editoriale di Geo@Geo

«Fratelli e sorelle buonasera, voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma e sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo alla fine del mondo... ma siamo qui».

Alle 19.06 del 13 marzo 2013 la fumata bianca che ha annunciato al mondo l’elezione del 266esimo Pontefice, certo non ci aveva preparati ad essere testimoni di un fatto, se non unico, sicuramente epocale: due Papi in condominio.
Vederli insieme è un fatto che personalmente mi disorienta, fosse solo per… “morto una Papa, se ne fa un altro”, le dimissioni non rientravano nelle mie visioni o semplicemente non avrei pensato che ci potessero essere.
Vederli insieme, eppure così lontani, non può che aggiungere un sottile senso di vertigine: di sicuro il loro presentarsi al mondo e ai fedeli non può che aver approfondito il solco che li divide.

Questo Francesco viene dall’Argentina, uno stato un cui la Chiesa sostenne la dittatura e nel settembre del 1979 permise il trasferimento di prigionieri in un’isola dell’Arcipelago del Tigre, detta Isola del Silenzio (…) , ma allora il nostro gesuita non aveva alcun incarico o potere decisionale. Negli ultimi mesi assistiamo ad un comportamento inconsueto per un Papa, che cerca di “spostare” la sua Chiesa dal piedistallo “montano” in cui si trova, giù a terra a “livello del mare”: un lavoro che ha bisogno di uno sforzo comune, ma che per il momento sembra portare avanti da solo.

Non penso di incorrere in blasfemia se ricordo una vecchia canzone di Battisti, poiché mi verrebbe da dire "Non è Francesco, ma…"

Un Papa che mai come prima è riuscito a darci un senso di appartenenza e di fratellanza, al di là di ogni fede o religione, solo con la sua presenza e le sue parole semplici e dirette.
In questo periodo di grandi incertezze e di pazzia collettiva il Vescovo di Roma è veramente il Vescovo di tutti e finalmente…: “Annuntio vobis gaudium magnum: Habemus Papam!

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editoriale di Hank Monk

Pochi al mondo cercano di afferrare il problema, altri se ne infischiano completamente.
C'è chi, per puro scrupolo a volte dà una breve occhiata; chi passa con un sorrisino imbarazzato, come per dire: "ma che vuoi che sia". Altri ne percepiscono magari il dramma ma hanno altre priorità, una pacca sulla spalla e via. Oppure c'è chi ci prova ma desiste a fronte delle difficoltà, o chi irrompe prepotentemente (e sono i peggiori) convinti che il cambiamento possa avvenire dall'oggi al domani.

Forse non ce ne rendiamo nemmeno conto, e forse potremmo addirittura essere noi stessi. Potrebbe essere quella signora, in coda dietro alla ragazza carina, o il piccoletto con gli occhiali che si affretta a riempire la sportina. E quel nostro conoscente, che in compagnia ride sempre forte, ma ha quel non so che di triste nello sguardo, siamo proprio sicuri che ne sia fuori?

Cosa ne è di queste persone quando voltiamo lo sguardo?
Cosa ne sarà di noi quando saranno loro a voltarlo?

Cambiando discorso per un attimo, non pensate anche voi che il Macca sia sempre stato un gran paraculo?
Io ne sono fermamente convinto, non lo nego: un canzonettaro, un piacione.

Eppure a volte mi ritrovo a canticchiare "Eleanor Rigby" e mi sento di volergli bene.

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editoriale di ionecapisco

Le Offese, oggi protagoniste assolute del nostro comunicare, del nostro essere, del nostro pensare: a volte ci auto-Offendiamo senza neanche meritarcelo. E' il sintomo inconfutabile che la nostra Società sta degenerando, corrosa da un crisi che non è soltanto economica e finanziaria, ma è anche una crisi di ideali, del rispetto, della solidarietà, dell'equilibrio, dell'etica personale e professionale, dell'educazione, della tolleranza.

Dove non c'è spessore politico, culturale, sociale, ci sono le Offese: prendono il posto degli argomenti e dominano i discorsi, che poi non sono più tali, sono solo Offese. Ogni posto, ogni luogo, diventa come uno stadio, in strada, al bar, in ufficio, alla Camera ed in Senato come al circolo e al pub, ci si schiera da una parte o dall'altra, ma sempre con Offese e capisci da che parte si sta solo ascoltando le Offese e dove vengono destinate.

In tv quanto audience grazie alle Offese? Programmi beceri che a loro volta Offendono chi li guarda.
Politici votati dopo campagne elettorali intrise di Offese, che poi governano in modo Offensivo per il Paese e quelli non eletti Offendono chi è stato eletto e poi anche chi ha pensato di votarli.

Offese in internet, tra gente che neanche si conosce.
Offese a tutti livelli, Offese a chi lavora, e a quelli che non lavorano.
Offese agli animali, al verde, alla natura, a questo pianeta.
Offese a chi l'ha generato, a chi ci ha generato, ne abbiamo per tutti.

Quando penso che questo Paese è stato la culla della civiltà nel Mediterraneo per secoli... divento preda di tristezza e sconforto.

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editoriale di ilfreddo

Un mediocre fotografo è colui il quale usa in modo gratuito e spropositato lo zoom per evitare di dover spostare il culo ed andare alla ricerca della giusta inquadratura d‘insieme capace di meritare quel bel rumore. Click. Conscio di questo ringiovanisco di almeno vent'anni e mi ritrovo ad essere un bambino la notte di Natale mentre godo del nuovo obbiettivo che mi sono regalato due mesi or sono: un piccolo cannone che uso senza remore nelle vicinanze del parcheggio, uno dei posti più tristi ed insulsi che conosco; dando l'illusione di sapere cosa sto facendo cerco di rendere particolare e speciale quel luogo masturbando con veemenza adolescenziale l’apparecchio che profuma di nuovo. Passo le foto al computer e mentre osservo questa lunga sequenza di inutili primi piani con asfalto, erba incolta, mozziconi di sigarette e vattelapesca che sfuocano il contorno vado con la mente altrove. In Grecia.

Alla radio nei mesi scorsi hanno fugacemente parlato proprio della Grecia. Questo paese, che fino a pochi mesi addietro, era al centro di tutti gli editoriali dei quotidiani europei ora sembra sia sparito o che si sia mimetizzato molto bene. Una vipera tra le foglie secche. Guido e vengo a conoscenza dell’uso di medicinali di serie B negli ospedali ellenici; del fatto che, causa malnutrizione/insufficiente apporto calorico, ci sono stati diversi svenimenti nelle scuole di Atene e provincia; che nell’inverno testé trascorso la popolazione, impossibilitata a pagare le bollette del gas, ha bruciato panchine ed alberi dei parchi contribuendo ad aumentare spaventosamente l’inquinamento dell’aria della capitale. Anni addietro ero rimasto abbastanza colpito dalla complessiva sporcizia delle isole greche: chissà come reagirei ora. Immigrati di seconda generazione stanno tornando nelle terre natie messi di fronte ai dati agghiaccianti della disoccupazione uniti al peso crescente del partito (?!?) “Alba Dorata“. Una volta erano i gruppi "evimetal" che ascoltavo ad avere nomi del genere. Seguendo la massa e le mode l’opinione pubblica ha il potere di mettere in risalto un tema per poi farlo scomparire nello sfuocato marasma generale in un lasso di tempo risibile.

Togliendo un po’ di zoom la precaria salute del sistema economico mondiale ha preso il sopravvento su tutto il resto ed è normale che sia così perché colpisce in maniera diretta quello a cui teniamo maggiormente: il nostro standard di vita. Siamo nel bel mezzo di una guerra e, come logico che sia, quanto accadrà nei prossimi anni avrà delle ripercussioni fondamentali per il riposizionamento degli equilibri geopolitici mondiali.

Mi preoccupa terribilmente questo stato di cose: come molti sono un machiavellico ed egoista del cazzo e ho paura che non potrò più avere tutte quelle cose, in gran parte inutili, che compro e che mi ricordo di avere solo quando rischio di dovermene sbarazzare. Anche se non lo dico, e magari mi sciacquo la coscienza con un R.I.D. a "Save the Children", fondamentalmente me ne fotto delle persone che muoiono di fame. Lo so perfettamente che è la loro costante morte e povertà che nutre il mio benessere e mentre generosamente, con il mio euro al giorno gli regalo da mangiare, con la mia indifferenza quotidiana faccio in modo che lo status non cambi. Ma vado a dormire tranquillo.

Trovo altresì interessante, usando sempre lo zoom, notare come l’opinione pubblica si sia ingoiata la spada di Damocle che da qualche decennio pendeva sulla nostra capoccia. Sembrerebbe, dal complessivo silenzio mediatico, che sia stato risolto definitivamente il problema del riscaldamento globale: il 21 dicembre dell’anno scorso, per gioco e poco sul serio, molti hanno volto lo sguardo al cielo in attesa di un fuoco divino. Pochi hanno realizzato che è assai più terreno ed umano il devastante colpo all’equilibrio climatico che stiamo assestando al nostro pianeta. Un pugno cazzuto, forse un K.O., perché non serve essere Mercalli per capire che questi scatti da 0 a 100 (freddo/caldo - siccità/diluvi da "Il Corvo" ed estremizzazioni climatiche in genere) vanno benissimo per le macchine da F1, non troppo per un clima temperato. Se prima si parlava e si faceva almeno un po’ di becera retorica/polemica tra nazioni sull’argomento ora è calato un silenzio agghiacciante! Sarebbe bello avesse davvero la consistenza del ghiaccio perché allora forse potremmo usare il teletrasporto e regalarlo agli orsi del polo nord che vedono la loro casa assottigliarsi con rapidità disarmante ed in totale silenzio.

Il senso di queste righe? Cercare di non dimenticare i contorni (io vi ho portato solo alcuni esempi) che, in base alle priorità del momento, tendono a finire in quel grigio calderone sfuocato. Cercare di usare con parsimonia lo zoom e muovere il culo per avere una visione d‘insieme che ci renda più consapevoli e meno dipendenti da quello che i media spacciano.

"Polar Power"- photo © Joe Bunni

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editoriale di zaireeka

Ieri (10/05/2013) ho assistito ad una puntata, almeno per me, davvero illuminante del “Crozza nel Paese delle Meraviglie”. Illuminante in quanto mi ha messo davanti una verità lapalissiana che però mi era fino a ieri difficile da riconoscere (povero pollo, e chissà quanto è affollato il pollaio...).
Il fatto è questo, e riguarda la nostra amata “Sua Emittenza”, aka “Il Cavaliere”.

Come tutti sappiamo (purtroppo), il personaggio suddetto, che ambisce da anni ad essere considerato il vero unico paladino degli interessi e dell’orgoglio del Popolo Italiano nel mondo, non fa altro, da quando è sceso in politica (più o meno dal ’94), che portare avanti l’idea che i PM di Milano, in primis tale Ilda Boccasini, ce l’abbiano con lui per fini politici e lo perseguitino in maniera del tutto ingiustificata contro gli interessi stessi del popolo italiano.
Io personalmente mi ero fatto l’idea che effettivamente questo gruppetto di giudici, non so se in verità per fini politici o no, chiusi e barricati casualmente in un ufficio del tribunale di Milano (forse perché il tribunale di Milano sembrava avere le mura più alte a prove di parlamentari del PDL?), si divertissero effettivamente a sparare da anni contro Berlusconi bordate di sentenze che quei “poveracci” dei suoi avvocati tentavano in tutte le maniere di parare.
Tutto questo mentre i giudici “buoni” o almeno “equilibrati” delle altre procure italiane non avevano poi in fondo molto di negativo da dire e trovare sul “Divo Silvio”.

Crozza ieri mi ha fatto capire la grande verità.
Più o meno testualmente ha detto durante il suo spettacolo: “Lui accusa i giudici di Milano di perseguitarlo… Ma la ragione di tutto ciò è che si sono trovati a doverlo fare proprio loro semplicemente perché Berlusconi ha scelto come sua residenza privata e come sede della maggioranza dei suoi affari la città di Milano, o comunque luoghi su cui il tribunale della città di Milano è competente dal punto di vista giuridico… La Boccasini ed i suoi amici sarebbe stati ben felici di lavorare di meno se Berlusconi avesse deciso di vivere e risiedere in un’altra parte d’ Italia…”.
Insomma, se è vero quello detto da Crozza (il dubbio è sempre lecito, non mi sono documentato a sufficienza sui dati reali), come al solito, è solo una questione di statistica.

Se tu sei solito ogni dieci affari che fai cinque compierli ricorrendo ad illeciti, se in una città ne fai solo due è facile che siano affari puliti (almeno si spera, altrimenti si può pensare che se non è illegale non ti piace).
Se d’altro canto in un’altra, nella fattispecie Milano, ne hai fatti venti, è molto probabile che almeno una decina siano “affari sporchi” e che, come tali, tu venga “perseguitato” dalla Giustizia.
Tutto qui, elementare Watson (e lo dico a me stesso).

Giudici politicizzati?
No, statistica.

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editoriale di geenoo

Due giorni fa è morto il mio cane. Era un San Bernardo femmina.
Aveva quindici anni, molto per la sua razza.
Era il mio cane, il mio primo e, per ora, ultimo cane.
Era l’unica femmina della cucciolata ed era destinata a morte sicura poiché non “vendibile”. Il suo destino era segnato: o la prendevo io o il giorno dopo sarebbe venuto il veterinario a finire la sua breve vita, a tre mesi dalla nascita.
Ebbi molti dubbi. Pensavo a come gestire un simile molosso, a quanto avrebbe mangiato, allo spazio che avrebbe occupato, alla sua indole vista la probabile mole (e se mordeva chi l’avrebbe fermata?). Tutti questi dubbi dovevano essere risolti entro dodici ore, poi sarebbe stato troppo tardi. I miei avevano sempre avuto cani e gatti, ma questa bestia sarebbe stata affidata a me. E ciò significava alimentarla prima di tutto e poi gestirla. Ero nel secondo lustro dei miei venti anni e di conseguenza ero ancora molto sognatore ma anche molto pragmatico. Avevo finito l’università e stavo entrando nel famigerato mondo del lavoro e questa del “cagnone” era una “grana” da gestire bene: chi cazz’ me lo faceva fare? Insomma, furono dodici ore frenetiche. In quelle dodici ore feci una capatina dallo stronzone che il giorno dopo avrebbe utilizzato una bella siringa per finirla, almeno così diceva. E vidi quel batuffolo bianco a chiazze marroni, con quel musetto imbronciato. A tre mesi già bella grande.
La decisione fu presa.

Nei primi giorni Lea si nascondeva a tutti. Poi pian piano si rilassò. Si fece accarezzare.
Crebbe. Crebbe molto. Diventò un gigante. Non era facile tenerla.
Era spettacolare in gioventù; per esempio quando vedeva un gatto ed in una frazione di un secondo decideva di seguirlo con uno scatto da felino. Nella frazione di secondo successiva io dovevo velocemente spostare il mio peso all’indietro e tirare il guinzaglio per cercare di frenare quella enorme massa di muscoli e pelo da settanta chili che voleva giocare.
E succedeva che il grande animale si impennava letteralmente superandomi in altezza mentre io tendevo allo spasimo il guinzaglio con tutte le mie forze. In quei frangenti la gente si paralizzava. Si congelava anche solo quando abbagliava.
Aveva un suono potente, cupo ed incuteva davvero timore.
Ma era dolce, era buona nel senso letterale della parola.
Era stupenda ed impressionante quando, in un prato, prendeva la rincorsa da cento metri e correndo mi veniva incontro con tutta la sua mole, e vi assicuro che non si fermava.
Si buttava addosso a me e, se non venivo sbattuto a terra (in quel caso arrivava con l’intento di slinguazzare e sbavare), si rovesciava sulla schiena zampettando al cielo.
Mi seguiva a testa bassa e giocava, correva come un mammut, si tuffava in acqua e poi se la scrollava di dosso inondando tutto e tutti. Era uno spettacolo.
Poi la vita va avanti velocemente. Gli anni passano, le vicende umane e canine pure.
E ci ritroviamo più vecchi.

Ora non abbaia quasi più, è molto più magra. Il suo pelo ha perso lo smalto e la sofficità.
Non corre, anzi purtroppo le zampe posteriori non la sorreggono più.
E’ diventata sorda. Ma quando mi vede riesce ancora ad alzarsi e venirmi incontro.
“Quando mi vede” perché ora è rimasta nella casa di famiglia ed io non sono più lì.
Era circa una settimana che non la vedevo. Poi non so perché, il lunedì decido di passare nella vecchia casa.
Non vado direttamente da lei, ora mi fa pena vederla e mi faccio un giro in giardino.
Poi sento tossire ed un impercettibile gemito, mi volto e la vedo sdraiata tra le margherite che mi guarda. Respira molto male. Non tento nemmeno di alzarla. Non so che fare. Riconosco quel respiro. Respira a tratti, tossisce. Ansima. La accarezzo e la accarezzo. Solo questo posso fare.
La guardo.
Poi decido di andarmene. Ma ritorno sui miei passi per un’ultima carezza.

Mi telefonano due ore dopo dicendomi che è morta.

In un attimo non penso più a nulla se non al mio caro cane.

Corri Lea, corri.

P.s. Lo so, è un editoriale “personale”, ma l’ho scritto non per un falso pietismo o sentimentalismo verso gli animali a-la-Bau&Miao o Arca di Noè di Canale 5. L’ho scritto perché sentivo di scriverlo e lasciare due righe per Lea prima di tutto, forse anche egoisticamente per i miei sedici anni di vita volati via con lei ma, più che altro, per riflettere sul nostro rapporto con gli animali.
Diamo loro troppo spazio ed importanza? Penso a tutti i programmi tv dedicati loro ad esempio. Ho sempre ritenuto che quello spazio/tempo sarebbe speso meglio per la gente che non ce la fa a mangiare. E nel mondo, ma già in Italia, ce n’è davvero molta. Prima le persone e poi gli animali. Penso alle signore che spendono 800,00 euro di toletta per le loro cagnoline. Ma penso anche ai bastardi che tengono i loro cani in gabbie di un metro per due. E poi li prendono la domenica mattina per andare a caccia e magari pretendono pure, nell'occasione, che siano docili con loro e che corrano prestanti.
Io credo che il nostro errore più grande sia quello di umanizzare gli animali.
Essi sono animali e debbono essere trattati da animali. Certo rispettati, ma senza esagerare.
Bene, però allora perché sento questa “cosa” dopo la morte del mio cane?

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editoriale di kosmogabri

L’altra sera ho rivisto un tizio in televisione, con la maglia e la sciarpa del Celtic, in trasferta a tifare per gli scozzesi contro la Juventus.
Lo hanno intervistato e non aveva niente del calciatore che fu, se non il pizzetto degli ultimi anni, quasi da ricordarmi l’impiegato dell’ufficio della poste sotto la mia vecchia casa. Poi ho capito che era Enrico “Tarzan” Annoni.

Chi non tifa per il Toro credo ignori o abbia ricordi vaghi di Tarzan, e nel nostro non può che vedere un uomo normale, uno come tanti che va in giro a tifare, per qualcuno o contro qualcuno ha poca importanza. Dopo qualche istante di perplessità l’ho riconosciuto perché il volto di Tarzan mi è sempre stato familiare, non sono mai riuscito a rimuoverlo o ad accantonarlo del tutto, e neppure mi è riuscito di confinarlo in quell’angolo della memoria dedicato a tutto ciò che è “ex”, inteso come prossimo all’exit e alla fuoriuscita dai ricordi: vecchie macchine, antiche compagnie, i breviamoriapalmadimaiorca e simili, tanto l’elenco è uguale per tutti.

Ogni volta che torno a trovare mio zio, vengo ospitato nella camera che mio cugino occupava fino ad una quindicina di anni fa, rimasta uguale anche dopo che se ne è andato di casa, con lo stesso letto, gli stessi libri sulla mensola, la stessa carta da parati, le stesse fotografie prese da un giornale sportivo e incorniciate con la scritta “due tori scatenati”, a raffigurare un mediano dimenticato dai più ed un coriaceo terzino del Toro dei primi anni ’90, quello che finì in semifinale di coppa Uefa o cose del genere. Tarzan.

Capita così che una volta ogni due o tre anni l’ultima immagine che mi appare prima di addormentarmi sia quella dei tori scatenati negli anni ’90, di una stanza da adolescente abbandonata a se stessa e ai due custodi in maglia granata, un tempo idolatrati, per qualche anno ricordati, quindi dimenticati e qualche volta riscoperti, riportati alla mia vita prima che lo faccia – sempre in modo saltuario e occasionale – la televisione o qualche sito internet.

Lo stesso che mi è capitato quando ad un’asta su ebay ho recuperato tutta la serie de “I tre investigatori” e dei “Pimlico Boys”, i gialli dei ragazzi che leggevo quando facevo le elementari o le medie, e mi mettevo io nei panni del quarto investigatore, e la mia camera non era più la mia camera e le finestre si aprivano su Rocky Beach, su Norfolk, sulla caverna del diavolo o sul bosco delle streghe, e mi trovavo a combattere contro i pirati dell’atomo o su chi metteva Londra nel terrore.

Ho provato a rileggerne uno, che mi era sfuggito negli anni ’80, ma facevo fatica a riconoscere luoghi, spazi persone, un po’ come l’altra sera non ho riconosciuto di primo acchito Tarzan Annoni, e davvero lo avevo scambiato per il mio vicino di casa o per un qualche personaggio che vedi sempre ed ovunque, senza davvero riconoscerlo.

Qualcuno mi ha detto che “ife is only as good as the memories we make", e molto spesso ci credo pure io, mi sono sempre beato di ri-conoscere il mio passato, la fisionomia di una persona (basta puntare agli occhi, quelli non cambiano mai, neppure dopo trent'anni), di un luogo, di una Opel Kadett.

Del resto, c'è chi passa i pomeriggi su Google Maps ha riscoprire i posti dov'è cresciuto, o a programmare viaggi immaginari in luoghi in cui non è mai stato, ma che ha sempre creduto di conoscere, magari per averci passato i migliori anni "in un'altra vita, quella precedente".

C'è chi spera in quello che uno scrittore siciliano del secolo scorso chiamava il "miracolo del bis, il bellissimo riessere". Come mio cugino che spera nel Toro in Coppa, e non stacca i poster dalle pareti della camera dove qualche volta tornano a giocare i suoi figli.

Ecco perché mi è difficile spiegare il senso di libertà che ho provato quando per la prima volta dopo tanti anni mi sono smarcato dall’immagine di Tarzan Annoni, per correre verso la porta.

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editoriale di emofiliaco

Qualche anno fa, prima che venisse “disperso” in cinque luoghi diversi, ebbi l’occasione di visitare il Messner Mountain Museum che allora era collocato nel solo Schloss Juval.
Quello che ancora oggi ricordo più volentieri fu che la guida ci spiegò che Reinhold Messner aveva concepito quel luogo oltre che per raccogliere la sua collezione privata di opere artistiche dedicate alla montagna anche per celebrare la divisione dicotomica tra la sua anima, natia, sudtirolese e quella, acquisita, tibetana.

Davanti a un quadro che raffigurava il Kailash ci fu spiegato il particolare rapporto che l’alpinista di Brixen aveva con quella montagna.
Luogo sacro per molte religioni e dottrine di quella zona (Tibet, India, Nepal) sorge in territorio cinese e vanta il record di non essere stata ancora scalata: non per le difficoltà visto che è alta "appena" 6'638 metri e nemmeno (a dire degli esperti) per particolari disagi tecnici ma perché semplicemente, in quanto, a seconda del “rito”, ritenuta Centro dell’Universo, Residenza di Shiva, Sede dello Spirito, eccetera.
Quindi inviolabile.

Chi ci accompagnò ci raccontò che questa cosa non andava (e non va probabilmente) giù alla Repubblica Popolare Cinese tanto che questa spediva annualmente permessi (non richiesti!) urbi et orbi al mondo alpinistico internazionale (quindi anche allo stesso Messner) per scalarla, ricevendo puntualmente, come risposta, picche. Ora io non so quanto ci sia verità e quanto ci sia leggenda in tutto ciò ma mi piace pensare che da qualche parte nel mondo ci sia un posto ancora inviolato e quindi perfetto.
Ora potrei rompervi le scatole con discorsi semantici sul vocabolo “perfetto” ma non lo farò. Fidatevi per una volta e in cambio io “perdonerò” eventuali proteste sul fatto che nella Terra c’è più di un posto ancora “intonso” (si, ma non ditemi la Fossa delle Marianne per favore: non lo è più da tempo).

Spesso mi scopro a pensare e rimuginare su quella gita e su quella storia e altrettanto spesso cerco d’individuare nel mondo quelli che potrebbero essere i miei “Kailash personali”: luoghi intimamente sacri da rispettare, non violare e conservare in una perfezione del tutto campata in aria (è ovvio che spesso se non io altri per i fatti loro l’hanno cancellata) ma personalmente reale.
Un’altra “leggenda” narra che quando gli chiesero “Perché scalare l’Everest?” Mallory rispose “Perché è là.”.

Forse qualcuno, magari convinto della sacralità della Madre dell'Universo, avrebbe voluto dirgli in cuor suo (e anticipando DeBaser di qualche anno) “…ma anche no.”.
Ma luogo comune per luogo comune questa è un’altra storia.

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editoriale di zaireeka

Sono qui a casa, un po’, con grande fatica, davanti al computer, più spesso davanti alla tv, che girovago annoiato e distratto cercando di ingannare il tempo della mattina. Ho appena sentito in tv la dichiarazione post-consultazione con il Presidente della Repubblica dei due capigruppo alla Camera ed al Senato del movimento politico che è stata la vera sorpresa delle ultime elezioni politiche italiane.
Anche questa volta, ostinatamente, si sono mostrati rigidi ed inflessibili sulle loro posizioni, tutti di un pezzo.

Confesso che il tutto mi affascina: l’idea di questa marea di cittadini comuni, di purezza ed onestà indiscutibile, puri come diamanti, tutti sotto una sola bandiera, che, con giustificata arroganza invadono le istituzioni e il parlamento, è semplicemente meravigliosa.
Forse mi ricordano qualcosa, ma preferisco non pensarci.
Sicuramente qualcosa di buono potranno portare all’Italia, ed il rischio di rimettere in gioco, con la loro posizione, personaggi dalla dubbia reputazione, è un problema che va considerato marginale (loro la pensano sicuramente così).
Del resto il loro capo, piuttosto astioso e dal non trascurabile ego, senza mostrare il minimo dubbio, “dice che il movimento vincerà.”.

Può essere.

Dopo aver sentito la dichiarazione in tv, mi sposto davanti al computer.
E leggo: “E’ morto Pietro Mennea. L'ex olimpionico si è spento a Roma a 61 anni. Era malato da tempo. Oro ai Giochi di Mosca, il suo primato mondiale sui 200 metri ha resistito per sedici anni.”.
E per incanto comincio a pensare a quegli anni di piombo ed oscuri della Prima Repubblica, clientelisti e democristiani (nel Sud non ne parliamo…), socialisti e corrotti, che forse la maggioranza degli eletti nel movimento nemmeno ricordano non essendo ancora nati.
E a quello che in quegli anni questo maledetto paese è riuscito a produrre fuori e dentro il parlamento, nonostante tutto.

Mennea era uno di queste cose.
La Presidenza di Sandro Pertini (e lo cito non casualmente in quanto il savonese, guarda caso vicino di casa del leader, ha dedicato la sua vita a combattere il “pensiero unico”), in tutt’altro campo, un’altra.

Ed allora voglio chiudere questa lamentazione, caro amato leader di questo meraviglioso movimento, ricordandoti una delle strofe più belle di quello che è stato uno dei tuoi più grandi amici (dicono che tu sia stato l’ultimo degli estranei alla famiglia a vederlo prima che morisse).
Eccola qua: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.”.

Ricordatela.

Io, dal canto mio, userò quei versi per convincermi che quanto fai possa in fondo davvero migliorare il Paese, un giorno.
Insomma se non proprio come un fiore, immaginarti almeno come un qualcosa che ne possa permettere la crescita.

E’ tutto, ciao Beppe e buona fortuna.

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editoriale di emofiliaco

Probabilmente sarò démodé però credo ancora nel motto “Conosci il tuo nemico per poterlo combattere.”.
Questa caratteristica fa sì che ogni giorno passi un po’ del mio tempo a leggere, sul web ma anche in cartaceo, giornali e altri prodotti editoriali che considero deleteri per l’umanità. Lo stesso vale pure per Tv, Radio e altri media. Va da se che spesso nel pattume possa crescere, se non fiori, qualche erbetta e quindi mi capita di trovare spunti di riflessione se non qualche punto d’accordo/contatto.

Oggi mentre leggevo un “quotidianaccio” milanese mi sono imbattuto in un vero genio del pensiero contemporaneo: in un articolo dedicato alla nuova edizione del talent show culinario “Masterchef” uno dei tre “giudici” (non ricordo quale) ha espresso più o meno questo concetto (vado a memoria cercando di preservare il significato “intrinseco”): il nostro è un talent diverso perché non è come quelli musicali che se sei stonato sei stonato e stop, qui chiunque riesce a cucinare (anche se non è detto che lo sappia fare) e quindi pensa “tanto vale provarci”.

Ora io considero come uno dei mal del secolo (subito dopo, come già detto, l’insoluto di pagamento e il relativismo) i talent show: beceri prodotti di protagonismo solipsistico da parte di personaggi che altrimenti sarebbero a cogliere le “maruzze” (televisivamente parlando) che tra le altre cose discendono direttamente dal desiderio voyeuristico del popolino che una decina d’anni fa ha fatto germogliare i reality (show).
Aggiungo che ho cominciato a mal tollerare questo fiorire di programmi culinari in un onanismo gastronomico che ha fatto nascere dei veri e propri mostri “papilliferi”.

Ma il punto non è questo perché quello che mi lascia perplesso è che uno che, teoricamente, dovrebbe saper cucinare (e quindi conoscerne le regole: perché ci sono e piuttosto complesse) visto il “ruolo” possa solo svilire con un tale parallelismo quello che è uno dei modi più efficaci di donare felicità (e dal mio punto di vista pure di esprimere talento artistico).

Ok. Le attenuanti forse si trovano nel fatto che non è quello che realmente pensa ma semplicemente porta alla luce quello che potrebbe essere un pensiero diffuso ma il dubbio enorme rimane e si contorce nello stomaco come la pasta mal lievitata di una pizza mangiata a mezzogiorno (non si fa!).

Intendiamoci: tutto sta da quale pulpito proviene la predica. Io sono “cresciuto” a pane e tv locali dove veri maestri della cucina tradizionale regionale badavano al sodo (e scusate il gioco di parole) e soprattutto non cucinavano in abito da sera (e a querelle su gatti in umido avrebbero reagito come chiunque, armato di buon senso e umorismo, dovrebbe fare: con una risata) e non usavano termini come “disgustato”.
Apparire forse è tutto e la forma sta sconfiggendo la sostanza ma rimango convinto che eleganza e competenza possano convivere: il problema è capire è chi non vuole che ciò succeda.

Ah… il titolo?
Secondo la commedia “Sapori e Dissapori” la risposta è “burro, burro e burro.”.

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editoriale di kosmogabri

Cioè, voglio dire, voi mi capite. Non è che per forza si riesca sempre ad avere delle cose interessanti da dire. Contemporaneamente non è che si abbiano sempre delle cose interessanti con cui controbattere o solo dare un parere. Se si chiede di condividere ok, ci sta. Ma se semplicemente si parla di emozioni, di cose personali, idee e pensieri, non è che per forza si debba dare il proprio giudizio, pensando magari di avere ragione sui pensieri degli altri. A volte il silenzio vale più di mille parole. A volte il silenzio invece fa male come e più di un calcio nello stomaco.

Penso a quella volta che camminando per strada ho visto scritto su un muro “Un giorno io ho cagato qui!” e c’era una freccia che andava ad indicare un punto verso il lato basso della strada. Divertita e incuriosita (sono semplice, a me la cacca fa sempre ridere) ho potuto osservare le diverse reazioni della gente che passando la leggeva, essendo ad altezza occhi: chi commentava scandalizzato, chi rideva di gusto, chi si lamentava con indignazione e chi addirittura scattava foto. Qualcuno poi non ha mostrato alcun interesse, altri non l’hanno manco vista.

Solo dopo qualche giorno è apparsa di fianco la scritta “Bravo. E io un giorno ho letto sta’ cagata!”.

Ce n’era bisogno? Si. No. Forse. Voi cosa ne dite?

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editoriale di isidax

"Io vedo poco e devo portare gli occhiali che a me non piacciono, perché sono già brutto e mi fanno diventare schifoso.
Vorrei chiuderli nel cassetto senza mai più riprenderli, ma non posso.
A me non piace portare le camicie perché mi danno fastidio.
Pensando a come mi devo vestire alle nozze di mio zio Angelo io e mia mamma litighiamo perché lei mi dice che dovrò portare la camicia.
Invece a me piace portare i maglioni alla dolcevita perché quelli non mi grattano il collo.
Sono piuttosto timido e quando mi dicono qualcosa mi metto a piangere.
Vorrei proprio darmi delle sberle!
A me invece piacerebbe essere robusto, coraggioso e felice.
Mi trovo molto bene nella mia scuola alta e robusta, ho dei compagni buoni, scherzosi e, certe volte, asini.
La mia maestra è buona, bassa coi voti ma io che sono piuttosto bravo ho anche parecchi dieci, nove e otto.
Se cambierei questa scuola io diventerei pazzo, perché qui mi trovo più bene di un re, ma purtroppo fra un anno e mezzo la devo lasciare per andare alle medie, come tutti gli altri ragazzi.
Dietro al mio banco c'è Massimo S., un ragazzo alto, simpatico ma un poco stufone, perché allunga sempre le gambe fino sotto la mia sedia e mi fa solletico.
Desiderei che non mi faccia più solletico, perché io lo soffro molto.
In storia e geografia ho un voto non molto bello perché, mentre studio, mi perdo via con le mosche che girano intorno al lampadario e con i cani che abbaiano nei piazzali..."
9 Marzo 1972

Ricordo sempre quella mattina a scuola, dopo la ricreaziona la maestra decise di farci giocare nel cortile.
Era una luminosa mattinata di Maggio, Mario se ne stava , al solito, un po' in disparte poi disse :"Signora maestra... mi fa male la testa." Il bidello lo accompagnò a casa, poi l'anno scolastico finì senza che lui tornasse.
Ancora oggi, dopo quarant'anni, ogni tanto penso a lui, al suo sorriso timido, ai sui capelli biondi e alle, ormai solite, dieci calle bianche che da quarant'anni sono lì, sempre fresche, sotto la suo foto e il suo nome.
Mario d'anni dieci.

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editoriale di mauro60

L’Uomo è portato a pensare di essere il fulcro delle Cose. L’Uomo pensa: “La cosa più piccola che esiste è quello che possiamo vedere con i più potenti microscopi a disposizione o quello che la nostra mente può immaginare di studiare.”. Ed anche: “La cosa più grande è quella che i più grandi telescopi possono rilevare o che la nostra mente può immaginare di studiare.”. Risultato: l’Uomo pensa di essere più o meno al centro di un segmento che rappresenta l’Universo, figurato - idealmente per intenderci - congiungendo l’entità più grande a quella più piccola concepita. Il problema è che quasi sempre l’immaginazione è ridotta.

Quando avevo circa quindici anni lessi una storia a fumetti messa a chiusura di un giornalino di supereroi della Marvel Comics. Un racconto “illuminante” per me, e faceva più o meno così: in un lontano futuro una spedizione di uomini parte con un astronave e va nello spazio profondo con l’obiettivo di scoprire dov’è il confine dell’Universo e cosa c’è oltre, se c’è qualcosa. Dopo varie peripezie la squadra di astronauti si ritrova ad avere lì davanti il confine dell’Universo (non mi ricordo come fanno a capirlo ma prendiamola così). Chiamano la base sulla Terra e dicono: “Ci siamo, questo è un momento emozionante, fra poco vi diremo cosa c’è oltre: il Nulla o Dio.”. L’ultimo disegno del racconto fa vedere una piccolissima astronave (cioè loro) che, uscendo da un pallone, si ritrova in un enorme campo di calcio.

Morale: il nostro Universo, che ci pare così grande e infinito, se noi non ponessimo l’umanità al centro del mondo potrebbe essere un niente in rapporto a ciò che Esiste. Un punto qualsiasi, all’inizio, alla fine o in posizione iesima sulla linea immaginaria di ciò che E’. Lo spazio, il tempo, è tutto relativo. Un senegalese che ti si avvicina e ti offre un accendino da comprare e che per far vedere che l’oggetto funziona gira la rotellina e fa schizzare le scintille prima dell’accendersi della fiamma, bene, quell’evento che per noi ha dimensioni piccolissime e una durata di qualche decimo di secondo potrebbe essere l’arco di esistenza di un Universo, comandato da proprie leggi fisiche che ha durata, per chi c’è dentro, di miliardi e miliardi dei loro “anni”.

Mi vengono ancora i brividi a pensare a quei momenti in cui, ragazzo, avevo scoperto questi nuovi orizzonti, non tutti compresi a quel momento, ma che sarebbero destinati ad essere nel tempo punti di riferimento del mio modo di ragionare e di affrontare le cose.

Noi siamo niente in confronto alla vastità dell’esistente. E’ giusto che gli uomini studino, scoprano, cerchino la verità e le leggi della Natura, ma lo devono fare sapendo che serve fino a un certo punto perché non potremo mai avere la pretesa, coi mezzi che abbiamo o che avremo nel futuro, di rispondere a domande tipo: “Dove finisce l’Universo?” “Come è nato?” “Quando finirà?” “Chi o cosa l’ha creato?” Solo dannate ipotesi.

Non dico che l’umanità non deve tendere a studiare e a cercare risposte, fa parte della propria natura la fame di conoscenza e serve al progresso, basta però che lo faccia tenendo presente con la dovuta umiltà che l’Uomo è una piccola, infinitesima parte del Mondo. E con questa consapevolezza e umiltà si deve rispettare, amare e vivere. Siamo un mattoncino di questa magnifica Realtà: che l’abbia creata Qualcuno che ci ama o, come io penso, Qualcosa che ci ignora, per certi versi ha un’importanza relativa.

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editoriale di ilfreddo

Il problema è che ogni bipede, in quanto governante e re assoluto del proprio agire e pensare, è condannato a credere di avere sempre ragione. Se commettiamo un errore le circostanze eccezionali, o le mancanze altrui, giustificano quel comportamento anomalo rendendolo inevitabile e quindi accettabile. Non possiamo essere parte del problema che, giocoforza, va ricercato all‘esterno nei meschini e riprorevoli comportamenti del resto della popolazione. Ma se ognuno ha questa cognizione di sé, come è possibile giustificare tutto lo schifo che ci circonda quotidianamente e che si perpetra nel tempo? Se tutti pensano di essere - il fatto che non lo diciamo apertamente non conta un cazzo - speciali e fuori dal comune rispetto alla mediocrità come può questa splendida moltiplicazione dare un risultato così scadente?
I conti non tornano.

D’altro canto siamo tutti CT della nazionale e voteremmo volentieri per il partito che vede noi a capo: i soli capaci di risolvere in pochi anni tutti i problemi con un sonoro schiocco delle dita. E' normale che sia così: in qualunque landa siamo nati ci hanno inculcato nei secoli a martellate, a seconda del fan club divino di appartenenza, l’idea che siamo stati scelti da un essere/entità superiore. Posso capire che nell’ignoranza dei tempi che furono si potesse anche credere ad una cosa del genere, ma ora…
Provate ad osservare la luna di stasera. E’ distante poco più dei cento metri di Bolt alla velocità della luce. Il disco arancio che colora la sera? Una canzone medio lunga dei Pink Floyd. Dati questi banalissimi paletti la mia mente, non so la vostra, non riesce a materializzare i confini di una distanza assolutamente risibile come quella di un pidocchioso anno alla velocità della luce. Ma il culo dell’universo è molto più grosso: una manciata di miliardi di anni più grosso e credere che quel granello di sabbia, quello blue e carino, sia stato unicamente scelto con cognizione di causa da un posto grande come qualche milione di miliardi di deserti del Sahara è follia. Da un punto di vista probabilistico, e con le giuste proporzioni, capisco perché tanta gente sputtani il proprio stipendio nei videopoker et similia.

Sarebbe interessante se la gente imparasse ad ammettere che siamo semplicemente frutto del caso. Passando dal macro al micro, e qui concludo, mi viene da pensare a quanti miliardi di “girini”, che abitavano nei testicoli di mio padre, sono morti su di una maglietta/fazzoletto oppure spiaccicati contro un muro di lattice. Non sono venuto al mondo perché più resistente, forte e furbo degli altri. A seconda della prospettiva ho avuto culo/sfiga.
Non siamo esseri speciali, ma animali pieni di tutti quei difetti che si palesano quotidianamente sotto i nostri occhi e che alimentiamo in prima persona, in primissima fila. Forse con questa prospettiva diminuirebbero un po' le occhiate snob, e da lontano, che siamo soliti rifilare, scuotendo la testa, con cadenza giornaliera. La consapevolezza di essere figli del caso ci potrebbe rendere meno altezzosi e giudici nei confronti altrui in una costante gara di comparazione al ribasso per rendere più accettabili le nostre mancanze. Ecco il mio proposito del 2013: essere meno snob, cagazzi e giustificazionista per i miei, di errori.
Il fatto che queste due righe finiranno ammucchiate sotto la polvere in buona compagnia è ovviamente secondario.

Ma questo editoriale, a rileggerlo, pare proprio dimostrare che sia difficile, oserei dire impossibile, uscire da quel cerchio nel quale siamo condannati a girare come dei criceti del cazzo. Sempre convinti di avere ragione… siamo solo patetici.

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editoriale di Bartleboom

Alla batteria ci metterei senz’altro “E.”.
Ci eravamo conosciuti a sei anni, al corso di mini basket. Nel tempo siamo rimasti amicissimi, fino a condividere i gusti musicali e il sogno di diventare - a nostro modo -musicisti.
Solo che una batteria costa un frego di soldi, ci vuole un posto dove tenerla e, soprattutto, a meno che non abiti nella zona desertica compresa tra Lonate Ceppino e Peveranza di Cairate, al primo colpo di rullante i vicini chiamano l’ARPA e tuo padre si mette a smadonnare come neanche l’indimenticato Germano Mosconi. E, così, quando alla fine io e un altro paio di pulciosi siamo riusciti a procurarci chitarra e basso, “E.” si è comprato delle bacchette da centomila lire e ha iniziato ad esercitarsi con i cuscini del divano buono della sala.
Poi, al sabato pomeriggio, si andava tutti in sala prove a fare le cover dei Black Sabbath e lui picchiava come se non ci fosse un domani.
O come se non ci fosse altra batteria su cui picchiare.
Che poi era proprio così.

Alla chitarra solista ci metterei “D.”.
A diciannove anni aveva lasciato casa dei genitori ed era andato a vivere al limitare di un piccolo bosco, in una baracca di cemento in mezzo ad una discarica di marmo: trenta metri quadri circa, in cui “D.” era riuscito a ricavare soggiorno, angolo cottura, soppalco con zona notte, bagno e - soprattutto - sala prove.
Possedeva in totale quindici dischi (giuro), tra cui un greatest hits di Bob Marley e uno di Bruce Springsteen. Se gli parlavi di Vasco o di Ligabue, ti diceva una roba del tipo: “Con la roba che fanno, non sfonderanno mai.” (…).
Tecnicamente impresentabile, millantava una mai del tutto confermata frequentazione di un non ben precisato corso di chitarra latino-americana, che, a suo dire, aveva lasciato un segno indelebile sul suo chitarrismo naif.
Il suo motto preferito era: “A tutti piace bere il latte fresco. Ma nessuno vuole svegliarsi alle quattro per andare a mungere la vacca”.
A distanza di dieci anni rimane uno dei più grandi insegnamenti che un essere umano mi abbia mai regalato.

Al basso ci metterei “F.”.
Conosciuto sui banchi del liceo come tipo timido e abbastanza pacato.
Lo costringemmo a comprarsi un basso da cinquantamila lire quando fu chiaro che non avremmo trovato un bassista disposto a venire a suonare con noi nemmeno chiedendo la grazia a Santo Lemmy.
Dopo l’iniziale impaccio, “F.” si rivelò un musicista dotatissimo.
Inutile dire che iniziò presto a darsi arie da gran virtuoso e a dedicarsi anima e cor(d)e ad una non meglio precisata “estetica musicale” al cui cospetto noi altri poveracci facevamo la figura degli scimmioni di 2001 Odissea nello spazio.
Altrettanto inutile dire che, nel giro di breve tempo, fondammo un coro di voci bianche con cui mandarlo affanculo, lui e i suoi virtuosismi di sta ceppa. Oppure fu lui a mandarci affanculo. Difficile dirlo.

Alla voce ci metterei “M.”.
Un genio, ma senza scherzare.
Praticamente un distributore automatico di testi.
Gli facevi sentire un riff, gli dicevi una roba del tipo “Vorrei che questa canzone parlasse del difficile momento in cui hai un attacco di cagotto tipo Horishima più Nagasaki e non trovi le chiavi di casa”, e lui tirava fuori da qualche parte una linea vocale e un testo che tu non potevi fare a meno di pensare: “Questo è un genio.”.

Alla chitarra ritmica ci metterei… beh, a dir la verità, ci metterei il sottoscritto.
Perché ad un certo punto della mia vita c’ho creduto davvero alla possibilità non dico di fare il musicista, ma almeno di imparare a suonare uno strumento. In maniera dignitosa, perlomeno.
E poi un giorno finisco un puzzle, decido di metterlo in una bella cornice, prendo una lastra di vetro, la lastra si spezza, le schegge mi si conficcano nelle dita, vado al pronto soccorso, mi mettono dei punti e da allora ho poca sensibilità nei polpastrelli e, oggi, per me, avere in mano un plettro o una zappa è più o meno lo stessa cosa.

E non dico che i miei sogni siano andati in frantumi insieme a quella lastra di vetro…
Non fosse altro perché è capitato troppo presto, o comunque prima che dentro me si facesse strada la voglia di crederci davvero, di provarci.
Non fosse altro perché la vita mi ha portato da tutt’altra parte e in fondo mi va bene così.
Non fosse altro perché nessuno della gente con cui ho suonato in quegli anni ha continuato.
Non fosse altro per tanti motivi che adesso non saprei nemmeno dire, ma che da qualche parte, sono convinto, ci sono.

Dico solo che c’è un modo di godere che non c’entra nulla con il sesso.
Ma è roba di amplificatori, di cavi, di pedali e corde di nikel.
Roba che ti vengono i brividi e ti sorride la faccia.
Roba di vibrazioni, di esplosioni, di velocità.
Di suono che ti riempie.

E quel suono sei tu.

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editoriale di Talkin' Meat

Sostanzialmente c'è questo individuo, un tipo a caso, di cui non è fondamentale conoscere né l'identità né la fisionomia: un tipo a caso, la cui unica caratteristica che conta aver bene presente è il dolore che egli vive, un dolore che in sé, un'eziologia, può anche averla, così come un'ontologia, ma che l'individuo in questione non conosce; ebbene, a causa di questo dolore lui si sente solo, e fin qui niente di nuovo. In famiglia, cogli amici, durante una corsa in metropolitana tutto quello che vede è ciò che lo fa sentire così solo, in quanto chi vede e la persona con cui parla non fanno altro che acuire in lui quel discreto senso di discreto disagio nel trovarsi davanti e/o intorno persone che hanno tra loro in comune una cosa, cioè la diversità con e l'allontanamento emotivo - scaturito dal fatto che quel tipo, appunto, ha questa sorta di dolore qua - da questo tipo a caso.

Insomma, un giorno il tipo a caso, che da ora in avanti, avendo in un certo senso perso la propria casualità, chiameremo la Persona Col Dolore, decide di parlare del disagio che lo assilla con qualcuno, non tanto per arrivare a dedurne l'eziologia quanto per instaurare una specie di ponte ["Ponte" sarebbe potuto essere il sottotitolo di questo racconto, n.d.a.] tra lui e la sabbia in cui il dolore ha uniformato gli altri arrivando a farli identificare alla Persona Col Dolore sotto la semplicistica etichetta di "Altri", quindi - come detto - decide di parlarne e ne parla, ma l'unico risultato che gli è dato ottenere è un ulteriore isolamento emotivo dovuto al fatto che l'Interlocutore - vuoi perché sommerso da problemi propri vuoi perché l'eziologia del dolore non sia affiorata nel discorso della Persona Col Dolore nonostante tutti gli sforzi, e permettendo al massimo di ripetere alla Persona Col Dolore alcune frasi di circostanza - non ha infine dato modo alla Persona Col Dolore (da qui in avanti, PCD) di avere l'impressione che lui, cioè l'Interlocutore, capisse di cosa la PCD parlasse o, meglio, dato che il qui presente sta utilizzando il focus sul personaggio dell'Interlocutore, farneticasse, facendola, cioè la PCD, sprofondare in una solitudine ancor più greve perché in sé riportava le tracce di un'empatia sconfitta.

A ogni modo, tralasciando le varie elucubrazioni e i diversi moti d'animo vissuti tra questa conversazione e quella che sto per andare a raccontare, la PCD decide che, forse, ha semplicemente colto l'Interlocutore in un momento no, o, meglio, non si è sufficientemente spiegata, così prende la decisione di - come detto - interpellare un Secondo Interlocutore, col quale però, sebbene le proposizioni epesegetiche fioccassero, risulta il medesimo risultato precedente.

E qui la faccenda si complica.

Ora, infatti, la PCD si sente inequivocabilmente sola, sconfitta, addolorata ed è come se, in qualche assurdo modo assurdo, la funzione che prima avrebbe potuto descrivere la relazione tra il suo dolore e la solitudine conseguente, ovvero:

y = ∫(x)

dove y indica il dolore e x la solitudine direttamente proporzionale al dolore y, si sia rovesciata, mantenendo, sì, valida la precedente ma, pure, creandone una seconda, ovvero:

x = ∫(y)

di modo da rendere variabile l'invariabile e costante la variabile dipendente dall'adesso variabile… un cazzo di circolo vizioso dove il dolore, la cui ontologia/eziologia/- rimane un'incognita, frutta solitudine che, a sua volta, frutta dolore, quindi in pratica alla fine del racconto troviamo la PCD in una scena tipo (davanti allo specchio, sul divano senza nulla fare o con gli occhi fissi sul display del telefono che squilla, squilla, squilla e a chiamare è qualcuno che nella mente della PCD si presenta come esistificante solitudine esistificante dolore), bloccata nell'intenzionalità e con un'aurea oblomoviana attorno al corpo, anzi, necessariamente immobilizzata dalla consapevolezza che qualsiasi cosa lei faccia, o, meglio, riesca a fare sarà qualcosa che acuirà quella solitudine e, dunque, quel dolore, tanto da portarla a identificarsi con esso e essere la PCD di cui sopra, e sarebbe bello che il racconto si chiudesse in un'immobilità di parole & vicende pari alla sua.

Domanda: Cheddevefare la PCD?

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editoriale di emofiliaco

"L’impegno per la preservazione di figure che sono importanti per la storia del calcio e dello sport italiano deve essere serissimo da parte di chi, per esempio come noi, orienta l’opinione pubblica."
(Andrea Monti, Direttore della Gazzetta dello Sport)

Premessa A: Della frase sopra m'interessa solo “orienta l'opinione pubblica” e il fatto che a dirla sia stato un giornalista.
Premessa B: Una Lex ad Personam può essere fatta per favorire qualcuno ma anche per danneggiarlo.

Nel 1988 Pedro Delgado vinse il Tour de France. Nella stessa competizione venne trovato positivo al Probenecid (un diuretico che al tempo veniva associato a pratiche dopanti in quanto agente coprente degli steroidi anabolizzanti) ma non venne squalificato perché quel principio attivo era illegale per il CIO ma non per l'UCI (e a dire il vero lo sarebbe diventato una quindicina di giorni dopo: ma non in seguito alla positività del ciclista spagnolo ma per un calendario deciso mesi prima dalla federazione ciclistica)

Nel 1996 Bjarne Riis vinse il Tour de France, nel 2007 indisse una conferenza stampa in cui ammise pratiche dopanti (tra il '93 ed il '98) e si disse disposto a rinunciare al suo nome nel palmarès. Praticamente subito gli organizzatori del Tour lo cancellarono ma dovettero (a malincuore immagino) reinserirlo perché il reato era coperto da prescrizione (dieci anni: qui chi è malizioso può pensare che il buon Bjarne ne fosse consapevole, evidentemente gli organizzatori della Grande Boucle e l'UCI no).

Dal 1999 al 2005 Lance Armstrong vinse sette Tour consecutivi passando indenne cinquecento test antidoping (si parla di un costo di mille euro a controllo quindi circa cinquecentomila euro buttati al vento: forse la WADA prima di cantar vittoria dovrebbe riflettere su questo).
Ora sembra che grazie ad un dossier del USADA (mille pagine circa che lo inchioderebbero soprattutto grazie a testimonianze di “pentiti”, e già qui... ma uso il condizionale perché potrebbe uscire che prove concrete ce ne siano) gli verranno tolti (quindi io non ho capito se l' UCI ha modificato la regola dei dieci anni, ma sembra di no e comunque mi correggerete voi, o lettori, se sbaglio se ancora non sa che esiste o se semplicemente farà una legge ad personam perché in caso contrario almeno quattro Tour sono “intoccabili”).

Ora non mi è mai piaciuto Armstrong (neanche prima della malattia e ricordo come uno dei giorni tecnicamente più poveri del ciclismo la sua vittoria mondiale del 1993) per vari motivi: per le frequentazioni con Conconi e Ferrari (che peraltro lui non nascondeva), per il modo da “pistolero” di gestire la squadra e i rapporti del potere, per quell'essere testimonial/padrone di un Tour da manifesto pubblicitario, eccetera...

Non mi è mai piaciuto ma mi sta abbastanza antipatico che nessuno ancora abbia fornito all'opinione pubblica (quella che va orientata secondo il direttore della GdS) delle circostanze concrete oltre a delle sensazioni di qualcuno o qualcosa che sembra preoccupato più che altro a distruggere un personaggio diventato improvvisamente ingombrante proprio nel momento che non serve più.
Prevengo chi potrebbe fare parallelismi con il caso Pantani ricordando che il ciclista romagnolo non fu mai squalificato ma semplicemente fermato per quindici giorni in via cautelativa (motivi di salute riguardanti il tasso di ematocrito troppo alto) ed il resto fu un inferno che si costruì (quasi, perché a essere onesti i Media ci misero del loro) da solo.
Ma a parte questo qualcuno (magari l' UCI tramite chi orienta l'opinione pubblica) ci può dire come e soprattutto perché abbia potuto farla franca, fino ad adesso, visto che moltissimi altri suoi contemporanei furono beccati "in diretta"?

Una cosa positiva c'è: quei Tour (se revocati) non verranno riassegnati.
Qualche federazione (non ciclistica) sportiva dovrebbe rifletterci su.

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editoriale di Hank Monk

Biologicamente parlando intendo: che senso ha vivere? Non mi sono risposto. Mi sono tuffato nella carne; convulsioni. Un fiotto caldo, un sussurro: non ho risolto nulla. Ho un problema con il sesso: troppo poco per essere ruggito sotto le stelle. Troppo per avere la dignità di raggomitolarsi in un angolo. Violento o nolente uno ha pur bisogno delle sue radici: che senso ha vivere? Biologicamente parlando intendo.

E allora di nuovo a capofitto in un vortice di membra, che non ti danno il diritto di parlarne, che non ti presentano mai il conto. Che non fanno certo di te un uomo migliore. Che uno poi si chiede il perché. Ma il perché lo conosciamo, o perlomeno io lo conosco. O perlomeno così mi han sempre fatto credere.

Che poi uno se ne esce con gli amici. Magari se la ride anche eh. Magari uno si sente anche a posto con la coscienza. Ma magari è sempre il solito sacco di merda. Che se uno fosse veramente a posto, io penso che non ne avrebbe neanche il bisogno. Che non vorrebbe nemmeno sentirne parlare.

E poi: io me ne vado! Questo paese non mi merita! Che sarà anche vero, per la miseria. Ma nemmeno tu meriti un posto migliore. Che una volta la dignità era spaccarsi la schiena; farsi tutta una guerra mondiale in prima linea; riuscire nonostante tutto a crescere dei figli normali. Che almeno uno aveva la possibilità di dimostrare quello che valeva, vero? Di prendere una posizione. Ora non ci resta nemmeno più quello?

La plastica è finita; ora son cazzi.

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editoriale di Gallagher87

Ora più che mai rivedendo l'immagine di Ian Watkins in concerto con la t-shirt con scritto "I Make Dirty Love!" fa un po' paura, e fa tanto schifo.

Occorre precisare che fino a conclusione dell'indagine tutto sia da verificare ma gli indizi pare portino tutti verso una conclusione: Ian Watkins leader del gruppo gallese Lostprophets, è accusato di tentata violenza sessuale ai danni di un minore, anzi ancora peggio (ove in questi contesti possa esistere davvero un qualcosa di peggiore rispetto a qualcos'altro) di una piccolissima bambina di solo un anno. A dovere di cronaca c'è da dire che "La polizia, dopo aver eseguito il fermo del cantante, ha compiuto dei controlli anche sul portatile, trovando file di materiale pornografico. L‘accusa per il frontman è di cospirazione finalizzata allo stupro di una bambina sotto i tredici anni di età e, considerata la gravità, Watkins è già comparso davanti al giudice per la prima udienza preliminare, e, naturalmente, l’imputato ha respinto qualsiasi genere di attacco, dichiarandosi assolutamente innocente." come riportato da fonti giornalistiche. C'è poco da dire, e se il reato verrà confermato c'è tanto da condannare, in quanto si suppone a rigor di logica, che il cantante abbia già compiuto tale schifo in passato. Se si può parlare di musica in questo contesto, è inutile dire che la carriera dei Lostprophets, almeno così come la conosciamo, è praticamente terminata.

Su Twitter il loro ultimo messaggio è il seguente; "A message from Jamie, Lee, Luke, Mike and Stu > http://www.lostprophets.com" e il link al sito riporta un unico, univoco e freddo messaggio, tradotto: "Dopo aver appreso delle accuse e dell’arresto, avvenuto oggi, di Ian Watkins, ci ritroviamo in stato di shock. Stiamo cercando di conoscere i dettagli delle indagini, come voi. E’ un momento difficile per noi e per le nostre famiglie e vogliamo ringraziare i nostri fan per il loro supporto, mentre cerchiamo di trovare risposte.”.

Si scatenano intanto le accuse di tutti. Di diversi fan che tentano di trovare correlazioni di tali azioni coi testi delle sue canzoni, e dei giornali che nel Regno Unito non fanno che parlare d'altro. Tutti contro Watkins, che da sempre destava dubbi sulla sua presunta omosessualità, mai correlabile però ad azioni infamanti come quelle a cui è stato obbligato a rispondere.

Attendendo gli esiti di questa bruttissima storia, la prima perplessità che mi sento di esternare è legata semplicemente a come i soldi a volte, diano fottutamente alla testa. Nessuno potrà mai confermare se questa affermazione sia verità assoluta, oppure se tale "indole innata" si sarebbe comunque esternata indipendentemente dal successo e dalla vita estrema da Rockstar. Fatto sta che Ian Watkins era, almeno in UK, una sorta di divo per le teenager 'alternative'.

Una cosa però è certa; farò la parte del moralista, ma a sentenza terminata andrò a ripescare la maglietta della band comprata qualche anno fa (che non è la stessa indossata live dal cantante) nascosta non so dove in qualche armadio e, schifato la butterò via.
Quando questo editoriale verrà pubblicato, potrebbero essere sorti aggiornamenti importanti su questo caso, in attesa di ciò, dico "a non rivederci" ai Profeti Perduti.

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editoriale di geenoo

Mi sveglio, mi alzo in un silenzio di tomba.
E’ il primo gennaio 2013. Sono le 8 del mattino, mi lavo la faccia con l’acqua fredda, mi rado, mi vesto. Scosto un po’ la tenda della finestra e fuori sta sorgendo un sole freddo. Nessuno si muove, niente.

Scendo in garage, metto in moto ed esco. Sono le 8,30.
Mi fermo a fare il pieno ed il benzinaio, con un sorrisetto, mi fa la prima battuta dell’anno “ Ma dove va, oggi, a quest’ora del mattino?”.
Incrocio lo sguardo di una bellissima ragazza, ha ancora rimmel pesante e lustrini intorno agli occhi, si intravvede un vestito nero ed elegante.
Ma a quest’ora è fuori luogo e contesto.

Il sole sta salendo, io ho imboccato un’autostrada deserta e gelata.
140 km/h verso l’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Esco a Bologna-San Lazzaro. Faccio qualche chilometro di una tangenziale morta. Arrivo al parcheggio dell’ospedale. Metto l’auto nella piazzola. Mi metto il giubbino, entro dall’ingresso principale.
Fuori c’è un signore con un tubicino infilato nel naso che fuma, mi sorride e mi augura buon anno.

Salgo l’ascensore, infilo il primo corridoio, il secondo ed eccola lì.
La abbraccio, due parole. Parliamo.
Scendo di nuovo al bar. Faccio un pranzo freddo ed indigesto.
Torno su, altre parole, poi arriva il momento dei saluti.
Due baci, due occhi neri, un grande sorriso con denti che sembrano troppo grandi.

Un veloce e feroce flash-back: io grande e lei piccina che ci rincorriamo in bici in una strada assolata.

Dentro sono freddo. Pago il biglietto del parcheggio. Risalgo in auto, tangenziale e sono in autostrada.
E’ sempre il primo gennaio. Sono le 15,30, adesso la gente che si è divertita si sta svegliando tra i postumi di una bella sbornia.
Io guido con il mare nero a sinistra ed un tramonto giallastro a destra e la solita domanda stronza e, oramai l’ho capito, senza alcun senso, riaffiora come un caimano da acque torbide e nere: perché a soffrire è chi non ha nessuna colpa?
Perché soffre un bambino?
Perché si muore giovani e senza alcun motivo?

La risposta, desolata, arcigna, secca, algida, mostruosa è sempre quella: perché si.

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