suo padre.
Mi dice che non si rivolgevano la parola da un sacco di tempo. Da anni, addirittura.
Finché al suo vecchio non hanno diagnosticato un male di quelli brutti e ad un certo punto i dottori gli hanno detto “Forse è il caso che vi salutiate come si deve”.
E allora padre e figlio hanno ricominciato a parlare.
E a camminare insieme.

Perché il padre di Antonio aveva una specie di infezione alla gamba e l’unico modo per avere un po’ di sollievo era camminare.
E visto che le forze poco alla volta lo stavano abbandonando, Antonio se lo prendeva sottobraccio e lo accompagnava in giro per i corridoi dell’ospedale.
Di notte, soprattutto.
Che tanto di dormire, la notte, in ospedale, proprio non se ne parla.

Finché, un giorno, Antonio non ce l’ha fatta più.
Perché di notti, in ospedale, non ne puoi mica fare tante, a rischio di crollare e di lasciare indietro la tua, di vita.

E allora Antonio mi racconta di Italo, un ragazzo sui vent’anni, studente di chissà quale facoltà, che per pagarsi i libri assisteva gli anziani di notte.
E io Italo me lo immagino come uno sfigatone pazzesco, di quelli che non parlano mai, con la faccia da babbazzo e i baffetti puberali pure a vent’anni. Ma buono.
E mi immagino che, col tempo, abbia preso la laurea e sia diventato un professionista affermato e apprezzato, magari ricco e magari con la moglie figa. Ma comunque buono.

Antonio mi dice che una volta, sarà stata l’alba o giù di lì, se ne stava a casa, nel suo letto, ma proprio non ce la faceva a dormire. Manco fosse in ospedale.
E allora s’è vestito ed è andato a vedere come stava suo padre.
Entrando nella stanza, lo ha trovato piegato in due dal dolore, con le mani strette intorno alla gamba malata. E, in un angolo, seduto tutto storto su una poltrona, il buon Italo che se la dormiva della grossa.

E Antonio s’è subito incazzato, è partito come un missile pronto ad indorare il culo del povero Italo con un rosone di calcinculo eccheccazzotipaghiamoafare.

Ma subito suo padre lo ha fermato.
“Lascialo stare, Antò… Hai visto come dorme bene? Se lo guardo non mi sembra nemmeno di stare in ospedale…”



Immagine: "Uncomfortable sleeping position" di Julia Boersma;

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editoriale di Bartleboom

Libertà

by Zaireeka (10 gennaio 2014)


Fra le tante vignette pubblicate sul web in questi giorni, disegnate in tutto il mondo in omaggio alle vittime della strage del 7 gennaio 2015 nella sede del giornale satirico francese Charlie Hebdo, ce n'è una una che mi ha colpito particolarmente.

n questa vignetta (in francese) c'è San Pietro contrariato ed indispettito che, in piedi sulla nuvola più alta e con le chiavi del paradiso in mano, guarda tutte quelle intorno imbrattate con segni inequivocabilmente a forma di membro maschile, e recita: "Hanno già disegnato cazzi dovunque".

La trovo molto bella perchè è triste (tristissima), fantasiosa, e divertente (divertentissima), tutto insieme.

Tanto bella che ho deciso di farla diventare la foto del mio profilo.

Io non so se la libertà in fondo è una cosa "ultraterrena" come sembra suggerire la vignetta.

So solo che in queste circostanze mi sento molto piccolo, e non posso essere giustificato dal fatto che il direttore di Charlie Hebdo non avesse, a differenza mia, nè moglie, nè figli, e nemmeno un'auto.

Poi penso che non tutti nasciamo così coraggiosi da farci uccidere per la libertà di pubblicare delle vignette per poi finire a fare disegni sconci direttamente in paradiso.

C'è chi la libertà, piuttosto che esercitarla fino in fondo, si limita ad ammirarla quando è esercitata in pieno dagli altri, e questo è già qualcosa, oppure a sognarla, e nel migliore dei casi a suonarla sulle note dolci di una chitarra Pagina Web

Dio è misericordioso ed ha il coraggio di ospitare gli uni e gli altri, anzi ha bisogno di tutti e due.





Parigi e seguenti

by Geenoo (15 gennaio 2015)


Il Papa, in ritorno da un viaggio dallo Sri Lanka, il 14.01.2015 risponde ai giornalisti sui fatti di Parigi.

«[...] Credo che tutti e due siano diritti umani fondamentali, la libertà religiosa e la libertà di espressione. Non si può nascondere una verità: ognuno ha il diritto di praticare la propria religione senza offendere, liberamente, e così dobbiamo fare tutti. Non si può offendere o fare la guerra o uccidere in nome della propria religione, cioè in nome di Dio. A noi quello che succede adesso ci stupisce, no?, ma pensiamo alla nostra storia: quante guerre di religione abbiamo avuto! Lei pensi alla notte di San Bartolomeo. Anche noi siamo stati peccatori su questo. Ma non si può uccidere in nome di Dio. È una aberrazione. Con libertà, senza offendere, ma senza imporre, senza uccidere…Parlava della libertà di espressione. Ognuno non solo ha la libertà, ha il diritto e anche l’obbligo di dire quello che pensa per aiutare il bene comune. L’obbligo! [...] Abbiamo l’obbligo di parlare apertamente. Avere questa libertà, ma senza offendere. E vero che non si può reagire violentemente, ma se il dottor Gasbarri, che è un amico, dice una parolaccia contro la mia mamma, lo aspetta un pugno! Ma è normale! Non si può provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere in giro la fede. Papa Benedetto, in un discorso, ha parlato di questa mentalità post-positivista, della metafisica post-positivista, che portava alla fine a credere che le religioni o le espressioni religiose siano una sorta di sottocultura: tollerate ma poca cosa, non sono nella cultura illuminata. E questa è una eredità dell’illuminismo. Tanta gente che sparla di altre religioni o delle religioni, che prende in giro, diciamo “giocattolizza” la religione degli altri, questi provocano. E può accadere quello che accadrebbe al dottor Gasbarri se dicesse qualcosa contro la mia mamma! C’è un limite. Ogni religione ha dignità, ogni religione che rispetta la vita e la persona umana, e io non posso prenderla in giro. Questo è un limite. Ho preso questo esempio per dire che nella libertà di espressione ci sono limiti. Come quello della mia mamma».

Religione. Sottocultura. Libertà religiosa. Libertà di espressione. Provocazione. Reazione. Limiti. Giocattolizzare (=Ridicolizzare).

Ci sono limiti alla libertà di espressione?

P.s. Delfeil de Ton: «Ce l’ho veramente con te, Charb - ha scritto uno dei padri fondatori in una sorta di lettera al direttore e disegnatore assassinato -. Che bisogno c’era di trascinare tutti in questa escalation?». L’accusa, pesante, è di aver portato alla morte la sua redazione. Delfeil de Ton riconosce Charb ancora come «il mio capo», dalle colonne del Nouvel Obs’, di cui è opinionista dal 1975. Ne parla come «un ragazzo brillante», ma «un testardo». Ricorda la sua disapprovazione quando Charb, Stéphane Charbonnier, 47 anni, pubblicò il famoso numero con la testata modificata da Charlie Hebdo a Charia Hebdo (con un gioco di parole sulla Sharia) e «Maometto direttore» in un circoletto sulla copertina. Quel numero costò l’incendio dei locali della redazione, con una molotov, ma per fortuna nessuna vittima. «Charb non avrebbe dovuto rifarlo e invece lo ha rifatto nel settembre del 2012».

Ma, quel che è più doloroso, Delfeil de Ton testimonia nel suo articolo che Wolinski, il celebre caricaturista ucciso a 80 anni con il resto dei collaboratori, non condivideva la pervicacia di Charb e glielo avrebbe confidato: «Credo che siamo degli incoscienti e degli imbecilli che corriamo un rischio inutile. Tutto qui – gli avrebbe detto Wolinski un giorno.







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editoriale di De...Marga...

Sono ormai sei anni che ho degli enormi problemi lavorativi; da quando nel 2008 siamo entrati in questa subdola crisi economica, sto trovando grosse difficoltà nel guadagnarmi da vivere. Ed essendo padre il tutto si complica terribilmente.

Per mia fortuna collaboro con una ditta di spettacoli della mia zona e nel periodo natalizio mi diletto nel fare il Babbo Natale nei Centri Commerciali, in special modo nella zona di Milano, Torino ed ovviamente nella mia Ossola.

Tutto agghindato a dovere mi posiziono sul mio trono, al centro di una coreografia prettamente a tema con tanto di fondale invernale, renne (finte), alberi di Natale, cassetta della posta per ricevere le lettere dei bimbi, pacchi e pacchettini vari.

Credetemi sono momenti davvero belli ed intensi quelli che provo nel dedicarmi a questo gratificante lavoro: accolgo i numerosissimi bimbi, la maggior parte dei quali estasiati e sorridenti, capaci in quei pochi secondi che rimangono in braccio sulle mie gambe di donarmi emozioni vere, semplici. Con quella innata innocenza che li accompagna.

Ed è meraviglioso fare foto con loro, interagendo e cercando di soddisfare le domande che la loro curiosità li spinge a pormi; domande di ogni tipo, alcune ovvie e scontate, alcune di difficile risposta anche per Babbo "De..Marga..." Natale.

Ma tu non sei il vero Babbo Natale, ma solo un aiutante perché non hai la pancia!!!

Ma perché l'anno scorso non mi hai portato quel regalo che ti avevo chiesto?

Ma come fai la notte di Natale a girare tutto il mondo con la tua slitta?

Ma non ti senti un po' vecchio per fare ciò?

E potrei andare avanti ancora a lungo; ripeto che sono momenti unici, puri, innocenti. I meravigliosi bimbi che sono il nostro futuro, come amo ricordare.

E a loro, alla loro innocenza, ai loro semplici sorrisi che va il mio ultimo pensiero prima di lasciarVi, cari colleghi, cogliendo l'occasione per augurarVi un migliore 2015: ne abbiamo davvero bisogno.

Un abbraccio da Babbo Natale.

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editoriale di Flo

Un accurato censimento del presepe di casa mia (ebbene sì, facciamo pure quello: ci pensa mio padre bestemmiando ogni volta che cade una statuina) ha rivelato, oltre a un uso spregiudicato e discutibile della prospettiva giottiana, la presenza di:

- una squadra di calcio di Re Magi, la FC Comet Betlemme, disposti in formazione 4-4-2 nel rettangolo del presepe, pronti a marcare a uomo i centurioni romani. Presenti in numero abbondante nel caso qualcuno si perda, così sono sicuri di recare oro, incenso e mirra al Bambinello;

- animali, di tutti i tipi e ovunque: pecore, mucche, cammelli di tutte le misure, cani, pecore, gatti, un coniglio andato smarrito nel presepe dell'anno scorso, galline, pesci, oche, cigni. Mancano pinguini e orsi polari, ma li abbiamo ordinati per l'anno prossimo. Ma la storia degli animali sull'arca non era in un altro capitolo?

- Panettieri, pizzaioli, pescivendoli, sarte, pastori, pescatori, prostitute, C.E.O. di multinazionali, astronauti, hostess di Alitalia animano le vie attorno alla capanna: Betlemme non conosce crisi, apparentemente;

- quattro giovani fanciulle identificabili come la Vergine Maria, poste sulle vie più trafficate della piccola Betlemme, lì a contrattare coi pastori;

- cinque o sei San Giuseppe, tutti muniti di bastone, probabilmente a cercare la Vergine Maria, ché già la questione dell'Angelo Gabriele non gli è andata giù tanto bene...

E la neve? La neve non c'è.

Niente nuvole di farina né zucchero a velo, niente cotone ovattato incollato a cazzo attorno alla capanna.
Perché? Perché, ha detto mia madre, il riscaldamento globale è arrivato pure là (che poi io la storia della neve in Palestina non l'ho mai capita, ma quello è un altro discorso).

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editoriale di Hank Monk

Lungi dal credere che, in qualche modo, si possa estrarre un significato dal tuo sguardo.
Non promette gioie, non alimenta il mio ego, non mi fa fremere la carne; un nero opalino che schiarisce il sangue con la sua intensità. Bello in sé. Significato e significante.
Non sorridere, non ti sto adulando.
Solo, per un momento, ho smesso di amare me in te. Di cercare in te il mio compimento. Solo, per un brevissimo istante, finalmente, mi sono sganciato da questa angoscia che mi insapidiva le membra.

Affretto il passo, mi allontano con la curiosità di osservare il resto del mondo con i tuoi occhi. Dietro ai tuoi bruni riflessi sembra tutto più gentile. No, non sto cercando nemmeno una guida: non mi prendere per mano. Scomponi i miei riflessi; dirigili altrove. Circondami col tuo tenero brumore. L'allegria, è tutto uno scherzo. Mi sento ora veramente in pace, e non ho bisogno di schiamazzarlo. Senti come pulsa, come pulsa la vita.

Ritrovo poco alla volta la gioia della semplicità.
E ricordo.
Ricordo con quanta energia mi si riversava dallo stomaco alle gambe, dagli occhi al cuore, l'entusiasmo. Era così genuino; come è potuto mai trasformarsi così tanto.
Come è potuto diventare lo spauracchio che fino a poco fa mi si muoveva sotto la pelle. Come un prurito, una smania. Una fretta di esaltare, e informare tutti. Tutti informati. Tutti attenti; e a loro volta così prodighi di dettagli.

Grazie; è stata una risata liberatoria.
Ricordi?
Il vento di Novembre sul sudore della fronte. Gli odori erano così forti. E d'estate, sudati e rossi di vita. Era sempre una festa; un piccolo oscuro giardino che ogni volta si illuminava a giorno: bastava accendere una piccola candela.
Scusami se mi abbandono a questi ricordi; non voglio escluderti.
È che li contieni, e me li riversi addosso.

Bene, direi che ora possa bastare.
Sciogliti i capelli: un mosaico nero sulle tue spalle bianche.
Sì, sotto questa luce hanno riflessi quasi violacei.
Sì, sono così spessi.
Sì, sto andando a parare proprio lì: ma ora è diverso.
Ora siamo solo io e te.

Anzi; ci sei solo tu.

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editoriale di little horn 2.0

Era qualcosa di estremamente pesante, qualcosa che rischiava di soffocarmi. La cosa divertente è che una persona a 17 anni non ci pensa nemmeno; certo, mille avvertimenti, centinaia di migliaia di informazioni. Lo apprendi grazie ai tuoi genitori, alla televisione e a scuola. Solo che poi ti dimentichi e non ci pensi, credendo che questa cosa non ti riguarderà mai. Poi rimani fregato.

La parola con la C, quella che spaventa tutti. Quella che leggi sui pacchetti di sigarette. Leucemia. A 17 anni. Non potrò mai dimenticare quella mattina: la faccia costernata del medico, la voce strozzata di mia madre e lo sguardo perso nel vuoto di mio padre. Il tempo si ferma, e un istante diventa lungo una vita. I colori iniziano a sbiadire, fino a che il luogo che mi circonda diventa bianco e nero. Il cuore impazzisce e inizia a mancarmi il fiato.

Poi la mano di mio padre sulla mia spalla mi riporta alla realtà. Tutto riacquista colore e il tempo riprende il suo tranquillo scorrere. Sento parlare di terapia, di chemio e di radio. Cose quasi incomprensibili; introdurre del veleno per battere il veleno che mi possiede. Non lo so, voglio solo andare a casa e sdraiarmi sul letto.

I giorni passano rapidi, mentre in una casa solitamente dominata dal rumore causato dai rimproveri di mio padre e dalle improvvisazioni canore di mia madre che ama da morire Renato Zero, ora regna un silenzio tombale. Un atmosfera quasi sacra, che per un qualche strano motivo pare non possa essere interrotta; potrebbe essere peccato.

Devo farmi forza: ora come ora devo affrontare la più grande battaglia della mia vita e devo farlo da solo. Non so con che coraggio, ma devo lasciare Beatrice. Dio mio, la amo così tanto. No, non posso addossarle un simile peso. Ha 17 anni, è giovane e bellissima, perchè dovrebbe sprecare i suoi migliori anni piangendo e pregando per me? Non se lo merita.

Usciamo insieme e la porto al parco: una splendida giornata, anche se un po fredda. Il sole ce la mette tutta a scaldare, ma fallisce nel tentativo. Lei è splendida, anche più di quanto mi ricordassi. Le parlo e mi invento qualche bugia: le dico che non la amo più, che mi sono innamorato di un'altra e che trovo sia stupido continuare su questa strada. Il cuore sta morendo, lo sento. Lei piange e il mio cervello parte. Mi dice che non capisce, che non ha senso, ma io non sento ragioni. Non posso sentirle, mio Dio. Mi alzo e me ne vado, lasciandola li da sola. Non mi volto, e continuo a camminare mentre le lacrime inondano il mio viso. Non potevo davvero affidarle questo pesante fardello: la battaglia è mia e di nessun altro. L'unico sacrificio è la mia vita, nient'altro.

Passano 3 giorni: in realtà nemmeno mi rendo conto del tempo che passa. Tutto sembra aver perso il suo significato. Suona il campanello. Cazzo è lei. Oddio ma che ci fa qua? Sento che devo aprirle, anche se è sbagliato. Devo farlo, la voglio rivedere ancora. Apro e aspetto sul ciglio della porta. Entra. Il suo sguardo pare quello di uno che vuole ucciderti. Velocissima mi tira uno schiaffo; barcollo per un nanosecondo. Non capisco cosa stia succedendo.

"Ma che cazzo ti prende all'improvviso?" le urlo. Il suo sguardo cambia, e dai suoi occhi iniziano a scendere lacrime. Non capisco davvero più nulla.

"Pensavi davvero che non lo scoprissi, brutto iodita? Pensavi davvero che fossi così stupida? Perchè cazzo lo hai fatto?" mi dice con aria affranta. Pare davvero annichilita, e capisco anche il perchè. E so che anche lei ha capito il perchè delle mie azioni. Glielo leggo. "Se tu pensi che ti lascerò affrontare da solo questa cosa, hai capito proprio male! Puoi anche arrivare a odiarmi che poco mi frega, ma io non ti lascio. Questa non è la tua battaglia è la NOSTRA ! Ficcatelo in quella maledetta testaccia, brutto idiota. E ti giuro che andrà tutto bene, che quelle terapie funzioneranno e in breve tornerai a stare bene. E allora inizieremo un'altra vita, e se vorrai lasciarmi, fai pure. Ma fino ad allora io ti starò a fianco, che tu lo voglia o meno. Ti amo..."

La interrompo e la stringo forte tra le mie braccia, piangendo come un bambino. Le dico che mi dispiace e lei mi stringe ancora più forte. Restiamo per qualche minuto così, e per qualche minuto riscopro la vita.

Ora, sono 3 anni che mi batto come un leone contro questa maledetta cosa. 3 fottuti anni e cazzo, ho anche più grinta che all'inizio. Voglio vedere mia madre invecchiare e un giorno, ripagarla per tutti i sacrifici fatti; voglio vedere quello stronzo di mio padre arrivare a 80 anni e, nel caso dovesse stare male e avere bisogno di cure, ripetergli costantemente "Vecchio non ti preoccupare, che ci penso io a te". Voglio arrivare a coronare i miei sogni, prima di diventare un mucchietto di polvere. E quando penso di mollare, mi basta vedere il suo volto per riacquistare la forza. Non posso morire, neanche se lo volessi e mi sta benissimo.Questa malattia ha i minuti contati. La si prende per la gola e la si strozza fino a soffocarla. Perchè è così che facciamo!!!



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editoriale di soulonice

Conoscete il significato del termine “globish”?

La parola deriva dalla fusione di “globe” e “english”; il cosiddetto “inglese globale”, quindi, che sarebbe poi praticamente una versione semplificata de l’inglese.

Il primo ad adoperare questa espressione fu l’informatico francese Jean-Paul Nerrière, che si prese pure la briga di stilare una specie di dizionario di circa 1.500 parole tra le più comuni, semplici e diffuse della lingua inglese. Nel tempo, il termine ha assunto un significato più ampio e sottointende, nella pratica, il linguaggio di tutti coloro che si esprimano e comunichino tra di loro in lingua inglese, pure se non perfettamente padroni della lingua e della grammatica e, anzi, pure mescolando di volta in volta la lingua inglese originale, pura, con espressioni, termini o comunque accenti tipici della propria lingua madre (la cosiddetta L1).

Questo fa sì il concetto di globlish sia soggetto a critiche di diverso tipo. Tra quelle principali, è evidente, sussiste quella secondo la quale questa non corrisponda affatto alla lingua inglese. Una critica che viene mossa innanzitutto da coloro che parlino l’inglese come prima lingua e, poi, secondariamente da tutti coloro che siano una specie di “puristi” della linguistica e dell’uso corretto della grammatica inglese. La seconda, invece, ha un carattere più strettamente politico. La diffusione dell’inglese e il tentativo, la possibilità il globish possa divenire in qualche modo una nuova lingua ufficiale internazionale viene vista con sospetto e come una specie di nuovo tentativo imperialista.

Ma tutte e due le critiche fondano a mio parere le proprie basi su fondamenti ampiamente discutibili. In verità, infatti, il globish costituirebbe nella pratica la realizzazione di un sogno e una ambizione storicamente perseguita dall’essere umano, sin da quando il crollo della torre di Babele generò in esso totale confusione e incomunicabilità. Il globish costituisce la realizzazione pratica di quel sogno che fu l’esperanto. Ma dove l’esperanto costituì un tentativo pratico e razionale, sistematico di costruire a tavolino una nuova lunga internazionale; il globish, invece, è una lingua nata sul campo. La sua creazione è in toto da considerarsi come empirica; è qualche cosa di completamente diverso da l’esperanto e nasce, piuttosto che dai tentativi di catalogazione di Nerrière, dal confronto quotidiano tra persone che abbiano un background culturale e sociale radicalmente differente e lontano nello spazio geografico. Non è possibile stilare un vocabolario della lingua “Globish”; questa costituisce un surrogato della lingua inglese, ma essa è in continuo divenire e in costante mutazione. Cosa che, del resto, rende le critiche dei puristi della grammatica assolutamente irrilevanti; dove anch’essi a un certo punto debbano convenire come sia possibile sacrificare la perfezione linguistica e le regole a fronte della possibile universale di comunicare tra gli esseri umani di tutto il mondo.

Ma veniamo a noi. Sussiste, generalmente, in Italia il falso mito che da noi si parli il peggiore inglese d’Europa e che, invece, allo stesso tempo altrove si parli alla perfezione la lingua inglese. Questo è un falso mito ovviamente. Uno dei tanti, ingiustamente alimentato dai media e pure dal fatto che, generalmente, viaggiando, ci capiti inevitabilmente di intefacciarci per lo più con soggetti che per lavoro e abitudini professionali siano abituati a parlare la lingua inglese. Più di noi stessi medesimi, che magari costituiamo, presi nel mucchio, dei viaggiatori occasionali. Ma questo non vuole essere un alibi. Al contrario, ritengo che dovremmo noi italiani, ma noi europei tutti, spingere ancora di più nella direzione di migliorare il nostro utilizzo della lingua inglese, fino a fare di questa la nostra lingua ufficiale. Questo obiettivo, questa realtà, è evidente sia ancora lontana dal divenire; questo perché ci sono troppi interessi in gioco e una generale diffidenza da parte dei singoli stati membri, ancora diffidenti nei confronti della struttura comunitaria e tesi, per questo, a guardare primariamente ai loro interessi piuttosto che all’interesse comune. Ma, se tutti parlassimo la stessa lingua, se tutti parlassimo l’inglese, allora, proprio all’interno di questa struttura comunitaria, saremmo finalmente veramente tutti uguali, perché avremmo finalmente tutti le stesse possibilità. Sarebbe questa la vera base su cui costruire qualche cosa di unito e un presupposto importante per stabilire finalmente questa unità anche sul piano istituzionale e legislativo.

Affinché questo accada, tuttavia, bisognerebbe scegliere. E scegliere, fare delle scelte importanti e decise, è ciò che manca oggi a livello comunitario, ma pure a livello nazionale.

Sono un uomo del sud… sono un uomo del sud solo perché sono nato al sud. Ma avrei potuto nascere ovunque. In generale, non mi sento tanto cittadino del sud, quanto piuttosto cittadino italiano; quanto cittadino del mondo, essendo da sempre stato votato a una ispirazione di tipo internazionalista. Ne consegue io non abbia mai avuto storicamente pregiudizi oppure difficoltà, ove io abbia dovuto per lavoro interfacciarmi con realtà geografiche diverse o più o meno lontane dalla mia. Qualche giorno fa, tuttavia, non entrerò strettamente nel merito della questione, ma dalla cittadina di Bressanone ho ricevuto un documento ufficiale scritto e redatto in lingua tedesca. Rispetto le tradizioni culturali di ognuno, ma nel 2014 ritrovarsi tra le mani un documento (italiano) scritto in una lingua straniera ritengo sia una forma di provincialismo; una forma di ostruzionismo linguistico e provinciale e una vera e propria barriera culturale. Questo, questo tipico provincialismo, allora, è una vera macchia di cui dobbiamo liberarci il più presto possibile. Pure sacrificando sull’altare degli interessi di tutti l’utilizzo della grammatica. Questa poi, la riscriveremo dopo, tutti quanti assieme.

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editoriale di zaireeka

Mi capita spesso, in questi ultimi anni, di mettermi in testa di fare un esercizio che potrei definire di immaginazione retro-futurista.

Consiste in questo. Chiudere gli occhi e pensare intensamento al mio presente come immaginato dal ragazzo che sono stato, nell'atto di pensare ad uno dei suoi possibili tanti futuri.

Sono convinto che, se mi concentro abbastanza, dopo un po' potrei avere seri dubbi se mi trovo nel 1981 ed immaginare il 2014 o viceversa. Potrei forse recuperare a quel punto del tutto i ricordi e le sensazioni di un istante vissuto di uno di quei giorni lontani. Praticamente potrei tornare ad avere sedici anni, anche se per un tempo molto limitato. Il presente del resto, come affermano famosi scienziati, non e' altro che il passato che riusciamo a ricordare (o immaginare?) con piu' facilita'.

Fra qualche mese compiro' cinquantanni.

A pensarci gli ultimi venticinque anni della mia vita mi sembra siano davvero vola ti.

La percezione soggettiva del tempo trascorso, ne sono sempre piu' convinto, e' soggetta nella nostra mente ad una forma di compressione simile a quella che si fa sui file. Blocchi di vita piu' o meno sempre uguali vengono trascritti solo una volta con un numerino affianco a dire quante volte e' successo, cosi' da occupare meno spazio. E cosi' il tempo trascorso sembra molto meno di quello effettivo, sembra davvero volato.

E' dai sei ai diciotto anni che il tempo sembra davvero incomprimibile, almeno algoritmicamente parlando, almeno quando ci troviamo da quelle parti.

Intanto, senza neanche tanto accorgermene, sono diventato mio padre. E nel mio vecchio ruolo di campione della incontentabilita' ci ho messo mia figlia.

Ora mi limito ad apprezzare le cose che ho, a tentare di non essere troppo pesante in casa (raramente ci riesco) e sul lavoro, ed ogni tanto penso spesso (cit.) al futuro che ci aspetta, con un po' di angoscia possibilmente, vista l'aria che tira.

E qualche volta mi capita di misurare me stesso, noto insensibile, con la commozione che provo pensando a quelli che ho conosciuto e non conosciuto e che sono scesi dal treno, volontariamente o no, prima di arrivare alla fermata dei cinquantanni: artisti, amori, amici di infanzia, quel cantautore americano che in questi giorni non faccio altro che ascoltare su YouTube e riprodurre sulla mia chitarra, cani, tute da ginnastica, retine (quelle nell'occhio) ancora attaccate, cotte, sogni.

Un Aleph degno del racconto di Borges, che spero (quando saro' prossimo ai centanni, vabbe', ai novanta...), di essere cosi' stanco e svogliato da non riuscire a ricordarne la faccia.

Ed allora saro' di nuovo un bimbo appena nato, con gli occhi chiusi, e con un pannolone attaccato al sedere. E una badante ucraina di nome Maria (e' una fortuna che si chiamino tutte cosi', cosi' non c'e' modo di sbagliarsi se ne hai in casa piu' di una) a farmi da mamma.

Kurt Vonnegut nel suo "La colazione dei campioni", alla vigilia dei suoi cinquantanni, libera tutti i personaggi dei suoi romanzi. Io molto piu' modestamente mi sono limitato a liberare i miei pensieri.

Non dimenticatevi di me quando sarete lontani.

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editoriale di soulonice

Che il mondo del cinema, oggi, attinga moltissimo dal mondo dei fumetti è un fatto.

Se da una parte è difficile stilare una statistica esatta e, sebbene a occhio e per “evidenza” il numero di film la cui trama sia stata ricavata dal mondo della letteratura e non da quello dei fumetti continui ad essere di gran lunga maggiore, il gap risulta essere di gran lunga inferiore, probabilmente, mettendo a confronto le pellicole cinematografiche che ottengano il maggiore successo di pubblico presso il botteghino. Questo mentre, forse, la critica continui a preferire pellicole e film che abbiano delle trame inedite, oppure comunque originate dal mondo della letteratura.

Ma il mondo del cinema, quello di Hollywood in particolare, continua a essere legato a schemi e regole pretederminate, che raramente vengano violate; è difficile che da Hollywood salti fuori qualche cosa di nuovo. A livello di premiazioni e riconoscimenti perlomeno.

Ad ogni modo, gli spettatori, quelli che pagano il biglietto, soprattutto i più giovani, di questa cosa se ne fregano e i film la cui trama è stata presa da un fumetto piuttosto che da un’opera letteraria li guardano eccome. E ne fanno oggetto di culto. V for Vendetta, Watchmen, 300 sono solo alcuni dei titoli che avrebbero riscosso grande successo negli ultimi anni. Senza tenere conto, ovviamente, di tutti i film ispirati e tratti da storie del mondo della Marvel e dei supereroi. Il successo della trilogia di Batman diretta da Christopher Nolan è stato universale e, pure grazie alle interpretazioni sopra le righe di un grande attore come Christian Bale, ha riscosso apprezzamenti a tutti i livelli.

Fumettisti come Alan Moore e Frank Miller e le loro opere, siano queste serie o miniserie, oppure veri e propri romanzi grafici, sono considerati oggi alla stregua di autori letterari, come se avessero pari dignità di autori letterari e sicuramente, a certi livelli e presso determinate categorie di soggetti, godono di una popolarità pure maggiore.

Naturalmente queste riflessioni portano in alcuni casi i più bacchettoni a esternare considerazioni di tipo assai negativo nei confronti degli appassionati. Che poi, generalmente, sarebbero i più giovani; quelli appartenenti a una fascia di età definibile tra i dieci e i quarant’anni. Quindi in molti casi neppure tanto più giovani in verità. Riflessioni che comunque porterebbero, a fronte del successo del fumetto, dati secondo i quali si diffonda sempre più un generale disinteresse nella letteratura, arte definita assai superiore a quella dell’arte fumettistica. Che, anzi, dai più non sarebbe neppure definito un’arte.

Che cosa porti un soggetto a preferire il fumetto rispetto a un’opera letteraria è evidente: l’immediatezza, nella fruizione delle immagini, oltre che dei testi e dei contenuti complessivi dell’opera. In genere potremmo dire sia la stessa motivazione per la quale la televisione abbia alla fine avuto facilmente la meglio sulla radio. L’immagine vince su tutto e questo non accade necessariamente perché il soggetto che si ponga innanzi all’opera in questione sia schiavo delle immagini. Non è neppure necessariamente una questione di superficialità. Del resto, ad esempio, osservare un quadro, ammirarlo, è molto meglio che sentirselo descrivere e raccontare. In genere.

Personalmente sono un fruitore dei fumetti occasionale. Continuo a preferire la letteratura tradizionale, i romanzi in particolare; preferisco continuare a leggere delle avventure piuttosto che guardare delle immagini. Ma non ritengo questo faccia di me un uomo migliore di un appassionato di fumetti.

Penso, al contrario, che ci voglia comunque una certa forza per avere a che fare continuamente con delle immagini. Che guardare delle immagini e, magari, fare di queste termini di paragone con la propria esistenza non significhi necessariamente schiavitù; il confronto con le immagini, come con i testi infatti, può anche essere costruttivo. Al contrario, penso che, per quanto mi riguardi, io non riesca ad approcciare al mondo dei fumetti proprio perché, queste immagini, io le lascio scorrere sotto i miei occhi troppo rapidamente. Senza prestare la dovuta attenzione.

Quindi, non voglio considerare il fumetto come se fosse necessariamente un antagonista della letteratura; appare questa una lettura troppo semplicistica e, a fronte della quale, chissà, magari andando a fondo nelle analisi e nelle rilevazioni statistiche, alla fine potremmo scoprire e rilevare come i maggiori fruitori e lettori di fumetti possano alla fine coincidere con dei perfetti, costanti consumatori di opere letterarie. Insomma, il crollo dell’interesse alla letteratura (peraltro non so se sarebbe corretto parlare di crollo, non avendo mai riscontrato tutto questo interesse alla materia, guardandomi in giro e alla storia del nostro paese) andrebbe eventualmente ricercato altrove.

Non raccontiamoci balle.

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