editoriale di emofiliaco

Probabilmente sarò démodé però credo ancora nel motto “Conosci il tuo nemico per poterlo combattere.”.
Questa caratteristica fa sì che ogni giorno passi un po’ del mio tempo a leggere, sul web ma anche in cartaceo, giornali e altri prodotti editoriali che considero deleteri per l’umanità. Lo stesso vale pure per Tv, Radio e altri media. Va da se che spesso nel pattume possa crescere, se non fiori, qualche erbetta e quindi mi capita di trovare spunti di riflessione se non qualche punto d’accordo/contatto.

Oggi mentre leggevo un “quotidianaccio” milanese mi sono imbattuto in un vero genio del pensiero contemporaneo: in un articolo dedicato alla nuova edizione del talent show culinario “Masterchef” uno dei tre “giudici” (non ricordo quale) ha espresso più o meno questo concetto (vado a memoria cercando di preservare il significato “intrinseco”): il nostro è un talent diverso perché non è come quelli musicali che se sei stonato sei stonato e stop, qui chiunque riesce a cucinare (anche se non è detto che lo sappia fare) e quindi pensa “tanto vale provarci”.

Ora io considero come uno dei mal del secolo (subito dopo, come già detto, l’insoluto di pagamento e il relativismo) i talent show: beceri prodotti di protagonismo solipsistico da parte di personaggi che altrimenti sarebbero a cogliere le “maruzze” (televisivamente parlando) che tra le altre cose discendono direttamente dal desiderio voyeuristico del popolino che una decina d’anni fa ha fatto germogliare i reality (show).
Aggiungo che ho cominciato a mal tollerare questo fiorire di programmi culinari in un onanismo gastronomico che ha fatto nascere dei veri e propri mostri “papilliferi”.

Ma il punto non è questo perché quello che mi lascia perplesso è che uno che, teoricamente, dovrebbe saper cucinare (e quindi conoscerne le regole: perché ci sono e piuttosto complesse) visto il “ruolo” possa solo svilire con un tale parallelismo quello che è uno dei modi più efficaci di donare felicità (e dal mio punto di vista pure di esprimere talento artistico).

Ok. Le attenuanti forse si trovano nel fatto che non è quello che realmente pensa ma semplicemente porta alla luce quello che potrebbe essere un pensiero diffuso ma il dubbio enorme rimane e si contorce nello stomaco come la pasta mal lievitata di una pizza mangiata a mezzogiorno (non si fa!).

Intendiamoci: tutto sta da quale pulpito proviene la predica. Io sono “cresciuto” a pane e tv locali dove veri maestri della cucina tradizionale regionale badavano al sodo (e scusate il gioco di parole) e soprattutto non cucinavano in abito da sera (e a querelle su gatti in umido avrebbero reagito come chiunque, armato di buon senso e umorismo, dovrebbe fare: con una risata) e non usavano termini come “disgustato”.
Apparire forse è tutto e la forma sta sconfiggendo la sostanza ma rimango convinto che eleganza e competenza possano convivere: il problema è capire è chi non vuole che ciò succeda.

Ah… il titolo?
Secondo la commedia “Sapori e Dissapori” la risposta è “burro, burro e burro.”.

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editoriale di kosmogabri

Cioè, voglio dire, voi mi capite. Non è che per forza si riesca sempre ad avere delle cose interessanti da dire. Contemporaneamente non è che si abbiano sempre delle cose interessanti con cui controbattere o solo dare un parere. Se si chiede di condividere ok, ci sta. Ma se semplicemente si parla di emozioni, di cose personali, idee e pensieri, non è che per forza si debba dare il proprio giudizio, pensando magari di avere ragione sui pensieri degli altri. A volte il silenzio vale più di mille parole. A volte il silenzio invece fa male come e più di un calcio nello stomaco.

Penso a quella volta che camminando per strada ho visto scritto su un muro “Un giorno io ho cagato qui!” e c’era una freccia che andava ad indicare un punto verso il lato basso della strada. Divertita e incuriosita (sono semplice, a me la cacca fa sempre ridere) ho potuto osservare le diverse reazioni della gente che passando la leggeva, essendo ad altezza occhi: chi commentava scandalizzato, chi rideva di gusto, chi si lamentava con indignazione e chi addirittura scattava foto. Qualcuno poi non ha mostrato alcun interesse, altri non l’hanno manco vista.

Solo dopo qualche giorno è apparsa di fianco la scritta “Bravo. E io un giorno ho letto sta’ cagata!”.

Ce n’era bisogno? Si. No. Forse. Voi cosa ne dite?

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editoriale di isidax

"Io vedo poco e devo portare gli occhiali che a me non piacciono, perché sono già brutto e mi fanno diventare schifoso.
Vorrei chiuderli nel cassetto senza mai più riprenderli, ma non posso.
A me non piace portare le camicie perché mi danno fastidio.
Pensando a come mi devo vestire alle nozze di mio zio Angelo io e mia mamma litighiamo perché lei mi dice che dovrò portare la camicia.
Invece a me piace portare i maglioni alla dolcevita perché quelli non mi grattano il collo.
Sono piuttosto timido e quando mi dicono qualcosa mi metto a piangere.
Vorrei proprio darmi delle sberle!
A me invece piacerebbe essere robusto, coraggioso e felice.
Mi trovo molto bene nella mia scuola alta e robusta, ho dei compagni buoni, scherzosi e, certe volte, asini.
La mia maestra è buona, bassa coi voti ma io che sono piuttosto bravo ho anche parecchi dieci, nove e otto.
Se cambierei questa scuola io diventerei pazzo, perché qui mi trovo più bene di un re, ma purtroppo fra un anno e mezzo la devo lasciare per andare alle medie, come tutti gli altri ragazzi.
Dietro al mio banco c'è Massimo S., un ragazzo alto, simpatico ma un poco stufone, perché allunga sempre le gambe fino sotto la mia sedia e mi fa solletico.
Desiderei che non mi faccia più solletico, perché io lo soffro molto.
In storia e geografia ho un voto non molto bello perché, mentre studio, mi perdo via con le mosche che girano intorno al lampadario e con i cani che abbaiano nei piazzali..."
9 Marzo 1972

Ricordo sempre quella mattina a scuola, dopo la ricreaziona la maestra decise di farci giocare nel cortile.
Era una luminosa mattinata di Maggio, Mario se ne stava , al solito, un po' in disparte poi disse :"Signora maestra... mi fa male la testa." Il bidello lo accompagnò a casa, poi l'anno scolastico finì senza che lui tornasse.
Ancora oggi, dopo quarant'anni, ogni tanto penso a lui, al suo sorriso timido, ai sui capelli biondi e alle, ormai solite, dieci calle bianche che da quarant'anni sono lì, sempre fresche, sotto la suo foto e il suo nome.
Mario d'anni dieci.

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editoriale di mauro60

L’Uomo è portato a pensare di essere il fulcro delle Cose. L’Uomo pensa: “La cosa più piccola che esiste è quello che possiamo vedere con i più potenti microscopi a disposizione o quello che la nostra mente può immaginare di studiare.”. Ed anche: “La cosa più grande è quella che i più grandi telescopi possono rilevare o che la nostra mente può immaginare di studiare.”. Risultato: l’Uomo pensa di essere più o meno al centro di un segmento che rappresenta l’Universo, figurato - idealmente per intenderci - congiungendo l’entità più grande a quella più piccola concepita. Il problema è che quasi sempre l’immaginazione è ridotta.

Quando avevo circa quindici anni lessi una storia a fumetti messa a chiusura di un giornalino di supereroi della Marvel Comics. Un racconto “illuminante” per me, e faceva più o meno così: in un lontano futuro una spedizione di uomini parte con un astronave e va nello spazio profondo con l’obiettivo di scoprire dov’è il confine dell’Universo e cosa c’è oltre, se c’è qualcosa. Dopo varie peripezie la squadra di astronauti si ritrova ad avere lì davanti il confine dell’Universo (non mi ricordo come fanno a capirlo ma prendiamola così). Chiamano la base sulla Terra e dicono: “Ci siamo, questo è un momento emozionante, fra poco vi diremo cosa c’è oltre: il Nulla o Dio.”. L’ultimo disegno del racconto fa vedere una piccolissima astronave (cioè loro) che, uscendo da un pallone, si ritrova in un enorme campo di calcio.

Morale: il nostro Universo, che ci pare così grande e infinito, se noi non ponessimo l’umanità al centro del mondo potrebbe essere un niente in rapporto a ciò che Esiste. Un punto qualsiasi, all’inizio, alla fine o in posizione iesima sulla linea immaginaria di ciò che E’. Lo spazio, il tempo, è tutto relativo. Un senegalese che ti si avvicina e ti offre un accendino da comprare e che per far vedere che l’oggetto funziona gira la rotellina e fa schizzare le scintille prima dell’accendersi della fiamma, bene, quell’evento che per noi ha dimensioni piccolissime e una durata di qualche decimo di secondo potrebbe essere l’arco di esistenza di un Universo, comandato da proprie leggi fisiche che ha durata, per chi c’è dentro, di miliardi e miliardi dei loro “anni”.

Mi vengono ancora i brividi a pensare a quei momenti in cui, ragazzo, avevo scoperto questi nuovi orizzonti, non tutti compresi a quel momento, ma che sarebbero destinati ad essere nel tempo punti di riferimento del mio modo di ragionare e di affrontare le cose.

Noi siamo niente in confronto alla vastità dell’esistente. E’ giusto che gli uomini studino, scoprano, cerchino la verità e le leggi della Natura, ma lo devono fare sapendo che serve fino a un certo punto perché non potremo mai avere la pretesa, coi mezzi che abbiamo o che avremo nel futuro, di rispondere a domande tipo: “Dove finisce l’Universo?” “Come è nato?” “Quando finirà?” “Chi o cosa l’ha creato?” Solo dannate ipotesi.

Non dico che l’umanità non deve tendere a studiare e a cercare risposte, fa parte della propria natura la fame di conoscenza e serve al progresso, basta però che lo faccia tenendo presente con la dovuta umiltà che l’Uomo è una piccola, infinitesima parte del Mondo. E con questa consapevolezza e umiltà si deve rispettare, amare e vivere. Siamo un mattoncino di questa magnifica Realtà: che l’abbia creata Qualcuno che ci ama o, come io penso, Qualcosa che ci ignora, per certi versi ha un’importanza relativa.

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editoriale di ilfreddo

Il problema è che ogni bipede, in quanto governante e re assoluto del proprio agire e pensare, è condannato a credere di avere sempre ragione. Se commettiamo un errore le circostanze eccezionali, o le mancanze altrui, giustificano quel comportamento anomalo rendendolo inevitabile e quindi accettabile. Non possiamo essere parte del problema che, giocoforza, va ricercato all‘esterno nei meschini e riprorevoli comportamenti del resto della popolazione. Ma se ognuno ha questa cognizione di sé, come è possibile giustificare tutto lo schifo che ci circonda quotidianamente e che si perpetra nel tempo? Se tutti pensano di essere - il fatto che non lo diciamo apertamente non conta un cazzo - speciali e fuori dal comune rispetto alla mediocrità come può questa splendida moltiplicazione dare un risultato così scadente?
I conti non tornano.

D’altro canto siamo tutti CT della nazionale e voteremmo volentieri per il partito che vede noi a capo: i soli capaci di risolvere in pochi anni tutti i problemi con un sonoro schiocco delle dita. E' normale che sia così: in qualunque landa siamo nati ci hanno inculcato nei secoli a martellate, a seconda del fan club divino di appartenenza, l’idea che siamo stati scelti da un essere/entità superiore. Posso capire che nell’ignoranza dei tempi che furono si potesse anche credere ad una cosa del genere, ma ora…
Provate ad osservare la luna di stasera. E’ distante poco più dei cento metri di Bolt alla velocità della luce. Il disco arancio che colora la sera? Una canzone medio lunga dei Pink Floyd. Dati questi banalissimi paletti la mia mente, non so la vostra, non riesce a materializzare i confini di una distanza assolutamente risibile come quella di un pidocchioso anno alla velocità della luce. Ma il culo dell’universo è molto più grosso: una manciata di miliardi di anni più grosso e credere che quel granello di sabbia, quello blue e carino, sia stato unicamente scelto con cognizione di causa da un posto grande come qualche milione di miliardi di deserti del Sahara è follia. Da un punto di vista probabilistico, e con le giuste proporzioni, capisco perché tanta gente sputtani il proprio stipendio nei videopoker et similia.

Sarebbe interessante se la gente imparasse ad ammettere che siamo semplicemente frutto del caso. Passando dal macro al micro, e qui concludo, mi viene da pensare a quanti miliardi di “girini”, che abitavano nei testicoli di mio padre, sono morti su di una maglietta/fazzoletto oppure spiaccicati contro un muro di lattice. Non sono venuto al mondo perché più resistente, forte e furbo degli altri. A seconda della prospettiva ho avuto culo/sfiga.
Non siamo esseri speciali, ma animali pieni di tutti quei difetti che si palesano quotidianamente sotto i nostri occhi e che alimentiamo in prima persona, in primissima fila. Forse con questa prospettiva diminuirebbero un po' le occhiate snob, e da lontano, che siamo soliti rifilare, scuotendo la testa, con cadenza giornaliera. La consapevolezza di essere figli del caso ci potrebbe rendere meno altezzosi e giudici nei confronti altrui in una costante gara di comparazione al ribasso per rendere più accettabili le nostre mancanze. Ecco il mio proposito del 2013: essere meno snob, cagazzi e giustificazionista per i miei, di errori.
Il fatto che queste due righe finiranno ammucchiate sotto la polvere in buona compagnia è ovviamente secondario.

Ma questo editoriale, a rileggerlo, pare proprio dimostrare che sia difficile, oserei dire impossibile, uscire da quel cerchio nel quale siamo condannati a girare come dei criceti del cazzo. Sempre convinti di avere ragione… siamo solo patetici.

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editoriale di Bartleboom

Alla batteria ci metterei senz’altro “E.”.
Ci eravamo conosciuti a sei anni, al corso di mini basket. Nel tempo siamo rimasti amicissimi, fino a condividere i gusti musicali e il sogno di diventare - a nostro modo -musicisti.
Solo che una batteria costa un frego di soldi, ci vuole un posto dove tenerla e, soprattutto, a meno che non abiti nella zona desertica compresa tra Lonate Ceppino e Peveranza di Cairate, al primo colpo di rullante i vicini chiamano l’ARPA e tuo padre si mette a smadonnare come neanche l’indimenticato Germano Mosconi. E, così, quando alla fine io e un altro paio di pulciosi siamo riusciti a procurarci chitarra e basso, “E.” si è comprato delle bacchette da centomila lire e ha iniziato ad esercitarsi con i cuscini del divano buono della sala.
Poi, al sabato pomeriggio, si andava tutti in sala prove a fare le cover dei Black Sabbath e lui picchiava come se non ci fosse un domani.
O come se non ci fosse altra batteria su cui picchiare.
Che poi era proprio così.

Alla chitarra solista ci metterei “D.”.
A diciannove anni aveva lasciato casa dei genitori ed era andato a vivere al limitare di un piccolo bosco, in una baracca di cemento in mezzo ad una discarica di marmo: trenta metri quadri circa, in cui “D.” era riuscito a ricavare soggiorno, angolo cottura, soppalco con zona notte, bagno e - soprattutto - sala prove.
Possedeva in totale quindici dischi (giuro), tra cui un greatest hits di Bob Marley e uno di Bruce Springsteen. Se gli parlavi di Vasco o di Ligabue, ti diceva una roba del tipo: “Con la roba che fanno, non sfonderanno mai.” (…).
Tecnicamente impresentabile, millantava una mai del tutto confermata frequentazione di un non ben precisato corso di chitarra latino-americana, che, a suo dire, aveva lasciato un segno indelebile sul suo chitarrismo naif.
Il suo motto preferito era: “A tutti piace bere il latte fresco. Ma nessuno vuole svegliarsi alle quattro per andare a mungere la vacca”.
A distanza di dieci anni rimane uno dei più grandi insegnamenti che un essere umano mi abbia mai regalato.

Al basso ci metterei “F.”.
Conosciuto sui banchi del liceo come tipo timido e abbastanza pacato.
Lo costringemmo a comprarsi un basso da cinquantamila lire quando fu chiaro che non avremmo trovato un bassista disposto a venire a suonare con noi nemmeno chiedendo la grazia a Santo Lemmy.
Dopo l’iniziale impaccio, “F.” si rivelò un musicista dotatissimo.
Inutile dire che iniziò presto a darsi arie da gran virtuoso e a dedicarsi anima e cor(d)e ad una non meglio precisata “estetica musicale” al cui cospetto noi altri poveracci facevamo la figura degli scimmioni di 2001 Odissea nello spazio.
Altrettanto inutile dire che, nel giro di breve tempo, fondammo un coro di voci bianche con cui mandarlo affanculo, lui e i suoi virtuosismi di sta ceppa. Oppure fu lui a mandarci affanculo. Difficile dirlo.

Alla voce ci metterei “M.”.
Un genio, ma senza scherzare.
Praticamente un distributore automatico di testi.
Gli facevi sentire un riff, gli dicevi una roba del tipo “Vorrei che questa canzone parlasse del difficile momento in cui hai un attacco di cagotto tipo Horishima più Nagasaki e non trovi le chiavi di casa”, e lui tirava fuori da qualche parte una linea vocale e un testo che tu non potevi fare a meno di pensare: “Questo è un genio.”.

Alla chitarra ritmica ci metterei… beh, a dir la verità, ci metterei il sottoscritto.
Perché ad un certo punto della mia vita c’ho creduto davvero alla possibilità non dico di fare il musicista, ma almeno di imparare a suonare uno strumento. In maniera dignitosa, perlomeno.
E poi un giorno finisco un puzzle, decido di metterlo in una bella cornice, prendo una lastra di vetro, la lastra si spezza, le schegge mi si conficcano nelle dita, vado al pronto soccorso, mi mettono dei punti e da allora ho poca sensibilità nei polpastrelli e, oggi, per me, avere in mano un plettro o una zappa è più o meno lo stessa cosa.

E non dico che i miei sogni siano andati in frantumi insieme a quella lastra di vetro…
Non fosse altro perché è capitato troppo presto, o comunque prima che dentro me si facesse strada la voglia di crederci davvero, di provarci.
Non fosse altro perché la vita mi ha portato da tutt’altra parte e in fondo mi va bene così.
Non fosse altro perché nessuno della gente con cui ho suonato in quegli anni ha continuato.
Non fosse altro per tanti motivi che adesso non saprei nemmeno dire, ma che da qualche parte, sono convinto, ci sono.

Dico solo che c’è un modo di godere che non c’entra nulla con il sesso.
Ma è roba di amplificatori, di cavi, di pedali e corde di nikel.
Roba che ti vengono i brividi e ti sorride la faccia.
Roba di vibrazioni, di esplosioni, di velocità.
Di suono che ti riempie.

E quel suono sei tu.

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editoriale di Talkin' Meat

Sostanzialmente c'è questo individuo, un tipo a caso, di cui non è fondamentale conoscere né l'identità né la fisionomia: un tipo a caso, la cui unica caratteristica che conta aver bene presente è il dolore che egli vive, un dolore che in sé, un'eziologia, può anche averla, così come un'ontologia, ma che l'individuo in questione non conosce; ebbene, a causa di questo dolore lui si sente solo, e fin qui niente di nuovo. In famiglia, cogli amici, durante una corsa in metropolitana tutto quello che vede è ciò che lo fa sentire così solo, in quanto chi vede e la persona con cui parla non fanno altro che acuire in lui quel discreto senso di discreto disagio nel trovarsi davanti e/o intorno persone che hanno tra loro in comune una cosa, cioè la diversità con e l'allontanamento emotivo - scaturito dal fatto che quel tipo, appunto, ha questa sorta di dolore qua - da questo tipo a caso.

Insomma, un giorno il tipo a caso, che da ora in avanti, avendo in un certo senso perso la propria casualità, chiameremo la Persona Col Dolore, decide di parlare del disagio che lo assilla con qualcuno, non tanto per arrivare a dedurne l'eziologia quanto per instaurare una specie di ponte ["Ponte" sarebbe potuto essere il sottotitolo di questo racconto, n.d.a.] tra lui e la sabbia in cui il dolore ha uniformato gli altri arrivando a farli identificare alla Persona Col Dolore sotto la semplicistica etichetta di "Altri", quindi - come detto - decide di parlarne e ne parla, ma l'unico risultato che gli è dato ottenere è un ulteriore isolamento emotivo dovuto al fatto che l'Interlocutore - vuoi perché sommerso da problemi propri vuoi perché l'eziologia del dolore non sia affiorata nel discorso della Persona Col Dolore nonostante tutti gli sforzi, e permettendo al massimo di ripetere alla Persona Col Dolore alcune frasi di circostanza - non ha infine dato modo alla Persona Col Dolore (da qui in avanti, PCD) di avere l'impressione che lui, cioè l'Interlocutore, capisse di cosa la PCD parlasse o, meglio, dato che il qui presente sta utilizzando il focus sul personaggio dell'Interlocutore, farneticasse, facendola, cioè la PCD, sprofondare in una solitudine ancor più greve perché in sé riportava le tracce di un'empatia sconfitta.

A ogni modo, tralasciando le varie elucubrazioni e i diversi moti d'animo vissuti tra questa conversazione e quella che sto per andare a raccontare, la PCD decide che, forse, ha semplicemente colto l'Interlocutore in un momento no, o, meglio, non si è sufficientemente spiegata, così prende la decisione di - come detto - interpellare un Secondo Interlocutore, col quale però, sebbene le proposizioni epesegetiche fioccassero, risulta il medesimo risultato precedente.

E qui la faccenda si complica.

Ora, infatti, la PCD si sente inequivocabilmente sola, sconfitta, addolorata ed è come se, in qualche assurdo modo assurdo, la funzione che prima avrebbe potuto descrivere la relazione tra il suo dolore e la solitudine conseguente, ovvero:

y = ∫(x)

dove y indica il dolore e x la solitudine direttamente proporzionale al dolore y, si sia rovesciata, mantenendo, sì, valida la precedente ma, pure, creandone una seconda, ovvero:

x = ∫(y)

di modo da rendere variabile l'invariabile e costante la variabile dipendente dall'adesso variabile… un cazzo di circolo vizioso dove il dolore, la cui ontologia/eziologia/- rimane un'incognita, frutta solitudine che, a sua volta, frutta dolore, quindi in pratica alla fine del racconto troviamo la PCD in una scena tipo (davanti allo specchio, sul divano senza nulla fare o con gli occhi fissi sul display del telefono che squilla, squilla, squilla e a chiamare è qualcuno che nella mente della PCD si presenta come esistificante solitudine esistificante dolore), bloccata nell'intenzionalità e con un'aurea oblomoviana attorno al corpo, anzi, necessariamente immobilizzata dalla consapevolezza che qualsiasi cosa lei faccia, o, meglio, riesca a fare sarà qualcosa che acuirà quella solitudine e, dunque, quel dolore, tanto da portarla a identificarsi con esso e essere la PCD di cui sopra, e sarebbe bello che il racconto si chiudesse in un'immobilità di parole & vicende pari alla sua.

Domanda: Cheddevefare la PCD?

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editoriale di emofiliaco

"L’impegno per la preservazione di figure che sono importanti per la storia del calcio e dello sport italiano deve essere serissimo da parte di chi, per esempio come noi, orienta l’opinione pubblica."
(Andrea Monti, Direttore della Gazzetta dello Sport)

Premessa A: Della frase sopra m'interessa solo “orienta l'opinione pubblica” e il fatto che a dirla sia stato un giornalista.
Premessa B: Una Lex ad Personam può essere fatta per favorire qualcuno ma anche per danneggiarlo.

Nel 1988 Pedro Delgado vinse il Tour de France. Nella stessa competizione venne trovato positivo al Probenecid (un diuretico che al tempo veniva associato a pratiche dopanti in quanto agente coprente degli steroidi anabolizzanti) ma non venne squalificato perché quel principio attivo era illegale per il CIO ma non per l'UCI (e a dire il vero lo sarebbe diventato una quindicina di giorni dopo: ma non in seguito alla positività del ciclista spagnolo ma per un calendario deciso mesi prima dalla federazione ciclistica)

Nel 1996 Bjarne Riis vinse il Tour de France, nel 2007 indisse una conferenza stampa in cui ammise pratiche dopanti (tra il '93 ed il '98) e si disse disposto a rinunciare al suo nome nel palmarès. Praticamente subito gli organizzatori del Tour lo cancellarono ma dovettero (a malincuore immagino) reinserirlo perché il reato era coperto da prescrizione (dieci anni: qui chi è malizioso può pensare che il buon Bjarne ne fosse consapevole, evidentemente gli organizzatori della Grande Boucle e l'UCI no).

Dal 1999 al 2005 Lance Armstrong vinse sette Tour consecutivi passando indenne cinquecento test antidoping (si parla di un costo di mille euro a controllo quindi circa cinquecentomila euro buttati al vento: forse la WADA prima di cantar vittoria dovrebbe riflettere su questo).
Ora sembra che grazie ad un dossier del USADA (mille pagine circa che lo inchioderebbero soprattutto grazie a testimonianze di “pentiti”, e già qui... ma uso il condizionale perché potrebbe uscire che prove concrete ce ne siano) gli verranno tolti (quindi io non ho capito se l' UCI ha modificato la regola dei dieci anni, ma sembra di no e comunque mi correggerete voi, o lettori, se sbaglio se ancora non sa che esiste o se semplicemente farà una legge ad personam perché in caso contrario almeno quattro Tour sono “intoccabili”).

Ora non mi è mai piaciuto Armstrong (neanche prima della malattia e ricordo come uno dei giorni tecnicamente più poveri del ciclismo la sua vittoria mondiale del 1993) per vari motivi: per le frequentazioni con Conconi e Ferrari (che peraltro lui non nascondeva), per il modo da “pistolero” di gestire la squadra e i rapporti del potere, per quell'essere testimonial/padrone di un Tour da manifesto pubblicitario, eccetera...

Non mi è mai piaciuto ma mi sta abbastanza antipatico che nessuno ancora abbia fornito all'opinione pubblica (quella che va orientata secondo il direttore della GdS) delle circostanze concrete oltre a delle sensazioni di qualcuno o qualcosa che sembra preoccupato più che altro a distruggere un personaggio diventato improvvisamente ingombrante proprio nel momento che non serve più.
Prevengo chi potrebbe fare parallelismi con il caso Pantani ricordando che il ciclista romagnolo non fu mai squalificato ma semplicemente fermato per quindici giorni in via cautelativa (motivi di salute riguardanti il tasso di ematocrito troppo alto) ed il resto fu un inferno che si costruì (quasi, perché a essere onesti i Media ci misero del loro) da solo.
Ma a parte questo qualcuno (magari l' UCI tramite chi orienta l'opinione pubblica) ci può dire come e soprattutto perché abbia potuto farla franca, fino ad adesso, visto che moltissimi altri suoi contemporanei furono beccati "in diretta"?

Una cosa positiva c'è: quei Tour (se revocati) non verranno riassegnati.
Qualche federazione (non ciclistica) sportiva dovrebbe rifletterci su.

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editoriale di Hank Monk

Biologicamente parlando intendo: che senso ha vivere? Non mi sono risposto. Mi sono tuffato nella carne; convulsioni. Un fiotto caldo, un sussurro: non ho risolto nulla. Ho un problema con il sesso: troppo poco per essere ruggito sotto le stelle. Troppo per avere la dignità di raggomitolarsi in un angolo. Violento o nolente uno ha pur bisogno delle sue radici: che senso ha vivere? Biologicamente parlando intendo.

E allora di nuovo a capofitto in un vortice di membra, che non ti danno il diritto di parlarne, che non ti presentano mai il conto. Che non fanno certo di te un uomo migliore. Che uno poi si chiede il perché. Ma il perché lo conosciamo, o perlomeno io lo conosco. O perlomeno così mi han sempre fatto credere.

Che poi uno se ne esce con gli amici. Magari se la ride anche eh. Magari uno si sente anche a posto con la coscienza. Ma magari è sempre il solito sacco di merda. Che se uno fosse veramente a posto, io penso che non ne avrebbe neanche il bisogno. Che non vorrebbe nemmeno sentirne parlare.

E poi: io me ne vado! Questo paese non mi merita! Che sarà anche vero, per la miseria. Ma nemmeno tu meriti un posto migliore. Che una volta la dignità era spaccarsi la schiena; farsi tutta una guerra mondiale in prima linea; riuscire nonostante tutto a crescere dei figli normali. Che almeno uno aveva la possibilità di dimostrare quello che valeva, vero? Di prendere una posizione. Ora non ci resta nemmeno più quello?

La plastica è finita; ora son cazzi.

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editoriale di Gallagher87

Ora più che mai rivedendo l'immagine di Ian Watkins in concerto con la t-shirt con scritto "I Make Dirty Love!" fa un po' paura, e fa tanto schifo.

Occorre precisare che fino a conclusione dell'indagine tutto sia da verificare ma gli indizi pare portino tutti verso una conclusione: Ian Watkins leader del gruppo gallese Lostprophets, è accusato di tentata violenza sessuale ai danni di un minore, anzi ancora peggio (ove in questi contesti possa esistere davvero un qualcosa di peggiore rispetto a qualcos'altro) di una piccolissima bambina di solo un anno. A dovere di cronaca c'è da dire che "La polizia, dopo aver eseguito il fermo del cantante, ha compiuto dei controlli anche sul portatile, trovando file di materiale pornografico. L‘accusa per il frontman è di cospirazione finalizzata allo stupro di una bambina sotto i tredici anni di età e, considerata la gravità, Watkins è già comparso davanti al giudice per la prima udienza preliminare, e, naturalmente, l’imputato ha respinto qualsiasi genere di attacco, dichiarandosi assolutamente innocente." come riportato da fonti giornalistiche. C'è poco da dire, e se il reato verrà confermato c'è tanto da condannare, in quanto si suppone a rigor di logica, che il cantante abbia già compiuto tale schifo in passato. Se si può parlare di musica in questo contesto, è inutile dire che la carriera dei Lostprophets, almeno così come la conosciamo, è praticamente terminata.

Su Twitter il loro ultimo messaggio è il seguente; "A message from Jamie, Lee, Luke, Mike and Stu > http://www.lostprophets.com" e il link al sito riporta un unico, univoco e freddo messaggio, tradotto: "Dopo aver appreso delle accuse e dell’arresto, avvenuto oggi, di Ian Watkins, ci ritroviamo in stato di shock. Stiamo cercando di conoscere i dettagli delle indagini, come voi. E’ un momento difficile per noi e per le nostre famiglie e vogliamo ringraziare i nostri fan per il loro supporto, mentre cerchiamo di trovare risposte.”.

Si scatenano intanto le accuse di tutti. Di diversi fan che tentano di trovare correlazioni di tali azioni coi testi delle sue canzoni, e dei giornali che nel Regno Unito non fanno che parlare d'altro. Tutti contro Watkins, che da sempre destava dubbi sulla sua presunta omosessualità, mai correlabile però ad azioni infamanti come quelle a cui è stato obbligato a rispondere.

Attendendo gli esiti di questa bruttissima storia, la prima perplessità che mi sento di esternare è legata semplicemente a come i soldi a volte, diano fottutamente alla testa. Nessuno potrà mai confermare se questa affermazione sia verità assoluta, oppure se tale "indole innata" si sarebbe comunque esternata indipendentemente dal successo e dalla vita estrema da Rockstar. Fatto sta che Ian Watkins era, almeno in UK, una sorta di divo per le teenager 'alternative'.

Una cosa però è certa; farò la parte del moralista, ma a sentenza terminata andrò a ripescare la maglietta della band comprata qualche anno fa (che non è la stessa indossata live dal cantante) nascosta non so dove in qualche armadio e, schifato la butterò via.
Quando questo editoriale verrà pubblicato, potrebbero essere sorti aggiornamenti importanti su questo caso, in attesa di ciò, dico "a non rivederci" ai Profeti Perduti.

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editoriale di geenoo

Mi sveglio, mi alzo in un silenzio di tomba.
E’ il primo gennaio 2013. Sono le 8 del mattino, mi lavo la faccia con l’acqua fredda, mi rado, mi vesto. Scosto un po’ la tenda della finestra e fuori sta sorgendo un sole freddo. Nessuno si muove, niente.

Scendo in garage, metto in moto ed esco. Sono le 8,30.
Mi fermo a fare il pieno ed il benzinaio, con un sorrisetto, mi fa la prima battuta dell’anno “ Ma dove va, oggi, a quest’ora del mattino?”.
Incrocio lo sguardo di una bellissima ragazza, ha ancora rimmel pesante e lustrini intorno agli occhi, si intravvede un vestito nero ed elegante.
Ma a quest’ora è fuori luogo e contesto.

Il sole sta salendo, io ho imboccato un’autostrada deserta e gelata.
140 km/h verso l’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Esco a Bologna-San Lazzaro. Faccio qualche chilometro di una tangenziale morta. Arrivo al parcheggio dell’ospedale. Metto l’auto nella piazzola. Mi metto il giubbino, entro dall’ingresso principale.
Fuori c’è un signore con un tubicino infilato nel naso che fuma, mi sorride e mi augura buon anno.

Salgo l’ascensore, infilo il primo corridoio, il secondo ed eccola lì.
La abbraccio, due parole. Parliamo.
Scendo di nuovo al bar. Faccio un pranzo freddo ed indigesto.
Torno su, altre parole, poi arriva il momento dei saluti.
Due baci, due occhi neri, un grande sorriso con denti che sembrano troppo grandi.

Un veloce e feroce flash-back: io grande e lei piccina che ci rincorriamo in bici in una strada assolata.

Dentro sono freddo. Pago il biglietto del parcheggio. Risalgo in auto, tangenziale e sono in autostrada.
E’ sempre il primo gennaio. Sono le 15,30, adesso la gente che si è divertita si sta svegliando tra i postumi di una bella sbornia.
Io guido con il mare nero a sinistra ed un tramonto giallastro a destra e la solita domanda stronza e, oramai l’ho capito, senza alcun senso, riaffiora come un caimano da acque torbide e nere: perché a soffrire è chi non ha nessuna colpa?
Perché soffre un bambino?
Perché si muore giovani e senza alcun motivo?

La risposta, desolata, arcigna, secca, algida, mostruosa è sempre quella: perché si.

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editoriale di De Lorenzo

Gentili utenti, faccio il mio esordio in qualità di editorialista su Debaser per gentile sollecitazione e pressione di molti di voi, che spesse volte mi hanno contattato nei mesi scorsi, per un saluto, per alcuni suggerimenti, per una diagnosi della politica e dell’economia in un’epoca di profondi e per certi versi inattesi cambiamenti.

Avverto quindi l’utenza meno avvezza all’approfondimento, ed adusa a sfruttare gli editoriali per le proprie personali narrazioni sentimentali - filtro soggettivo per proporre una visione del mondo incomunicabile agli altri se non nella sua espressione estetica - che in questo editoriale (come pure nei prossimi che mi auguro di poter redigere) ci concentreremo sulla sostanza e non sulla forma, sull’esperienza comune e sulle relazioni possibili piuttosto che sugli slanci solipsistici da riservare ad altri momenti.

Venendo all’oggetto della mia dissertazione, vorrei approfondire la problematica della post-democrazia on line, che attualmente trova il suo supporto materico, se non la sua stessa causa, nel web e nelle sue molteplici piattaforma e comunità: sono recenti, e certamente note a tutti voi, le vicende in cui le nuove tecnologie sono state utilizzate in termini innovativi per proporre candidati, proposte, ed ottenere indici di gradimento o voti che dir si voglia.
Sarebbe tuttavia riduttivo limitare il fenomeno al solo movimento nostrano, dato che la e-democracy rappresenta un tema che trascende lo stretto confine patrio: forme di democrazia diretta mediante fora in cui formulare proposte o giudizi politici (gli eredi virtuali dell’antico forum), forme di comunicazione politica attraverso comunità del tipo facebook, forme di auto-promozione professionale-politica mediante linkedin o quant’altro danno una chiara idea della complessità del problema.

Visto con l’occhio disinteressato dell’osservatore esterno e del notista politico, il fenomeno presenta almeno un paio di costanti: il linguaggio ed il modo con cui si presenta una persona, o si rappresenta una proposta politica, resta essenziale, anche in chiave retorica; la dimensione retorica è propria di ogni mezzo di comunicazione, per cui anche video, documenti, musica e quant’altro si inseriscono in una retorica multimediale finalizzata alla persuasione o al convincimento del ricevente, più che alla ricerca della verità o alla promozione di valori; l’espressione del consenso o del dissenso rispetto alla proposta ha invece mezzi tendenzialmente limitati all’espressione di un gradimento in codice alfanumerico, alla formulazione di giudizi tendenzialmente ristretti a poche centinaia di caratteri, privilegiando così l’efficacia della risposta nelle forme della polemica e dell’invettiva, anziché attraverso una proposta costruttiva o un confronto franco.
Prevale la velocità della comunicazione, l’appeal delle proprie idee, la capacità di rappresentarsi e rappresentare: tutti valori che nell’antichità classica sarebbero stati riconducibili alla protezione del dio Ermes, il messaggero degli dei, o, in termini più laici, archetipo del modello di comunicazione binaria e rapida che si esprime tramite sms, twitter, “mi piace, non mi piace”, stellette o palline: abbiano ad oggetto una canzone, un ristorante, il rating economico-finanziario dell’impresa per cui lavorate o del paese in cui vivete.

Possono esservi certamente delle eccezioni, ma questi appaiono di norma i confini del “mezzo”, che non è forse il “messaggio” nei termini di McLuhan o di tanto post-modernismo, ma appare certamente come un mezzo capace di condizionare l’articolazione del messaggio. Non escludo che i romanzieri russi del XIX sec., viventi oggi, aprirebbero un blog, anziché attardarsi nella stesura di un Karamazov o di un Oblomov.
A ciò vorrei aggiungere un’ulteriore osservazione: il mezzo ed il messaggio hanno un singolare effetto di “mimesi” nei confronti dell’uditorio, che tenderà a reagire nei confronti del messaggio attraverso un imitazione degli stessi stilemi e degli stessi meccanismi di comunicazione, come del resto pare comprovato da recenti ricerche in tema di “neuroni specchio”.
Ad sms o twitter polemico si risponde con sms o twitter polemico; ironico con ironico; ad attribuzione di punteggi o di rating con altri punteggi ed altri rating volti e via dicendo.

Gli utenti più attenti e serii hanno certamente inteso ed anticipato il prossimo passaggio della mia analisi cogliendo significative analogie fra l’atteggiarsi di una comunità politica on line e l’atteggiarsi di una comunità che, più innocuamente, si occupa di arti musicali, visive, video ludiche o letterarie come Debaser.
A ben guardare, mezzo di trasmissione del messaggio, qualità del messaggio, effetto mimetico, rivelano impressionanti analogie strutturali: muta semplicemente l’oggetto della discussione, laddove l’ars politica resta sotto la salda protezione della dea Atena, mentre l’ars ludica debaseriana vaga fra la protezione di Apollo, Afrodite e Dioniso, a seconda delle arti e degli interessi degli utenti.

Chiudendo con una possibile esemplificazione del mio discorso e lasciando spazio ai suggerimenti dell’utenza: se un’utente si iscrivesse a Debaser attivando una identità contraddistinta da un richiamo al comunismo (es. Berjia Jr), con una de-scheda con chiare allusioni a simboli comunisti (es. un parata di carrarmati nella piazza Rossa), o con una biografia che solletica parallelismi con altri comunisti conosciuti dall’utente (es. trascorsi da camallo o metalmeccanico) la reazione preventivabile dell’utente medio potrebbe essere identica nello stile e nel linguaggio, ossia nello schema mentale di fondo, ancorché rivolta a confutarne gli assunti. Ma lo stesso potrebbe dirsi nel caso di un fake in senso proprio.

Ed il giudizio complessivo nei confronti di questo utente sarebbe espresso nello stesso modo in cui egli giudica libri, opere cinematografiche o musicali: cinque palline, o cinque stelle, non tanto come sintesi di un modo di pensare, ma come un nuovo modo di pensare sia nel privato che nel politico.

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editoriale di kosmogabri

Da piccolo mi hanno insegnato a non aver paura della morte.
Crescendo mi son reso conto che averne paura era giusto, voglio dire, a non averne paura quasi si afferma che non ci cambierebbe nulla morire. E invece cambia.
In situazione estrema, dove la fine è quasi certa, uno (auguratamente normale) avrebbe tutto il diritto di pensare cose del tipo "Così è la vita…", "Non ci posso fare niente e non rimpiango niente." eccetera eccetera. Ma in cuor suo dubito non pensi, piuttosto, frasi più simili a "Siamo sicuri che non ci siano alternative?", "Non voglio…", "Ho paura…".
E non si smette mai d'aver paura, finché avercene diventa concretamente impossibile.

Nasciamo impauriti e moriamo impauriti.

Cresciamo sempre con una sorta di rispetto, di timore reverenziale anzi, nei confronti della morte. Questa, sempre stata l'unica in grado di sensibilizzare chiunque, poiché unica certezza.
Al momento, ho appreso da terzi che la morte pare essere l'unica soluzione infallibile ad ogni problema. Che sia auto-inflitta o provocata, s'intende. E al contempo, ha smesso di sensibilizzare.
Nell'era moderna ogni giorno ad ogni minuto di ogni ora ci ricordano di come essa non faccia sconti e faccia pagare tutti. Ma ormai accade tanto spesso affinché sembri una questione più ordinaria di prima. Normale amministrazione, azzarderei.
Ogni giorno sentiamo di almeno un morto nuovo. C'è chi s'è impiccato, chi s'è sparato, chi ha ucciso tal dei tali, e chi dopo aver ucciso tal dei tali s'è tolto la sua stessa vita. Al punto che, laddove prima incuteva timore, ora non ci si fa neanche più caso, da quant'è saturo il "mercato".
Piuttosto, si prende parecchio alla leggera, come se fosse cosa da nulla. E ultimamente è più lampante che mai.

Le ragioni che sentiamo, per cui uno dovrebbe togliersi/togliere la vita sono sempre più delle stronzate. Preferirei non sindacare troppo sulle scelte di chi commette suicidio, dipende estremamente dalla sensibilità personale e la propria soglia di accettazione; nonostante non possa nascondere che, ogni tanto, mi vien spontaneo un "E questo s'ammazza per una stronzata simile?".
Togliendo la S apostrofata, lo stesso discorso potrei farlo per chi infierisce sulla vita altrui. Oramai ogni minimo impedimento, ogni minimo scazzo, ogni minima questione sembra trovare via di fuga in questo modo. Se una persona ti arreca fastidio, facile: uccidila.
A tal proposito m'è venuta in mente la notizia che lessi ben tre anni fa, di un tale che uccise la moglie (durante la separazione) in quanto su Facebook s'era segnata come "single" nella situazione sentimentale. Di esempi ce ne sono tanti, nonostante questo sia - forse - il più idiota.

Non so se forse è colpa mia, ancorato a una sensibilità verso la questione piuttosto datata, dove ancora la morte non si prendeva alla leggera, dove ancora la morte era una fase in cui quella persona non sarebbe tornata più indietro (mica cazzi, per dirla rasoterra). Non so nemmeno da dov'è partita né quando, questa assurda escalation, ma ricordo che anche solo fino a non troppi anni fa era diverso, non esasperato. Adesso il massacro è anche mediatico, dove tutto è notizia, tutto è cibo per sciacalli. E adesso sui massacri non si sta più zitti come si dovrebbe.

"Perché non c'è nulla d'intelligente da dire su un massacro." (Kurt Vonnegut - Mattatoio n. 5)


(Questo testo è interamente scritto in memoria, e con dedica, per un vecchio amico di cui ho appreso solamente poco fa della sua scomparsa. Altri scopi - perlomeno dichiarati - non ne ha.)

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editoriale di Talkin' Meat

E dunque entro in un piccolo ufficio, il professore mi fa sedere e mi chiede perché sono lì, ma onestamente non lo so neanche io. Siede su una sedia a rotelle, parla a bassa voce e lentamente, la testa gli ciondola da una parte ed è come mossa da piccoli, irrefrenabili tic.

Mi dice che la vita precede l'uomo, che la morale è provvisoria, che l'esistenza non ha scopo e che sebbene la vita renda vivo un individuo quest'individuo non si riproduce per realizzare la vita, e mi dice che la natura umana (e la natura stessa) non è naturale, che l'idea di diversità è possibile se si ha un'idea di identità e che la libertà conta poco perché ciò che conta è difendere la diversità: che se obbligassimo un'intera generazione a leggere libri, a leggere libri e non fare altro, quest'ipotetica generazione non saprebbe cosa sia un libro.

Mi appunto tutto sul blocco-note, dopodiché lo saluto, lui bisbiglia qualcosa che interpreto come un saluto (o un congedo) mentre continua a muovere la testa in tanti piccoli sì - la testa inclinata sulla spalla, appoggiata alla scapola. Soffre di SLA, o qualcosa del genere. A lezione è sempre ripiegato su se stesso e ora afferra la mano destra con la sinistra e sdraia la destra sul tavolo.

Ci stringiamo la mano.

Poi esco, e uscito da lì penso a quanta poca importanza siamo soliti dare a certe cose che consideriamo dovute o scontate, di cui non abbiamo nemmeno coscienza, cose tipo camminare, farsi la doccia da soli, mangiare senza il bavaglino. E penso a questo cose, a quanto a volte sia davvero un attimo perderle, a quanto facilmente e con quanta spontaneità la vita riesca a spezzare una persona fino a renderla inerme di fronte a sé stessa. E ripenso alla crocifissione, a Cristo in mezzo ai due ladroni, alla Grazia che non può giungere senza il respiro del peccato: e accanto a me passano altri studenti, altre persone incuranti di tutto, coi libri in mano & borse a tracolla, studenti che salgono le scale della facoltà o si fermano a parlare nei corridoi, e improvvisamente mi rendo conto che sto camminando anch'io, ed è una consapevolezza che non avevo mai avuto prima ed è come se mi afferrasse e mi rendesse cosciente di me stesso, e finalmente sono grato di tutto questo e su tutto giace come un'assurda e alienante Bellezza.

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editoriale di zaireeka

Ieri sera ero seduto insieme a mia figlia sul divano di casa a vedere la televisione, quando lei si volta verso di me pensierosa e mi fa:
“Papà, ho letto una cosa non bella su internet su quello che ha scritto Alice nel paese delle meraviglie, come si chiama?”
“Lewis Carroll.” faccio io.
“Si, lui”.
“Cosa hai letto?” ribatto, già sapendo a cosa lei voglia alludere.
“Una cosa non bella. Era scritto che era un pedofilo. E’ vero?”

Ecco, queste sono le domande dei figli a cui un padre responsabile e dalla mentalità aperta, amante dell’arte e della creatività umana in qualunque forma e attraverso qualunque percorso essa si manifesti, deve essere ben pronto a dare una risposta adeguata.
Io ieri sera non lo ero.
Potevo forse dire che si, era un pedofilo, e che è una cosa terribile, doverosa di condanna e disprezzo da parte dell’umanità, e che in fondo il suo libro non merita di essere tanto osannato da scienziati e letterati, e che in fondo non ci tengo tanto che anche lei ne diventi un’appassionata?
Non era cosa, ammesso pure che fosse un pedofilo, troppo semplicistico e troppo ipocrita.

Potevo forse citare il Vangelo di Giuda e spiegare che in fondo colui che ha commesso il più empio dei peccati, il Traditore per antonomasia, e come tale condannato ad essere disprezzato nei secoli dei secoli, è stato, a ben pensarci, come certe eresie sostengono, il vero artefice della nostra salvezza avendo permesso il sacrificio di Nostro Signore e di conseguenza la nostra salvezza? Mi sembrava davvero troppo impegnativo per la sua età.
Insomma, mi sono trovato in totale impasse.

Il problema comunque è generale ed è questo: E’ giusto distinguere, nel giudizio, l’opera d’arte dalla vita del suo autore?
Esiste poi un altro problema connesso: E’ davvero necessario per un artista avere una vita problematica per arrivare a produrre arte degna di questo nome?

Veniamo, ordinatamente, come nei migliori trattati noiosofici, al primo punto.
Senza voler sembrare troppo bigotti o conformisti (avendo figli bisogna anche un po' esserlo, ogni tanto), non si può negare che spesso le vite di coloro che hanno lasciato qualcosa di importante all’umanità sono tutt’altro che fulgidi esempi illuminanti di come la vita umana vada vissuta. Restando in campo artistico, lasciando da parte coloro che, innumerevoli, si sono auto-imposti la morte, è giusto ad esempio perdonare ai grandi scrittori, musicisti, eccetera, eventuali loro comportamenti contrari alla morale condivisa, ed in particolare contrari a quello che ai bambini è insegnato come il giusto modo di comportarsi nei confronti della società, in nome di quello che riescono a dare all’umanità in termini di bellezza?

Venendo al secondo punto, tutto ciò è proprio necessario?
Io personalmente ho sempre pensato a loro (non tutti, ma sicuramente la maggioranza) come a dei martiri che si sacrificano per il bene dell’umanità.
Posso citare, visto che ultimamente lo sto ascoltando parecchio insieme ai Beatles, John Lennon? Ho letto ultimamente da qualche parte le parole di disprezzo da parte del primo figlio, Julian, sul modo in cui il Beatle ha ricoperto, nei suoi confronti, il ruolo di padre. O della prima moglie Cynthia sul suo ruolo di fidanzato e marito. Per non parlare poi della sua morte violenta.
Gli stessi Beatles, visti come un tutt’uno, ho scoperto oggi in un bellissimo speciale di RAI Storia (che potete trovare a questo link), hanno prodotto i loro grandi capolavori (da Rubber Soul in poi, per intenderci) proprio nel momento in cui i rapporti fra i componenti del gruppo hanno cominciato a degenerare fino a essere completamente conflittuali, arrivando quasi alla violenza, al tempo della pubblicazione del bellissimo White Album. Per arrivare poi ad Abbey Road ed al loro “suicidio”, un po’ come Nick Drake dopo la pubblicazione di Pink Moon

Ripensandoci, io alla fine con mia figlia avrei potuto cavarmela dicendo: “Lo sai che tutti dicono che quel cantante, quello che quando eri piccola cantava 'M'innamorerò sempre di te' e che ora è l’autore della colonna sonora di quasi tutte le puntate di C’è posta per te, è diventato un ottimo padre di famiglia, addirittura nonno, non bestemmia mai, non litiga mai con nessuno, e soprattutto non ha mai letto un libro di Lewis Carroll?”

Lei, ne sono sicuro, mi avrebbe risposto:
“Ok papà, ho capito, dai pedofili, se sarà necessario, saprò come guardarmi io. Intanto mi dici dove hai messo Alice?”.

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editoriale di emofiliaco

Seance… Lock Free Time. Feel the Power!” (The Addams Family)

Se c’è una caratteristica di cui non sono dotato è l’essere proibizionista.

Spesso provocando ho affermato che se fosse per me droghe pesanti come eroina o cocaina troverebbero aperta la strada della liberalizzazione (qui potrebbe nascere l’eterno dilemma che germoglia dal contrasto tra i concetti opposti di “legalizzazione” e “tolleranza” e su che ruolo lo Stato dovrebbe assumere scelto uno dei due contesti ma non è di questo che voglio parlare quindi...) ma in realtà non era neanche una boutade fine a se stessa.

Sostanzialmente penso che le persone dovrebbero essere messe in grado di fare ciò che pare loro (sempre all’interno di un sistema che protegga i terzi incolpevoli dei danni causati dalle dipendenze altrui e di uno Stato di Diritto) compreso il rovinarsi la vita attraverso un buco o una sniffata (e parlo da persona abbastanza intollerante verso le varie dipendenze).

E’ ovvio che potreste sollevarmi un casino di obiezioni (i costi sociali sono le prime che mi vengono in mente ma son sicuro che voi me ne elencherete altre) ma è altrettanto lapalissiano che il mio non è desiderio di anarchia ma la voglia di vivere in una società meno ipocrita e in uno stato che responsabilizzi invece di criminalizzare.

Lasciando discorsi troppo ampi dove ognuno potrebbe sbizzarrirsi sembra che la vera Droga del momento (quella “In” per intendersi) sia il business delle varie sale da gioco/bar/locali di vario tipo dotate delle famigerate macchinette mangiasoldi (videopoker, “caterine”, video roulette, eccetera) dove lo Stato Italiano non pare esser poi così proibizionista (come lo è con le droghe “leggere” per dire) o severo (con il tabacco) in una spirale poco virtuosa di “una mano lava l’altra” simile a quello che succede con le bevande alcooliche.

Non sto qui ad elencare le cifre del giro d’affari perché essendo povero e tartassato dalle tasse poi dovrei prendermi un protettore gastrico ma si sa che sono “importanti”. Talmente importanti che ad una liberalizzazione selvaggia nel ’95 seguì una legalizzazione “controllata” qualche anno più tardi. Per proteggere i cittadini si disse ma non mi hanno mai convinto.
Poi se si citano lotterie varie, gratta & vinci, scommesse, siti per poker o casinò on line, tv “tematiche” si può dire che essenzialmente viviamo in uno Stato-bisca.

Detto tutto questo e pensandoci anche a lungo, non riesco a scandalizzarmi e ci sono solo tre cose che m’infastidiscono (ed è dura turbarmi… non c’è riuscita nemmeno la Marchi con la truffa della sabbia anni fa: più che per quella io l’avrei messa in galera perché è gradevole come una pigna su per…)

A) Come detto l’ipocrisia di uno stato moralista e moralizzatore a fasi alterne.
B) L’inevitabile intrusione della criminalità (più o meno) organizzata e/o (più o meno) istituzionale nel giro d’affari.
Ma soprattutto...
C) La progressiva estinzione dei flipper dai bar italiani a causa della distruzione del proprio habitat provocata da una nuova specie di parassita.

Probabilmente molti di voi proveranno lo stesso dolore perché con i flipper stanno sparendo anche i videogiochi “tradizionali” e non sto parlando degli enormi macchinari che occupano le sale giochi odierne ma di quelli alla Double Dragon per intendersi.
Ebbene sappiate che ogni volta che qualcuno mette cinque euro in un videopoker da qualche parte del mondo un FunHouse sta morendo. Ogni volta che qualcuno si gioca la pensione della nonna in una slot… Wonderboy piange. Ogni volta che invece di ciliegie escono banane lassù gli Space Invaders devono scappare più che avanzare.

Perciò ricordatevi: giocate sempre responsabilmente.

Per me uno può anche rapinare una banca: basta che lo faccia con educazione” (D.Z.)

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editoriale di zaireeka

Ieri sera mi sono messo a girovagare su youtube alla ricerca di qualcosa di interessante, o almeno di non noioso. Fra l’immenso patrimonio di filmati e filmatini completamente inutili mi è capitato lo sguardo su uno che recitava “Brasil 1982 - The 11 Greatest Goals (4Dfoot)“. “Perché no, una botta di nostalgia non fa mai male” ho pensato.
Un click e via, allora, anzi, guardatelo con me, ma prima leggete di seguito quanto ho da dirVi.

Dunque, voglio spiegare a quelli che allora non erano ancora nati o comunque non in “età da televisione” (praticamente il 70% degli utenti di DeB), che cosa era il Brasile dei mondiali dell’82.

Il Brasile allora era, ed in particolare quello che capitò di fronte all’Italia in un caldissimo luglio spagnolo di quell’anno, la più bella donna di cui ci si possa follemente innamorare.

Il Brasile di allora era la donna più bella (ok, gentil sesso di DeB, voi immaginatelo, se volete, come l’uomo più bello), quella dei tuoi sogni, con cui un giorno decidi di provarci sapendo benissimo che non ti può andare bene.

Il Brasile dell’82 era la vittoria inesorabile delle cose belle su tutte le altre.

Il Brasile di allora era Zico (il dribbling di Dio), Falcao (il tacco di Dio), Socrates (il tunnel di Dio), “Torpedo” Eder (il tiro di Dio).

Il Brasile di allora sembrava, quella sera, un destino ineludibile, una sconfitta sicura.

Il Brasile di allora era, soprattutto, io a diciassette anni, un grandissimo appassionato di calcio, come ormai non lo sono più da almeno diciassette anni.

Ora, tutta questa nostalgia potrebbe essere fine a se stessa, se non fosse per un piccolo particolare. Noi, cara Italia, quel Brasile, quella gioiosa macchina da guerra, meravigliosa portatrice di un destino triste ed inesorabile, lo abbiamo sconfitto.
Per cui nonostante i politici corrotti, nonostante la cura da cavallo di Monti, nonostante “prima o poi faremo la fine della Grecia”, nonostante la Merkel, ricordiamoci che ce la possiamo ancora fare.
Del resto, mi si perdoni la banalità e la battuta quasi Berlusconiana, credete a me.

Angèla, oltre ad essere meno bella, non vale nemmeno un quarto di una punizione di Zico.

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editoriale di K.

" Bella la bandiera / la più bella che ci sia / cara, la bandiera / la più bella che ci sia…" (Edoardo Bennato - La Bandiera da "I Buoni e i Cattivi" 1974)

Bandiera Bianca cantava un cantautore musone che preferiva l'insalata a Sinatra, oppure Bandiera Gialla "rigorosamente riservata ai giovanissimi, ripeto, ai giovanissimi, tutti gli altri sono pregati quindi di spegnere la radio…".
Il gioco della bandiera che ci si strappava di mano da piccoli e la bandiera d'armi che s'innalza durante i giochi da grandi.
Le bandiere slanciate in aria dagli alfieri nei cortei in costume e l'antica bandiera con le teste di moro della Sardegna.
Le bandiere delle squadre di calcio sventolate nel mare dello stadio e le bandiere sugli alberi delle navi per comunicare a distanza sull'oceano...

La bandiera dei pirati e di Pippi Calzelunghe, teschio e tibie.
La bandiera delle brigate rosse o nere o con la piuma.
La bandiera del Papa con le Chiavi di Santiddio.
La bandiera con la svastica emblema del Demonio.
La bandiera falce e martello… "bandiera rossa la trionferà!".
La bandiera e le sorelle "fatti più in là".
La bandiera universale su cui tutti spariamo a zero.
La bandiera con il faccione del Che, del Gandhi, del Martin Luther, dello Steve Jobs...

La bandiera con la Mezzaluna.
La bandiera con le Stelle.
La bandiera con l'Arcobaleno.

E infine la Bandiera d'Italia nella home.

"Basilico mozzarella pomodoro". Come raccontò T. a I. e lei ci credette.

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editoriale di Precisino

Il sogno di chiunque!
La compilation perfetta.

Divago un attimo e poi ritorno: Io amo l’italiano. Ma non per orgoglio o per vanagloriosa dignità di lignaggio. Ma semplicemente perché è una lingua bellissima.
Variegata, complicata, equivoca. Semplicemente ricca. “Vocabolaria”, multipla, ma anche povera d’intenti dialettali. Grassa. Umida al punto giusto.
L’inglese, invece, è secco. Non suda mai. E’ come un clima nervoso. Ma d’un nervosismo asciutto. Come i tendini di uno stambecco, abbarbicato (traducete questo) su di una roccia spigolosa.
Ma questo (compilation) è uno dei pochi casi in cui una parola in inglese non abbia una traduzione reale. O, almeno, una traduzione efficace.
Forse è perché vengo da un’altra era (e qui ritorno al punto). Un’era in cui, quando conoscevi una fanciulla (ed eri un appassionato di musica) e t’innamoravi, pensavi che, per conquistarla, dovevi farle una compilation.

Un’era in cui la musica era linguaggio.
E il supporto, cazzo!

TDK C90 (E, come direbbe Peppino...)
Quelle grigie, non ancora inutilmente trasparenti (l’interno non mi è congeniale. Qualcuno, addirittura, dice che se disegni da bambino uomini trasparenti, con gli organi interni visibili, sei un potenziale Serial Killer! “Potenza della lirica…”). Quelle che, a dispetto del colore, erano perfette. Ne ho ancora diverse funzionanti, dopo anni di fottuto, onesto, lavoro.

Penso di aver perso più tempo a fare compilation che a dire davvero alle dirette interessate quello che provavo.
E ancora oggi, la cerco.
Lei...
La compilation perfetta.

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editoriale di emofiliaco

Una leggenda metropolitana fa derivare la parola “snob” dalla contrazione della locuzione latina “sine nobilitate” e originalmente (il Treccani mi viene in aiuto) significava di “basso ceto” e (“copia incollando” sempre dal dizionario) si riferisce a “chi ammira e imita ciò che è o crede sia caratteristico o distintivo di ambienti più elevati; chi ostenta modi aristocratici, raffinati, eccentrici, e talora di altezza, superiorità. ”.

Nata in Inghilterra a metà ‘800 per definire una “persona non fine, non adeguata a un ambiente colto e raffinato” ha attraversato più di centocinquanta anni cambiando decisamente significato ed adattandosi ad esigenze culturali decisamente modificate.

Però a rileggere bene le definizioni devo correggermi: il senso del termine in un certo modo è rimasto lo stesso, a cambiare è stata l’ampiezza del raggio di provenienza. Se in epoca vittoriana era probabilmente usata in ambienti per lo più nobiliari ora il suo uso è trasversale. Gode di un’ubiquità talmente imbarazzante da essere usata come rimedio universale (una sorta di panacea linguistica in caso di difficoltà dialettiche) anche in discussioni sorte davanti al bancone della più bieca bettola della bassa.

Si capisce che in tali condizioni la variabilità del contesto rischia di far subire a qualcuno (persino a un “nazionalpopolare” come il sottoscritto) l’epiteto in modo “randomicamente” selvaggio.

Per prevenire qualsiasi obiezione la grande mamma “internettiana” Wikipedia mi suggerisce di non confonderla con la l’espressione “Radical Chic” che è “semanticamente il suo contrario” (giuro che son mesi che ci penso senza riuscire a scovare l’inghippo) mentre il buon senso mi suggerisce di tenermi lontano pure da quella bellissima parola che è “hipster” (purtroppo nonostante credessi, e sperassi, di esserlo ultimamente mi han convinto che non lo sono, ancora: ci sto lavorando).

Una storia che assomiglia a quella della parola greca “βάρβαρος” (un’onomatopeica che stava per “balbuziente” termine con cui i greci antichi indicavano chi parlava male la lingua quindi gli stranieri) passata agli antichi romani nel senso di contrapposizione tra loro (civili) e i popoli non romani da civilizzare con la differenza che alla fine (citando ancora wikipedia) il "barbaro" era uno strumento essenziale che i popoli greci, prima, e romani, poi, utilizzavano per definire sé stessi, prendendolo come pietra di paragone, in quanto "anormale" rispetto agli standard, per poter definire la "normalità".

In un certo senso si potrebbe dire che chiunque a questo mondo usa il termine “snob” per giustificare se stesso (le sue attitudini, i gusti, la professione, le vicende personali) non accorgendosi che è proprio questo tracciare confini che è terribilmente snob (o almeno potrebbe sembrarlo ai più). Per fare un esempio e parlando di affinità musicali è molto divertente pensare che concreto è il rischio che una conversazione tra appassionati di Punk (ma metteteci qualsiasi genere di matrice Pop-Rock: ho scelto il primo che mi è venuto in mente) rischi di diventare snob tanto quanto una tra appassionati di Classica…

Insomma, chi/cos’è che nel 2012 E.V. può essere definito snob? E’ più snob un ministro della repubblica che raccomanda ai giovani di non esser troppo “choosy” (mentre lei due figli li ha già bei che piazzati al posto “giusto”)? Chi del termine (“choosy” dico) comincia a farne abuso? O chi si lamenta di chi ne abusa (e scusate il gioco di parole)?

“Alternativo” e “Indie” sono parole, atteggiamenti, modi di vivere snob?Sarebbe simpatico chiudere dicendo che ”snob è chi snob lo fa” oppure con una bella lista di dieci atteggiamenti “snob” ma preferisco suggerire di immaginarvi in un’orda di snob provenienti dalle steppe della supposta superiorità intellettuale mentre invadete l’Impero degli Alternativi Indie. Al grido di “Sine Nobilitate”!

Giuro che il prossimo vi apparirà meno snob.

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