editoriale di sotomayor

Parliamo di cose serie. Di cose concrete.

Cioè, mi potrei chiaramente ora mettere qui a inventare e raccontare una bella storia, magari una storia d'amore (ma tutte le storie in fondo sono storie d'amore), e sicuramente trovereste la cosa più interessante.

Però no.

Questa volta voglio parlare di una cosa che ho 'scoperto' negli ultimi tempi e cui non sono ancora riuscito a dare una sua dimensione.

Conseguentemente scriverne e poi magari avere un feedback nel merito (che significa anche acquisire ulteriori informazioni) ritengo possa essere una cosa utile per me e per tutti quanti.

Nell'ultimo periodo per diverse ragioni ho passato molto tempo a casa. Non ho la televisione e comunque per diverse ragioni non mi sentivo attratto dai miei interessi soliti come la musica oppure il cinema oppure la letteratura.

Facciamo che non mi andava veramente di fare nulla, va bene?

Adesso succede che per la prima volta in vita mia comincio letteralmente a 'navigare' in uno dei posti sicuramente più affollati del web e in un mare che però per quanto vasto mi sono reso conto fosse a me assolutamente sconosciuto.

Ma che cazzo succede su quel social? Se c'è un posto in particolare sul web dove mi sono reso conto di essere completamente fuori tempo e davanti a qualche cosa che non riesco ancora a inquadrare nella sua giusta dimensione, a parte i soliti siti porno ovviamente (ma ne parleremo), questo è YouTube.

Insomma io l'ho sempre usato per ricercarmi video musicali, magari spezzoni di film, trailer... Un utilizzo da semplice consumatore: del resto lo avevo sempre inteso in questo modo. Tu ci carichi dei video che condividi con gli altri alla stessa maniera dei software tipo quelli per la condivisione della musica.

E invece no.

Invece ho scoperto che la vera natura di YouTube è qualche cosa di completamente diverso.

Ci sono persone che usano YouTube alla stessa maniera che dieci anni fa avremmo inteso un blog (venti anni fa il giornalino della scuola, quaranta anni fa le radio libere) e questo fenomeno ha creato una vera e propria community italiana che ovviamente si aggiunge, costituisce una costola di una più vasta community internazionale.

Adesso, questi 'youtuber' hanno praticamente le età più disparate e si occupano in generale veramente di tutti gli argomenti possibili. Questa mi viene subito da pensare che è una cosa buona: un utilizzo intelligente di un social come mezzo più che di informazione, concetto sempre molto più relativo oramai, invece di vero e proprio confronto.

Solo che poi ho capito subito che insomma chi lo usa lo fa principalmente per garantirsi una qualche forma di guadagno.

Ora non so come funzioni esattamente. Probabilmente hai la possibilità di creare un tuo canale 'ufficiale' e di sottoscrivere contratti di sponsoring che facciano variare i tuoi introiti a seconda delle visualizzazioni oppure degli iscritti al tuo canale.

Del resto puoi dedicarti tu stesso alla promozione di qualche prodotto all'interno dei tuoi video: adoperare il tuo canale per far pubblicità a abbigliamento e/o cosmetici (come fanno le fashion blogger) oppure - quella che mi sembra essere la realtà più diffusa - videogiochi.

La maggior parte degli youtuber appartenenti alle ultime categorie, i cui canali sono quelli che ho chiaramente dal mio punto di vista trovato per niente interessanti, sono giovanissimi e hanno una età variabile tra i 12-13 anni e i 25 massimo 30.

Traccio un profilo generale diciamo.

Sono chiaramente i canali che ho trovato e che trovo meno interessanti anche per questioni anagrafiche.

Va detto che ci sono comunque in ogni caso anche youtuber che propongono argomenti di discussione interessanti e in una maniera diversa dalla solita informazione e dove la comunicazione visiva è più efficace, più umana, che quella che è la comunicazione scritta e per questo anche più performante.

Ci sono persone che non parlano solo e sempre di calcio ma propongono temi di attualità oppure culturali e di interesse comune. E ci sono anche persone che lo usano per pubblicizzare i propri lavori: penso ad artisti nel campo della grafica visuale e del disegno e che si affiancano ovviamente a chi fa musica oppure è un videomaker più o meno amatoriale.

Il fatto che ci guadagnino per le visualizzazioni al loro canale diciamo che è qualche cosa che mi rende perplesso ma che è comprensibile se consideriamo le stesse logiche che valgono per gli ascolti musicali ad esempio su Spotify.

Naturalmente per quanto mi riguarda, se devo esprimere un mio parere ideale, questa cosa non coincide esattamente con la mia idea di comunità. Ma va bene. Ci può stare.

Dove non riesco a farmi un'idea precisa nel merito è quando gli youtuber sono dei giovani oppure giovanissimi e/o quando i loro contenuti siano rivolti a giovani e/o giovanissimi.

Non voglio fare il bacchettone e il moralista, ma mi pare evidente che ci troviamo a qualche cosa che ci costringe a misurarci con una nuova realtà che riguarda i nostri ragazzi e che ci pone davanti a quesiti di natura etica.

Questi youtuber trattano per la maggior parte tematiche che interessano i ragazzini, come videogiochi oppure abbigliamento e/o prodotti di bellezza, ma a un certo punto acquisita una certa popolarità (posso dire che ci sono youtuber che hanno migliaia e migliaia di iscritti ai loro canali) possono praticamente postare di tutto perché hanno creato un vero e proprio personaggio. Quello che diventa allo stesso tempo sia una guida che un vero e proprio modello di comportamento per tutti gli altri ragazzini.

Del resto, guardate, funziona esattamente come le seghe: diventi uno youtuber perché c'è qualcun altro che fa lo youtuber e allora tu capisci che puoi farlo.

Naturalmente su migliaia, milioni di youtuber, chi raggiunge la 'celebrità' è solo uno: pochi riescono a fare di questa attività un vero e proprio business. Creare indotti commerciali creati alla propria figura, diventare così popolari da essere invitati o organizzare essi stessi eventi.

La domanda finale è: questo è un modello sano di comunità?

È una domanda che ci dobbiamo fare per forza.

Ci hanno raccontato per anni la cazzata che la vera libertà di espressione era su internet.

Balle.

Su internet, se sei solo e se sei una minoranza continui a essere dopo comunque solo e parte di una minoranza, e poiché semplicemente i tempi sono cambiati, la maniera di veicolare determinati messaggi che non sono neppure subliminali, dato che avviene tutto alla luce del sole, è diventata più rapida ed efficace. Molto più illusoria che la televisione dove sapevi che non potevi accedere perché quel mondo era riservato solo a chi aveva veramente troppo talento oppure era 'raccomandato' e queste due cose, per quanto limitanti sul piano psicologico, costringevano a stare con i piedi per terra. A parte che ovviamente per fortuna c'è sempre stato anche chi di finire in televisione se ne sbatteva e se ne sbatte ancora oggi le palle.

Ma con questi social, e YouTube mi ha dato da questo punto di vista delle manifestazioni così evidenti come poco altro, non ci vuole niente a fotterti la testa e generare nell'ordine malesseri come frustrazione e/oppure ansia. Senza considerare quello che può riguardare quelli che ce l'hanno fatta.

Qui sarebbe più interessante avere un parere diretto da parte di chi ha un figlio. Cosa pensereste di vostro figlio sedicenne se questi guadagnasse soldi postando su YouTube dei video in cui gioca a un videogame (incassando immagino royalties da YouTube e pagato come sponsoring dalla stessa casa che ha prodotto il videogioco) per sponsorizzarlo a un pubblico di ragazzini che magari non hanno neppure dieci anni.

Posso pensare che c'è qualche cosa in tutto questo che è sbagliato o solo veramente a soli trentatré anni già così vecchio da non capire?

Sa non riuscire a comprendere qualche cosa che evidentemente costituisce la normalità.

Quello che penso tuttavia, voglio concludere con un messaggio e un pensiero positivo, è che se io non posso capire, al contrario chi abbia dieci-quindici anni meno di me, sappia molto meglio di me e esattamente di che cosa sto parlando. E nascono, sono nati bambini che subito hanno avuto a che fare con questa realtà come un dato di fatto.

Questo mi lascia pensare che in qualche maniera siano e/o saranno a tempo debito (senza il bisogno di dovere aspettare la maggiore età) vaccinati contro questo tipo di cose. Le considereranno semplicemente per quello che sono: pubblicità o comunque spazzatura.

Esattamente allo stesso modo con cui io posso avere considerato ad esempio 'Non è la Rai' quando ero bambino.

Naturalmente tutto sta nel seguirli. Il punto infatti non è internet, la televisione, la radio, i fumetti, il grammofono... ma sempre la formazione della individualità a possedere un senso critico che lo sappia porre in una posizione di vantaggio davanti a tutte le situazioni della vita.

C'è però un dato di fatto: l'esistenza concreta (per quanto virtuale) di nuove tipologie di comunità. Oggi come ieri è fondamentale che i nostri ragazzi riescano a prenderne parte in maniera attiva e magari proprio adoperando quel senso critico a cui mi riferivo poc'anzi. Questo in definitiva non può essere esclusivo ma costruire un mezzo, uno strumento, una specie di 'grimaldello' per entrare in queste comunità e riuscire a autodeterminarsi come individuo ma anche a stare in maniera proficua assieme agli altri. Se no è tutto inutile.

A quanto pare i tempi sono cambiati e cambieranno ancora ma non è mai tempo per i genitori di abdicare dalle loro responsabilità e dal loro ruolo di guida.

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editoriale di ColCorpoCapisco

Il mio primo editoriale ha anche un testo, ed ora scriverò delle cose a casaccio per vedere che effetto fa.

Il mio primo editoriale è stato previsto, niente di nuovo insomma.

Il mio primo editoriale ha anche un'immagine:

Le songe d'une clé de nuit | Man Ray

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editoriale di HOPELESS

“Il cielo sopra il porto era del colore di uno schermo televisivo sintonizzato su un canale morto... Il sorriso del barista si allargò ancora di più. La sua bruttezza era leggendaria. In un'epoca in cui la bellezza era alla portata di tutte le tasche, c'era qualcosa di nobiliare nel fatto che a lui mancasse." (William Gibson, NEUROMANTE 1984)

Non ricordo o non riesco a ricordare come sono finito qui. Sono ancora assonnato dal viaggio. Tutto di giorno, sole filtrato da una cappa @fosca. Entro in ascensori che portano in alto. Con me c'è qualcuno nella cabina, ma non so chi sia. Non ci parlo, non ci incrocio lo sguardo.
Gli ascensori sono scatole di metallo parallelepipedali che salgono, poi scendono. Sono male illuminati, sporchi e pieni di grasso. Inquieti e scuri. Nel passaggio da un ascensore ad un altro riesco a vedere la struttura immensa in cui si muovono. Una specie di aeroporto africano, sudicio, metallico e non organizzato. Caos primordiale e gente distratta in viaggio. In qualche modo questi ascensori portano su, ma non so dove. Verso il tetto, altissimo.

Prima di scendere, in modalità a me sconosciute, percepisco la voce ed il consiglio di @Flo, l'editor. Mi avverte che c'è stato un guasto precedente all'ascensore, per cui all'arrivo esso non sarà stabile, traballerà e non combacerà col bordo del tetto, dovrò fare attenzione a saltare bene e a non cadere di sotto.

Superato il tetto mi ritrovo tra gente che va e che viene su una piattaforma gigantesca in mezzo ad un mare. Di fianco a me c'è un mio amico melomane, comparso da poco. Come sempre si guarda intorno circospetto. Gli spiego come se sapessi dove mi trovo che una volta questa piattaforma, tanto immensa, ha ospitato sulla sua superficie una nave gigante, intera. Un Fitzcarraldo o una Costa Concordia differenti. Siamo in mezzo al mare e tutto intorno vedo solo acqua e mastodontiche navi merce in orizzonti lontanissimi. Sono disperso, ammutinato? Ad un tratto mi rigiro sulla mia destra. Appare, ora e qui, un paesaggio arido e desertico e nel frattempo mi si affiancano altri conoscenti che prima non so dove fossero. Mi restano dietro. Mi addentro sulla terra ferma e faccio qualche passo. Scopro una specie di cratere smisurato, in erba. Sul suo fondo giace, immacolato e perfetto, un campo di calcio vuoto in manto sintetico. Le gradinate, anch'esse di prato, salgono su fino al livello zero del suolo su cui ho i piedi. Rimango sorpreso e meravigliato. Torno indietro e chiamo i miei accompagnatori. Gli dico di venire a vedere questa strana meraviglia. Titubano, ma poi mi seguono. Restano a bocca aperta anche loro. Li invito a scendere giù con me per guardare il campo da vicino. Mi seguono ed ad un certo punto escono dei calciatori dagli spogliatoi. Sono disponibili e gentili. Gli chiedo chi gioca in quello stadio, mi rispondono che anche la squadra della mia città calca quei terreni. Mi volto dall'amico melomane anche pallonaro, gli chiedo se è vero, che lui sappia. Mi dice di non averne avuta mai notizia. Risalgo in superficie.

Sono di nuovo solo. Mi rigiro il posto che adesso è fornito di un entroterra che prima non c'era. Entro nei suoi vicoli fumosi, vaporosi e lerci. Ci sono diversi supermercati, sweat shop e bar. Niente musica nell'aria colma di veleno. Solo rumori di fondo sfocati in lontananza che la mia distanza rende ovattati. Scorgo ragazzi stesi in vestaglia che prendono il sole. Mi siedo di fianco a loro per carpire qualche informazione, ma sembrano tutti molto restii a farmi partecipe di certi segreti. L'unico nome che riconosco è @nes, in vestaglia verde, steso sulla sdraio. Taglio anni 90 castano chiaro, occhialini tondi, barba rasa. Non parla, qualcuno mi sussura che è lui. Si alza senza guardare nessuno e si dirige verso il supermarket. Riesco ad intravedere un grosso tatuaggio sulla sua schiena. Nes è indubbiamente bello e penso che da poco ha compiuto gli anni, come me, sullo stesso asse. Qui, in questo luogo e in questo tempo sembra molto più bello di me.

Gli astanti rimasti con me sul Solarium mi chiedono chi sia io. Diffidente gli do un altro nick e cominciano a guardarmi con sospetto, gli confesso allora di essere @HOPELESS, ma non hanno intenzione di credermi o fidarsi. Allora gli mostro i miei dati di accesso sul sito dal telefono cellulare e loro con sorrisi enigmatici mi fanno segno di aver accertato. Facce che mi sembra di riconoscere, gente con capelli rasati in camicie hawaiane e occhiali da sole coi lacci che li assicurano ai loro colli. Gli chiedo dove siamo e come si fa a raggiungere quel luogo... Sono vaghi ma mi dicono che da Caserta si può prendere un traghetto che giunge a Roma e da lì entro sei ore potrei essere sul posto. Riprendo il cammino.

Passando tra i vicoli stretti della città espansa concentrata ad un certo punto mi arrampico su una rampa di scale di una palazzina in degrado e mi trovo in uno stanzone adibito, mi sembra, a museo, non so di cosa. Oggetti sparsi su un unico bancone, il resto è uno spazio vuoto malmesso e malodoroso. Una specie di teatrino bombardato come quello della prigione di Manhattan di Snake Plissken. Gli oggetti non so cosa siano. Adagiati su piccole basi di legno improvvisate munite di calamite che li trattengono in maniera incerta a sé. Senza forme precise, sembrano più schegge frammentate di vecchia robaglia che cose finite. Guardo queste reliquie e cerco di scegliere per tinta e forma quale dovrò prelevare, forse rubandola, per portarla con me come testimonianza di questo passaggio nel mondo reale, perchè questo inusuale è così surreale. Ma sarà questo poi uno dei possibili mondi? Il mondo reale? Ad un certo punto sull'estremità destra del bancone vedo un cellulare, uno di quei vecchi modelli che servivano solo a telefonare e mai e poi mai per farsi barba o caffè. Lo impugno e lo scruto un po', ma ci passerò dopo, adesso ritorno sulla scelta del testimone che vorrò portare con me. Ma appena mi giro un cigolio di una porta mi fredda il sangue. La porta è sulla stessa estremità del bancone di cui parlavo, non l'avevo notata. Una luce rotta si accende ad intermittenza, avvisto una scimmia grigia che preleva il cellulare, lo custodisce e se ne va lasciando che quella porta si richiuda in se stessa. Tutto molto rapido, ma tempo sufficiente per ricordarsi bene. Adesso sono spaventato e guadagno più velocemente che posso l'uscita, la testimonianza del passaggio la lascio li dov'è senza scegliere.

Sono di nuovo in strada, tra i vicoli color pastello-catrame-sbiadito che batte su gialli sgranati e rossi usurati dal tempo e strade quasi sterrate con rimasugli di asfalto. Ho la sensazione di stare percorrendo la Tangeri del "Pasto Nudo", affascinante, esotica, stonata, malata, sensuale e decadente.
"Cucina Trascendentale, Città di Interzona: Sulla città aleggiano odori di cucina di tutti i paesi, Yage, odore di giungla e d'acque salmastre, di fiumi putrescenti, di escrementi secchi, di sudore e genitali". (W.S. Burroughs, PASTO NUDO 1959).
Ma la paura dell'episodio di poco prima ce l'ho ancora addosso e sottopelle. Qualcuno in lontananza, da un portoncino, sembra aizzare due scimmie adolescenti grigie e malefiche anch'esse contro di me. Queste cominciano a correre in mia direzione ed io, sorpreso da un qualche orrore, mi sollecito a fuggire intimorito. Alla svolta del vicolo mi raggiungono, sono più veloci. Mi affiancano. Terrorizzato.. Mi superano. Vanno per la loro strada non curandosi minimamente di me. Provo sollievo e rallento.

Ora risalgo a piedi sul tetto della piattaforma. Guadagno un interno giorno.
Dentro, bar per niente sporchi, ma anzi moderni e ben sistemati ed arredati. Un po' kitsch. Scopro un mio amico che mangia tranquillo in un locale. Lo avvicino e per un momento i nervi mi si acquietano. Mangia sereno, evidentemente alterato dolcemente dall'area. Pacifico come un Oceano in certi giorni dell'anno, nel frattempo segue qualche evento sulla tv a muro del locale. Lo lascio lì, continuo il movimento e passo avanti. Adesso sono fuori sul piano più alto della piattaforma. Vedo una specie di bacheca improvvisata su un muro imbastito male. Il muro è bianco. Tutti leggono ma non c'è nulla da leggere. Il muro è bianco e cemento. Mi avvicino e sento qualcuno bisbigliare che quello è il modo di @G per tenere tutto sotto controllo. Erro e stamattina era il 1894. Io non capisco e cerco di proseguire, ma una ragazza mi ferma e si presenta. Ha un berretto estivo, bikini, jeans tagliati a gamba, infradito, Ray Ban Aviator a specchio. Mi sorride, ha poco seno e sembra felice, mi dice di essere @Pin Pin (deadlink_neverborn) ed ha le sembianze di @LauraCamp (con la quale non ho scambiato la minima parola sul sito). Le dico che non sapevo che Pin Pin fosse una ragazza. Lei mi pare infastidita e se ne va.

Allora io noto una specie di banco centrale con sopra un sacco di opuscoli, buste, riviste e cose varie. Mi avvicino. Quello che c'è sul piano stracolmo è materiale informativo del sito, adesivi promozionali e gadget vari. I ragazzi che gironzolano mi porgono diverse riviste da sfogliare e mi spiegano come vanno le cose da quelle parti, come debbo utilizzare tale materiale informativo. Tra le varie cose sul piano noto confezioni rettangolari di plastica trasparente con fondo nero, divise in due sezioni. All'interno grossi chicchi gialli all'esterno e bianchi all'interno. Non so cosa siano. Una ragazza mi spiega che è zenzero (zero:zen) e che va usato con cautela, soprattutto quando ci si fa il bagno in vasca, perchè le bolle che rilasciano sono miliardi e spumeggianti. Accetto il consiglio e vedo i ragazzi intorno a me cordiali e amichevoli, adesso. Riappare un amico melomane circospetto al mio fianco, gli dico che è un bel posto e che ci dobbiamo ritornare, ma come si fa a ritornarci? Mi riprometto di farlo... Ma ritornare dove? Mi allontano. Adesso inspiegabilmente sono sulla riva ingiallita e verdognola di una spiaggia visibilmente deturpata e probabilmente radioattiva. Le onde che arrivano a riva sono basse pochi centimetri, meno di otto-dieci. Il terreno che sottostà mi ricorda quello desertico che mi si era parato davanti prima all'improvviso. Sono scalzo. Comincio a rendermi conto che dev'essere un sogno lucido bianco, ma non cerco di guidarlo, cerco soltanto di restarci dentro. Voglio restare ma non ci riesco.

Ore 00:15 di un Martedì, 31 Maggio 2016. Mi risveglio dal sonno e mi ridesto dal sogno.
Nel dormiveglia cerco di ritornare su quella specie d'isola, ma evidentemente adesso l'ingresso mi è interdetto. Svanisce e sfuma chiudendosi in una nuvola che si risacca inversa contro l'interno delle palpebre. Di fianco a me dorme la mia ragazza e quasi provo alleggerimento e felicità per essere tornato nel mondo reale. Ma quale realtà? Ma quale reale?
Chissà se quella città proibita, micromondo potenzialmente ciclopico e mostruoso, spiegherà mai più le sue porte. Chissà se potrò mai ritornarci e ritradurmici.
Onironautica. Argonauti del Pacifico Occidentale. Le sequenze e le frequenze. La lingua Quechua. Ghost Writers e il romanticismo disperato e neuromantico di Blade Runner. A Scanner Darkly è un oscuro scrutare. Zoroastro e zero astri. Nessuna umana pietà. Bronislaw. Sud-Ovest. Arizona. Circumnavigazione.
Temo che non avrò mai più i permessi e la possibilità di accesso. Ho visto questo. Poi non ho visto più niente. Sveglio adesso. Transumanza. Penso ad una Hollywood in Memoriam.

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[Zsuta: La notte che bruciammo (google) Chrome aka l'editoriale che fece crashare gli editoriali]

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editoriale di lector

Se c’è una cosa di cui è ancora lecito stupirsi è che in certe giornate, ubriache di sole primaverile, tutto può diventare bello: anche le erbacce che spuntano tra i marciapiedi come peli dal naso o dalle orecchie, anche le carrozzerie brilluccicanti delle macchine parcheggiate e persino questo orribile casermone che si erge per cinque piani qui a vicolo Scassacocchi, tra i rifiuti lasciati ad essiccare ed il piscio dei cani.
Una luce violenta e vitale penetra e stravolge gli anfratti, trasfigura le sagome e le cose e, i muri, denudati dal sole, si mostrano impudicamente all’occhio con gioiosa vitalità.

Allora diventa plausibile che persino questo lurido appartamentino, ricavato in un angolo del secondo piano, a qualcuno possa sembrare una casa dove poter vivere e che stranieri o studenti siano qui fuori a far la fila per entrare - come dice il padrone di casa - e che ci sia addirittura un cinese che ci vuol portare tutta la famiglia, moglie, figli e suoceri a carico, e che pagherebbe ben più di quel paio di centinaia di euro che, oltretutto, Ernesto non paga già da qualche mese.

Brutto vizio, quando si è lavoratori precari, il voler continuare a vivere, mangiare almeno una volta al giorno, vestirsi e voler avere finanche un tetto sulla testa. Anche quando il proprio contratto atipico è ormai scaduto già da un po’ e non si è neppure poi così giovani.
Eppure, forse rapito dal colore di quella luce straniante che, invadendo la stanza dall’unica finestra, illumina tutto quel luogo fino a poco prima così grigio, portando con sé un odore di fresco e di pulito, Ernesto si sente invaso da una strana calma.

Non si può odiare in una giornata così splendida di primavera.
Non si può continuare a piagnucolare quando la vita esplode tutt’intorno.

Perciò Ernesto prende una decisione: diventerà un supereroe.

A tutti piacciono i supereroi, anche a Ernesto piacciono i supereroi. Soprattutto gli piacciono i cattivi, perché li riconosci, lo vedi che sono cattivi: si vestono da cattivi, parlano da cattivi.

Beato il mondo che non ha bisogno di eroi, ma questo mondo fa schifo, fa così schifo che altro che eroi: ci vogliono i super eroi!

Quando hanno cominciato a piacerci così tanto i supereroi?
Semplice: quando hanno smesso di piacerci le idee.

Anche io quando ero giovane amavo le idee: erano belle, erano rotonde, erano lucenti le idee! Ed era cosi facile distinguere le idee buone da quelle cattive.
Le idee cattive si vestivano da cattive, parlavano da cattive, si capiva subito che erano cattive.

Poi le cose hanno cominciato a diventare complicate: belle idee producevano figli cattivi e altri figli cattivi facevano cose buone che poi diventavano cattive e dai semi di rose nascevano solo spine.

I supereroi non lo vogliono cambiare il mondo, sono le idee che si sono messe in testa di cambiarlo.
I supereroi – biff, pùm, spack. tong – picchiano i cattivi e, poi , tutto rimane come prima in attesa che arrivi un altro cattivo e, alla fine, è meglio così.

La verità è che un mondo migliore non fa per me: io finirei subito in galera in un Mondo Migliore.

Un tempo le idee erano un lusso che potevano permettersi solo i giovani, adesso sono un passatempo ozioso per i vecchi.

Ma a Ernesto tutto questo non interessa, lui pensa: “perché no? perché io no?”
Basta con le recriminazioni, l’odio, l’autocommiserazione, tutto questo non serve, tanto le cose non cambiano, bisogna offrirsi al mondo, agire, combattere il male, difendere e salvare la Vita.
Sì anche quella di quello stronzo del padrone di casa o di quelle ragazze così belle, i cui sguardi ti attraversano come se tu non fossi niente e che si chiederanno chi sia quell’eroe che le ha salvate e sogneranno di baciarlo, senza sospettare che dietro quella maschera ci sia quel tizio, strano e taciturno, che vive in una stanzetta di quell’orribile casermone a vicolo Scassacocchi.

Così, mentre strappa, ritaglia e cuce pezzi di vecchi abiti malmessi cercando di farsi un costume, a Ernesto - dopo tanto tempo - gli viene pure voglia di cantare.

Adesso che è pronto, così intabarrato, Ernesto si sente finalmente un altro.

Ora si tratta di arrivare in cima al tetto senza essere visto: sarebbe imperdonabile farsi scoprire proprio la prima volta.
Poi Ernesto sorride di sé: già da tempo sa di essere invisibile.
Così si inerpica con ostentata tranquillità su per le scale e gli androni di quel palazzone che tra sottoscala e superfetazioni è quasi un mostruoso formicaio, monumento all’abuso edilizio. Nessuno lo vede, tranne Aniello, il bambino del quarto piano che gioca, come sempre, sul pianerottolo dove la madre, che lavora di notte, lo deposita ogni mattina per poter dormire un po’.
Aniello lo guarda con uno strano sorriso, poi torna a giocare.

Ora è sul tetto, può vedere i barbaglii delle onde di quello spicchio di mare che si riesce a sbirciare al di là di tutte quelle case che si mangiano l’orizzonte.

Che giornata splendida!

Per un attimo i rumori si acquietano e si riesce a percepire il suono di una brezza leggera e sentire l’odore lontano di un qualcosa che non c’è più. Una consapevolezza gli trafigge il cervello: la bellezza avrebbe potuto salvarci.

Ma è un attimo.

Adesso è tardi, c’è altro da fare.

Ernesto si calca la maschera sul viso, flette i muscoli, prende un profondo respiro e si lancia nel vuoto.

Libero.

Finalmente libero.


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editoriale di odradek

Sto dalla parte dei vecchi, specie se acidi e rompicoglioni, che si lamentano e imprecano per le scritte sui muri.

Hanno finito da poco di riverniciare e il muro sembra nuovo di zecca, spicca come un segno di speranza tra la rassegnazione smoggata dei palazzi intorno, come una sfida all'inesorabile, o anche come un patetico maquillage su un volto attraversato dai segni implacabili del tempo, fate voi.
La luminosità di quella superficie intonsa non durerà, sarà presto sfregiata da mani rapaci, da giovani col sardonico ghigno di chi deflora un corpo inanimato, per poi vantarsene con i propri simili.

Sto dalla parte dei vecchi, acidi rompicoglioni (che con buona probabilità voi detestate, come tutti, suppongo) per ragioni diverse dalle loro. Non è mio il muro, non mi stupisce il vandalismo, non nutrivo grandi speranza intorno alla riconquistata verginità di quella superficie.
E' la sciatta e arrogante imposizione di sé che mi disturba e mi disgusta. Caratteri più o meno originali, sigle e sgorbi che intendono manifestare la presenza di un "writer", marcare un territorio, sfoggiare uno "stile", testimoniare ad un mondo insensibile l'"urgenza" di "comunicare" sa il cazzo cosa.

E non parliamo di quei gaglioffi che si affannano a rilasciare patenti di artisticità, paraculi nefasti, assessori alla cultura o critici prezzolati senza spina dorsale.
Non è solo questione di gusto (la stragrande maggioranza degli sgorbi ne è assolutamente priva, quel che resta il più delle volte è ripetitivo) anche se un po' di gusto non potrebbe guastare oltre. E' proprio la convinzione che quella superficie sia lì per te, per la tua insopprimibile bramosia di "dire".
Convinzione che ne presume un'altra, cioè che tu abbia qualcosa da dire.
E un'altra ancora, che tutto il mondo non veda l'ora di conoscerla, questa cosa che credi di dire con le tue bombolettine.

Ma non è un problema loro, non è altro che retorica da vecchi, questo affannarsi sul senso delle cose e il rispetto di quelle comuni o altrui. Lo danno per scontato, i writers: sono artisti, sono giovani, liberi e coraggiosi, il mio sguardo infastidito è quello di un annicchilito urbano che dovrebbe essere grato di tanta grazia ricevuta.
Ma vadano affanculo, brufolosi egocentici arroganti.

Epperò...

Qualche volta ne vedo alcune, di scritte, defilate, anonime, inattese e folgoranti e sono grato alla mano sconosciuta che le ha tracciate.
Non stanno sfoggiando un presunto stile, non appartengono al vasto mondo paraistituzionalizzato delle opere d'arte urbana: son solo "le scritte sui muri" roba dell'altro secolo e di quello prima.

Quella della foto è su un muretto non distante dal posto dove lavoro, le passo spesso vicino andandoci, al lavoro.
Non so se l'autore si rivolgesse a qualcuno in particolare, magari residente di fronte, costretto ogni giorno a riflettere sulla propria condizione, o se invece abbia voluto ricordare, a noi, passanti distratti, qualcosa che tediamo a obliare.

Un paio di giorni dopo che l'ho fotografata qualcuno ha tappezzato il muretto con piccole locandine accostate l'una all'altra sino ad occultarla completamente.
Mi ha fatto sorridere osservare la piccola teoria di locandine, e mi ha fatto piacere constatare che la vista della scritta si sia dimostrata insopportabile.

E' insopportabile alla vista perché è insopportabile alla coscienza.
Sprigiona la semplice potenza di un memento mori, ma nel suo rovescio: sinché non sarà il momento ti tocca vivere, è tuo onere e onore, e dovresti farlo al meglio. In fondo di un "memento vivere" si tratta.

Ed è una sintesi che non consente rifugio nella distrazione, nel "far finta di niente".
Poteva chiudersi perfettamente con "...merda", ma quel "... e tu lo sai", implacabile, ti investe di un'autorità, nei tuoi stessi confronti, che non ti consente scampo.
Certo, è drastica e definitiva, un po' troppo assertiva, forse, non tiene conto delle sfumature...

Non so voi, che suppongo per lo più giovani e "in progress", sufficientemente soddisfatti delle vostre esistenze o comunque intenti a indirizzarle verso l'orizzonte dei vostri desideri, che non avete ragione di leggervi quanto vi leggo io.
Ma io lo ringrazio, quello scrittore sui muri (writer ci sarà tua sorella) che, con la sua spietata sintesi, mi obbliga a ricordare lo squisito che è in me, e il dovere di riportarlo alla luce.

Vi amo, tutti voi che siete in questo bar.



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editoriale di Hank Monk

“Credo di avere terminato l'età della post adolescenza lunga, sai? È un po' che affronto la vita con così tanta gioia che ho quasi il terrore del tempo che scorre”.
Si aggiusta il ciuffo spettinato, e con fare solenne riabbottona la camicetta.

La ragazza continua ad abbracciarsi le ginocchia, accarezzata dalla brezza tiepida. Assorta nello scrutare l'orizzonte bagnato dal mare chiede:

“Che bisogno c'era di tuffarsi? È l'una del mattino!”
“Senti, non so cosa mi è preso... mi sento una frenesia nelle vene! Sono felice di essere al mondo, ecco.”

Ancora mezzo bagnato Holden si siede di fianco alla ragazza. Le scocca un bacio sulla guancia, e la abbraccia. Appoggia la testa sulla sua spalla:

“Non condividi il mio entusiasmo? Mi sembra di avere bevuto; di essere ubriaco!”
“Dai, non starmi addosso... sei ancora bagnato. E se poi prendo un raffreddore?”
“Ci saranno almeno 30 gradi, amore! Non cominciare a fissarti!” le dice mentre le aggiusta una ciocca di capelli dietro all'orecchio.

La ragazza accenna un sorriso. Si volta un attimo e continua a fissare quel lieve movimento di luce che riflette tra cielo e mare.

“Non mi è piaciuto tanto lo spettacolo. Un po' macabro, non trovi?”

Sul lungo mare avevano improvvisato una commedia drammatica. Terminava con un monologo in cui il protagonista tenendo in mano il suo cuore, tentava di essere divertente.

“Persy... era patetico. Non macabro! Ma sai una cosa? Mentre lo guardavo pensavo... quell'idiota non ha in mano un cuore! Ha in mano un pezzo di gomma che sembra un cuore.”
“Hai detto sembra, in corsivo?” ride Persy.
“Sì ho detto sembra! In corsivo” e le si avvicina al viso fino a sfiorarle il naso. Con aria trionfale e leggermente ebete continua, calcando ancora di più il corsivo:

“Sembrava! Ma dimmi un po': ti pare che abbiamo bisogno di qualcosa che sembra un cuore? O forse che un cuore, uno vero dico, non ce lo abbiamo già in petto? Batte come un martello!”
Persy ghigna nella penombra: “Siediti, dai. Che poi ti agiti troppo!”
“Ma che agito! Sono felice! Inebriato! Ti amo!”
“Davvero?” Lo guarda tra divertita e stupita.
“Ma sì lo sai...per una volta che non mi lamento!”
“Ti lamenti sempre!”
“Non oggi! Non adesso! Sono qui ed ora. Cavolo Persy...baciami dai!”

La sabbia sembrava un tappeto: soffice, compatta, calda. Pareva un abbraccio. Un rifugio. Ancora mezzo intorpidito Holden si stiracchia lasciando l'impronta sulla sabbia. Lo sciabordio del mare ritmava il tempo del risveglio. Ancora con gli occhi chiusi cerca il fianco di Persy; lo abbraccia e le si fa vicino.

Una corsa veloce, leggera, gli fa aprire gli occhi di colpo. Alla prima corsetta si uniscono altri passettini: leggeri leggeri. Una moltitudine ormai. Un coro cristallino, un mormorio, un singhiozzo flebile e acuto si pronuncia: “In piedi forza!” Un profilo esile, non più alto di un metro si oscura in controluce: “Cosa fate qui?” Persy con un sussulto si rizza a sedere e stropicciandosi ancora gli occhi: “Bambini, per favore...”

“No, hanno ragione. Forza! Siamo già invecchiati abbastanza su questa spiaggia avanti!”

Persy si alza e prende per mano Holden.



Immagine di copertina: "Night swimming" by Jesse Glenn


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editoriale di Danny The Kid

Mi propongo in questa inedita veste di editorialista un po' per scommessa e un po' per capriccio: qui troverete un po' di testa ma anche tanta pancia, spero che questi elementi riescano a combinarsi nel miglior modo possibile, e starà a voi giudicare. Partiamo dal piccolo per arrivare poi al "grande": una delle mie passioni è sicuramente il motorsport, sia a 2 che a 4 ruote, e la domenica appena trascorsa (3 aprile 2016) è stata uno dei rari "all-in" in cui si sovrappongono Mondiale Superbike, Formula 1 e Motomondiale. E ciò mi ha, mio malgrado, esposto ad una dose massiccia di giornalismo televisivo da bassissima macelleria, su cui appunto vorrei spendere qualche parola.

Nel mondiale delle derivate di serie il campione del mondo in carica Jonathan Rea colleziona un secondo e un terzo posto , lamenta evidenti problemi di messa a punto della moto, ma riesce comunque a collezionare punti preziosissimi per il suo campionato, di cui è tuttora saldamente in testa nonchè favorito per la riconferma; ovviamente, come tutti i vincenti che si rispettino, non è assolutamente contento di tale risultato e non fà nulla per nasconderlo. Per gli "illuminati" cantastorie di Mediaset ovviamente il campione soffre la classica "pressione psicologica" per aver, a detta loro, perso il confronto con il compagno di box Tom Sykes (un secondo e un terzo posto per entrambi, quindi "battaglia" terminata in assoluta parità). Cercare di creare "casi" basati sul nulla assoluto per aumentare l'appetiblità mediatica di un prodotto (la SBK) che non ne avrebbe assolutamente bisogno; al mediocre conclamato (ma italiano) Davide Giugliano, lui sì "distrutto" non solo nel confronto con il compagno di team Chaz Davies ma anche di un buon mestierante con moto privata come Xavi Forès invece vengono trovate giustificazioni di ogni genere. "Eh, ma negli ultimi giri era veloce quasi come i primi...". Vogliamo poi parlare dell'immonda presenza di DJ Ringo di Virgin Radio a bordopista con le sue gustosissime annotazioni tecniche? Facciamolo pure, ma solo una riga scarsa, di più non merita.

Dalla padella alla brace, ecco a voi Sky(fo) e il Motomondiale (si, sono uno dei pochi romantici che ancora usa questa denominazione tradizionale invece dell'ormai più comune "la motogippì"). Alla corte di Murdoch il livello di "cantastorie" e "pignonisti" era già oscenamente basso l'anno scorso, e con gli arcinoti fatti di Sepang e Valencia si sono raggiunti picchi di faziosità e mistificazione della realtà a dir poco rivoltanti, e il trend continua imperterrito, tra marchette e totale mancanza di una minima parvenza di dignità. Moto3: alla caduta all'ultimo giro del pilota malese Adam Norrodin (fino a quel moneto meritatamente terzo) il giullare di turno (Mauro Sanchini) cela a stento una malcelata esultanza per il possibile podio di Andrea Locatelli, altro mediocre prodotto del mostro vivaio. "I nostri itagliani, i nostri itagliani, i nostri itagliani..." un refrain ripetuto in ogni occasione possibile, fino alla nausea, ovviamente sempre per compiacere un determinato tipo di pubblico. Ci sono italiani più "nostri" e altri un po' meno "nostri", quelli con la moto blu e nera con il logo sky(fo) in bella evidenza sono ovviamente più nostri, poco importa se trattasi di tamarretti iperpompati ben oltre l'effettivo valore, ad immagine e somiglianza di chi il gestisce, ma con meno di un decimo del talento.

La MotoGP sembra proprio non poter andare avanti senza psicodrammi, e gli psicodrammi sono la "merda" per eccellenza su cui si posano le "mosche": questa volta sotto le luci delle ribalta è finito Andrea Iannone che, con una manovra da PlayStation, stende all'ultima curva il compagno di squadra Andrea Dovizioso, dimostrando, per l'ennesima volta, la stessa sagacia e intelligenza tattica di un calamaro di Humboldt. Eppure è tutto un florilegio di giustificazioni, di "si, ma...", è colpa di Stoner collaudatore che mette pressione, è colpa di Lorenzo che arriverà (forse, speriamo) l'anno prossimo; dal canto suo Dovizioso riesce ad arrivare al traguardo spingendo la sua moto fino alla linea d'arrivo, prendendo comuque qualche punto iridato. Giusto ricordare che, con gli ipotetici venti punti del secondo posto, sarebbe stato ad una sola lunghezza di distanza dall'attuale leader Marc Marquez. "Si, ha spinto la moto, come a molti di noi (eeehhh!?) è capitato in autostrada", Meda dixit. Chi segue le corse in maniera un po' più approfondita saprà sicuramente che il Dovi, non un campione ma professionista serissimo e affidabile, ha poco appeal mediatico e non ha mai fatto parte dalla cerchia dei sodali del pilota senza cognome, a differenza del compagno di box.

Ora veniamo al punto: il punto è che viviamo in una società in cui la televendita è uno dei pilastri fondanti e il potere dei mass-media deve, necessariamente, essere drasticamente ridimensionato. Come? Non ne ho idea, ma và fatto, in qualche modo: ho portato l'esempio di una "sciocchezza", come viene commentato un certo tipo di sport: slogan, personaggi, doppiopesismi vari, e soprattutto un pubblico visto come una semplice massa acritica da plasmare. Da Guido Meda fino al presidente del consiglio la strategia è sempre quella, basta cambiare nomi e situazioni, e lor signori sappiano che c'è anche chi una mentalità indipendente è riuscito a conservarla. L'allarme terrorismo, l'allarme migranti, la paura di Donald Trump, scandali che non lasciano mai un segno vero che sia uno, psicosi assortite, quando c'è il delitto di turno mettiamoci dentro pure quello: ragazzi, io non ci sto, io boicotto. Ho detto cose trite e ritrite, pure un po' "populiste"? Sicuramente, uno più uno meno, tanto... ho detto sciocchezze? Forse, ma io non conto niente e non influenzo nessuno, nessuno mi ha pagato per dirle, di altri non si può dire lo stesso.


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editoriale di Anonimo

Alzarsi la mattina già stanco per non aver chiuso occhio.

Iniziare il nuovo giorno con la consapevolezza di dover ancora una volta affrontare i tuoi demoni interiori.

Aver paura di fare qualsiasi cosa, anche la più semplice.

Lottare, cercare di resistere, sapendo già di aver poche speranze di "vittoria".

Panico, paura, stati d'ansia che mi perseguitano da anni e che ciclicamente riaffiorano, facendomi malissimo;

Sei solo, ad un centimetro dal baratro e stai cercando di non fare un altro passo fatale.

Devi per forza, e per fortuna, trovare l'appoggio ed il sostegno degli affetti più cari: la mia compagna e mia figlia che SEMPRE mi aiuteranno.

Sto tremando e faccio fatica a proseguire.

Un senso di vuoto che ti distrugge.

Dovrò ricominciare con gli odiati psicofarmaci ma non ho scelta.

Tornerò a frequentare lo studio della mia cara ed amica psicologa.

Lacrime, lacrime...tante ancora una volta.

La mia Musica mi offrirà un altro fondamentale aiuto.

Ho finito.


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editoriale di Ancora D'Oro

Celeste, la conobbi all’Università.

Un bel viso, contornato da capelli a spaghetto, neri come la pece, su un corpicino esile e dai fianchi stretti. Ci laureammo nella stessa sessione e spesso, prima degli esami, provavamo ad interrogarci dopo le ore passate sui libri e a chiacchierare dei piccoli e dei grandi sistemi.
Imparammo a conoscerci grazie alla sincerità di entrambi e compresi quanto basta del suo carattere per farmi l’idea che fosse, già allora, una ragazza dalla mentalità molto aperta e disponibile.

Dopo la laurea, lei si trasferì nel viterbese a lavorare con il padre separato e io me ne restai in Veneto.
Da allora non la vidi più e dopo qualche cartolina, qualche lettera e qualche telefonata, finimmo anche per perdere le tracce l’uno dell’altra.

Sapevo che nel periodo natalizio solitamente tornava dalla madre, ma per un motivo o per un altro non riuscimmo più ad incontrarci.
Quasi mi dimenticai di lei.

La scorsa notte di capodanno, c’era una festicciola nella piazza del nostro paese, un po’ riluttante mi recai a fare due salti e il brindisi con un paio di vecchi amici. A pochi passi da me, seduta sul bordo di un muretto, vidi una signora con capelli a spaghetto, neri come la pece. Immediatamente pensai a Celeste.
Poteva esserlo e poteva non esserlo, la osservai per qualche minuto. Aveva attorno a sé diversi ragazzi e ragazze, che la coinvolgevano in maniera molto allegra e ridanciana. Due di questi ragazzi erano chiaramente omosessuali e amoreggiavano, baciandosi e strofinandosi, in modo piuttosto esibizionista e volgare.
Celeste li guardava e quando loro la guardavano sorrideva. Solo il tempo di far sciogliere il sorriso e il viso diveniva cupo e pensieroso, quasi mesto. Poi un altro sguardo e poi un altro sorriso. Un breve lampo e di lei si impadroniva ancora un velo di tristezza, che appariva profonda e indelebile.

Poi mi vide.
Urlando mi corse incontro, mi abbracciò e mi baciò sulle labbra con un trasporto che mi parve persino anomalo. Ne erano passati di anni, più di venti. Brevemente mi raccontò della sua tribolata vita, di guai legali lunghi, ma risolti, di una vita sentimentale sostanzialmente inesistente e di avere avuto tre figli da tre padri diversi.
Li chiamò e me li presentò, così realizzai che il maschio, il più grande dei tre, era proprio uno dei due omosessuali visti prima.

“È triste”, mi disse “ma, da mamma, per quanto di mentalità aperta e di larghe vedute, messa di fronte al problema reale, già da oltre un anno, so che non arriverò mai ad accettare completamente e nel profondo il fatto. Ci sarà sempre qualcosa che mi farà fare buon viso a cattivo gioco e non potrò più essere me stessa nei confronti di mio figlio.”

Poi i ragazzi la trascinarono nelle danze, si allontanò gridandomi: “Sono da mia mamma, chiamami.”


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editoriale di SydBarrett96

“Terra mia, comm'è bello a la penzà'. Terra mia, comm'è bello a la guardà.”

L’urlo liberatorio di un uomo che vaga, erra, cerca incessantemente qualcosa che è nascosto dentro di sé. Urla, evoca ardentemente ciò che lo circonda. Non fa rumore però, lo dice sommessamente, in modo pacato, quasi sussurra quattro parole su due accordi di chitarra arpeggiati.

“Terra mia, tu si' chiena 'e libbertà. Terra mia, i' mò sento 'a libbertà.”

Anni settanta. Un giovane ragazzo con la mania per il Rock americano e la canzone melodica partenopea gira per le viuzze della sua città.
Ma non si tratta di una città qualunque: stiamo parlando di Napoli. Una metropoli particolare, affollata, variopinta, ricca di mille colori, colma di etnie, culture e religioni diverse.
Azzarderei l’aggettivo “fumosa”.

Il ragazzo, dai lunghi capelli ricci, gira con in mano una vecchia chitarra acustica, di quelle “vecchio modello”.
A prima impressione ci sembrerebbe un ragazzo come tanti, ma all’apparenza notiamo un qualcosa di diverso dagli altri. Nei suoi occhi c’è la voglia di fare, la determinazione; i suoi polmoni sono pieni di profumo di mare, perché chi tene 'o mare 'o ssaje, nun tene niente; il suo cuore è innamorato della musica, quella che senti alle radio o sugli antichi ellepì, quella che fuoriesce da ogni finestra, da ogni portone, quella che evapora dai meandri più nascosti delle stradine di periferia (la musica musica, è tutto quel che ho si sarebbe detto). Il ragazzo ha piena consapevolezza che un giorno diventerà qualcuno.

Ecco Pino, mi piacerebbe pensare che fosse andata veramente così. Mi sembra ancora di vederti, insieme a James, Tony ed agli altri, nel pieno degli anni ottanta ad aprire il concerto di Bob Marley a San Siro, oppure in Svizzera dove ti immortalasti con un Live favoloso che è rimasto negli annali. Dico “vederti” in senso metaforico ma significativo, perché quelli della mia generazione non hanno avuto il privilegio di assistere alle tue performance dal vivo quando eri nel pieno dei tuoi anni. Ma utilizzo il presente perché per quelli come noi (e mi sia lasciato passare anche il riferimento allo splendido pezzo di Claudio Lolli), innamorati della Napoli Vera, non quella pizza e mandolino che tutti conoscono, ma quella Autentica, quella dei vagiti progressive-psichedelici del giovanissimo Alan Sorrenti, del Rock n’ Roll politicizzato ed incazzato di Eduardo Bennato, di “Palepoli” degli Osanna e di “Ys” del Balletto di Bronzo, dei mitici Napoli Centrale del tuo grandissimo amico James Senese, per noi sei stato e continui ad essere un tassello fondamentale, uno vero fino in fondo, insomma. Il primo ad esportare il dialetto napoletano nella sua totalità, a coglierne le svariate sfumature, a renderlo addirittura una lingua universale, ed uno dei primissimi a stravolgere la figura del cantautore italiano, tutt’altro che solo “poesia e chitarra”, ed ad ampliarla, a far si che anche la musica sia considerata fondamentale per il giusto assetto del “formato canzone”. Tu, come i tuoi altri illustri colleghi che ho citato poc’anzi, siete stati i veri cantori di Napoli, di ‘na carta sporca e di cui nisciuno se ne importa, anche se sotto sotto a sape tutti ‘o munno, ma nun sanno a verità.

Ma Pino, tu lo sai meglio di me. Quanno chiove l’acqua te ‘nfonne e va, ed anche se l’aria sadda cagnà, capita che a volte l’appocundria me scoppia ‘mpietto, e si ha tanto bisogno di alleria. Oggi il cielo non è “Nero a Metà”, come tu dicevi, e convenga che ogni riferimento a Mario Musella sia considerato vano.

Oggi il cielo è tutto Nero. Il Re non c’è più. “E’ muorto ‘o ‘rrè, viva ‘o rrè!”

Te ne sei andato, senza un avviso o un messaggio. Sei volato via, a bordo della tua Gibson nera, lì tra le nuvole, forse alla ricerca del tuo amico Massimo Troisi, oppure con la voglia di farci un bello scherzo, da buontempone il quale sei. Il fatto è che per noi lo scherzo è durato fin troppo, e ci sono molti che stanno prendendo sul serio la faccenda. Non dobbiamo piangere, non lo vorresti.

Non ti ricordi anche tu? Lo dicevi in un pezzo di qualche anno fa, assieme a O’ Zulù dei 99 Posse: “dice ca 'o rre' è muòrto, ma nuje nun c'amma amareggià”.

Ed allora siamo scesi, anche se con la tristezza nel cuore, a farti un ultimo omaggio. Ci abbiamo pensato noi a ricordarti, a Piazza del Plebiscito. Eravamo in centomila, e forse ne staremmo stati anche di più se avessimo potuto, a gridarlo ad alta voce. Se ascolti bene da lassù, forse ci senti. “E’ muorto ‘o ‘rrè, viva ‘o rrè!”

Anno duemila quattordici. Un giovane ragazzo, con le cuffie nelle orecchie, sta tornando da scuola. Fischietta un motivetto: putesse essere allero cu nu spinello 'mmocca, cu ' e mmane dint'a sacca. Poi continua a cantare tra sé: putesse essere allero cu na parola sola, ca me desse calore senza me fà' sunnà'. Lo nasconde, lì sotto i capelli ricci, ma ha quasi gli occhi lucidi.

“Uè, Massimù!”
“Pinù, ma si tu?”
“Dinte a nuttata m’ha fatto male ‘o core, aggio avuto paura assaje. Poi all’improvviso è frnute tutte cose e m’aggio sentuto liggiero liggiero, comme a n’auciello purtato do viento e so arrivato cà.”
“Che ce vuò fa, Pinù. O ssaje comme fa ‘o core.”

Ciao Pinù. Sona mo’!


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editoriale di enbar77

La confraternita dell’olio, ovvero un campionario semi-rurale di allegrie e tristezze. Fine ottobre, inizio novembre. Terminata la raccolta dell’uva, si passa a quella delle olive che, forse ha un valore ancora maggiore rispetto alla prima. Il famigerato “oro verde”. Per i lettori, dal momento che si tratta di un contesto estremamente volgo-familiare, mi vedo costretto a riportare dialoghi in dialetto locale. Seguirà traduzione per i non campani assicurando che leggere le frasi in dialetto, è molto divertente, efficace sia per i termini bizzarri che per le assonanze. Ho amici friulani che si sganasciano dalle risate quando mi fanno leggere ad ogni buona occasione il monito goliardico stampato sulle etichette in tiratura numerata della “Sgnape dal Checo”, quindi…

Stessa famiglia di persone antiche, madre sarta che a causa della crisi non ha dovuto richiedere giorni di ferie approfittandone quindi di uno di magra, padre sempre alle prese con il pulmino della scuola con qualche milione di chilometri in più sulla testata, figlio ribelle e scapocchione 2.0, il nonno partigiano, un invidiabile, energico fascio di nervi novantenne ed io, non più novizio ma neanche navigato, raccoglitore manuale.

La terra è diversa. L’estensione è più o meno la stessa, quasi un moggio, ossia circa 33 are, meno di 4.000 metri quadrati per più di un centinaio di piante. Né poco né molto, considerando che un ettaro è pari a circa 100 are.
Protagoniste della raccolta, tre qualità di olive. Le "ortici", conosciute anche come “coglioni di gallo”, per via della forma quasi sferica, la superficie raggrinzita e di piccole dimensioni, presumendo quindi che siano simili ai gioielli familiari del pennuto crestato. Poi le "racioppelle", dalla superficie liscia, pregiate pur non essendo molto redditizie nella spremitura. In compenso, crescendo a grappoli, sono numerosissime e la resa può considerarsi comunque interessante. Infine le "melelle", molto simili alle olive presenti nelle gastronomie. Polpose, croccanti, con una resa discreta se consideriamo che 90 su 100 finiscono per abbellire il desco negli antipasti.

Armamento individuale: setaccio, bacinella e pinze per la madre, abbacchiatore a benzina ed aria compressa per padre e figlio, io e il nonno partigiano a mani nude. Al massimo il rastrello di plastica, simile a quelli che fanno parte del kit da spiaggia per i bambini. Quelli che, l’uomo non verrà mai superato dalla macchina! I teli, le casse da 60 litri per la raccolta preliminare, i cassoni da 500 per quella definitiva e il cesto per il pranzo, gelosamente custoditi sul carrello del vecchio trattore Carraro che ruggisce ancora nonostante il decorso temporale di almeno tre generazioni.
La mattina è fresca, il cielo ancora terso ed in lontananza si ode qualche colpo di fucile dei cacciatori in ritirata. Dopo aver steso tutti i teli si potrebbe procedere alla raccolta ma l’abbacchiatore non parte. Manca la benzina ed il padre si rivolge con delicatezza al figlio, testa di bossolo 2.0: ”Guagliò chi era purtà ‘a benzina? T’ann appenn’ a te e stu cos’ che tien’ semp mman! Ma addò a tien’ sta capa? Torna ‘a casa e và a piglià ‘a tanica! Nu juorno e chist’ te faccio nà rotta d’osse a te e stu fesebbumm!” (1) E sulle note di questo teatro inizia la raccolta delle olive, Anno Domini 2015.

Il nonno sghignazza, attorciglia le maniche della camicia a righe fino ai gomiti, scoprendo due braccia nodose come i tronchi degli ulivi da spogliare. “Facite cu ‘e mman! Stu cos’ fa cchiù dann che at’! A ffuria è sbatt’, i ram cchiù fin’ se spezzano e nu creschene cchiù!” (2). Parole sagge.
Il nonno avvolge i tronchi con i teli, li chiude con le pinze per evitare che le olive cadano sul terreno e comincia a sgranare i rami più bassi. Poi si rivolge a me ricordandomi che le estremità dei teli devono essere necessariamente sovrapposte al fine di concentrare tutte le olive sull’ultimo telo steso, prima di gettarle nel setaccio. Quest’ultimo, artigianalmente costruito, consiste in una rete rettangolare in metallo, capace a far filtrare le olive, delle dimensioni di un metro per cinquanta ad occhio e croce.  A farle da cornice, quattro assi lignee rafforzate da un fermo inchiodato su uno dei lati lunghi. Il setaccio verrà poi appoggiato su tre casse unite che una volta riempite confluiranno nel cassone.  

La benzina arriva, il compressore parte e gli abbacchiatori cominciano a flagellare le piante fortunatamente floride. Come operaio manovale, mi aggrappo alla corteccia del nonno che sgretola con cura i grappoli di racioppe. E gli aneddoti sulle azioni antifasciste non tardano ad arrivare. Mi fa sempre un certo effetto immaginare che questa terra che sto calpestando per una “banale” raccolta di olive, in quegli anni terribili nascondeva sotto una epidermide farinosa qualche pistola rubata ai crucchi o qualche doppietta presa in prestito da qualche cacciatore. E all’epoca non esistevano altisonanti nomi di battaglia come gli eroici guerriglieri dell’appennino centro-settentrionale. In una piccola realtà, ad indossare l’uniforme da partigiano era il barbiere della piazza principale, il contadino della terra accanto, il medico di famiglia o l’unico bottegaio. I più abbienti, ma anche abbietti, ricoprivano naturalmente le cariche della gerarchia fascista locale e tutti, in entrambi i lati della trincea, avevano un “contronome” affibbiatogli dai compaesani più fantasiosi.
Il nonno, d’orgoglio fervente, racconta: “…au ’43, int’a stà terra venevamo a nasconne e ppistole pè fa fore i tedeschi… ‘cca ‘u podestà era l’avvocato, Vicienz Sittantun’ (non è il cognome ma appunto il contronome. Il numero 71 nella smorfia napoletana è “L’uomo di merda”, valutate voi la considerazione che aveva questa persona in paese, nda) che comm’ verette a mala apparata, che vuttava malacqua, aizatt’ ncuoll’ e se ne fujette! Buono pè isso sinò feneva a carte ‘e quarantotto! (3) Nuje venevamo cca ‘e notte, io, Ettoruccio Sausicchiello, Giuvann’ Uocchie ‘e Brigant’ e Pascalotto ‘u Chianchiere. Pigliavamo da sott ‘a terra chelle quatt’ scassunette che manc’ sparavano e ce ne fujavamo pe coppa ‘e muntagne! (3bis) Il racconto venne interrotto da una lunga, singhiozzante e contagiosa risata: “Io tenevo nù fierro viecchio che s’encagliava una continuazione e ogni vota, pè sparà aera caricà. Quanno caricavo ‘u carrello fischiava e po’ sparava…pareva ‘a notte e Capudann’, nù fischio e nà botta, nù fischio e nà botta!” (4)

Geniale.

E’ ora di pranzo e tutti abbandonano ogni mansione per collegarsi a reti unificate alla tovaglietta da osteria a quadri rossi e bianchi, adagiata su un gruppo di cassette necessariamente capovolte. Altre cassette possono fungere da sedie, purché ci si segga solo sulle giunture, al fine di evitare rovinosi sfondamenti dai risvolti comici.
La pausa non può protrarsi molto, fa notte presto e prima che il sole passi le consegne alla luna bisogna riempire almeno due cassoni per evitare magri risultati al frantoio. Quest’anno ha piovuto abbastanza, c’è stata anche l’alluvione e molte olive sono cariche d’acqua. Si spera di poterne vendere qualche quintale che a 8/10 euro al litro non è mai da buttare.

E quanto prima sentire quel piacevole raschio, tra l’acidulo e il piccante, solleticarti la gola. 

 

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(1) Ragazzo, chi doveva portare la benzina? Ti devono appendere a te e questo coso (uno smartphone) che tieni sempre in mano! Ma dove hai la testa? Torna a casa e vai a prendere la tanica! Un giorno di questi ti devo frantumare le ossa a te e questo Facebook!
(2) Fate con le mani! Questo coso fa più danni che altro! A furia di sbattere, i rami più sottili si spezzano e non crescono più!
(3) “…nel ’43 in questa terra venivamo a nascondere le pistole per fare fuori i tedeschi…qui il podestà era l’avvocato, Vincenzo Settantuno, che come capì che le cose si mettevano male (“mala apparata” e “vuttava malacqua”, letteralmente “brutta parata” e “buttava cattiva acqua”, due modi per dire che la situazione sta prendendo una brutta piega. Mentre “aizatt’ ncuoll’”, letteralmente “alzò addosso-tirò sulle spalle”, è un modo per dire che caricò i bagagli. Nda) se ne scappò! Buon per lui altrimenti finiva molto male (“a carte ‘e quarantotto” per l’appunto. Nda).
(3bis) Noi venivamo qui di notte, io, Ettoruccio il salsicciotto, (evidentemente trattasi di persona corpulenta, nda) Giovanni occhi di brigante (non oso immaginare perché chiamato così, nda) e Pasqualotto il macellaio (il bottegaio del paese, probabilmente di costituzione tarchiata vista l’etimologia del nome, nda). Prendavamo da sotto la terra quelle quattro cose scassate che neanche sparavano e ce ne scappavamo su per le montagne!
(4) Io avevo un ferro vecchio che si inceppava continuamente e ogni volta per sparare dovevo caricare. Quando caricavo il carrello fischiava e poi sparava…sembrava la notte di Capodanno, un fischio e un colpo, un fischio e un colpo! 

Immagine: Vincent Van Goh - Olive Grove with Picking Figures (1889)

 

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editoriale di geenoo

Estate. Molto caldo. Immigrati, migranti, regolari, irregolari, clandestini, naufragio, chiedenti asilo, barche, barconi, mare, frontiere, muri, filo spinato, morti, sangue, caos, gas lacrimogeno, Salvini, Del Debbio, Merkel, Grillo, Maroni, Meloni, Toti, “marchiatura rifugiati”, “52 morti asfissiati nella stiva”, “morti soffocati in 70 in un camion”, “impossibile identificazione”, “Oltre 2.000 morti nel Mediterraneo nel 2015”, tortura, frustate, “avvistati 200 corpi in mare”, “qui non li vogliamo”, “dove sta l’Europa”, “aiutiamoli a casa loro”, “non devono partire”, “I musulmani? Li ammazzerei tutti", "I migranti? Vadano tutti a casa loro". “Stop immigrati islam”, “Clandestini rispediti da dove venivano”, “Non sono razzista ma tutti ‘sti zingari non li posso sopportare, se poi portano malattie?”, “È in atto un genocidio del popolo italiano e il premier Renzi è complice degli scafisti. Migranti e profughi stanno sostituendo gli italiani”, "Lasciate gli immigrati al largo" “E’ cinico chi fa intravedere una vita migliore a persone a cui non possiamo dare nulla di più di una vita grama che li conduce ai margini della società e alla delinquenza", “Carcere per chi ospita stranieri irregolari”, “Gli immigrati danneggiano il turismo”.

Come sarà morire in mare lontano da casa, di notte, da soli, di giorno, da soli? Acqua salata intorno, nessun appiglio, acqua fredda al largo. Acqua nera sotto, cielo bianco sopra. Può durare un attimo, non sai nuotare, la bocca si riempie di acqua imbevibile e salata. Fa male, non respiri, vedi nero. Non senti più nulla. Oppure hai un salvagente, muori lentamente, arso dal sole, di sete, di freddo. Dov’è tuo figlio? Tua madre? Solo, apri gli occhi e si riempiono di sale. Terrore assoluto e profondo, non vuoi morire ma senti che puoi solo morire e morirai.

Ieri, sopra un piatto di spaghetti, con un conoscente che al mio fianco blaterava “questi negri ci uccidono a casa nostra, è ora di fare come dice Salvini”, il telegiornale si ferma per due secondi su una immagine che per me ha avuto lo stesso disgustoso impatto dell’aereo nero che fende un grattacielo pieno di gente: un bambino con i pantaloncini rossi, una maglietta blu e delle scarpe da tennis marroni. Sta sul bagnasciuga di una spiaggia, ma non come tanti bambini questa estate. Non corre, non ride e non fa casino. Sta disteso a pancia in giù, immobile, con la maglietta tirata un po’ sulla pancia, i capelli marroni bagnati ed appiccicati sulla testa, bianco, con l’acqua che gli sbatte sulla bocca aperta. E’ piccolo. Nell’immagine c’è lui in primo piano solo e sullo sfondo un mare immenso turchese, un po’ mosso, senza nessuno. Solo e morto.

Aylan, tre anni.

I media dicono che scappava dalla guerra in Siria. Ma cambia poco.

Una foto che è uno spartiacque nella vita. Una immagine che gela. Che ci dice SVEGLIA PER DIO! SVEGLIA!

Il mio collega di pranzo commenta, con la bocca piena, che gli potevano mettere il salvagente. Io di spaghetti ne ho già abbastanza. Ne ho già abbastanza di tutto. Perché devo sopportare Salvini? Meloni? Grillo? Il mio vicino di sedia? I cretini al bar? Perché devo sopportare tutto questo, tutti questi politici che cercano voti sulle disgrazie delle persone? Mi viene da vomitare. Ed ho deciso che farò tutto quello che posso, so che è poco, ma farò tutto quello che posso per dare un senso a quel viso bianco pieno di acqua di mare. A cominciare dal semplice mandare a fare in culo chiunque mi si ponga davanti anche con un “aiutiamoli a casa loro”.

“Respingere gli immigrati è un atto di guerra”. Papa Francesco

Sondaggio Euromedia per Panorama del 2 settembre 2015: PD 30,6% - M5S 26,1% - Lega Nord 16,5% - Forza Italia 11,9% - Fratelli d’Italia 3,1% = 56,6 % di RAZZISTI in Italia.

Siamo un Paese di merde che per paura, per pararsi il culo, per ingordigia, per proteggere il proprio piccolo fortino pieno di caramelle e iphone non vede al di là della linea di orizzonte.

Facciamo, anzi fate schifo!


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editoriale di Bartleboom

I - Il Capo, la Tigre e il Pecoraio

Calogero “Don Calò” Vizzini, importante esponente mafioso della provincia di Caltanisetta, impropriamente ricordato come il primo “Capo dei Capi”, muore nel 1954. Al suo funerale parteciparono importanti esponenti politici ed amministrativi della regione Sicilia e, in prima fila, il boss Genco Russo. Nella sua epigrafe funeraria si legge: “La sua mafia non fu mai delinquenza”

Giuseppe Di Cristina, nato nel 1923, soprannominato “la tigre’’, nel 1975 divenne membro della "Commissione regionale” di Cosa Nostra. Alla sua morte, avvenuta nel 1978 per mano del clan avversario dei Corleonesi di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, il Comune di Riesi proclamò il lutto cittadino, vennero chiuse scuole e uffici pubblici e una bandiera a lutto sventolò per tre giorni e tre notti dalla sede comunale della DC.

Salvatore Pirrello, detto “u’ pecuraru”, indicato dal pentito Leonardo Messina come "il referente degli stiddari a Caltanissetta...", condannato per associazione a delinquere, è morto all’età di 74 anni. Al suo funerale, tenutosi nel 1994 nella Cattedrale di Caltanisetta, il feretro venne condotto al cimitero da una carrozza trainata da 4 cavalli bianchi coperti da drappi neri, mentre una banda intonava un requiem.

II – Il TULPS, due Questori e forse un Protocollo

p>A norma dell’art. 27 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza: «Il Questore può vietare che il trasporto funebre avvenga in forma solenne ovvero può determinare speciali cautele a tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini».

Tale norma ha trovato, in anni recenti, numerose applicazioni:

29 febbraio 2012 - “Si sono svolti questa mattina, in forma privata, a Gioia Tauro e a Seminara, in provincia di Reggio Calabria, i funerali di Giuseppe Priolo, 52 anni, ucciso a colpi d'arma da fuoco il 26 febbraio e di Giuseppe Gioffrè, 64 anni, scomparso ieri. Il questore di Reggio Calabria, Carmelo Casabona, nel seguire la linea già adottata in analoghe occasioni, a garanzia dell'ordine e della sicurezza pubblica, ha disposto il divieto dei funerali di entrambi in forma solenne, con la partecipazione alle esequie solo dei più stretti congiunti. Priolo, pluripregiudicato, era legato da vincoli di parentela alla cosca mafiosa dei Piromalli di Gioia Tauro: Gioffré, invece, era il reggente dell'omonima cosca, operante a Seminara e in zone limitrofe. Al momento della morte era agli arresti domiciliari.” (fonte La Presse);

Roma, 20 settembre 2008 - "Il Questore della Provincia di Bari ha emesso un provvedimento di divieto dei funerali in forma pubblica e solenne, per esigenze di ordine e sicurezza pubblica, del pregiudicato Marino Catacchio, ucciso in un agguato nella serata del 18 settembre scorso. Pertanto, le esequie - si sottolinea in una nota - si svolgeranno in forma strettamente privata. Dopo il caso di Priebke, anche per il boss della camorra Angelo Nuvoletta scatta il divieto a celebrare i funerali in forma solenne. A stabilirlo il questore di Napoli, Luigi Merolla, che impedisce così i funerali previsti alle 11 di domani nella chiesa di Marano di Napoli. (fonte Quotidiano Nazionale).

Inoltre, pare (ho cercato sulla rete, ma non ho trovato conferme da canali “ufficiali”) che nelle regioni Sicilia, Calabria e Campania dagli anni ’80 si applichi un protocollo per i funerali dei mafiosi: è vietata la forma solenne, la cerimonia si celebra al mattino presto, alla presenza dei soli famigliari e della polizia.

III – Il sito più fiko dell'internet, il sexy, l'anonimo e la capricciosa

sexyajax
Opera: | Recensione: | Il 24 marzo 2006
conosci i casamonica?tu non sai chi sono...meglio per te che non mi conosci..senno te impanichi e nun vieni all'appuntamento...

Anonimo
Opera: | Recensione: | Il 24 marzo 2006
Casamonica eh ? mò cominciamo a controllà l'ip del ragazzo e vedemo se corrisponde tutto...se la foto è vera te sei fatto li cazzi tua.

sexyajax
Opera: | Recensione: | Il 24 marzo 2006
SOLO DA QUI CAPISCO ER COJONE CHE SEI..IO SO QUELLO DELLA FOTO...SE BECCAMO LA E SE NON ME TROVI CHIEDI DE DANIELE CASAMONICA....STO DENTRO..PERCHE' ALLE 8 DE SOLITO STO SEMPRE A FA A PIZZE....HO PAURA DE NON BECCATTE...

Fidia
Opera: | Recensione: | Il 24 marzo 2006
Ah ho capito quindi, sei un pizzaiolo.. senti a me fammi una capricciosa, per favore... con poca mozzarella se è possibile



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editoriale di Bartleboom

Qualche mese fa decisi di fare qualche ricerca in vari blog e site di notizie, per vedere come va il mondo oggi nel suo assetto geopolitico. Trovai molte informazioni che difficilmente avrei saputo gestire se non avessi alle mie spalle una certa immagine, formata e mai completa, degli strumenti esistenti atti a configurare le strutture mondiali.

Visto che l´argomento é vastissimo e non detengo le capacitá per approfondimento specifico, cercheró di correlare alcuni fatti accaduti nel mese di maggio usando opinioni e informazioni prese esclusivamente in rete e organizzate secondo quella che ritengo essere la visione corretta del sistema politico mondiale.

Primo di maggio, expo 2015. Alle colorate e artificiose animazioni di frutta e verdura, si contrappone la cruda esposizione del vandalismo dei blocchi neri. Slegati dai manifestanti ed estremamente organizzati agiscono indisturbati per le vie delle cittá. La visione dei loro atti disturba il comune cittadino, crea una senzazione di insicurezza che lascia molta gente a casa e genera un odio anticomunista, anacronistico e inopportuno.

Non ho dubbi che nei centri sociali ci siano molti elementi che adottino la guerra urbana come strumento di lotta e che viene spesso usata contro la polizia in questioni come le disoccupazioni. Non ho mai visto invece, filmato, uno scontro diretto fra i black bloc e la polizia. L´unico video che ritrae di dentro tutte le fasi dell´azione; aggregazione, vestimento, azione, svestimento, disintegrazione é stato filmato dal Giornale.

Tre maggio, festa dell´unitá alla montagnola, luogo tardizionalmente alternativo, a cui non é permesso l´accesso ai manifestanti troppo calorosi. E se Renzi dedica un´ora del suo tempo al colloquio con le parti, fuori si adotta un linguaggio piú concreto. Il braccio forte del potere spezza quello piú debole e lascia una sensazione di impotenza e disgusto.

La settimana precedente, la negligenzia di alcuni poliziotti americani provocó la morte di un afroamericano e la conseguente rivolta degli oppressi. Se il cerchio continuerá a chiudersi potremmo veder ripetere ancora queste scene; sono sintomi di una reazione contraria alle pressioni che vengono dall´alto, sopra il potere politico che non é piú rappresentativo da molto tempo, come si puó vedere anche in questo specifico caso; il presidente e il sindaco sono afroamericani.

E l´Italia dove si inserisce oggi nella struttura geopolitica dell´impero?

Indebolita nella struttura industriale e nello stato sociale, si prepara ad essere la grande riviera romagnola dell´europa, dovendo allo stesso tempo gestire un imponente flusso migratorio dovuto alla instabilitá creata nel continente africano.

Intanto l´Europa non funziona, la Germania sempre in testa (ma non avevano anche loro perso la guerra?), succedono cose mai viste in finanza, le controversie sul Ttip, il debito della Grecia, i governi fantoccio di Italia e Francia.

Si, avete letto bene, i governi fantoccio; nel senso che i primi ministri Renzi e Sarkosy, sono arrivati al potere guidati dalla mano silenziosa dell´impero che, attraverso delle reti occulte é riuscito a tessere trame sofisticate, utilizzando l´efficace metodo di annullare politicamente l´avversario del pupazzo prediletto. Basta tirar fuori dal cassetto i fascicoli dell´fbi, trovare qualche macchia del passato per creare uno scandalo mediatico in tempo di elezioni, e indipendentemente dalla colpevolezza o meno dell´avversario, l´impatto sull´opinione pubblica é forte. Questo é il metodo piú usato, ma non l´unico.

Quando invece si deve creare scompiglio in situazioni che esulano dal campo politico, la polizia va benissimo, come successo nello scandalo FIFA, dove il marciume della corruzione impera da tempo ma nessuno interviene fino a quando non giunge il momento propizio.
Propizio perché? Per gettare discredito nei dirigenti sudamericani? Perché i prossimi mondiali si dovranno svolgere in russia? Perché l´america há perso il diritto di ospitare i mondiali del 2022 in favore del Quatar? Perché qualche giorno dopo gli arresti, si sarebbe svolto il congresso della Fifa, dove si sarebbe votata la mozione della palestina di escludere Israele dai prossimi mondiali in quanto irrispettosi dei diritti umani?

Questi pochi fatti descritti finora, sono solo alcune tessere di un grande mosaico, che si fa sempre piú complesso e indefinito nella sua visione particolare, ma che mostra una struttura ben delineata nella sua visione d´insieme.

I black bloc sono l´emblema mediatico della strategia del terrore, che continua da troppi decenni nel nostro paese. L´episodio accaduto durante la festa dell´unitá rappresenta la separazione fra politica e societá, i cui limiti vengono sempre tenuti sotto controllo mediante l´uso della violenza . I Baltimora Riot del 2015 rappresentano la segregazione delle minorie, nelle quali anche noi dovremmo identificarci.
Chi non si sente rappresentato da nessuno é minoria, e tutte le minorie diventano poi moltitudini, che si .gettano nelle strade spinti dalla forza collettiva o tentano di cambiare il loro quotidiano in direzione ad uno stile di vita contrario a quello che vogliono farci vivere. Il caso Fifa, invece mostra come funzionano tutti i grandi gruppi di potere; corruzione come idea di base, non solo intesa come mazzette, ma in un senso piú ampio che vuol significare che l´interesse personale é sempre posto al di sopra dell´interesse della collettivitá, quasi niente fugge a questo infame sistema.

L´impero avanza... e io mi sento giú, un idealista coglione e qualunquista, che ama questa stronza umanitá e questo bel pianeta che nutre i miei sensi. Mi sento impotente e mi consolo con le piccole cose della vita; un orto, il progetto di casa ecologica, la musica, la famiglia, pensare ad altro e tirare avanti.


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editoriale di soulonice

Ci ho pensato solo di recente, dopo aver letto uno degli editoriali pubblicati qui sulla home di DeBaser. Internet, il web sono stati questo posto fantastico dove chiunque di noi si poteva sentire un cybernauta, il Neuromante di William Gibson; dove tutti noi di volta in volta potevamo adottare una, ma pure due, dieci, mille, centomila identità differenti; eravamo tutti dei pirati e degli idealisti che navigavamo in questo mondo libero e privo di inibizioni e di vincoli di qualsiasi tipo. Eravamo dei pirati e allo stesso tempo eravamo come Peter Pan perché questo mondo era la nostra Isola che non c'è.

Poi, ne abbiamo già parlato, a un certo punto le cose sono cambiate. Navigare in intenet è diventata una cosa di vastissima diffusione e il moltiplicarsi dei social network (FaceBook su tutti) ecc. ecc. hanno radicalmente modificato le modalità di approccio dell'individuo al web. Tanto che internet, più di prima, costituisce oggi una specie di prolungamento della realtà. Non è un caso, per dire, che molti si connettano al web direttamente via smartphone, che usino più lo smartphone che un computer desktop o laptop. Perché internet, oggi, è diventato finalmente quello che doveva costituire all'inizio secondo i suoi ideatori, praticamente una estensione, un miglioramento di quello che era il sistema di comunicazione telefonico. Oltre che una immensa e sconfinata banca dati e di informazioni di tutti i generi.

Queste cose ce le siamo già dette. Però, quand'è che, esattamente, Internet è diventato anche il posto dove si danno i voti alle cose? Fateci caso. Qualunque cosa facciamo, dopo ci affrettiamo ad attribuire a questa un qualche voto online, a condividere con gli altri il nostro giudizio che, generalmente, va da una a cinque stellette. Sì, proprio come su DeBaser.

Siamo stati a mangiare al ristorante e ci siamo trovati malissimo? Tac, ecco che appioppiamo al ristorante una stelletta, magari due, se proprio non vogliamo essere cattivi. Diamo i voti ai film che guardiamo, ai libri che leggiamo e ovviamente ai dischi che ascoltiamo e facciamo delle classifiche, selezioniamo, diciamo a tutti quello che preferiamo. Compriamo qualche cosa su eBay oppure su amazon? Perfetto. Dopo ecco che diamo un voto al venditore e, poiché abbiamo comprato, ecco che alla fine anche il venditore ci dà un voto. Un voto che può essere pure un "voto di scambio" perché, per quanto la cosa possa apparire assurda, è chiaro che, se tu al venditore dai un voto basso, difficilmente questo dopo ti darà cinque stellette piene. Infine, la cosa potrà apparire scandalosa ai più benpensanti, ma, come diamo dei voti ai video su YouTube oppure su YouPorn, pare ci siano pure dei siti dedicati dove gli utenti attribuiscono delle stellette, sempre da uno a cinque, alle "lucciole" secondo dei criteri che variano dalle loro qualità fisiche alle loro performance e ai prezzi.

Non voglio parlare di moralità comunque. Il fatto è che la nostra esistenza è diventata una specie di gigantesco fantacalcio, dove, tuttavia, anziché essere solo dei "selezionatori" e quindi aspettare passivamente la pubblicazione delle pagelle da parte del quotidiano sportivo relativamente le prestazioni sportive dei nostri campioni, siamo invece allo stesso tempo protagonisti, spettatori e infine giudici. Come nella vita di tutti i giorni del resto. Di più, sembra quasi che dare i voti sia diventato più importante delle stesse esperienze; dare un voto, è lo scopo di tutto quello che facciamo, la motivazione ultima e principale.

A questo punto, tuttavia, perché non ipotizzare che, domani, i nostri profili "ufficiali" su di un gigantesco archivio governativo non possano essere accompagnati da delle stellette? Diamo delle stellette a tutto, a questo punto perché escludere che gli altri possano dare un voto da uno a cinque alla nostra persona. Del resto, è innegabile, se fosse data la possibilità di farlo, tutti darebbero senza neppure pensarci su solo un attimo un voto da uno a cinque ai loro amici, ai loro parenti, ai loro conoscenti e a tutte le persone con cui interagisc0no nella loro vita di tutti i giorni oppure in quella virtuale. Lo farebbero magari senza cattiveria e senza nessuna malizia, ma lo farebbero, pure solo semplicemente perché sarebbe data loro questa possibilità. E allora domani, di punto in bianco, potresti essere una persona da una stelletta e questo potrebbe fare curriculum, costituire una macchia nella tua esistenza. Potresti persino non trovare lavoro oppure nessuno potrebbe affittarti un appartamento, perché la tua vita, tu vali una cazzo di stelletta e valere una stelletta, nella società di domani, sarebbe lo stesso che non valere un soldo bucato.

Non lo so voi. Io comunque ho smesso di dare voti anche ai dischi oppure ai libri. Ho smesso perché ho pensato che, delle volte, dietro questi lavori, che questi lavori costituiscono un pezzo della vita di una persona, non sono semplicemente un servizio reso agli ascoltatori oppure ai lettori. Dietro, non sempre ma molto spesso, c'è molto altro, ci sono la vita di intere persone e come fai a dare un voto all'esistenza di una persona? Come puoi votare una persona e decidere che questa vale una, due, tre, quattro, cinque stellette. Quando parliamo di voti, quando mettiamo questi tutti assieme è evidente che la maggioranza possa, in alcuni casi addirittura debba necessariamente costituire la "verità". Ma questo, quello delle votazioni a un certo punto diviene invece qualche cosa fine a se stesso e autoreferenziale, che esuli da ogni principio di confronto e di interazione che sarebbe poi alla base del grande concetto di "rete".


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editoriale di Bartleboom

Ma vogliamo, o no, parlare un po'?

Chi sei?
Io sono quello che se la cava, sempre. Ti sorrido e entrambi sappiamo che me la sono cavata. Ma dai che mi conosci, io dico sempre la cosa giusta al momento giusto. Tu pensi A, quell'altro pensa B, io arrivo e vi trovo la C, e vi si apre un mondo.

Tu invece chi sei?

Che cosa vuoi. Io sono così. Io non la abbasso la testa. Mi frega il cazzo di chi sei figlio, io sono proprio un osso duro.

Chi sei?
Ti chiedo scusa se non sono riuscito a rivelarmi dall'inizio, spero che tu lo voglia sapere ancora; è solo che non lo so nemmeno io. Io ho, semplicemente, l'età che ho. Forse non mi sono impegnato abbastanza in questi anni, o forse mi serve ancora del tempo. Dammi un'altra opportunità, ti prometto che è l'ultima.

Chi sei.
Guarda che ho capito perfettamente, per questo rido. Io non c'entro niente con questo trucco per imbecilli: cos'è? Una "SCORCIATOIA INTELLETTUALE"? Brutto fan di Carmelo Bene dei miei coglioni? Guarda che io non ho MAI pagato una donna per fare sesso, hai capito STRONZO. E ora lasciami lavorare.

Chi sei tu?
Io ho trovato quello che cercavo. Se ti può bastare. Per me invece è stato addirittura troppo, ora ho capito cosa vedo io, e ho capito che vedo tutto, vedo anche me, e adesso anche senza specchio.

Tu chi sei?
Piuttosto tu chi sei. Domanda più del cazzo non la potevi fare. Noi non siamo. E finché siamo, non abbiamo da temere, perché fare delle domande. Perché chiudere la frase con un punto interrogativo.

Chi sei?
Sono il colore nero che si sparge di sera. E mentre mi confondo penso all'evoluzione del pensiero. Al muro di lettere e al recinto di frasi. Le parole sono staccionate da dipingere. In cambio di qualche focaccia nei periodi di fame.

E tu quindi sei veramente un bugiardo. Hai provato a vendermi la verità perché la verità è il desiderio, e si vende da solo. Il desiderio d'essere vero.

La sola verità è la memoria, così come viene conservata.

E non sei libero, neanche di non ridere se non ti va. Se è così, significa che menti. E se dici che non è così, è perché stai mentendo. Che ti dicevo? Non sai cosa sia l'onestà, ma non lo sa nessuno. Il significato che gli abbiamo dato noi, quello invece lo conoscono tutti.

Però siete stati anche capaci, e tanto, tanto coraggiosi. Chi dice di no, sta mentendo.


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editoriale di Flo

Non c’è dubbio che io, a diciotto anni, fossi (già) una persona strana.

Per il mio compleanno, invece di feste con tanti invitati quanto potrebbero essercene a un matrimonio, mi feci regalare un viaggio a Lisbona con i miei.
Erano i primi di settembre, di certo non sapevo che quel viaggio, a posteriori, mi avrebbe segnata tanto.

Ma ricordo perché avevo scelto Lisbona: Pessoa, il suo Livro do Desassossego, il Libro dell’inquietudine tradotto da Tabucchi, aveva già scavato un solco nella mia adolescenza, nella mia anima e nelle mie tasche: me l’ero portato ovunque, era l’unico libro in italiano che mi aveva seguita nel mio anno in Norvegia, quando avevo diciassette anni, e ha ancora il suo posto d’onore sulla mia libreria, tenuto come un cimelio, neanche troppo spiegazzato.

Di quel viaggio ricordo tanto caldo e tanta pioggia.
Tantissima, come raramente ho visto piovere nella mia vita, tanta pioggia da costringerci, una sera, ad aspettare mezz’ora rintanati nel foyer del Teatro Politeama.
Ricordo anche tanta insonnia da crampi da disidratazione: le salite di Lisbona non perdonano.
Ricordo gli amici pigri e rompiscatole dei miei che viaggiavano con noi.
Ricordo un senso di incompleto, di amaro in bocca, di non visto che mi lasciò quel viaggio.

Soprattutto, ricordo una sensazione di meraviglia, la sorpresa per la luce accecante sul lastricato nel primo pomeriggio, l’incanto per la lingua meravigliosa e strascicata dei portoghesi, la grandezza dell’oceano di Cascais, il profumo di pesce e la puzza di baccalà, l’odore di dolci appena sfornati. Il fascino di quella decadenza malinconica che pervade ogni angolo della città e che ti entra dentro o ti ripugna.
Le stesse sensazioni che ho provato ogni singolo giorno quando a Lisbona ci sono tornata in Erasmus.

La voglia di tornare.

A Lisbona, poi, ci sono tornata in un altro viaggio, ci ho vissuto per cinque mesi, e sono castigata ogni giorno da quel sentimento pieno di sospiri che è la saudade, un sentimento tutto portoghese, di cui Lisbona rappresenta la concretizzazione.

Nella vita, io non mi sono mai innamorata, se non di Lisbona e del Portogallo. Del portoghese, a cui mi dedico da cinque anni e che mi hanno impedito di continuare a studiare, strappandomi un pezzettino di cuore. Di Pessoa e del suo Libro dell’inquietudine, quella reliquia della mia adolescenza su cui ho scritto pagine e pagine inutili di tesi.

Di quel viaggio a Lisbona conservo ancora un piccolo dettaglio, un libro che mio padre contrattò con il commesso di una libreria antichissima (l’ho scoperto dopo, detiene il Guinness come libreria in attività più antica del mondo), parlandogli in italiano.
Era un libro di poesie, un’antologia, ovviamente di Fernando Pessoa.
Sfogliandolo, ore dopo, scoprii con rammarico che era difettoso, che mancavano alcune pagine, rimaste bianche, e che non avrei potuto cambiarlo. Cercai comunque di comprenderne il contenuto, aggrappandomi ai pochi appigli che quella lingua che ancora non conoscevo mi offriva.

Mai avrei pensato che il futuro fosse scritto tra le pagine bianche di un libro stampato male.



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editoriale di Bartleboom

Recensire, giudicare, analizzare, sezionare, in una parola "criticare" puo' apparire a molti come un mero esercizio di confutazione, affossamento o elogio iper realista. All'università, gli insegnamenti in tal senso affondano radici in quel sociologismo positivista di stampo marxista che separa e incanala i temi a seconda della loro derivazione anche (ideo)logica. A tutto questo bisognerebbe dire stop.

Leggendo molti commenti, e non solo su questo divertente sito, salta al nasocchio che il "gusto" spesso si confonde con la capacità "tecnica" dell'autore-regista.
Un film puo' essere contemporaneamente eccellente (ovvero mi è piaciuto tanto) e orripilante ( dialoghi piatti, montaggio farraginoso, interpretazione latente). Mi si chiederà allora: "cos'è che ha reso quella pellicola così attraente? E si torna al vecchio caro positivismo marxista. Al sapore sciapo e a un uso approssimativo della cinepresa, si contrappone un forte messaggio ( o contenuto) atto a ribaltare l'esito della "critica" facendo sì che alla fatidica monosteletta (i parametri sono solitamente da una a quattro o cinque) si giunga addirittura ad elargirne quattro.

Rifiutandomi di annoiarvi con dieci cartelle, concluderò con questa dichiarazione d'intenti che da ormai 30 anni mi segue.

Si rifugga il compiacimento politico, si eviti di affidare al contenuto la corona del giudizio, si tenga conto della capacità attoriale e tecnica dell'intero cast, si valuti l'opera da almeno due punti di vista (tecnico-emotivo), infine al minestrone potremo aggiungere quel pizzico di sale che corrisponde al nostro specifico gusto personale.
Servita in tavola la pietanza troverà ugualmente detrattori e folle acclamanti evitando però quei paradossi che almeno alla mia persona infastidiscono.

Puo' un film essere considerato da un recensore CAPOLAVORO e da un altro "ignobile PASTICCIO?"

No, non dal punto di vista critico.
Una forbice tanto ampia è comprensibile solo nel parametro gusto e non rientra nel compito di un'analista, foss'anche egli un neofita o un appassionato privo di attestati universitari.

Ognuno di voi, indossati i panni del giornalista cinematografico, dello storico, si ricordi che dietro a una produzione c'è sempre un lavoro complesso, nella maggior parte dei casi, difficile e faticoso che merita se non altro un briciolo di rispetto.

Se vi sarà una prossima volta potremo così affrontare la parabola del "commerciale"......ma questa è un'altra faccenda. Buone letture e buone visioni.

P.C.


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editoriale di G

Ti ricordi quel film?

Quello claustrofobico, giapponese, c’era una tipa che finiva in una stanza, tutta spoglia e verde. Mi ricordo solo questo di tutto il film. Forse doveva prostituirsi. Non ricordo altro.

Di Johnny Mnemonic ricordo poco di più: quello strano personaggio. Una lei virtuale che stava invecchiando, perdendo segmenti della propria memoria.
L’ho visto al cinema quando è uscito. Parecchi anni fa. Andava di moda il “cyber punk”.

C’erano degli ideali nell’aria, si respiravano.
Si immaginava quanto la rete avrebbe potuto fare e si ragionava in termini idealistici. Informazione libera, per tutti, conoscenza libera, sapere immediato.
C’erano entusiasmi. Tutto quello che prima era difficile da raggiungere ora sembrava a portata di mano. E noi giù a comprare modem, monitor, portatili, server, tutti di corsa a preparare le avveniristiche autostrade dell’informazione, a lavorare nel settore, a progettare spazi di interazione.

Ho fatto parte di tutto questo in un modo o nell’altro e oggi, se mi guardo attorno, ho la sgradevole sensazione che quell’occasione sia andata persa.
Mi sembra che, alla fine di una parabola, tutta “‘st’infrastruttura”, serva solo per “informarci” su cosa twitta il politico di turno e su cosa gli ritwitta l’oppositore farlocco di turno.
Per farci conoscere le svendite sul sito d’occasioni e attaccarci il virus di qualche video della tal casa automobilistica che “guardalo, fa morire darridere”.
Per farci apprezzare la dolorante clavicola rotta dall’impavido skater, l’ilarissimo spavento del collega ischerzato, le comiche del gatto, la rabbia del cane, il dramma del coccodrillo, le tette ballerine della bulgara di turno, lo schianto in autostrada filmato per errore e quello che si lancia su un cactus.

La sensazione è sgradevole perché se quello che sento è vero, allora è anche vero che io mi sbagliavo, che mi sono sbagliato per anni.

Ho sempre lottato contro l’idea che voleva DeBaser diventasse un salottino chiuso e riservato, dove pochi snob parlassero tra di loro a un livello inaccessibile agli altri.
Ho sempre sperato in un DeBaser se vogliamo proletario, confidando in un qualche proletariato illuminato, per anni soffocato dall’impossibilità di esprimersi, di trovare canali di comunicazione.
Pensavo che, una volta che avesse avuto lo spazio, l’idea luminosa che immaginavo in tutti, sarebbe potuta emergere.

Ero candidamente convinto che la gente non esistesse, che esistessero persone, pensavo che queste persone, una volta che si fossero potute incontrare avrebbero preso il meglio le une dalle altre.

Però mi sembra di capire che da alte parti, dove sì, si è riusciti a conquistarlo quel proletariato, dove la gente va a farsi bombardare di informazioni inutili, contrastanti, parziali, dannose, a sovraesporsi fino a perdere del tutto la memoria, mi sembra di capire, dalla schiuma che lì emerge, come sotto non fermenti nulla di particolarmente illuminato.

Forse allora, in tutta questa storia che mi sembra di ricordare meno di quel film giapponese, qualche scusa è dovuta, da parte mia a chi non la pensava come me.
E qualche ripensamento andrebbe valutato su come potrebbero andare le cose qui.


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editoriale di andisceppard

Pensatela come vi pare, io piango Marco Pantani.

E non solo, anche se pure, per l'uomo solo al comando. L'uomo che parte, e ti fa saltare sulla sedia. L'eroe, quello che lo segui, lo guardi, vuoi sapere.
E nemmeno solo per quella roba, piantata nella mia testa, del perché vai così veloce in salita, risposta perché così si abbrevia la mia agonia.

Piango Marco Pantani, drogato oppure no, perché è il mio ultimo eroe.

Droga, nel ciclismo, c'è da sempre, inutile fare finta di no. Parlate con chiunque, questo sport, lo pratica. Anche a livello semiprofessionistico. Ve lo dice. Papale papale. O prendi la bomba o non vai avanti.
Dai tempi di Coppi, forse anche prima. C'è. Piantiamola con le cagate, le idee dei complotti, Vallanzasca che dice che uno gli ha detto di scommettere, quelle robe lì.

C'è e c'è da sempre. Ma, nonostante ciò, rispetto.

Pantani, dalla sua carriera, bella, sfolgorante e indimenticabile, ne ricava una villa, poco lontana da Cesenatico.
L'ho vista, quella villa lì. Bella. Tipo che qualunque calciatore, chiunque giochi diciamo in serie c, se ne fa una grande il doppio.

Ma lui l'ha pagata, quella villa lì. L'ha pagata con la sua agonia, con la droga, con la cancellazione dalla memoria. Sei solo un drogato, vatteneaffanculo, e maledetto me, che per te ci ho gioito, e sofferto.

Lo sport, come tutti i maschietti, lo seguo fin da quando ero bambino. E c'ho i miei eroi, i miei amori, le mie preferenze. E quando sei bambino pensi che sia una cosa vera, lo sport, il tifo, voler bene a una squadra, seguirla, anche quando va male.

Fare - ad esempio, come è capitato a me - coraggio a un pippone come Luther Blissett. Perché è della tua squadra. Oppure piangere al goal di Mark Hateley, nel derby di mille anni fa. Quel goal di testa, liberatorio, dopo milioni di derby persi. O condividere la sua gioia, così vicina ad un orgasmo, dopo un goal di rapina contro la Roma.

Poi cresci.
E ti rendi conto che di te, alla tua squadra, ai tuoi idoli, non gliene frega niente. E allora trovi un altro modo, per condividere, per gioire.
Cerchi, e trovi, qualcuno che ti racconta una storia.
Perché questo - di fondo - è quanto di bello c'è nello sport. Che qualche volta, inaspettatamente, inspiegabilmente, ti racconta una storia.

Come la storia dell'Olanda del '74, a Monaco di Baviera, la squadra più rivoluzionaria di ogni tempo. All purpose, come dicono gli americani. In ogni sport, in ogni cosa. O l'Italvolley di Velasco. L'orgoglio. Inaspettato e insperato. O l'Olimpia del Nano Ghiacciato, bella e sfortunata. O i Kardiac Kids, da sempre nel mio cuore, o mille altri.

E persone, anche. Come gli Unti Dal Signore. Maradona, Tomba, Kasparov, solo per citare i primi tre che mi vengono in mente. Anche un po' teste di cavolo, per carità. Ma insomma, se si parla di quello sport lì (il calcio, lo sci, gli scacchi) non c'è niente da dire. Stai lì e li guardi.
E dici nessuno potrà mai essere come te. Mai. Si spegne. Si chiudono le iscrizioni. FInita.
Belli, gli Unti Dal Signore (chiunque egli sia).

Ancora più bello, indimenticabile, Uno che, prima di una tappa in salita, gli chiedono: cosa farai, che piano hai. E lui risponde non lo so. Non so che Marco Pantani sarò oggi. E spero di esserlo, il Pirata. Uno che il signore non l'ha baciato. Uno che - per lui - ogni cosa che ottieni è sofferenza. Droga o non droga. Uno che - sul traguardo, vincitore - non ha mai sorriso. Ma solo tirato il fiato. E detto, madonna, guarda che Pantani sono stato oggi. Non lo so se riuscirò mai più ad esserlo.

Uno che non solo non lo sa di essere eroe. Ma nemmeno sa se riuscirà ad essere sé stesso. Mai.

Ecco, da quel giorno lì, da quel giorno a Madonna di Campiglio, dello sport non me ne frega più niente.

E piango Marco Pantani, pensatela come vi pare.


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