editoriale di Hank Monk

Un vasto oceano di luce rifletteva dall’ancora più vasto oceano fluttuante. Le increspature e gli sfavillii si mescolavano generando un caos cristallino, dinamico e plasmabile, meraviglioso nella sua placidità. Tutta questa luce infastidiva l’uomo disteso sulla riva lambito dalle onde.
Erano anni ormai che ogni notte si distendeva sulla spiaggia lasciandosi bagnare dall’oceano ed erano anni che ogni mattina malediceva tutta quella luce.
Si rizzò in piedi di soprassalto e si diresse verso la sua abitazione; se è vero che i suoi risvegli erano sempre bruschi era però altrettanto vero che i suoi sonni erano deliziosamente tranquilli. Almeno fino a quel giorno: per tutta la notte era stato perseguitato da visioni e sensazioni di malessere.

Un peschereccio affondava lentamente in una lamina d’acqua grigia come l’acciaio, un totem volante incombeva sull’equipaggio congelato in posizioni innaturali e che sembrava non avere la minima intenzione di abbandonare la nave. Improvvisamente un lembo di terra colpiva l’imbarcazione mescolando cielo e terra: il totem assumeva proporzioni ciclopiche e si tingeva di cremisi. Un calore infernale evaporava l’oceano riscoprendo un fondale di velluti screziati e tardivamente rassicuranti.

Imboccando il sentiero di casa, rimuginando su quanto lo aveva turbato durante la notte, l’uomo venne colpito dallo strano frutto che pendeva dai rami della quercia ombreggiante la sua dimora. Il peso del frutto piegava il ramo che, inchinato, pareva invitare a coglierlo.

L’uomo corse in casa, ne uscì con un lungo coltello e recise di netto la corda che abbracciava l’esile collo e lo assicurava all’imponente pianta. La pelle d’avorio del corpo illuminato dall’impetuosa luce mattutina pareva avere una consistenza fluorescente; i capelli corvini disegnavano sulle sue spalle un labirinto di segni incomprensibili.
L’uomo trasportò il corpo con devozione e lo stese delicatamente sul tavolo di acciaio del giardino sul retro. In preda a un fervore quasi religioso colse calle, fiordalisi, gelsomini e biancospini e ricoprì il corpo di quella santa visione lasciandone trasparire solo gli occhi, ancora aperti e così profondi.

Pianse; e pianse tutte le lacrime che fino a quel giorno non aveva mai versato.

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editoriale di emofiliaco

Se avrete l'occasione di vedere una fotografia di fine Ottocento che immortala qualche piazza o via non potrete fare a meno di notare un particolare: nonostante l'ambientazione sia diurna la città appare inabitata. Non un essere umano o animale risulta presente dando l'effetto di un apparente deserto urbano.

Questo capitava per i lunghissimi tempi d'esposizione che venivano richiesti (almeno otto minuti all'epoca) per catturare l'immagine (e, per inciso, era il motivo per cui i ritratti fotografici all'epoca non avevano così gran successo e per cui i “soggetti” preferiti dai fotografi erano i grandi paesaggi “selvaggi” all'aperto).

Se vi capita di passare per Urbino non potete lasciarvi scappare la visita alla Galleria Nazionale delle Marche (Palazzo Ducale). Tra i vari capolavori presenti c'è quello che viene considerato come uno dei massimi simboli del Rinascimento Italiano: “La Veduta di Città Ideale” (di autore ignoto ma negli ultimi tempi si predilige il Laurana e databile attorno al 1480). Di chiara influenza “albertiana” (“Copia et Varietas”) avrà la particolarità (se avrete il tempo necessario di rimanere a contemplare: per citare Daverio, il miglior modo per guardare un dipinto è guardarlo a lungo) di stupirvi per la rinuncia a ritrarre oggetti animati di vita propria.

In entrambi i casi “segnali” di vita sono presenti: per esempio finestre aperte che lasciano intravvedere appartamenti dove qualche essere vivente è “passato” (piante, tende scostate, panni appesi eccetera) non solo per costruire la città ma anche “viverla” ma di esso rimangono appunto solo echi che appaiono, nel momento della contemplazione, distanti.

In una delle più significative opere a fumetti di sempre (“Watchmen”) uno dei personaggi, ad un certo punto, parlando della “Vita” (intesa come evento biologico) dice:

Secondo me è un fenomeno estremamente sopravvalutato. Marte se la cava perfettamente senza nemmeno un microorganismo. Sotto di noi si trova il Polo Sud... Niente vita. Solo gigantesche terrazze alte trenta metri, modellate dal vento e dalla sabbia secondo una mappa topografica sempre mutevole, scorrono attorno al polo a ondate, a intervalli di diecimila anni ciascuna. Dimmi. Un oleodotto le migliorerebbe?

Ovviamente alla “fine” (anche se nulla ha mai fine) cambierà idea.

Uso l'avverbio “ovviamente” perché anni fa (la prima volta che visitai Berlino) ebbi un/una preludio/sorta di Sindrome di Stendhal: in un luogo altamente improbabile cioè nel bel mezzo del Lustgarten (Mitte) “ammirando” il Dom davanti a me e l'Altes Museum alla mia sinistra (per dire non un luogo che riporta evenienze architettoniche che normalmente mi fanno “impazzire”).
In mezzo ad una moltitudine di persone intente a varie cose (più o meno culturalmente rilevanti) ebbi una fortissima sensazione di disagio: una difficoltà quasi a respirare e delle vertigini causate dalla sensazione di manchevole solennità (forse colsi quell'incompiutezza che regna sovrana a Berlino e che ne è la caratteristica più affascinante) del luogo. Per un attimo le persone attorno a me sparirono e mi ritrovai solo in un luogo che in quel momento mi sembrava “ideale” così tanto da poterci rimanere per sempre e abbandonare la mia essenza terrena e biologica.

In un certo senso l'esperienza del “Deserto” in uno dei luoghi più affollati al mondo.

Qualcosa ti manca quando non ce l'hai più. Scopri l'importanza dell'aria quando stai soffocando. Potrei continuare a lungo con i luoghi comuni ma, c'è un ma…
Non so se è possibile sentire la mancanza della vita quando non c'è più (perché implicherebbe discorsi metafisici che trovo inutili) solo che ora mi è chiaro che la vita da il meglio di se in quello che lascia indietro e per capirlo bisogna, in un certo senso, rinunciarci e attraversarla come se fosse un luogo desolato. Con il rischio di morirci.

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editoriale di kosmogabri

C’era il fatto che diversi anni fa, trenta e passa, mio padre doveva prendere il diploma di scuole medie in ritardo di molti anni rispetto ai coetanei, perché nel secondo dopoguerra i soldi per andare all’avviamento non c’erano, mio nonno lo mandò dallo zio falegname per imparare un mestiere a aiutare a mantenere i fratelli. Ma non è del lavoro di mio padre che devo scrivere.

C’era il fatto che mio padre finiva di lavorare in anticipo, andava all’istituto serale dove era comunque il più grande della classe, la parte restante essendo composta da qualche ripetente prestato al lavoro, da qualche lavoratore nelle stesse condizioni di mio padre trent’anni prima e via così. Ma non è della classe di mio padre che devo scrivere.

C’era il fatto che nel programma delle scuole medie serali c’era anche la voce “lingua straniera” e mio padre al momento dell’iscrizione sbarrò la scritta su “tedesco”, mica perché fosse il più facile, mica perché fosse il più utile, mica perché avesse interesse a leggersi in lingua originale Achim von Arnim, Brentano, Novalis o altre cose che suppongo mio padre abbia orecchiato leggendo il supplemento domenicale del giornale o qualche settimanale. Ma non è delle conoscenze linguistiche o relativi skill(s) che devo scrivere.

C’era il fatto che mio padre conosceva soltanto il tedesco per aver vissuto qualche anno in Svizzera - ai tempi di “non si affitta agli italiani” - e che mio padre in Svizzera non aveva soltanto trovato lavoro e affitto, ma aveva anche imparato un poco di tedesco, giusto per non passare tutta la giornata in silenzio in fabbrica e giusto per capire cosa stava scritto sulle pagine dei giornali. Ma non è di mio padre e del suo tedesco che devo scrivere.

C’era il fatto che per ripassare il tedesco in vista delle tardiva licenza media mio padre si appoggiava al nostro vicino di casa, quello che stava al piano di sotto con la moglie ed i figli, quello che i figli erano miei amici, ed il figlio maschio quello con cui sono cresciuto assieme, quello con cui ho imparato che sin da piccoli le amicizie fra maschi implicano una stretta di mano ed un pugno, a giorni alterni e senza grandi risentimenti. Ma non è degli amici di infanzia che devo scrivere.

C’è il fatto che il vicino di casa faceva il professore di tedesco, aveva studiato il tedesco all’Università non so che di Napoli ed aveva la faccia di Eduardo de Filippo giovane, del figlio di Eduardo de Filippo giovane, del nipote di Eduardo, se assomiglia al nonno e al padre ed adesso è in qualche modo giovane. Ma non è di Eduardo e del fatto che molti campani gli somiglino che devo scrivere.

C’era il fatto che con il Professore - anche se a volte era sbruffone, anche se fumava troppo, anche se voleva aver sempre ragione nelle riunioni condominiali - eravamo tutti amici, si andava a cena assieme, un anno di è festeggiata anche la vigilia di Natale, se non erro la volta che regalarono sia a me che al figlio i primi Masters di una collezione terminata attorno all’ottantotto. Ma non è dei giocattoli, e dei videogiochi che hanno preso il loro posto, che devo scrivere.

C’era il fatto che il Professore aveva una taverna dove dipingeva quadri nel tempo libero, e che molti di questi quadri li regalava a mio padre, e sono tutti finiti alle pareti di casa, alcuni con i paesaggi dell’Irpinia e le donne col velo, altre con quelle dei laghi e delle montagne dov’era stato trasferito nei primi anni in cui insegnava tedesco, un altro ancora con un bosco ed una strada che sfumava a portava chissà dove. Ma non è dei quadri e delle domande attorno alle strade e a dove portano - strade che ancora percorro ogni tanto - che devo scrivere.

C’era il fatto che a un certo punto negli anni ’80 abbiamo cambiato casa, con il Professore la moglie e i figli ci siamo visti qualche volta e poi sempre meno, l’ultima nel giugno del novantotto ai tempi dei Mondiali in Francia, restava poco da dire salvo qualche battuta e il fatto che Zidane era forte, ma Maradona meglio, il Napoli meglio. Ma non è del Napoli di Maradona che devo scrivere, non è di Sampdoria 1 - Napoli 2 del campionato ’86-‘87 vista assieme al Professore che vi devo raccontare, anche se posso farvi vedere il servizio della televisione.

C’era il fatto che qualche volta sono tornato al parco davanti alla vecchia casa ma non ho mai suonato al campanello del Professore per paura di non essere riconosciuto, perché erano passati gli anni, ma non la mia memoria, eppure temevo di fare la figura del nostalgico e di tornare in un posto in cui non c’era più niente da dire, nemmeno del Napoli. Ma non è dei certi fantasmi che devo scrivere, per quelli è meglio leggersi Eduardo, quello che somigliava al Professore.

C’è il fatto che questa mattina ricevo un messaggio. Hanno trovato il cognato del Professore per strada e gli hanno chiesto come stavano i parenti.
Il Professore è morto da qualche anno in casa di riposo, stava molto male, la moglie si è trasferita via dalla figlia, l’altro figlio pure ha cambiato casa, e l’appartamento al piano di sotto resta in vendita, com’era in vendita il mio tanti anni fa.

Resta il fatto che ho una casa piena di quadri del Professore, strade da percorrere ed un corso serale di inglese da iniziare fra venti minuti: ma non è di quadri, strade e lingue straniere che riesco a scrivere.

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editoriale di emofiliaco

In quel tempo Gesù venne avvicinato da alcuni farisei che per metterlo alla prova chiesero: “Cesare vuole imporci di rinunciare al Sabato, che cosa dobbiamo fare, rabbì, seguire la volontà di Dio o di Roma?”. Allora egli si rivolse a loro e raccontò questa parabola: “Un uomo possedeva alcune vigne, un giorno radunò i suoi servi e disse loro che avrebbero dovuto sorvegliarle anche durante la notte, gli uomini accolsero con disprezzo le sue volontà, solo uno disse ‘se egli vuole questo non dobbiamo discutere fratelli, anche se pensiamo che non serva: non preoccupatevi cercherò di stare sveglio io più notti possibili’ ma quando il padrone disse che avrebbe diviso parte della vendemmia tra i servi a seconda di chi avrebbe vegliato di più loro presero il servo fedele lo uccisero e lo seppellirono nella vigna.”
(Vangelo apocrifo di Omreon, 11: 26-30)

L’altro giorno la mia cassiera preferita (del mio supermercato preferito) era parecchio arrabbiata, siccome sono un po’ in confidenza le ho chiesto nel mio consueto modo affabile “Giuditta, qualcosa che non va?”.
Chiesto questo l’amabile signora si è sciolta (per fortuna non c’era nessun altro in coda) e ha riversato una serie di improperi (il più divertente paragonava la sua categoria al fitoplancton in un’ipotetica catena alimentare del mondo del lavoro) contro le liberalizzazioni che prevedono l’apertura domenicale dei supermercati…

Li per li non ho potuto che consolarla e dirle che non aveva tutti i torti però, poi, caricando la mia auto di frutta, verdura e novellini, ho pensato a varie cose: che in un paese civile le “liberalizzazioni” degli orari dovrebbero riguardare prima di tutto gli uffici pubblici e qualche ente privato particolarmente “protetto” (le banche per esempio?), che, tutto sommato, se lo stato facesse una legge che imponesse ai supermercati, che optano per l’allargamento dell’orario, delle ulteriori assunzioni (e magari con contratti non atipici) o almeno che andasse a detassare pesantemente il lavoro straordinario la cosa potrebbe anche non essere così controversa, che forse con una maggiore disponibilità di aperture ci sarebbero meno code alle casse con conseguenza cassiere meno nervose (tranne la mia preferita sempre impeccabile) e comportamenti più civili da parte dell’utenza…

Queste è altre amenità ma non vi nascondo che tornando a casa ascoltando “‪People Have the Power‬” della Smith l’unica cosa che continuava a rimbalzarmi in testa era lo schema della piramide alimentare lavorativa: non comodo il posto del Fitoplancton.

Lavorare meno, lavorare tutti!
(A-La Sora Lella; B-Beppe Grillo; C-Lapo Elkann; D-Maurizio Landini; E-Gianni U.)

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editoriale di emofiliaco

"Fino all'anno scorso avevo un solo difetto. Ero presuntuoso."
(Woody Allen)


Chi ha esperienza di guida enduro/fuoristrada, mountain bike, arrampicata (libera o non) et similia sa che spesso la volontà di arrivare ad un punto Z da uno A viene limitata dalla conformazione del substrato che si sta percorrendo: il tracciato è quasi sempre predestinato anche quando il senso della vista non lo percepisce (per fare un esempio, in Alpinismo, basti a pensare al concetto di “via aperta da…” ) salvo la prerogativa di persone dotate dell’abilità di intravedere “strade” nuove e/o alternative ad altre.


Nella lingua scritta vige qualcosa di simile celato sia dietro ai fondamentali (Grammatica, Sintassi) sia dietro gli strumenti dialettici. Tali predestinazioni fanno si che (troppo) spesso, soprattutto in un idioma fortemente conservativo (ad eccezione del risvolto lessicale) come il nostro, quando qualcuno vuole passare da A a Z[1] si trova stretto (a meno che non sia dotato del dono della sintesi tipo Steve Harris che con un titolo come “British Lion” riassume in due parole tutto quello che c’è da sapere su di lui) tra il rischio di dar per scontati passaggi necessari per la comprensione di molti e quello di citarli tutti rischiando di stancare il lettore dopo tre righe (e si sa che l’indice di attenzione medio spesso non va oltre).


Qualche tempo fa, pochi giorni dopo la pubblicazione in questo Sito dell’editoriale “Il Caso Sara T.” dove io scrissi la parte che essenzialmente parlava di farfalle, intrapresi una piccola escursione (un 190 km circa) “motorettata” nell’Alta Lessinia e mentre percorrevo un lungo tratto di sterrato abbastanza impegnativo (dove ho scattato la foto, a corredo di questo editoriale, che mi vede in compagnia di un simpatico bovino: io sono quello brutto) ebbi un’illuminazione (non sono caduto, tranquilli: non ero sulla via per Damasco) sul fatto che in quello scritto m’ero allegramente buttato in un burrone perché tra metafore gastronomiche ed esempi tratti dalla cronaca “rosa/boccaccesca” avevo evitato si un masso grande come un cocomero ma dalla parte sbagliata.


Ora, senza tornare su quel topic particolare (do solo un indizio: andate a vedere quante volte ho citato la parola “Porno” in quel pezzo) come nel romanzo di Matheson “I Am Legend” devo arrendermi al fatto che “l’anomalia genetica” è solamente causa mia [2] come il fatto che un mio sproloquio su come gli squali predino gli squali (e che spesso lo si diventi anche contro la propria volontà) sia stato preso come un sermone moralista contro il Porno, un’arringa di difesa contro la “povera” Sara eccetera.

In un certo senso ci sono cascato ancora perché ho preso il rischio di inserire il quarto paragrafo (per spiegare il meccanismo mentale che mi ha portato a scrivere tutte queste scemenze) che può deviare l’attenzione, nuovamente, del lettore verso i lidi del Porno, della Cronaca e della Pastasciutta quando invece voglio solo annoiarlo con banali considerazioni sui confini della lingua scritta.


Se ora mi chiedessi se effettivamente era meglio continuare a parlare di porno probabilmente il burrone diventerebbe abisso (e non fate facile ironia…) quindi la chiudo qui.


Note


[1] Detto questo bisogna anche dire che uno dei trucchi più efficaci per nascondere mancanza di argomenti è ricorrere ad un linguaggio criptico, ermetico e ricco di metafore (spesso usate a caso). Un altro consta nell'usare argomentazioni talmente "popolarpopuliste" che riescono, non solo, a non irritare nessuno ma spesso a riscuotere successo da parte di target precisi di ascolto (e si sa che son meglio due feriti che un morto). Un altro ancora, diametralmente opposto, usa l'asso della provocazione (spesso fine a se stessa) così da scuotere animi e coscienze.' Ovvio è che gli stessi, e altri, che non ho citato, metodi possono essere usati per altri scopi quindi non solo per dissimulare eventuali carenze dialettiche: per rompere le balle a qualcuno, per mero divertimento, per ammazzare il tempo o banalmente per "professione".


[2] Ovviamente non mi riferisco anche all’altra metà dell’editoriale cui, indegnamente, la mia è stata accostata: cosa che mi ha fatto piacere tra le altre cose, nonostante il topic non fosse proprio lo stesso, perché, ad occhio e croce, l’autore di quella deve essere un bell’uomo.

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editoriale di isidax

Poi mi alzo di notte vado in bagno e alla luce dello specchio mi guardo le mani, le cicatrici sul palmo destro, conto i punti sul pollice sinistro; penso, penso alla prima volta che mi sono infortunato lavorando.
Le mani, le mani mi hanno aiutato a essere come sono.

A cinque anni volevano amputarmi il pollice destro, mia madre non poteva concepire il fatto che, magari, non avrei mai potuto scrivere mi portava ogni giorno a medicazione... tre corriere per andare tre corriere per tornare, così tutti i giorni per sei mesi.
Due ore ad andare due ore per tornare, le medicazioni, le fasciature, l'attenzione continua, tutto per salvarmi queste mani.
Queste mani che sanno solo lavorare.

Allora di notte mi alzo in silenzio e nel bagno, seduto sul water penso e guardo le mie mani... La linea della vita, la linea dell'amore, osservo l'anulare sinistro e l'impronta digitale portata via da una pressa, il pollice destro deformato dall'esplosione di un filtro, i dieci punti sul palmo destro, gli altri sette sul dorso sinistro.
E penso di nuovo a mia madre, ai viaggi verso l'ospedale e le sue preoccupazioni nel volermi dare un'infanzia normale.
Allora torno silenziosamente a letto, la TV accesa, il volume lo tengo basso, il respiro della donna che amo e aspetto.
Aspetto che suoni la sveglia per tornare a far faticare queste mie mani.

Poi magari un giorno mi faranno sapere che il mio lavoro non serve più, che le mie mani sono inutili, sono come foglie appassite spazzate dalla strada.
Quel giorno penserò a quando avevo cinque anni.

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editoriale di kosmogabri

Antefatto
Oramai su Facebook ci sono tutti. Cani e porci… "antilopi e giaguari, sciacalli e lapin". (Rino Gaetano).
Penso che conosciate tutti questo famosissimo social network vero? Non si parla di altro. Dai, non fate finta, perlomeno lo conoscete per sentito dire… quanti tra di voi che hanno l'account fb e quanti invece si rifiutano categoricamente di accedervi? In effetti quando si tratta di Facebook è tutto o bianco o nero.
Ma non è della creatura malefica di tale Zuckenberg e accoliti che vorrei parlare.

Tre notti fa su Facebook in tanti utenti abbiamo assistito a una discussione in diretta, che è durata - tra botta e risposta con inoltre diversi interventi esterni ai contendenti - da sera inoltrata fino all'alba. Ciò tra "due musicisti tra i più notori della scena wave italiana durante gli anni d'oro degli '80": Faust'O e Garbo.

(Ora per inciso premetto che per ambedue spasimavo quando ero una ragazzina e vivevo in diretta le loro uscite discografiche nonché li vedevo in televisione in quelle mitiche trasmissioni italiane musicali tuttifrutti e pomeridiane che hanno tirato su noi quasi cinquantenni… Chiudo qua la parentesi.).

Tema originario della discussione (il topic thread come si dice oggi). Sentite sentite! I Beatles o meglio il Paul McCartney. Argomento appassionante no? Macché. Diciamocelo!
Difatti quello che invece ha appassionato tutti gli astanti non è stato il tema ma sono stati i "toni". Ossia di come si è svolta la discussione tra i due artisti.

I toni della discussione tra i due nonchedimeno Garbo e Faust'O (all'anagrafe Renato Abate e Fausto Rossi... ma nemmeno un Ammaniti se li inventerebbe dei nomi così appropriati) son stati in "bianco o nero". Colori di un pianoforte scordato. In contrasto e dissonante. Ci sono voluti pochissimi messaggi reciproci che i due son passati subito dall'insulto - non specifico chi ha cominciato, non ha importanza in questa sede - a in men che si dica all' "appuntamento per strada". Cioè il "lancio del guanto". Ahahah! Delirio. Ho un déjà vu. E come grande finalone si è arrivati al "tu sei un fascista" versus "tu sei un catto-comunista"… Estasi.

E' un riassunto breve, non entro nei dettagli pittoreschi… non servono.
Noi debaseridioti sappiamo bene di che si sto parlando, vero?
La "tonalità" delle discussioni (ops… forums) sui social networks ego-catalizzatori, giusto? Siamo vaccinati. Anzi forse dovrei dire che è' la nostra droga.
Lo è, lo è. Noi ci godiamo.

La tonalità costituisce l'insieme dei principi armonici e melodici che regolano i relativi legami tra accordi e/o note in un brano musicale.

A dare un senso musicale a quella discussione tra Faust'O e Garbo definirei l'attitudine post-punk/noise con una venatura electroclash e qualche sfuriata screamo. Tutt'altro di quello che ambedue hanno mai o stanno producendo attualmente! Tuttavia è stato uno scambio a muso duro che ho ritenuto molto creativo tra insulti e pacificatori goffi tentativi di pacche sulle spalle. Ho riso molto leggendoli e avevo come questa latente impressione di assistere ad una di quelle megalitigate su Debaser, come quelle di anni fa, come quelle di oggi. Quelle sfogate che prima o poi devono scoppiare perché nell'aria da tanto tempo. Anche anni. Decenni. Ere. Poi arriva l'internet. E allora "Apriti Sesamo".
Ovviamente pure io - in diretta - c'ho mollato il mio commentazzo tanto per marcare il terreno (e qui rido troppo di me, che cogliona che sono.).
Noi debaseridioti sappiamo bene di che si sto parlando vero?

Follow up
Lo scazzo tra Garbo e Faust'O è successo tre giorni fa e la notizia ora sta prendendo piede. Sul social network più famoso del mondo ho notato diversi morbosi accenni su questo accappigliamento virtuale svoltosi tra i "due musicisti tra i più notori della scena wave italiana durante gli anni d'oro degli '80". Anche su Twitter ci sono alcuni riscontri. 'Sta faccenda è ora una "notizia" che viaggia via tam-tam, raccontata ogni dove, con tanto di video Youtube a corredo secondo la partigianeria.
Equiparerei la cosa alla notizia di sei-sette mesi fa quando il Capovilla (Paolo) decise con clamore di uscire definitivamente dal Feisbuk con tanto di comunicato stampa ufficiale su alcune riviste specializzate.
Epperò loro due - il Garbo e il Faust'O - sono stati più spontanei e fulminanti nella loro coscienza di essere (ancora) animali pubblici. Meravigliosi. Umani. Veri.
Due veri "stronzoni".

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editoriale di kosmogabri

Prendendo spunto da una discussione sorta altrove, propongo anche qui un dibattito che sinceramente mi sta abbastanza a cuore nonostante non sia una cosa per cui perdo il sonno la notte.
Oltre alle innumerevoli reunion di gruppi storici sorte anche soltanto quest'anno, di questi tempi sembra che stiamo vivendo una sorta di viaggio all'indietro e c'è stato un vero e proprio boom del passato anche nella proposta musicale, con tutti gli annessi e connessi.
Ristampe di dischi storici, concerti tipo il "Don't Look Back" - basati sulla intera riproposizione di capolavori del passato -, riciclaggio di cose vecchie trent'anni, il ritorno prepotente di formati fisici, quali vinili e musicassette, che non si può dire siano spariti totalmente fino all'altro ieri ma di certo non erano la prima scelta di un gruppo per incidere i propri lavori.

Ultimamente mi pare che i musicisti non si sbattano tanto a cercare nuove vie, magari queste sono finite chi lo sa? Però si rifugiano nella facilità di rielaborazioni che strizzano entrambi gli occhi al passato: portando avanti come esempio quello banale del filone indie di ultima generazione, capitanato da quei balordi degli Arcade Fire, che trova il suo presente e futuro nella riproposizione degli stilemi prettamente 80's e facendolo talvolta passare per un atto post-moderno.

Ora, sono il primo ad ammettere in tutta onestà che non so se le vie per l'innovazione musicale siano state interamente battute e che non c'è più niente da fare, oppure qualcosa c'è ma nessuno ha voglia di cercarla. Però, per quanto siano ottime molte proposte passatiste, sogno il giorno in cui, ascoltando un determinato disco, mi venga voglia di urlare al mondo "Buon 2012 ostia!" anziché un rassegnato "Viva il 1982 cribbio!".

Ora la domanda che vi pongo è questa: e se il vero futuro della nostra cultura musicale fosse veramente il passato?
La musica ha veramente finito il suo corso?
Il potenziale innovativo è definitivamente esaurito?
È davvero già stato detto tutto?

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editoriale di ilfreddo

Era un tipo strano, ma complessivamente a posto, che poteva vedere i numeri che per gli altri non esistevano. Non sapeva se fosse una gran cosa quella, e tutto sommato non gliene fregava poi molto. Come del calcio. Abitava nella Milano da bere, nell’era del bianco e nero, ed una squadra da cinque lettere o l’altra, sempre da cinque lettere, gli andava bene. Era strano. Ma dovreste ricordare, c’è scritto solo poche righe sopra, che era a anche un tipo a posto e agli amici piaceva la sua silente compagnia. Lo avevano convinto ed ora era pronto a farsi pure l’abbonamento. No, non per la bellezza dello stadio e tanto meno per l’atmosfera elettrica che caratterizza il prepartita, ma solo ed esclusivamente per quei fanali verdi con i quali si era incrociato. Li cercava ora, mentre prendeva posto, ma davanti a lui v'era solo una cascata di capelli. Apre la bocca da ebete, inclina il capo, mentre pensa a come avrebbe potuto avvicinarsi furtivo con fare finto casuale; una scusa, magari una scarpa da allacciare, per dirle: “ciao!”. Solo un punto esclamativo, perché con due avrebbe potuto pensare che fosse eccessivo, con tre immaginare si trattasse perfino di un potenziale serial killer. Ma con un solo punto esclamativo accompagnato da un bel sorriso da finto angioletto, era falso fino al midollo, forse avrebbe potuto offrirle una coca e poi giù il jolly. "Lo sai - come ti chiami a proposito? - che io vedo i numeri che per gli altri non esistono?" Lei si sarebbe sciolta come neve al sole, convinta di aver trovato quello che da tre lustri (la sua età) non sapeva nemmeno di cercare, ed allora avrebbe sgranato quella kriptonite verde. Avrebbe pure inclinato il visino per essere ancora più avvenente, non serviva, e poi…

Svegliati che è cominciata!” gli dicono gli amici, ridestandolo dolcemente con una gomitata nel costato. Come se quei quattro codici fiscali dai piedi sbilenchi potessero essere più importanti di quel sogno. Un sogno che non si sarebbe mai realizzato e che, proprio per questo, avrebbe voluto procrastinare ed allungare come la pasta per la pizza. Una zappata, che manco un ferro tre di un dilettante, con il cerchio di cuoio che termina un paio di porte da calcio sopra la testa di tutti i giocatori lo fa tornare ai suoi pensieri, ai suoi goffi progetti di conquista. Doveva attirare l’attenzione di quella ragazza, ma essendo timido, non trovò meglio da fare che imboccare la strada più facile ed affollata affidandosi quindi ai piani alti.

Dai stronzi!” prega convinto alzando gli occhi cielo ed invocando l’attenzione dell'inquilino delle nuvole “Fagli fare un gol! Così nella ressa mi potrò avvicinare e cercare di attirare la sua attenzione.".
"Mi dispiace, ma non ti posso proprio aiutare ragazzo, come vedi…" e fa sventolare una schedina "… ho messo 2 su questa!

Dai scarponi“, implora, mentre spinge con la testa una zappata di cross. Bello teso vola verso l’area e poi un’eclissi dai contorni di un enorme e liso giubbotto di pelle. Qualcuno sussurra gol e di sfuggita la vede prendere vita, la bianchissima rete.
Gooooaaaaallll!!!!”.
Uno di quei gridi talmente forti e pieni che sente provenire fuori dal suo corpo e poi eccole lì centinaia di retine. E anche le sue, verdissime, ora lo guardano. Quegli occhioni da urlo. Incazzati.

Che fantasia! Due squadre, entrambe da cinque pidocchiose lettere e pure con la stessa maglietta del cazzo a strisce verticali. Fanculo si dice, mentre lesto sfugge al tentativo di linciaggio della curva!
Fanculo, ripete, mentre sguscia tra decine di arti maligni e nodosi: non vedrò i colori ma i numeri che per voi non esistono, quelli sì!

E’ tutto relativo! Questo è quello che ne conclude mentre rincasa a passo veloce pensando a quegli occhi che forse, a ben pensare, manco erano verdi.

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editoriale di federock

Apri gli occhi in una delle tante giornate di quest'epoca indecifrabile. Accendi la tv e saltando un po' annoiato (già di primo mattino? non è bene) da un canale all'altro noti che se non sono film (sempre meno) o programmi di cucina, già si inizia a dibattere di politica o economia in trasmissioni che penseresti avere tutt'altro taglio. Giornalisti dalla sintomatica mascella e soubrettes che fino a ieri ancheggiavano ammiccanti in un reality o in una televendita, oggi conducono una finestra di attualità politica a tutte le ore. Eh sì perché anche nel pomeriggio la cosa va avanti, tra "programmi demenziali con tribune elettorali" e contenitori più vasti che comunque non si fanno mancare un approfondimento (reale?) politico, passando per tutti i telegiornali, le trasmissioni politiche successive fino ai veri e propri e "sacri" format politici di prima serata (ma anche di seconda), comunque circondati da trasmissioni d'inchiesta o di denuncia a buon mercato dove le notizie "strisciano" rapidamente tra "iene" d'assalto, tapiri e pupazzi rossi.
Tutti, insomma, rincorrono notizie e si rincorrono a vicenda nel darle, gareggiando tra chi "sgamma" per primo un politico affarista o uno approffittatore, un cittadino indignato o uno incazzato proprio. Tutti, ma proprio tutti, anche in trasmissioni, come dicevo, che penseresti avere altri argomenti da trattare o stile da seguire. Ovviamente i giornali non sono da meno e gettano benzina sul fuoco della denuncia con titoloni gonfiati l'un contro l'altro armati. Ogni testata è rigorosamente schierata e confeziona quelle che i propri lettori pagherebbero, e infatti pagano, per leggere.
In questo scenario bollente (in tutti i sensi), ormai anche d'estate - c'avete fatto caso? Prima la politica di questi tempi andava in vacanza, si staccava la spina, ma dall'anno scorso coi mastini del Giornale sguinzagliati sulla casa a Montecarlo di Fini non è più così, e allora giù con la crisi, lo spread, Monti e la Merkel - ovviamente non è da meno internet, anzi. Con la sua rapidità di circolazione divulga notizie a raffica su tutti e tutto, prontamente gettate in pasto ai blog dove cittadini super informati e consapevoli le addentano affamati e le masticano avidamente, bisognosi di sfogare coi denti dell'invettiva tutto lo stress da crisi che li attanaglia. Gente che aveva sempre seguito poco o nulla la politica ora gongola nello sparare a zero su ministri, sottosegretari, dirigenti e chi più ne ha più ne metta, pontifica di macroeconomia e di teoria politica e getta tutto l'astio di cui è capace su intere categorie di persone sull'onda della notizia calda del giorno che una di quelle persone ha appena infangato: politici appunto, ma anche immigrati (per la cronaca nera il discorso è lo stesso e l'isteria collettiva analoga), tassisti, operai, statali, comandanti di nave distratti in un inchino, folli omicidi e compagnia cantante.

La domanda che mi sovviene, e che mi ha suggerito questo editoriale, l'avrete a questo punto già capita: non sarà che in quest'epoca multimediale d'informazione in tempo reale alla fin fine si viva peggio di ieri? Non sarà che ci stiamo consumando e logorando lentamente in una patologica follia generale da troppa informazione? Non sarà che non abbiamo fatto altro che creare cittadini più impauriti e ansiosi e dunque rabbiosi e nevrotici piuttosto che liberi, informati e consapevoli? Viva internet, viva la libera informazione, la circolazione delle idee e viva la competizione tra fonti f'informazione diverse e di segno opposto. Viva tutto. Ma forse non eravamo pronti a maneggiare tutto questo così in fretta.
Forse la nostra vita interiore non è veloce quanto quella che ci circonda.
Forse abbiamo bisogno di quieta lentezza.
Non c'è proprio niente da correre...

"And you run and you run to catch up with the sun, but it's sinking
And racing around to come up behind you again
The sun is the same in the relative way, but you're older
Shorter of breath and one day closer to death…
"

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editoriale di ilfreddo

Una cosa positiva questa crisi l’ha portata: i Maya sono stati estinti dal palinsesto mediatico da un tipo cazzuto che all’anagrafe fa Spread di nome e ci ha garantito che il 2013 non solo ci sarà, ma sarà molto peggiore del 2012.

Un anno fa avevo scritto provocatoriamente che per uscire da questo immenso pantano ci sarebbe voluta una bella guerra: questo infatti è sempre stato il modo con il quale il genere umano ha fatto Ctrl+Alt+Canc per poter ripartire con rinnovato slancio. Quello che allora non avevo compreso è che eravamo già in guerra un anno fa: uno scontro subdolo che, pur senza l’odore del sangue ed il rumore dei bombardamenti, ci stava colpendo in maniera inesorabile e sempre più ficcante. La tecnologia bellica ha fatto in modo che un conflitto convenzionale, capace di coinvolgere le maggiori potenze mondiali, non sia più praticabile e che quindi vengano utilizzati nuovi strumenti: il mercato che con le sue fluttuazioni altro non sta facendo che arricchire gli speculatori ed impoverire chi, come noi, è in una posizione di svantaggio. Siamo in una guerra che probabilmente abbiamo già perso in partenza. La Cina da decenni sta attuando concorrenza sleale potendo praticare prezzi inferiori dei suoi prodotti grazie alla mancanza di tutela dei diritti dei lavoratori ed al loro sfruttamento. L’occidente avrebbe dovuto fare un blocco delle importazioni quando era ancora in una posizione di forza; ma ora che la Repubblica Popolare è il maggior creditore di USA e Occidente e che quindi ha il nostro scroto nella sua mano, non è possibile praticare queste ritorsioni per ovvi motivi. Una stretta farebbe molto male. E’ un lento declino, una guerra nella quale tutto è lecito ed ogni stato cerca di salvarsi o perdere il meno possibile.

In questo momento in Europa la parte del cattivo la sta giocando la Germania: sai che novità. Ma fossimo obiettivi dovremmo ammettere che se potessimo essere al suo posto ci comporteremmo nello stesso identico modo. Qualcuno mica crederà che essere membri dell’Unione Europea abbia in qualche modo accresciuto un senso di appartenenza comune e quindi di reciproca fratellanza? Mica siamo ai tempi del secondo dopoguerra con Schuman, Spinelli, Adenauer e Monnet! Gli Stati Uniti d’Europa non si formeranno mai: questi sessanta anni con il fallimento della Comunità Europea di Difesa, i poteri risibili di Commissione Europea, Parlamento, i perpetui veti nel Consiglio da parte degli ultimi arrivati, uniti ad una politica estera che generosamente si può definire frammentata ed una militare inesistente dovrebbero averci fatto capire che oltre l’interesse economico mai andremo. Non avremo rilevanza politico/militare. La guerra di indipendenza americana al confronto della storia millenaria del nostro continente è uno schiaffetto sulla guancia: la perdita di sovranità degli Stati è fuori discussione, quei confini e quei poteri nazionali si sono formati su decine di milioni di morti. Dovremmo capire che alla Germania in questo momento, oltre le solite frasi di circostanza, giustamente non gliene frega nulla della situazione dell'Italia e della Spagna. Eventuali e futuri ripensamenti saranno solo dovuti al calcolo del danno che un default italo-spagnolo potrebbe arrecare ai tedeschi.

Il debito dell’Italia è di circa duemila miliardi di euro; per dare un contorno a questo mare vi basti pensare che per estinguere questo bel mutuo del cazzo ci vorrebbero gli stipendi di tutti i lavoratori italiani per una quindicina di mesi. La domanda che ci dovremmo porre è come siamo arrivati a questa cifra? Vivendo come se il nostro paese fosse in una fase di continuo boom economico: la classe politica prometteva indebitandosi sempre più e il popolo votava. E’ tipico dell’italiano dare la colpa a qualche d’un altro, ma il nocciolo è comprendere perché siamo noi con la testa sotto l’acqua in questo momento e non quelli che utilizzano la mano sulla nuca del malcapitato. Davvero siamo così stupidi da credere che questo debito sia caduto dal cielo, si sia formato nella notte e abbia preso le sembianze di un mostro europeo chiamato Spread? Qualche persona sana di mente ritiene davvero che la colpa sia dell’Europa e dell’Euro? Anche la Germania ha un debito leggermente superiore al nostro, ma ci sono tre differenze sostanziali: ha una popolazione maggiore sul quale spalmare la cifra, ha un’economia che a differenza della nostra non è ferma da 20 anni e gran parte di quel debito l’ha accumulato per risollevare definitivamente la Germania dell’Est. Questo rende la sua economia più stabile, meno rischiosa e appetibile per finanziatori esteri. E’ più che lecito che la signora Merkel stia sfruttando la posizione di forza acquisita e, non garantendo per gli stati europei in difficoltà, permette allo stato tedesco di autofinanziare il suo debito a tassi irrisori. E’ la guerra e questo stato di cose non mi stupisce per nulla: lo trovo profondamente machiavellico e razionale come è la nostra storia. Quello che invece stento a comprendere è come possa la gente ridere in questo momento mentre ammette di non sapere cosa sia lo Spread, mentre si sfrega le mani all’uscita dell’I-Phone 5, si incazza per la cessione di un fottuto giocatore di calcio dimostrando di vivere in un mondo alieno e non capire cosa stia succedendo. E non sto parlando del vecchietto che pensa ancora alle lire, ma di quel numero enorme di adulti e giovani che non comprendono la drammatica unicità della congiuntura che stiamo vivendo e si preoccupano di cazzate pensando di vivere ancora nell'era del Boom.

Come era quella frase di Spiderman? “Grandi poteri significa grandi responsabilità”. Beh certe volte penso che il diritto di voto sia stato stuprato, violentato e calpestato in maniera ignobile in questi decenni. Sento spesso inveire contro la classe politica, ma ben pochi realizzare che chi siede in Parlamento e ci fa tanto schifo l’abbiamo eletto noi e non è certo stato frutto di brogli. Come delle meretrici, quindi, la maggior parte di noi o si è venduta per un tornaconto personale o, peggio, ha espletato il suo diritto e dovere di voto soppesando pro e contro nell’ignoranza totale. Tutto questo mi fa dire che il voto ha ripercussioni talmente enormi che trovo ingiusto possa essere espresso anche da chi vive fuori dalla realtà, da chi ignora dove siamo, dove stiamo andando, non ha un briciolo di ottica di lungo periodo e non realizza che quel cartoncino può definire l’esito della prossima guerra. Il popolo è una bestia, diceva così un filosofo oscuro e mezzo pazzo (Arthur Schopenhauer), e a ben pensarci non mi trovo molto in disaccordo con lui. Critichiamo chi ci governa dimenticando che per quanto possa fare male rispecchia le viscide caratteristiche del suo elettorato.

Inveiamo contro il governo tecnico dimostrando di avere una memoria cortissima. Lo Spread è un mostro che conosciamo da solo un anno; per gli anni di tranquilla permanenza nell’UE abbiamo potuto rifinanziare il nostro debito a tassi irrisori (è questo il motivo principale per cui siamo entrati!) e la nostra classe politica non ha fatto nessuna riforma strutturale che sarebbe stata necessaria e sostenibile, ma che avrebbe provocato una perdita di consenso elettorale. Questo procrastinare, questo dire "se ne occuperà qualche d'un altro" ha fatto sì che quanto non è stato fatto in decenni a tassi agevolati è stato imposto in fretta e furia da un governo tecnico con un tasso da brivido del 6/7 %.
Il popolo si incazza con il Governo tecnico che ci mette la faccia rischiando la rivolta sociale, ma se si ripresenterà alle elezioni il primo stronzo con lo slogan giusto, magari lo ri-voterà spellandosi le mani.

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editoriale di kosmogabri

Zaireeka > premessa
In questi giorni si parla molto della mia città, Taranto.
Come forse qualcuno sa, ma penso non abbastanza gente, Taranto a parte una delle maggiori, se non la maggiore, base navale del Mediterraneo, è, ancora per ora, la fortunata sede del centro siderurgico più grande d’Europa.
In questi giorni, dopo vari anni di lotte ecologiste a cura di una grandissima parte della cittadinanza, un PM del tribunale di Lecce si è deciso a mettere i sigilli agli impianti che si sono dimostrati, negli ultimi tempi, i maggiori responsabili del disastro ambientale che porta, in base alle statistiche, ogni anno circa ottanta persone (fra cui molti bambini) a morire di varie forme di tumori e affini, prevalentemente alle vie respiratorie. Come conseguenza una grandissima parte degli operai (circa diecimila persone) dell’“Area a caldo” (così è denominata l’area che contiene questi impianti) si sono riversati sulla città per protestare, con il beneplacito della proprietà dell’industria (il Gruppo Riva) e con il sostegno di tutti sindacati uniti (sic), contro il decreto giudiziario.
Ciò ha causato, e sta causando, disagi notevoli a tutta la cittadinanza, e non solo, sopratutto a causa del blocco attuato per buona parte della giornata praticamente di tutte le entrate alla città.
Voglio solo dirvi che oggi (27 luglio 2012) per tornare a casa dal lavoro da un quartiere periferico della città ci ho impiegato più di un ora quando di solito ci metto un quarto d’ora, e mi stavo perdendo per le campagne… e forse non avrei scritto questo editoriale che per qualcuno sarebbe stato meglio. Insomma qualcosa di davvero innovativo, Padroni e Sindacati insieme ai Lavoratori tutti insieme uniti contro un Giudice (chissà Silvio come gongola, non per niente è molto amico di Riva).
E la cittadinanza , anche quella che con l’ILVA non ha niente a che fare, se non aspirare solitamente i sui gas e le sue polveri di scarico, che ci va di mezzo.
Detto questo, tempo fa (novembre 2010) ebbi uno scambio epistolare con l’utente Fosca, in quanto mi piacque l’idea che una Milanese si interessasse, con tale passione, ad un problema di una città sfigata del quasi-profondissimo sud.

Zaireeka > 12 novembre 2010
Oggi ti voglio parlare dell'Ilva, e di tutte le industrie (raffinerie, ecc) che l'ilva (ex Italsider) rappresenta per la mia città. I primi ricordi che mi vengono in mente riguardano i viaggi di ritorno dalle vacanze che io e la mia famiglia facevamo in montagna, sulla Sila calabrese. I viaggi non erano particolarmente lunghi (circa 200 chilometri), ma sembravano lunghissimi, forse a causa della guida lenta di mio padre o delle continue soste. Ed era meraviglioso e fonte di sollievo, per me e mia sorella, quando all'orizzonte, maestose come un tramonto su marte, si vedevano sorgere le prime nuvole rosse fuoco dell'Italsider e delle sue sorelle sui cieli serali di Taranto.
Ne eravamo particolarmente affezionati, eravamo contenti di essere di nuovo a casa.
Una cosa che spesso mio padre mi raccontava quando ero piccolo, quasi con orgoglio, era che la superficie dell'ILVA fosse due volte e mezzo quella di Taranto(o qualcosa del genere).
In pratica Taranto, a ben pensarci, si poteva quasi definire il più grande quartiere dell'ILVA. Ora non so se sia ancora così (se mai davvero lo è stato). Questo perché l'ILVA, almeno a superficie, penso abbia smesso di crescere da un po’ di anni, a causa della crisi economica. Al contrario della "città dei due mari" in continua crescita in quanto a superficie, con nuovi quartieri il più possibile lontano dai suoi fumi (ma dal punto di vista demografico, c'è stata una decrescita in 25 anni di circa 100.000 unità, un po’ a causa del "respiro" dell'ILVA ... un po’ a causa della stessa crisi economica di cui sopra) ...
Una cosa particolare dell'ILVA (ma forse ancora più delle sue sorelle) è l'odore.
Un odore acre che i vecchi della mia città usano ancora per capire quando il vento è cambiato.
Che io ricordi l'Italsider è stata inaugurata da Aldo Moro nel mio anno di nascita, il 1965.
Ora ne sono passati 45 di anni, e forse fra poco chiuderà.
E chissà se sarà la volta buona in cui mi deciderò pure io a lasciare questa mia amatissima e odiatissima città.

Fosca > 30 luglio 2012
L'interesse della milanese che c'è in me per la splendida città di Taranto mi deriva dall'essere legata affettivamente non solo ad una persona, ma ad una intera famiglia di pugliesi da circa cinque anni ed è proprio attraverso loro che ho imparato a conoscerne la storia affascinante e disperante, così come la bellezza incredibile di una città, deturpata da decenni di mal'amministrazione ed interessi meramente privati, e del suo caloroso popolo. Amo la Puglia, amo Taranto e quello che l'ILVA ha fatto alla città e alla sua gente è un disastro non solo ambientale, ma sanitario, culturale e sociale di portata inimmaginabile.
Circa un anno e mezzo fa, nacque l'idea di un editoriale sull'ILVA  a quattro mani : una parte, come dire, romantica scritta da Zaireekaa e una parte polemica e di denuncia che avrei dovuto scrivere io.
Purtroppo ogni volta che ho provato a scrivere qualcosa su questo argomento scottante e che tanto mi sta a cuore, non ho mai concluso molto perché quello che ne derivava era sempre e comunque un "articolo monco", cui mancava ogni volta qualcosa.
Ma dopo avere a lungo tentennato, raccogliendo chilometri di articoli di giornale ed editoriali altrui on line, è finalmente arrivata la inimmaginabile notizia. Ora quel qualcosa che mancava è arrivato tramite la Magistratura, proprio in questi giorni, con mia somma gioia oltre che con grande ed innegabile preoccupazione.
Mi affiderò quindi alle parole di Antonello Caporale da un articolo su LA REPUBBLICA del 30/04/2012 per sintetizzare quello che avrei voluto scrivere io e che sta invece scrivendo la Magistratura per durare a lungo, molto più di quanto potrà un semplice editoriale.
Taranto è una balena spiaggiata, ansima ma non si scuote. Chiusa ad est dagli altiforni dell'Ilva, ad ovest dal nuovo porto della Marina militare, è una città bucata nel suo centro, i palazzi sono denti cariati, svuotati, con i tetti sfondati. Taranto è una città bellissima, ma non lo sa, non ci crede. Ha due mari che cingono un anfiteatro naturale, curva sull'orizzonte: isole davanti e uliveti alle spalle. Lo Jonio, il Mediterraneo, la civiltà dorica, i miti greci. La beltà può espandersi o inselvatichirsi fino a divenire irriconoscibile. I tarantini, probabilmente anche per loro merito, oggi piangono, sono cuori infranti. Va al voto la città che è stata la più indebitata d' Italia, con un default civile ed economico da paura. Dissesto di bilancio alla cifra record di quasi un miliardo di euro, livelli di inquinamento da diossina e benzopirene trai più alti di Europa, tasso di mortalità oltre la media nazionale. A Taranto muoiono all'anno circa trenta persone in più per neoplasie polmonari rispetto alla media del resto d' Italia: due tarantini al mese si arrendono alla vita senza curarsene troppo. "Che me ne fotte", hanno detto per anni. Inchiodati a quella frase, hanno atteso il conto. Che è stato salato, troppo.". >> leggi il resto

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editoriale di CACCAMO

Tutti i principi morali universali sono oziose fantasie. (Donatien Alphonse François de Sade)

Non si scappa mai dall'uniforme, dalla "macchina" (Stato). Fin troppo bene sappiamo che una volta tornati a casa il nostro dovere, la nostra macchina da produzione si farà sempre più sentire. Bisognerebbe essere cretini per non sentirla, ma dal momento che cretini non siamo (o fingiamo di esserlo), ogni giorno, 24 ore su 24 sentiamo la collettività, la sentiamo nella rivoluzione, nell'amore, nella voglia. Quindi si decide tutti insieme: basta con l'informazione, basta con l'odio, basta con la paura.
Ci si ritrova tutti al riparo a parlare con raccapriccianti censure della "grande omologazione". La grande omologazione, cos'è? E' la tua casa, sono i tuoi dubbi, è il tuo capo, è il tuo lavoro (quasi sempre sbagliato), disgraziatamente in alcuni casi è l'infanzia, ancora peggio è la maturità, il giudizio... La grande omologazione no?

Parafrasando Monos e Una e il loro colloquio, cercando disperatamente di portare ai giorni nostri (!?) quel momento di intimità tra quei due innamorati; ci sono stati anni, nei quali il vigoroso poeta - lo storpio, il genio - combatteva per principi ormai ovvi oggi alla nostra mente illusoriamente non condizionata. Resistenti e morenti nell'utilitarismo, questi uomini, proprio questi uomini - tipi strambi -, ebbero granché da piangere quando i bisogni della collettività non furono più semplici. Eravamo tutti caduti nel più triste dei nostri giorni tristi! L'arte aveva raggiunto un valore supremo stringendo catene intorno all'estetica e al turpiloquio intellettuale, e una sua parte divenne in qualche modo borghese. In quei giorni, l'uomo non era più in grado di ignorare la bellezza della vita, del lavoro, dei titoli, delle ambizioni, dell'eleganza. Esultò infantile. Purtroppo aveva raggiunto il predominio su tutte le ragioni.

Nel frattempo sorsero città fumose, le foglie verdi e gli alberi muoiono, non esiste più l'uomo nudo che senza vergogna si lascia andare all'impulso: esiste la macchina. La natura divenne deformata, e non poté più compensare la triste esecuzione delle arti, ma l'uomo non poteva sapere e purtroppo non poteva soccombere. Divenne ancora più stupido quando cercò di avvicinare i doveri a Dio, alle sedi e le istituzioni a suo nome. Qualcuno si accorse (Majakovskij?), che la collettività aveva provocato la distruzione del poeta bruttarello, lo aveva castrato e senza esitazione proseguì con il pervertimento del gusto. Nessun eccesso, nessuna anestesia del senso del dovere avrebbe fermato quel processo.
Arrivando a quasi mezzo secolo fa, benché si litigò abbastanza su cosa l'"etica" dovesse seguire tra la "meravigliosa castità" o la "santa incontinenza", il prete tagliava le pellicole non appena i due attori si baciavano. Andò bene fino alla fine degli anni '60, ma anni dopo l'utilitarismo si rifece sentire, a casa del nemico! La rivoluzione! I giovani contestano e si staccano dalla cultura, l'azione creata porta le armi del capitalismo di quegli anni, e l'uomo incredibilmente più stupido lo rafforza. Picchia, mena, protesta, spara, rapisce.

E la macchina? la macchina è ancora qui, perché non siamo malati, anzi, non siamo I malati (io mi sforzo di esserlo da sempre). La collettività adesso si riveste nella squalifica dell'individuo che non è più carne, che non è più sogni, che non è più istinto. Svalutazione. Svalutazione a scuola, svalutazione a casa, svalutazione a lavoro, svalutazione della carne, svalutazione delle ossa. Quindi, qualora un uomo abbia in mente una libertà, abbia in mente l'arte, dovrebbe essere affrancamento dalla collettività, e non produzione nella collettività! E anche la musica, con buona pace di von Leibniz, che la sottraeva alla coscienza, non è più la stessa.
Alcuni sono ancora vittimisti, alcuni sono ancora rimasti a esultare, alcuni evitano di piangere, alcuni hanno paura. Ma la carne è svalutata perché deve produrre, è troppo cara, e allora la carne infierisce sull'altra carne, la uccide per un parcheggio, la violenta fino a ridurla all'invalidità, diventa nera perché stanca, non dona ma sottrae momenti di gioia ai suoi simili, quando li prende per il culo a lavoro, quando umilia alla lavagna i più piccoli della specie, quando si riduce al sarcasmo, quando non è capace di slanci...

Forse dovremmo essere incontinenti, o impegnarci a esserlo.

immagine di René Magritte - The Murderer Threatened (1927)

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editoriale di kosmogabri

Tanti (ma proprio tanti) canuti "tetteschi ti germaniah" sostengono che non erano a conoscenza di quanto accadesse all'interno dei campi di "lavoro lacrime e sterminio". Questi nonnini e nonnine sono decisamente troppi per poter pensare che mentano tutti con la speranza di sciacquarsi la coscienza. Alcuni di questi sostengono tra l'altro che la loro ignoranza riguardo alla cosa sia in realtà un'aggravante e non una scusante.
Io sto con loro, ci credo che non sapessero nulla, e credo pure che questa ignoranza li renda complici dell'olocausto.

Ora una semplice domanda: che cosa ne sappiamo noi di quello che accade all'interno dei nostri centri di permanenza temporanea?

Olocausto 2.0 di sicuro no, però forse avremmo il diritto, e il dovere, di saperne di più.

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editoriale di turkish

[…] Chi ci va a letto a me fa pena, è come approfittarsi di uno che sta sulla carrozzina, come andare con con un malato. Chi va con la Tommasi ed è convinto di essere figo è il più grande sfigato della terra. Anzi se lo vedo gli darei uno schiaffo, lo prenderei a botte. Chi ha fatto il film con lei è vergognoso, perché è vergognoso fare soldi con lei.
(Fabrizio Corona)


La Spietata Logica delle Farfalle

by Emofiliaco (3 luglio 2012)


L'odio è un carburante nobile?


Mentre la pasta lessa nell'acqua bollente e preparo un condimento a base di olio extra vergine d'oliva, tonno, capperi, carote à la julienne, scorza e succo di limone in cui le farfalle una volta raffreddate verranno immerse e degustate alla radio passano "Let your Body Decide".

Ora io non conosco il testo di questa canzone ma il titolo, somma sintesi del potere del desiderio fisico, e l'analogia secondo cui ogni tipo di pasta necessita di un limitato raggio d'azione nella scelta di un condimento continuano a picchiarmi in testa da qualche giorno.


Nella mia mente birichina e un po' malvagia si fa strada il dubbio che, anche sorpassati archetipi alla Tersite, la forma in cui veniamo al mondo se ne sbatta del concetto di unità tra anima e corpo e finisca per dettare le regole.

Non voglio essere frainteso: non è la Kalokagathia il concetto che ho in mente. Se fosse così io dovrei essere la persona più buona, proba, pia e onesta di questo misero "T in O" ed invece mi trovo ogni giorno a convivere con il lato oscuro della Forza.


Più che altro sto pensando di come il corpo possa diventare una maledizione e mentre penso questo, con in sottofondo i The Ark e con un retrogusto al cappero, alcune mie amiche anarco-insurrezionaliste di stampo femminista mi invitano a prendere coscienza del caso "Sara Tommasi". Io non so come fosse questa ragazza prima che l'instabilità mentale prendesse possesso del suo corpo per donarlo agli sciacalli di turno e onestamente non mi interessa saperlo e so persino che al mondo probabilmente ci sono casi di sfruttamento peggiori. Sempre si possa porre una scala al peggio.


Quello che so è che, in un certo senso, questa ragazza, con tante altre meno famose certo, è stata lasciata sola: vittima di una spietata logica che fa del suo corpo la sua maledizione. Di un potere che se ne sbatte di tutti noi.


Ora rileggete la domanda iniziale, datevi una risposta, se potete, e perdonatemi la metafora del titolo.


Louder Than Love

by Bartleboom (11 luglio 2012)


Ho visto il video porno di Sara Tommasi.

Essenzialmente perché sono un porcellone. Poi, anche perché 'sta storia della Tommasi mi ha in qualche modo colpito.


Mi spiego. Non credo che Saretta nostra sia mai stata un fulmine di guerra, nonostante (o forse proprio a causa di) la tanto sbandierata laurea alla Bocconi. Ma allora avrebbe potuto fare la fine delle mille e una oche che affollano i palinsesti televisivi, finendo nel dimenticatoio o riciclandosi come testimonial di pentole, materassi, spremiagrumi e attrezzi improbabili per il cardio fitness.

E invece no.

Sinceramente non ricordo un’altra vicenda simile. Non ricordo un’altra parabola discendente tanto rapida. E tanto triste.


Comunque, dicevo: ho visto il video porno di Sara Tommasi.

E sono andato a leggere (quasi impossibile non farlo in questi giorni…) i commenti della gente su facebook, sui siti dei provider di posta elettronica, sulle versioni on line dei quotidiani. E ho trovato una cattiveria inaudita.
Magari è giusto così. Magari va bene che la Tommasi venga trattata come carne da macello, sfottuta, derisa, umiliata, esposta al pubblico ludibrio, senza appello, senza attenuanti, senza remore.

Ma magari sarebbe stato altrettanto giusto mostrare, chessò, forse soltanto un minimo di pietà per una ragazza che, evidentemente, sta male.


Ho visto il video porno di Sara Tommasi, dicevo. E mi ha fatto due palle così.

Se l’idea era quella di indurmi al di là di ogni ragionevole dubbio a procurarmi una sontuosa slogatura multipla da autostantuffamento alle articolazioni polso-gomito-spalla, beh… qualcosa, da qualche parte (magari anche nelle mie mutande) non ha funzionato.

La verità è che c’è troppo porno intorno a me. E sento che inizia ad esserci troppo porno anche dentro me. Su internet, in tv, nella testa della gente. Tutto è troppo esplicito, troppo esibito. E quindi, alla resa dei conti, scontato.

A 13 anni mi ammazzavo di pugne se intravedevo il reggipetto della mia compagnia di banco cessa. Oggi per 10 euro riesci a farti fare un pompino dall’insegnante di matematica.


Temo l’escalation, un processo distorto per cui un giorno non ci basterà più semplicemente “fare l’amore”, ma non avremo altra scelta che farci una “cazzo di scopata”. Perderemo il gusto di farlo con calma la domenica mattina, con gli occhi ancora stropicciati e l’alito cattivo, e ci ecciteremo solo se la webcam sarà accesa. E finiremo per essere comunque insoddisfatti. Perché non ci sarà più niente da immaginare e desiderare.


Ho visto il video porno di Sara Tommasi.

E quasi quasi rimpiango il catalogo del Postalmarket.


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editoriale di zaireeka

Sono giorni questi in cui mi prende la nostalgia del tempo che fu.

L’altro ieri ascoltavo Lucio Dalla, l’album con “Balla Balla Ballerino” e “Cara”.
Ricordo perfettamente quando lo comprai appena quindicenne, la sensazione che solitamente provavo quando tornavo verso casa con un vinilone nelle mani, assaporando il gusto del primo ascolto.
Quei soldi me li dava di solito mia nonna, a fine mese quando prendeva la pensione, se non ricordo male erano sempre cinquemila lire.
Ascoltando a metà album “Siamo Dei” mi è capitato di pensare che Lucio Dalla negli Ottanta aveva 37 anni.
Addirittura dieci in meno di quanti ne ho io ora.

Considerando in aggiunta che Dalla non è più fra noi, e che questi anni in fondo mi sembrano volati, mi sono reso conto, così, sbadatamente, che forse era il caso di fare il punto della situazione, di fare un resoconto degli anni trascorsi, ed in particolare, visto quello che si sente in giro, degli anni trascorsi da cittadino di questa amata (e amara) terra in cui mi è capitato di vivere da quando sono nato, l’Italia.
L’Italia, spinta dall’onda elastica dello spread BTP-BUND, sta finalmente cambiando, non ci sono dubbi.
Per cui, prima che mi giri e non la trovi più, mi dedico alle rimembranze.

Il problema è che nonostante, come molti, abbia spesso bestemmiato contro i difetti tipicamente italiani, gli sprechi, gli statali messi negli uffici per scaldare la sedia, il tira a campare istituzionalizzato, per molti anni della mia età adulta ed anche della mia adolescenza... in fondo la “mia vecchia” Italia già un po’ mi manca. Di quella Italia ora mi rendo conto di avere tanti ricordi.

Ricordo che da bambino, nei primi anni Settanta, il giorno della Befana io con mio padre e mia sorella eravamo soliti andare all’Ufficio Centrale delle Poste Italiane nella mia città, presso cui lavorava un fratello di mia madre, per ritirare il regalo che la vecchietta sulla scopa, assunta per quel giorno speciale dalle Poste, lasciava ai bambini meritevoli.
E fra i meritevoli c’erano anche tanti che non avevano né papà né mamma che lavoravano lì.

E poi c’era il figlio di un maresciallo del mio palazzo, anche esso marinaio di carriera, andato in pensione a metà anni ottanta, con buonauscita d’oro e con tanto di plauso della nazione intera, prima ancora che la nave su cui si era era imbarcato per assicurare la pace in Libano attraccasse a Beirut.
E poi c’era, anni fa, il nuovo Ente Nazionale per la cura delle Barbabietole assunto presso il figlio del Ministro dell’Agricoltura.
E po c’erano, qualche mese fa, i Ministeri del Nord.

Ora forse le cose stanno cambiando.

Si parla di tante cose, delle promesse di "Supermario" Monti, di diecimila statali in meno, di accorpamento delle province, di ospedali che non regalano più siringhe e medicine comprate a prezzi esorbitanti dall’azienda farmaceutica amica del Primario, "tanto paga papà"…
Sono sicuro che questa è la volta buona, e ne sono soddisfatto.

In fondo, se a breve i bambini dovranno portare alle Poste, il giorno della Befana, i regali avuti a Natale perché i genitori possano continuare a fare i postini, è solo un dettaglio.

Al massimo, se non sono d’accordo con il nuovo corso, potranno sempre emigrare con i loro genitori in un altro posto, come cantava il buon Bennato, quando ero piccolo e felice, al tempo dell’Impero del Bengodi.

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editoriale di enbar77

Ce ne ho messo di tempo per decidere. Dopo attente valutazioni che non ho voglia di evidenziare ho dovuto concludere con una necessaria separazione. 90 su 100 non frega un cazzo a nessuno ma sono convinto che una collaborazione non può durare troppo e per evitare che diventi stantia o si trascini affannosamente, ho pensato, non senza un certo dolore, che era meglio separarsi da un sito che, comunque, mi ha regalato delle emozioni.
Debaser è principalmente un sito dove si condividono emozioni musicali e il mio commiato sarà, per chi voglia contagiarsi, una volontaria esternazione delle stesse. Frammenti sonori, spesso trovate geniali, armonie che almeno una volta nella vita vanno a mio avviso vissute e che, personalmente, mi fanno emozionare ogni qualvolta le ascolto.

Dall'incursione metallica di Pensieri e Parole alle trombe ovattate nel finale di Non è Francesca; la formica di The Baby e gli "Io e te" di Italian Violence; i bambini della Tartaruga e i ragazzi che vogliono salvarsi dalla Magnifica Gente; il complesso bandistico del Re e l'abbrivio in sordina di Thougher Than The Rest; il pianoforte di She's a Rainbow e il commento per pianoforte, batteria e violoncello di Ruby Tuesday; il "na na na" di When The Night e la miscela elettrica del medley finale di Red Rose Speedway; l'ingresso a ottone battuto di chi ha Bucato La mia Vita e l'accompagnamento di Lago Rosso; il finale per pianoforte ed archi di Same Time Next Year e l'incursione circense di Cage.

Ancora, il finale dissolto per organo e basso di It's Just A Thought e quello inquietante per fiati e percussioni di Never Let Me Down Again; gli assoli di Till There Was You e di And I Love Her; l'abbrivio di West End Blues e le sirene di Star Spangled Banner percepite a Woodstock; l'inverno elettrico con ape regina dell'Ottico e le spoglie nelle bandiere sulla Collina; l'invito a guardarsi intorno del recente Meraviglioso e le percussioni clownesche di Renoir prima maniera; l'intermezzo per vibrazioni tedesche dell'Oceano Di Silenzio e l'accompagnamento in metallo del Mantello E La Spiga; l'abbrivio del Sgt. Pepper's e tutto ciò che gli ruota attorno.

Ancora, l'orchestra per fiati e polvere bruciata dal sole di Atom Heart Mother e la frase per violoncello di Yesterday; gli assoli dello zingaro belga chiedendomi come diavolo abbia fatto con una mano resa fasulla dal fuoco; l'organo rapido di In my life e l' "It was" dell'inizio della primavera; lo xilofono tribale di Stranizza D'Amuri e i ringraziamenti infiniti per archi della Valigia Dell'Attore; i drogati del Recitativo e i bambini nel Corale del re infelice.

Ancora, il finale per clarino e sax di Hemingway dove chissà perché immagino un lento tra Corso Salani e Licia Maglietta diretto da Kieslowski; i fiati con riverbero di Philip Glass e le colonne sonore di Alessandro Cicognini; le evocazioni dialettiche di Sidun e Creuza De Ma; i cori e l'ingresso per percussioni e magia di Hey Jude e quella volta che Ringo dimenticò le bacchette per creare l'abbrivio di Let It Be; il lamento battuto di The Doll Is Mine e quello in coda di For The Damaged; le dita strette di Ninnananinnanoè e il basso di Suonno D'Ajere; l'intermezzo di Appocundria e il profumo di mare di Donna Cuncetta; il pa pa pa di God Only Knows e il commento per fiati e calore di Maybe The People Would Be The Times Or Between Clark and Hilldale; l’assolo dell’Herald e gli archi orientali del Rising Sun; l’intermezzo corale della Prophet‘s Song e il Konomama Iko di Teo Torriatte; il “maybe this time” di Wanderlust e l’assolo di No More Lonely Nights, con gli ettolitri di lacrime al seguito.

Ancora. la chitarra delle Cinque Anatre e l'invito a raccontare altre storie del Vecchio E Il Bambino; lo strazio popolare di Saglie Saglie e la morte per tristezza dello Scapolo; White Summer registrata al Playhouse e il finale per organo elettrificato di Child Of Vision; quel pianoforte bianco che suona mentre la stanza viene illuminata dal sole mattutino e il "soooo free" di George; il wah-wah di Beware My Love e il tentativo di girarsi per chi Cerca 'e Me Capì; il finale di We Got Married registrato al Wembley e quello di Things We Said Today a Madrid; la fusione di voci di Goodbye Stranger e quella senza donne di She's My Kind Of Girl; il refrain per coro e fiati di Here Today e i pinguini di Tomorrow Never Knows…

E' difficile smettere, ma penso che possa bastare.

Un saluto ed un abbraccio fortissimo a tutti coloro che mi hanno sostenuto e de-amato, specialmente i fedelissimi. Un ringraziamento affettuoso a coloro che mi hanno criticato negativamente, ma con costtrutività: c'è sempre da imparare qualcosa. Un cordiale vaffanculo a coloro che mi hanno attaccato con protervia, violenza ed offese gratuite: con la speranza e qui è necessaria la formula dubitativa, che prima o poi capiscano che l'umiltà e la correttezza pagano sempre.

Grazie di tutto Deb! E chissà, magari a presto...

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editoriale di Geo@Geo

Forse non tutti sanno che nei primi quaranta giorni di vita l’embrione, indipendentemente dai cromosomi che possiede, è neutro: infatti sono presenti sia l’abbozzo dell’apparato genitale femminile, sia l’abbozzo dell’apparato genitale maschile. In poche parole niente patatina e niente pisellino.

Solo a partire dalla sesta settimana di gravidanza si incomincia a distinguere qualcosina, guidata dalla presenza o meno del cromosoma Y. Quello femminile, insomma, rappresenta il sesso “di partenza”, una specie di strada obbligata per lo sviluppo embrionale, perché l’embrione diventi maschio occorre l’attivazione e la presenza del cromosoma Y(e pure di un altro gene, ma questa non vuol essere una lezione di genetica).

Ci sarà già qualcuno che si chiede dove vuole arrivare lo scrivano, ebbene è semplicissimo: non gliene frega niente a nessuno sapere di che sesso sei, tanto conta solo avere un Y. Questa è l’unica cosa che conta, anche nel 2012.
Chissà quante XX si saranno sentite dire: “Bene, brava, fai questo proprio come un XY!”. No, belli, lo faccio perché lo so fare: non sono carini i termini di paragone e le capacità non si misurano con il pisellino (quello lo fanno già da soli, i maschietti!). Adesso che faccio memoria, questa frase me la sentii dire molti, molti anni fa e fu detta con l’intenzione di fare un complimento superlativo e doverosamente appagante: purtroppo oltre che una XX, sono geneticamente predefinita una stronza megagalattica e risposi come meglio potei per non scadere nella maleducazione.

Credo che si incominci a capire il titolo, ma non perché sia poi così criptico, no no, semplicemente perché è una domanda che mi sono dovuta riformulare pochi giorni fa e questa è la “vera” sorpresa: dopo più di trenta anni non abbiamo fatto alcun passo in avanti, care le mie XX, e per favore adesso non ditemi, cari i miei XY, che siamo le solite piagnone e femministe di m***a.

Insomma, è veramente l’Y che fa la differenza o è solo comodo che si pensi così?
Fermi tutti ho la risposta: la colpa è di mammà, che durante la gravidanza ha fumato, bevuto e straviziato, ma solo dopo l’ottava settimana, selezionando così quegli Y che nel futuro faranno la differenza!

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editoriale di Precisino

Per scrivere un editoriale, bisognerebbe aver qualcosa da dire.
Il problema è che io non ho nulla da dire.
O meglio: ne avrei di cose da dire.
Ma perché?
Oggi l’unica forma di comunicazione sta nel non detto.
Asciugare. Come un tempo la pasta al sole.
Tutti parlano di tutto. “A schiovere” (letteralmente “a spiovere”, significativamente “a cazzo di cane”), come si dice dalle mie parti di un'altra vita, sovente, senza cognizione di causa e, soprattutto, senza pudore.
Abbiamo perso il senso della foglia di fico.

Un mio amico filosofo, morto troppo vecchio per entrare nel mito e troppo giovane per passare alla storia, diceva che l’umanità si poteva salvare solo con un bel periodo di oscurantismo, una trentina d’anni almeno (ed erano appena gli anni ’80, sarebbero già finiti!). Il non sapere nulla di nulla. “Via dal tanfo, via dal tanfo e per le strade...”. L’inconsapevolezza leggera della vita. Il rendere evento il parto d’un maiale, o la moria di polli del tuo vicino. L’apprezzamento della stilla di sudore prodotta da un corpo affaticato, teso non allo scolpire addominale, ma al semplice faticare.
Ma attenzione: lui non era un luddista, come non lo sono io d’altronde, ma aveva i piedi ben piantati nella terra e, tra le rughe precoci, gli scorreva il mar Mediterraneo. Era un operaio, e amava gli Stones, che aveva visto dal vivo a Napoli nel 1982, carico di sogni suoi e “endovenati”. Vi dico questo solo per allontanare, eventualmente, l’immagine del Buddha de “noantri” o del JimMorrison “der Tufello”.

Un semplice uomo. Che errava (nel doppio senso del verbo) e pensava semplicemente col solo contenuto del suo cranio.
E oggi riderebbe, come vorrei essere in grado di farlo io, senza protervia perché non era roba sua, di tutto quello che si sente in giro.
Ma, d’altronde “oggi chiamano filosofi sé stessi, gli insegnanti di filosofia”… tre puntini sospensivi come da copione.

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