editoriale di Bartleboom

Il mio kebbabaro di fiducia si chiama…

A dir la verità non lo so.

Nel senso che gliel’ho chiesto un po’ di volte, ma non sono mai riuscito a ricordare e/o a pronunciare correttamente il suo nome.
E così, prima che tutta la faccenda cominciasse a diventare una roba antipatica, abbiamo raggiunto un tacito accordo per cui io non lo correggo quando lui mi chiama (erroneamente) “Mario” e io mi sforzo ogni volta che ci parlo di non usare il suo nome proprio.
Per questo motivo, e ai soli fini di questo editoriale, il mio kebabbaro di fiducia si chiamerà “Rahaal”, che è il nome di un mio amico marocchino e che, quindi, non sarebbe proprio adatto per indicare un turco, ma questo è quello che passa il minareto.

Fatte le presentazioni, è necessaria una precisazione.

Bartletown è un poco più di un paesottone.
Siamo meno di ventimila anime, sparse su un territorio poco più grande di un paio di campi da calcio regolamentari. Roba che è già una fortuna se quando esci dalla doccia non ingravidi per sbaglio la tua vicina di casa o una qualche tua cugina di secondo grado.

A Bartletown abbiamo tutto. Solo che ce l’abbiamo in un unico esemplare.
Abbiamo LA chiesa, IL bar, LA edicola, IL supermercato.
E poi c’è IL panettiere, IL dottore, IL farmacista.
Facciamo un’eccezione solo per GLI stronzi.

Quando, un paio d’anni fa, Rahaal ha aperto “House Kebap” su una delle strade principali del paese, in molti hanno storto il naso. Non dico che IL prete abbia lanciato un qualche anatema durante LA Sacra funzione domenicale. Però capite anche voi, che per una cittadina in cui l’evento più eccitante è stato IL rifacimento del ciottolato nella piazzetta davanti al Municipio nel lontano 2003, l’apertura di un kebabbaro ha rischiato di assumere i connotati dell’invasione da parte delle armate di Saladino.

Tutto questo per dire che, perlomeno nei primi tempi, non è che girasse tutta sta gente da House Kebap…

Io ci sono capitato per la prima volta un venerdì notte di un annetto fa, dopo una serata epica di cui non ho alcun ricordo a parte una tenace infezione alle vie urinarie che conto di riuscire a debellare con giusto un altro paio di cicli di cortisone.
In breve: è tarda notte e sono vittima di una fame da fine serata mostruosa, quando ad un certo punto mi compare davanti un’insegna luminosa con un panino gigante e il Taj Mahaal sullo sfondo. Solo oggi, a distanza di tempo, mi rendo conto che il Taj Mahaal non c’azzecca veramente una mazza con il kebab, ma, al momento, l’unico concetto che sono riuscito a sintetizzare nella mia testa è stato più o meno: In natura, nulla si crea e nulla si distrugge. Tutto è kebab + Taj Mahaal.

Entro e mi becco Rahaal, un ometto sui cinquant'anni con la faccia simpatica e gli occhi buoni, che guarda sconsolato la televisione italiana evidentemente senza capirci un cacchio. Ordino un kebab con ogni condimento possibile e immaginabile, compreso lo sgrassatore per il banco e l’olio esausto per le patatine, Rahaal mi fa notare che il locale sarebbe già chiuso da un quarto d’ora e che stava giusto spegnendo tutto, io scoppio a piangere come un bambino, lui si impietosisce e mi prepara una roba che non è un kebab: è il tuo piatto preferito di sempre, cucinato da tua madre il giorno del tuo ottavo compleanno quando ti hanno regalato la scatola grande dei Lego.

Quella prima sera non abbiamo parlato granché, io e Rahaal. Essenzialmente perché avevo la bocca talmente piena di salsa yogurt che sembravo una vecchia pubblicità della Danone.
Dopo quella prima sera, però, ho iniziato a fermarmi da House Kebap almeno una volta la settimana.
E, dopo le prime settimane, ho iniziato ad andarci anche se non dovevo mangiare: lasciavo la macchina in divieto di sosta con le quattro frecce, buttavo dentro la testa e chiedevo a Rahaal come stava. Lui mi sorrideva forte e diceva qualche cosa di internazionalmente irripetibile sulle tasse e/o su Berlusconi. Io ridevo di gusto e me ne tornavo a casa contento.

Oggi House Kebap è quella che si potrebbe definire un’attività commerciale di successo. Dopo l’iniziale diffidenza, i mie compaesani scimuniti si sono accorti che con € 3,50 ti puoi mangiare un kebab buonissimo e conditissimo che ti toglie la fame chimica e ti fa tirare delle scoregge che tengono lontani zanzare, pappataci e parenti indesiderati fino alla settima e ottava generazione. E così, oggi come oggi, dal venerdì alla domenica, dalle 19:00 alle 21:00, se vuoi un kebab da House Kebab devi mettere in conto almeno mezz’oretta di attesa.

E io ho sinceramente temuto che la fama e la gloria avrebbero cambiato Rahaal e il nostro rapporto. Temevo che non si sarebbe più ricordato di me o del condimento speciale per il mio il panino, che non avrebbe più avuto tempo per dire le sue battute quando passavo dentro a salutarlo senza comprare niente…
Poi, però, l’altro giorno sono ripassato da House Kebap dopo parecchie settimane di assenza. Era domenica sera, all’ora di cena, e il locale era affollatissimo. Ad un certo punto, Rahaal, da dietro il bancone, ha alzato la testa e, quando mi ha visto, ha subito sorriso fortissimo. È andato al lavandino, si è sciacquato le mani e, strafottendosene della gente in coda che smadonnava, è venuto da me per salutarmi.

Lo lo so che la globalizzazione fa schifo e che se avessi davvero a cuore il destino della mia cultura e delle mie tradizioni enogastronomiche dovrei avere la tessera di Slow Food e andare a lanciare le caciotte scadute sulle vetrine dei ristoranti che fanno l’all you can eat. Lo so che, con tutto il ben di Dio che i nostri frigo ci offrono, pensa un po’ se devo andare a mangiare 'ste schifezze che poi sudi al sapore di cipolla per tre giorni.

Però penso che, tutto sommato, in mezzo a duemila Mc Donald’s e seicento Burger King e duecento Old Wild West, magari un posticino per House Kebap lo si può trovare.
Penso che, magari, una globalizzazione a misura di kebabbaro tanto male non può farci. Penso anche che, se in questi tempi grigi sto paese di merda può essere ancora una buona occasione per qualcuno, non mi dispiace che lo possa essere per gente come Rahaal.

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editoriale di Flo

Giorno 1

Ore 10 - Apriamo le danze, che il mio primo incarico da interprete (?) sottopagata abbia inizio! Sono etichettata con un orrido cartellino bianco e giallo e sono vestita come una cretina. Attendo al "desk buyers" con altri interpreti (?) sottopagati, vestiti come me ma che sembrano meno cretini.

Ore 10:20 - Il compratore che mi è stato assegnato, ovviamente, è in ritardo. Arriva con comodo con un altro gruppo di brasiliani, la prima cosa che noto è che si sta smanacciando allegramente il pacco. Piacere di conoscerla, Senhor R., rampante giovine di una grande città del Brasile, a capo di una grande catena di supermercati gourmet.

Ore 10:30 - Siamo già in ritardo prima ancora di cominciare e gli espositori non sono da meno. Ci aggiriamo alla ricerca dello stand giusto, becchiamo il primo, poi il Signor R. annuncia la sua prima visita in bagno.

Ore 10:50 - Mi aggiro disperata tra gli stand, non mi oriento, nessuno mi ha dato indicazioni. Mi scuso col Senhor R., che mi consola dicendomi che sono molto simpatica.

Ore 11:15 - Dopo che i primi due stand non mi hanno manco offerto un assaggio, il simpatico Signor R. (che si chiama come il Senhor R., ma è triestino) me ne offre cinque tutti di fila. Intanto il Senhor R. inizia a lasciare la sua cartellina ovunque, io gioco al riporto.

Ore 12:00 - Seconda visita in bagno del Senhor R., perché io faccio pipì ogni cinque minuti. Ci fa piacere.

Ore 12:25 - Continuiamo a visitare gli stand, ma io, cercando di essere professionale, rifiuto. Il Senhor R. mi intima di bere. E non chiamarmi signore o mi metto a litigare con te. Ok.

Ore 13 - Pausa pranzo, ma seguo il mio assistito, che si unisce al gruppo di brasiliani già visto al mattino. Il Senhor R. mi trascina fuori, mi abbraccia e mi costringe a farmi una foto con lui. Anche il Senhor D. ci tiene particolarmente, si fa una foto con me e poi una con me e con il Senhor R.

Ore 13:15 - Siamo in cinque ma occupiamo il 20% dei posti in area ristoro, annettendoci dei tavoli al di fuori della nostra giurisdizione. Mangiamo coi voucher, ma il pranzo è scarso. Un italo-brasiliano riesce a ottenere un altro giro di aglio con orecchiette, pesto e cozze per tutta la tavolata. Il Senhor R. non ci crede quando gli dico che non ho mai fatto l'interprete. Intanto mi sfottono tutti e mi chiamano "Português de Portugal", ma mi invitano in Brasile, mi offrono fantomatici lavori e minacciano di aprirsi pagine Facebook appositamente per aggiungermi.

ore 13:50 - Il Senhor R. va in bagno.

Ore 14 - La pausa pranzo finisce e ricominciano gli appuntamenti con gli espositori. L'abbiocco post-prandiale è tremendo, io farfuglio cose a caso (ma tanto il Senhor R. si fa capire fingendo di parlare inglese) e continuo a rifiutare assaggi (quando me li offrono) per non addormentarmi sui divanetti mentre mi raccontano per la quarantesima volta la storia del vitigno Glera.

14:40 - Il Senhor R. mi assume come segretaria, scrivo gli indirizzi al posto suo, gli porto la cartellina (così non se la dimentica), gli gestisco gli appuntamenti, descrivo l'azienda al posto suo, gli ricordo di chiedere i campioni, mentre lui continua a bere senza ritegno. Inizia a cambiare colore, le guance gli diventano rosse come al peggiore degli alcolizzati e mi dà gomitate e presentandomi ai venditori come my friend.

Ore 15 - Ok, l'inglese del Senhor R. è meglio di quello della maggior parte dei veneti presenti.

Ore 15:15 - Il Senhor R. va in bagno.

Ore 15:50 - Ripassiamo davanti al Signor R., quello dei cinque assaggi, ci ferma e ci offre un altro bicchiere perché i brasiliani fanno sempre simpatia. Credo di amarlo. Il Senhor R. mi dà pacche sulla spalla e mi lancia occhiatine divertite. Boh.

Ore 16:30 - Brutta pezzente dello stand, avrai le bottiglie fighe, ma non mi lasci neanche il gadget. E il tuo vino fa cagare, stronza.

Ore 17 - Il Senhor R. va in bagno.

Ore 17:30 - Il Senhor R. si dimentica di essere già cliente di uno degli espositori, ma, nonostante la figura infelice, ridacchia e continua a bere.

Ore 17:50 - Finiamo con dieci minuti abbondanti di anticipo, il Senhor R. mi saluta con due baci. Ci vediamo domani. La responsabile, sull'orlo dell'incredulo, mi chiede se sono sicura di aver fatto tutti gli stand, visto che gli altri brasiliani sono in ritardo di quell'ora abbondante sulla tabella di marcia.

Ore 18 - Mentre continuo a ruttare Prosecco, mi riunisco con una amica e facciamo una parte di strada insieme, cercando di attraversare la folla da Barcolana, con tanto di foto commemorativa di una donna in carriera e di una persona vestita in modo ridicolo.

Giorno 2

Ore 9:30 - Arrivo alla Stazione Marittima con la solita mezz'ora di anticipo. E meno male, c'è una nave da crociera a distanza Concordia e un nugolo di turisti multilingue si fa strada a colpi di ombrellate per prendere posto su uno dei venti pullman parcheggiati a caso. Riesco a superare il labirinto di transenne e ad entrare, ma solo dopo aver superato controlli da aeroporto israeliano.

Ore 10 - Arrivano anche gli altri interpreti (ma il nostro cartellino dice "assistenti linguistici") e qualcuno se n'è sbattuto dell'indicazione "abbigliamento formale". Io no, ma non capisco se sembro più o meno cretina rispetto a ieri. In compenso, riesco a fare un cratere nella camicia con la spilla da balia del badge.

10:10 - Mentre aspetto, i venditori con cui ho parlato ieri mi salutano e mi fanno l'occhiolino, qualcuno entra bestemmiando, qualcun altro manda gentilmente a fanculo l'organizzazione disastrosa di oggi (ieri).

Ore 10:35 - Ovviamente il mio assistito arriva con comodo assieme ai suoi amici brasiliani, giusto con quei trentacinque minuti di ritardo che ci fanno saltare il primo espositore con cui abbiamo appuntamento. Ma lui se ne frega, siamo tutti amici, viva l'Italia, viva il Brasile. Mi annuncia che oggi sono la sua sommelier, quindi devo bere.

Ore 10:55 - Il Senhor R. mi molla la sua cartellina e va in bagno. Io uso il mio quadernino per gli appunti per prendere nota di queste cazzate.

Ore 11:15 - Ci accodiamo agli altri brasiliani in un paio di stand. Il Senhor R. sbadiglia, ormai conosce la mappa di Conegliano-Valdobbiadene come se fosse casa sua e le percentuali di zuccheri di brut ed extra-dry come se fossero la sua data di nascita. Ha la faccia da postumi della sbornia, il viso stanco, gli occhi gonfi e si è rotto i coglioni di sentir parlare i venditori, tanto a lui interessa solo il prezzo. Io, intanto, continuo a rifiutare gli assaggi e il Senhor R. mi rimprovera con lo sguardo.

ore 11:25 - Un dibattito sulle dimensioni di un ettaro illumina la nostra giornata.

Ore 11:40 - Il Senhor R. ammette di essere in pieno post-sbronza e ha mal di testa. Mi dice che il giorno prima si è divertito, che è uscito a bere non per lavoro, ma per divertirsi. Gli chiedo dov'è stato, ma non se lo ricorda.

Ore 12 - All'ennesimo stand mi viene offerto un assaggio, finalmente accetto e il Senhor R. è soddisfatto. Gli dico che sono professionale, è ora che inizi a bere anche io.

ore 12:15 - Il Senhor R. va in bagno.

Ore 12:40 - siamo al penultimo stand e i venditori sono di quanto più borioso abbia sentito negli ultimi due giorni. Ma il vino è buono (ma non ci sento né pesca né liquirizia, al contrario di quanto dicono), mando giù tutto il calice per non deludere il Senhor R. I venditori gli chiedono se in Brasile si parla spagnolo e ci mostrano un dépliant in cui ci sono le foto del compleanno di Nina Moric e della sorella di Belén. Io non me ne vanterei troppo, se fossi in voi.

Ore 12:47 - Gli stessi venditori offrono una bottiglia al Senhor R., il Senhor R. la rifiuta e io gli do una gomitata. Quando ci alziamo, cerco di fargli capire che poteva anche prenderla, mi dice che nella valigia non ci sta. Gli dico di prenderla per me con una faccia tosta uscita da non so dove. Il senhor R. torna indietro e si fa dare la bottiglia, Questo è il mio regalo per te.

Ore 13:10 - Siamo leggermente in ritardo, ma riusciamo a finire anche l'ultimo stand, quello di una famosa cantina italiana che produce vini al gusto chimico, perfetti per il Brasile. Il Senhor R. mi ringrazia e mi saluta. Lo fa due volte, per sicurezza, quindi va via.

Ore 13:20 - Vengo intercettata dal Senhor D. che lascia biglietti da visita a gente a caso e mi trascina a pranzo nell'area ristoro, nonostante non abbia i voucher. Lui e l'italo-brasiliano conquistano tre tavoli e rubano quaranta piattini con pesce crudo marinato. Arrivano calici di Prosecco da non si sa dove. Il Senhor D., giovane direttore commerciale di una grande catena di supermercati brasiliana, mi assiste, mi chiede se voglio acqua, mi porta due piatti e mi chiede di sceglierne uno, quando tentenno, mi dice Ok, tutti e due, mi chiama minga amiga, mi circonda le spalle con un braccio e mi chiede se sono sazia. Mi aspetto che a momenti inizi a imboccarmi e a darmi pacche sulla spalla per fare il ruttino.

ore 13.40 - Finiamo di mangiare e riportiamo indietro i calici, uno è ancora pieno. Lo buttiamo? mi chiedono. Scherzi? Lo mando giù tutto d'un fiato.

Ore 14 - Perdo di vista il Senhor D., ma continuo a incontrare l'italo-brasiliano, che sembra si sia rotto le palle pure lui e che dice di fare gli ultimi stand per educazione. Vengo adescata dal Signor R., quello dei cinque assaggi di ieri, che viene apposta per chiedermi se ci sono possibilità di fare affari col Senhor R. Mi usa come esca per gli altri interpreti e ci versa prima un bicchiere di Millesimato, poi un bicchiere di brut mentre cerca di estorcerci informazioni. Mi corrompe con una bottiglia di rosato.

Ore 14:30 - Esco, diluvia, a me fanno malissimo i piedi, ho due bottiglie nella borsa e sono sbronza.

Ah, in tutto ciò, a me il Prosecco fa abbastanza schifo.

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editoriale di macaco

Settembre 2013, undici anni di Brasile, undici anni senza automobile. Non proprio una scelta voluta, ma frutto di diversi fattori: scarsità di risorse economiche, mercato di credito fra i più cari del mondo, prezzo delle automobili considerabilmente alto rispetto alla media mondiale (rispetto a Messico o USA costano il 45% in più ), mobilità già garantita da uno scooter 125 e da un discreto servizio di trasporto pubblico. Poi due figlie a scuola, una casa fuori città ed altre necessità mi impongono di compiere questo passo che si presenta assai più gravoso di quanto non sia nella mia terra natale.

È giunta l'ora di comprar la macchina, insomma, e, dopo aver raccolto sufficienti informazioni e testimonianze, rimangono pochi dubbi e la scelta cade sul modello ritenuto più economico e resistente; la fiat Uno (modello vecchio). Ancora in produzione in Brasile è un auto che ho già posseduto fra il '93 e il '99, anno in cui l'abbandonai in terra di Romania dopo un'avventuroso viaggio con rientro in aereo; scelta avvenuta dopo aver valutato che la vecchietta con ormai 350mila chilometri probabilmente non ce l'avrebbe fatta a riportarmi nel bel paese.

Mai avrei pensato che a vent'anni di distanza avrei ricomprato una Uno usata, meno ancora che per poter far ciò avrei dovuto affidarmi ad un qualche istituto di credito, in questo caso la mia banca che mi ha offerto un prestito con la modica tassa di interessi del 2,4% al mese.
La Fiat uno non è è un bel veicolo, ha un design superato, ma io la prendo con filosofia, ricordandomi che non devo cadere nella tentazione di eleggere un semplice mezzo di trasporto a status sociale, più difficile è trattenermi di dare un ceffone a mia figlia quando dice che è proprio brutta, ma d'altronde studia in una scuola frequentata per la maggiore da gente benestante che gira in auto decisamente più eleganti.

La mia auto non è quella dei miei sogni ma non lo sono neppure quelle in cui si muove la classe A e B della società recifense, Land Rover, Bmw, Audi, marche che fino a qualche anno fa erano eccezioni e ora sono presenza costante nel sempre più infernale traffico metropolitano. L'auto dei miei sogni sarebbe in verità una col motore elettrico, che non dipendesse di benzina e non inquinasse, che più che sogno lo chiamerei illusione. Con tutti gli avanzi tecnologici raggiunti e impiegati nel settore automobilistico, non si è ancora voluto mettere in pensione l'antiquato motore a scoppio, che definirei in questa sede come l'organo di dipendenza personale dal dio petrolio.

Auto, banca e petrolio, il cerchio si chiude, la triade malefica è completa, non c'è scampo...

Aspetta però, la mia Uno ha un motore flex! Ciò significa che funziona anche con l'etanolo, evviva! Corro subito al più vicino distributore e avvicinatomi alla pompa, noto un piccolo cartello esposto per obbligo di legge dove c'è scritto che per essere più conveniente l'etanolo deve avere un prezzo uguale o inferiore al 70% della benzina. A pennarello poi si legge che in quel posto di benzina la proporzione è dell'84%. Io lo interpreto così, che se vuoi puoi mettere etanolo ma sappi che spendi di più, quindi o sei un idealista o sei un coglione.

E penso a Lula... che tristezza, che delusione queste sinistre sudamericane nelle quali una decina di anni fa avevo riposto qualche speranza. Ricordo perfettamente il discorso dell'ex presidente operaio: "L'etanolo è il futuro, lo esporteremo in tutto il mondo, sarà il cavallo di battaglia dell'economia brasileira, è ottenuto da fonti rinnovabili (la canna da zucchero) e quindi sostenibile…" (sostenibile: parola che in bocca a politici e impresari fa rabbrividire).
Risulta oggi evidente che al governo non interessa neppure il mercato interno, in quanto solo una piccola percentuale della popolazione è composta da idealisti e coglioni, e intanto la Petrobras, una delle maggiori compagnie petrolifere del mondo, con 50% di partecipazione statale (sigh!) si fa propaganda col “pre-sal”, giacimenti di petrolio nell'oceano atlantico a profondità infernali, e non dice a nessuno che è in deficit perché non riesce a coprire il fabbisogno interno e deve vendere petrolio importato sottocosto perché il governo mantiene i prezzi bloccati per causa dell'inflazione.

E insomma, il mondo va così e la sensazione di essere presi per il culo è forte. Non mi resta che riempire il serbatoio di etanolo e aspettare il giorno in cui questo maledetto petrolio finisca e si chiuda questa triste era dell'umanità. Quel giorno brinderò con cachaça guardando questo caldo sole tropicale mentre illumina i miei pannelli fotovoltaici che caricano la batteria della mia auto... ma forse è solo un sogno di un idealista o di un coglione.

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editoriale di kosmogabri

Sono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa. Eletta a maggio, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme, perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?

Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce.

Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore. 

In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche.

Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umane a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza.

Lettera aperta di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa

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editoriale di Bartleboom

Enrico Letta, 17 settembre 2013:

“Con il recupero della Costa Concordia abbiamo dimostrato a tutto il mondo che cosa è in grado di fare la tecnologia, la volontà e l’efficienza italiana.”

Una volta, da bambino, ho combinato un casino.

Mia madre aveva messo a bollire il minestrone. Poi, non mi ricordo più per quale ragione, si era dovuta allontanare da casa: sarebbe tornata il prima possibile, ma proprio non poteva fare a meno di lasciarmi da solo per qualche tempo.
Al momento non ci ho nemmeno pensato, ma è stato un bell’atto di fiducia da parte sua. Non fosse altro perché alla pagina 1, riga prima, del Manuale delle Giovani Mamme Marmotte si trova scritto: “Non lasciare mai tuo figlio in età scolare a casa da solo con il fornello acceso. Soprattutto se è destinato ad ascoltare heavy medal fino a trent’anni suonati e ad avere un collezione di porno che manco l’autobiografia di Riccardo Schicchi.”

Vabbeh, è inutile tirarla troppo per le lunghe, tanto sapete già come è andata a finire.
In pratica, appena mia madre si chiude la porta di casa alle spalle, io mi fiondo a fare le mille e una cose divertentissime che si fanno da piccoli (ehm…) quando si è a casa da soli: vedere quanta carta igienica si riesce a fare andare giù prima di otturare il cesso, puciare le macchinine nell’alcool e darci fuoco, fare la pìpì dal balcone, eccetera.
Dopo circa mezz’ora che mi diletto della grossa, ecco che un forte odore di bruciato proveniente dalla cucina attira la mia attenzione. Incuriosito, vado a controllare e…

Disastro!

L’acqua nel pentolone si è completamente prosciugata! Le verzure della valle degli orti sono carbonizzate! Tutta la microcucina della BartleMagione è piena di fumo che la puoi usare come set per la pubblicità della Philip Morris.

Immediatamente un pensiero (peraltro piuttosto precoce per un bambino della mia età), trova albergo nella mia mente: “La mamma mi incula”. Subito seguito da: “Ma no! Io sono il frutto dell’amore carnale tra Ella e mio padre! Lei mi ha generato! Lei mi ama!” Tosto sostituito da: “No, no. Mi incula”.

Occorre agire!

Tempo pochi secondi e mi metto all’opera.
Spengo il fornello. Prendo la pentola e la metto sotto l’acqua fredda.
Spalanco tutte le finestre di casa. Gratto via le verzure carbonizzate dal fondo della pentola e le butto nella pattumiera coprendole con altra monnezza in modo da passare inosservate ad un controllo superficiale. Lavo a fondo la pentola e la riempio di acqua calda del rubinetto. Prendo un’altra busta di minestrone dal freezer e la metto a bollire.
Infine, spruzzo deodorante per tutta la casa come se non ci fosse un domani o come se il buco nell’ozono fosse una diceria messa in giro dalla multinazionali farmaceutiche e da Roberto Giacobbo.

Tempo dieci minuti e già me la sbulleggio di brutto: “Non se ne accorgerà mai…”.
Altri dieci minuti e torna mia madre.

Non fa in tempo a mettere tutti e due i piedi in casa che mi arriva uno schiaffo a mano aperta che probabilmente se oggi sono così scemo tutto è partito da lì. E il motivo è presto detto: la puzza di bruciato si sentiva a qualche isolato di distanza e mia madre aveva già capito tutto dall’androne del palazzo.

Disfatta. Scorno. Delusione. Dolore. Lacrime grosse come cedri mi solcano le guance. Il mio piano crollato come il più fragile dei castelli di carta… Ma, quando tutto pareva perduto, quando ormai la mia autostima stava per raggiungere il primo dei suoi minimi storici, ecco che mi vengono rivolte parole di conforto: “Beh, però sei stato bravo a mettere su dell’altro minestrone…”.

Io non so se sia stata colpa di Schettino, della moldava che glielo succhiava quando è successo il casino, della Guardia Costiera che non ha vigilato, di tutti quelli che sapevano di ‘sta puttanata dell’inchino, e si sono limitati a pensare che era una roba figa.
Però sulla Costa Concordia sono morte delle persone. Alcuni corpi non sono ancora stati ritrovati. E io non ci vedo davvero nulla per cui essere orgogliosi.

La frase di Letta che ho citato mi ha procurato un fastidio quasi fisico.
Perché è come se ci si fosse pavoneggiati per avere messo un bel cerottone su una gamba amputata per sbaglio col tosaerba.
Che poi, no. Non è nemmeno quello che mi fa così incazzare. Il motivo per cui non guarirò mai del tutto dal mio reflusso gastrico è l’ostinazione con cui cerchiamo attenuanti alla nostra incapacità. È il “volemose bene", che, sì, magari facciamo schiantare le navi per fare i guitti, ma siamo dei geni a disincagliarle.

Quello che davvero mi urta è l’autoindulgenza.
L’autoindulgenza di un popolo e di un paese sempre più inetti, sempre più ingiustificabili.
Un popolo e un paese che non hanno ancora capito (o fanno finta di non avere capito) che i bravi bambini non sono quelli che prendono un’altra busta dal freezer, ma quelli che il minestrone non lo fanno bruciare.

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editoriale di Paolo

"Ho messo nei guai me stesso e i miei uomini a causa della mia disattenzione e a causa della mia ingenuità. Mi sento in colpa per i miei sbagli, non me ne faccio una ragione. Porto addosso il peso degli anni che passano e sono cosciente di star crescendo sempre più freddo. Purtroppo sto invecchiando e sto perdendo le forze e i capelli. Guardami! Non puoi vedere altro che un vecchio uomo che un tempo ha creduto di essere Dio.

Un tempo ero davvero forte, insensibile al freddo, insensibile alle variazioni di temperatura, severo e cinico. Supportavo la violenza, pensavo fosse necessaria; non ho mai pensato di essere nel torto. Nonostante la morte dei miei soldati scelti e nonostante la caduta dei miei migliori artiglieri, ho continuato ad incitare i sopravvissuti a uccidere e ad essere uccisi se necessario.
Ora mi rendo conto di averli indirizzati verso un’inevitabile sconfitta. Giocavo e conducevo un gioco infernale, un gioco per il quale milioni di uomini morirono. Il fervore non è mai mancato, i soldati a me subordinati caddero con le armi: essi non gettarono mai la spugna in nessuna situazione e per nessuna ragione al mondo. Loro non sapevano (nemmeno io) che non avrebbero ottenuto niente.

Mentre mi incammino attraverso il giardino guardo le case dei miei vicini, e mi struggo pensando che gli uomini che vidi morire davanti ai miei occhi potrebbero avere avuto esistenze ordinarie, prima della guerra, delle famiglie felici e spazi per muoversi liberamente.
Sono sopravvissuto ma vorrei morire, non una volta, ma cento per tutti gli sbagli che ho commesso nell’arco della mia triste vita. Il mio unico nemico è il passato, ma sto imparando a conviverci, a sopportarlo, perché so che non è possibile dimenticare".

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Queste parole che risuonano di frustrazione sono le parole di un vecchio uomo malato e bavoso, lasciato al suo destino, un uomo che non si fida del mondo, che non crede nel futuro, e tanto meno in una redenzione.
Tutto quello che quell’uomo spera è che questa testimonianza venga letta da qualcuno che la tramandi ai posteri a sua volta.

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editoriale di Ancora D'Oro

Questo è un cazzo di sfogo, una cazzo di confessione di un cazzo di problema: soffro di iperidrosi palmare.
Che cacchio è? Presto detto, mi sudano le mani. Quasi sempre, forse tranne mentre dormo.

È dall’adolescenza che sono attanagliato da questo problema che, pare, colpisca l’1% della popolazione mondiale. Perché cazzo proprio io dovevo cadere in quella sfigatissima percentuale? L’iperidrosi è un problema inverso, nel senso che tutti quelli che si imbattono in una “sudaticcia” stretta di mano pensano ad una cosa corretta in senso assoluto, ma errata nel suo verso.
Il pensiero comune, grossomodo, è questo: “Minchia, che è ‘n’anguilla? Questo è un timido, insicuro, psicolabile e sfigato.
Esatto, ma sbagliato! Cioè, l’iperidrosi deriva da un problema fisico di trasmissione di impulsi sbagliati del sistema nervoso simpatico. Ovviamente, in questo caso, di simpatico non ha nulla, anzi dice delle gran cazzate ai neurotrasmettitori che pompano aceticolina alle ghiandole sudoripare e queste, anche se non è il caso, iniziano ad espellere sudore e anche in maniera inconsulta da pori collocati anche in posti come le mani e i piedi.

Quindi nasce come problema fisico e diventa dramma psicologico successivamente e non il contrario. Così l’iperidrotico è sì sfigato fin dall’inizio, ma diviene timido e insicuro a causa dell’errato funzionamento sistemico. Il massimo della sfiga è, poi, trovare lavoro in un ufficio a contatto con il pubblico e vedere tutte quelle belle facce sorridenti di persone che arrivano con la mano tesa, pronta per essere stretta nella morsa appiccicosa. La tecnica è quella di stringerla forte, in maniera rapida ed energica; per esperienza so che dà meno fastidio, visto che la situazione peggiore, narrata dai più, è quella della mano molle, sudaticcia e trattenuta.
È così, cazzo, non ci posso fare niente e poi la mano me l’hai data tu, chi minchia t’ha detto di darmela! La prossima volta mi saluti a voce e basta. E infatti è così, e, mano a mano chi torna nel mio ufficio, bruciato dall’esperienza, tiene le mani ben distanti dalle mie.

Nell’iperidrotico palmare di grande esperienza, come sono io, scatta un sesto senso. Osserva e memorizza i gesti, le peculiarità delle persone che incontra, cerca altri “simili” e li individua con estrema facilità, perché la gestualità è la sua stessa e opera a difesa creando una sorta di barriera immaginaria, a protezione del suo orribile stato. Questo atto, quasi inconsapevole, è l’avvio della timidezza e dell’insicurezza, derivate soprattutto dal blocco a relazionarsi fisicamente con il resto del mondo.
Soffre, il sudato, soffre dentro e soffre per tempi lunghissimi, tramutando il problema in ossessione, spesso in un vero e proprio complesso di inferiorità o, quanto meno, di diversità.
Soffre e gli brucia l’anima, rendendolo ora cinico e misantropo, ora amorevole e sensibile, ma sempre scosso in un crogiuolo di sentimenti che richiamano Eros e Thanatos, amore e morte.

Così ti isoli e ascolti il tuo cazzo di progressive, ma questo è un altro problema. Lo so, ci sono le soluzioni. Esiste un’operazione, anche se molto complessa e delicatissima, esiste il botulino, esiste un lungo ciclo terapico di elettroforesi.
Poi pensi che fino qui ci sei arrivato così, che una famiglia e degli amici te li sei fatti a prescindere e dici: “Vaffanculo mondo, io ci sono lo stesso e dopo ho confessato, qualcuno in più mi capirà.

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editoriale di Bartleboom

"Ogni uomo, per essere felice, dovrebbe avere un pizzaiolo, un kebabbaro e un negozio di dischi di fiducia”
(Anonimo Bartolomeo, 2013)

Il mio pizzaiolo di fiducia si chiama Geppino, all’anagrafe Giuseppe Tortorella (nome di fantasia, ma magari anche no), classe 1940, emigrato negli anni Sessanta da Caianello (CS), titolare del Ristorante Pizzeria “Il Veliero d’Oro” di Bartletown.

E’ stato per anni il pizzaiolo di fiducia di mio padre, finché il diabete, il cardiologo e mia madre che ci scassa la minchia a tutti con ‘sta storia che si mangiano troppi carboidrati, hanno deciso che il mio vecchio, in pizzeria, non ci doveva più mettere piede.
E così, oggi, Geppino è il MIO pizzaiolo di fiducia.

La storia di Geppino è uguale a quella di tanti altri “saliti al nord”. Valigia di cartone, italiano stentato, tutti che ti chiamano “uè tèrùn”, cento figli da mandare a scuola. Poi viene fuori che fai una Napoli che è pura poesia, la moglie se la cava in cucina, la figlia più grande la metti alla cassa, il figlio disgraziato a servire ai tavoli anche se sono più i piatti che rompe di quelli che riesce a servire.
E allora va a finire che ti puoi permettere di comprarti un posto che è solo tuo.
E finisce che la gente ti conosce e ti vuole bene e ti viene a trovare.

La storia di Geppino, dicevo, è uguale a quella di tanti altri.
Però a me piace un po’ di più delle altre.
Perché lui non la racconta mai.
Perché è vera.

Notizia dell’ultimo mese o giù di lì: Geppino ha venduto “Il Veliero d’Oro”.
Ai cinesi.

Quando me l’hanno raccontato non ci volevo credere e così settimana scorsa ho buttato dentro la testa con la scusa di una Bufalina e una Capricciosa col salame piccante e sono riuscito a scambiare quatto parole con Geppino.
In pratica funziona così: la figlia s’è sposata e il marito s’è rotto le palle che lei rientra all’una di notte sei giorni la settimana, il figlio ormai ha finito l’università e di rimanere a lavorare in pizzeria non se ne parla, Geppino e la moglie hanno settant’anni e sono stanchi.
Poi le tasse sempre più alte, i controlli dell’ASL sempre più rigidi, il commercialista, i dipendenti che guai a chiedergli di fare mezz’ora in più…
Tutto troppo difficile, tutto troppo complicato.

Mio padre dice che se le cose vanno a rotoli è colpa della mia generazione di ultratrentenni sfaccendati e bamboccioni, senza spina dorsale e senza spirito di sacrificio. Mia madre dice che è colpa della crisi, della kasta, del governo (ladro). Mia sorella che è colpa dei musi gialli che non muoiono, dei pakistani che dormono in venti in un appartamento senza pagare l’affitto, dei marocchini che si ubriacano, degli albanesi che stuprano le nostre donne e saccheggiano i nostri villaggi.

Io non so nemmeno se c’è, una colpa.
Figuriamoci se so di chi è.

Però mi piacerebbe riuscire a pensare che dietro ai nuovi proprietari, dietro quelle facce giallognole più o meno tutte uguali, dietro quei sorrisi un po’ ebeti di chi non capisce mai veramente del tutto quello che gli stai dicendo, dietro quelle cucine sistematicamente impresentabili, ci possano essere storie come quella di Geppino.

Forse non basterebbe a rendere la loro Napoli altrettanto buona.
Ma almeno renderebbe il tutto un po’ meno triste.

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editoriale di ZannaB

Fa male.
Ogni secondo.
Sempre di più.

Mi tolgono l’accappatoio, mi aprono le corde, salgo sul ring baldanzoso convinto di vincere il match. Perché io VOGLIO vincere il match!

Gong!
Primi secondi di studio reciproco, qualche colpo per tenere la distanza.
Capisco subito che il mio avversario è veloce e ha un sinistro niente male, infatti già nella prima ripresa subisco un paio colpi, niente di importante, ma uno al volto abbastanza forte lo accuso.

Torno all'angolo, il sopracciglio è spaccato e perde sangue, il mio secondo mi tampona e mi chiede se è tutto a posto. “Sono un pugile, è il mio lavoro prendere pugni, non mi fermerò per così poco!
Testardo.
Ma il mio avversario si accorge della cosa e insiste sul lato malmesso del mio viso, colpo su colpo, con una costanza invidiabile.
E ancora una volta il suo guantone colpisce il mio sopracciglio.
Dolore.
L’arbitro controlla la ferita, mi chiede se ce la faccio a continuare, faccio cenno di si con la testa.

Boxe!
Faccio un paio di finte ma ormai la mia forma è compromessa, sono lento, lui se ne accorge, anticipa le mie mosse, gancio proprio allo scadere della ripresa: ancora il sopracciglio.
All'angolo!

Due misere riprese e sono già finito. Il mio secondo è preoccupato, vuole chiuderla qui, ma io insisto! Io ci credo, so che ci sono ancora le possibilità per fare bene, conosco le mie capacità e voglio andare avanti!

Terza ripresa.
Il mio volto è gonfio e parare i colpi del mio avversario è sempre più difficile.
I miei guantoni, raccolti al volto per tenere la guardia, mi fanno un male cane anche solo quando sfiorano la ferita, ormai sempre più aperta.
Non saltello più, bensì barcollo, la mia vista è offuscata, arriva un altro colpo, questa volta non l’ho neanche visto partire.
Cado a terra.

L’arbitro inizia a contare, il mio secondo è preoccupatissimo, mi urla di non alzarmi!
Eppure ne ho presi tanti di pugni nella vita, dovrei essere abituato”.
Ma questa sera i guantoni picchiano sempre lì, sulla stessa ferita, continuamente, insistentemente, e la mia povera carne martoriata dai colpi non ce la fa più a resistere al dolore.

Fa male.
Ogni secondo.
Sempre di più.

Ma una volta che sei salito sul ring vuoi arrivare sempre in fondo, credi sempre di potercela fare, hai sempre quella speranza che cerca di mandarti avanti.
Vuoi sempre un’altra ripresa.
Vuoi sempre un’altra occasione.

L’arbitro conta il sette, mi metto in ginocchio, all’otto sono in piedi.
Testardo, voglio andare avanti, contro tutto e contro tutti.

Ma il mio secondo si aggrappa alle corde, getta la spugna, mi prende a spalla e senza che io abbia nemmeno la forza di oppormi mi porta via dal ring.
Ormai non vedo più niente, sento gli urli del pubblico quando il pugno del mio avversario viene alzato dall'arbitro a proclamazione della sua vittoria.

Il match è finito, ho perso.
Nello spogliatoio guardo il mio volto tumefatto allo specchio, fatico a riconoscermi.
Il mio secondo mi medica le ferite e mi fa “Cosa volevi fare prima? Farti ammazzare?

La vita è un po’ come la boxe: ogni tanto arriva un colpo e bisogna saperlo incassare.
Ma se i colpi picchiano sempre sullo stesso sopracciglio diventa ogni giorno più difficile sopportarli, soprattutto quando decidiamo testardamente di andare avanti. Fa male.
Ogni minuto.
Sempre di più.

E nella vita non c’è nessun cazzo di secondo che ti getta la spugna.

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editoriale di ilfreddo

Li ho incontrati per la prima volta al risveglio durante una bella e fresca mattinata primaverile. Una tremenda fitta che mi ha fatto cacciare un sonoro "ahia" e ritornare immediatamente nella posizione iniziale per massaggiarmi la schiena dolorante.

"Buongiorno egregio signore. Io ed miei colleghi, La compagnia dei mal di…, siamo assai lieti di fare la Sua conoscenza e vogliamo salutarLa cordialmente dal momento che da questo istante è probabile che ci vedremo con frequenza, tendenzialmente crescente, negli anni a venire. Da buoni vicini Le portiamo in dono un piccolo consiglio: provi pure a scendere dal letto ma lo faccia con calma e soprattutto, ascolti noi, non dia la colpa del malessere temporaneo al materasso. Ci dispiace farLe notare che quella da cambiare sarebbe la sua schiena“.

E’ stato un piccolo shock provare dolore non a causa di un trauma, ma per la mera usura del corpo. Nulla di grave, ma un malanno sufficiente per intristirmi molto; la compagnia dei “Mal di” ha sottolineato come la mia giovinezza se ne sia andata. E come ogni incontentabile bipede penso che sia scivolata troppo velocemente e comunque non nel modo in cui avrei voluto. In queste circostanze è assai facile cedere alla tentazione di chiudere gli occhi, cacciare la testa per terra e negare l’evidenza perdendo, con il passare del tempo, lucidità e spirito critico. E di questo vi voglio parlare.

Quel nonnetto di 80 anni che ha tagliato il traguardo ha gareggiato assieme ad altre trecento persone in una gara di corsa su sentieri montani. Guardare quel corpo sofferente ed avvizzito che, con fare lievemente robotico, è stoicamente arrivato al traguardo a distanza di ore dal primo non mi ha fatto battere automaticamente le mani o sentire la musichetta del film “Giorni di gloria“. Al contrario mi ha fatto provare pena. Tonnellate di compassione per una persona condannata a gareggiare spinta esclusivamente dall’impossibilità di disattendere l'aspettativa dei suoi paesani; quelli che, a differenza mia, si sono spellati le mani mentre lo chiamavano con il suo nome da battaglia "Highlander". In quel volto, in quelle rughe profonde e piene di sudore, non ci ho visto nemmeno un briciolo di gioia per una prestazione sportiva straordinaria in relazione all'età, ma solo sollievo. Diventerò anch’io così? Ho pensato questo e brrrrrrrr… un iceberg mi è franato addosso. Nel caldo estivo uno stormo di oche si è posato sulla mia pelle per rimanerci e così, in un caldo fottuto, ho cercato disperatamente calore in un bicchiere di grappa.

La piccola non riesce ancora a parlare ma non è fame quella che la fa strillare; punta le dita al cielo e quello che sta vivendo è poco meno di un incubo. La nonna sorride affabile e premurosa cercando di calmarla, ignara del fatto che sta peggiorando la situazione. Movimenti rallentati, collosi ed incatramati come se ci fossero pesi da venti chili sul suo volto. E’ così che risponde quella pelle stirata sugli zigomi e sugli occhi mentre tenta di dare alla luce un sorriso; un movimento che la rende simile ad una di quelle creature che albergano nella mente della neonata di notte e che non la fanno dormire. Labbra come canotti che lottano contro le profonde onde lunghe del collo.

Ci ho messo diverse ore e bestemmie per insegnarle a vedere un Dvd in autonomia; gli sms da seconda elementare come il K2 in inverno. Nonostante le palesi difficoltà quando ha sentito parlare di Twitter ha voluto gettare nel cesso degli euro per acquistare un tablet. Talvolta navighiamo velocemente in internet e non sa nemmeno lei che pesci prendere perché tutto quello che le propongo è, a suo dire, inutile. Evidentemente il pesce non le piace e quello che le interessa è il poter dire alle amiche che è capace di navigare: poco importa che sia una barca a vela alla mercé della bonaccia. Tutto questo mi intristisce perché sono anni che le chiedo come cazzo si fa a fare del buon pane in casa: quello che a lei riesce così bene.
Segreto di stato.

Dicono che la comunicazione non verbale sia quella più funzionale per far capire in modo inequivocabile le reali intenzioni ed infatti gli animali parlano così con noi e tendenzialmente li capiamo senza grossi problemi. Ed allora come è possibile che costui, mentre sono al lavoro, si appigli alla mia faccia di vetro manco avesse delle ventose al posto dei polpastrelli? E’ talmente convinto di far ridere che se potesse si strapperebbe il braccio all’altezza della spalla per potersi stringere la mano e si nutre, dio solo lo sa come, del mio sorriso di ghisa la cui traduzione è “fottiti e levati dal cazzo che ho una pila di sospesi da finire!

Ripenso all‘osceno sequel de “La strana coppia” e mi domando, ricordando il primo capitolo o lavori come “Prima Pagina”, come sia possibile che Jack Lemmon e Walter Matthau non si siano resi conto dell’oscenità di quel remake con Sofia Loren. Soffro nel vedere un cocciuto e talentuoso atleta sul viale del tramonto che non riesce ad ammettere che il suo tempo è finito e che il buon vino che era non sta affatto migliorando ma si sta progressivamente inacidendo; sento il brano di una band morta musicalmente da decenni che cerca di tornare alla ribalta con cerchi di plastica da galera. Soldi? Non credo.

Realizzo che la piccola e cieca torturatrice medievale che mi ha rimesso in sesto la mano operata con quaranta sedute di fisioterapia aveva ragione. In quelle ore di dolore e rinascita della mia zampa, abbiamo aperto mille discorsi. Ricordo che era solita ripetere, con laconica tristezza, che nella sua giornata tipo incontrava molta gente che brancolava nel buio pur avendo una vista tecnicamente perfetta. A ripensarci bene è un’osservazione abbastanza banale e retorica che, tuttavia, spesso non prendiamo nemmeno in considerazione, convinti del fatto che sia un problema che non ci possa riguardare.

Eppure è proprio vero che tutti siamo condannati a diventare con il tempo ciechi. Il fatto è che si tratta di uno scemando meschino dall'incedere talmente lento e progressivo che non ci possiamo rendere conto del momento in cui la luce si spegne. La mancanza della vista ci costringe a procede goffamente a tastoni lasciando il fianco scoperto per le ciniche e silenziose derisioni di chi, ancora ci vede.

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editoriale di Bartleboom

A pensarci bene le pistole non mi sono mai piaciute.

Per chi, come me, è nato a fine anni ’70 ed è cresciuto succhiando raggi gamma direttamente dalle poppe esplosive di Venus Alfa (la moglie di Mazinga, per i profani), durante gli anni dell’infanzia la polvere da sparo rappresentava un’invenzione tutto sommato priva di vero fascino. Insomma: se proprio “arma” deve essere, che sia perlomeno un robot trasformabile che posso guidare muovendo due leve del cacchio mentre una tipa superpopputa dal nome gonfia-mutanda tipo “Sashiko Ayakawa” osserva le mie gesta con un misto di apprensione ed eccitazione al sicuro dall’interno della base ultimo baluardo dell’umanità minacciata dagli alieni provenienti dal pianeta Gasparrix III.

Nel mio caso, poi, uno dei più brutti ricordi della mia fanciullezza è legato ad una scena di un film dal titolo sconosciuto, in cui un povero soldato (sicuramente americano e sicuramente impegnato nella lotta contro i nazisti e/o i comunisti) rimaneva orrendamente sfigurato a causa dell’inopinabile esplosione del suo fucile.

Se poi ci aggiungiamo il fatto che mia madre mi ha imbottito di morale evangelico-animista sin dalla fase anale (quella infantile, s’intende. Non quella che ci si scopre a vivere più o meno intorno ai 34 anni, quando ti ritrovi annoiato a morte in casa da solo e tua moglie è al supermercato e non tornerà prima di un paio d’ore, poi, però, rientra in anticipo perché ha lasciato a casa il cellulare e ti trova a gambe all’aria sul divano buono del salotto con la sua spazzola preferita infilata nel culo…), dicevo, se poi aggiungiamo il fatto che mia madre mi ha cresciuto con la filosofia del “piuttosto che fare del male agli altri, fallo a te stesso” (giuro), ecco che si capisce perché da piccolo non mi piacevano le pistole.

Inutile stare tanto a disquisire se mi piacessero le armi durante la pubertà o l’adolescenza. Essenzialmente perché ogni ricordo che ho del periodo tra gli 11 e i 17 anni mi trova seduto da qualche parte a controllare se è proprio vero che non ci si può staccare da soli il birillo e furia di pugnette.
Meglio, quindi, passare direttamente all’età della ragione: età di grandi riflessioni, grandi decisioni e, conseguentemente, grandi delusioni.

Mi è capitato di sparare, qualche volta, pur non avendo fatto il militare.
E non mi è piaciuto.

La pistola ha un peso strano, che nessuna bilancia riesce del tutto a misurare. Un peso compensato solo in parte dalla fregola che ti viene al pensiero di quanto potere ti può dare quel pezzo di ferro. A me quel peso ha sempre fatto cagare e, dopo le prime volte in cui ho accettato - essenzialmente per spirito di emulazione – di andare ad un poligono, ho preferito declinare educatamente l’invito e starmene a casina bella ad aspettare che la mia fidanzata andasse al supermercato per annoiarmi un po’ sul divano del salotto che tanto lo abbiamo preso all’IKEA per pochi euri.

Tutto sto pippone per dire cosa?

Più o meno questo:
… Non credo sia concepibile una civiltà umana senza armi.
… Tutto sommato penso che, in un contesto politico-istituzionale internazionale come quello in cui viviamo, gli Stati debbano avere un proprio esercito.
… Se fino a qualche anno fa l’idea che un privato cittadino potesse detenere legittimamente un’arma in casa non mi non dava grande fastidio, negli ultimi tempi sto maturando l’opinione contraria.

E’ che mi sono veramente rotto le palle di tutte 'set storie di bambini di cinque anni che “approfittando di un momento di distrazione del padre che stava pulendo in cucina un M-16 da assalto modificato con l’aggiunta di mirino telescopico e lanciagranate, ha impugnato l’arma e ha fatto fuoco uccidendo l’intera famiglia di sedici persone. Il piccolo si è quindi barricato nel recinto della sabbia ed è stato arrestato solo dopo l’intervento dei berretti verdi. ”.

Che poi lo so che c’è tutto dietro un mega-lavaggio del cervello di quello sbiancato di Obama che la vuole mettere nel popò alle lobby delle armi repubblicane e quindi stanno facendo una compagna di demonizzazione pazzesca delle armi e adesso tutti i giorni c’è qualche bambino che spara alla mamma, alla sorella, al cane, a se stesso, eccetera eccetera eccetera.
Però penso anche che alla base del principio – peraltro decisamente strumentalizzato - per cui “Ogni cittadino deve potersi difendere” c’è soprattutto una sconfitta. La sconfitta di uno Stato che, molto semplicemente, non è in grado di difendere i propri cittadini.

Vi lascio con una citazione. Semplice, tutto sommato banale. Ma che – forse – un fondo di verità ce l’ha:

"“Nell’ultima riunione del comitato della Zona Libera, Hugh Petrella aveva chiesto e ottenuto di poter armare i suoi aiutanti. All’inizio di giugno un ubriaco aveva malmenato uno dei poliziotti e l’aveva scaraventato dentro una vetrina del Broken Drum, un bar di Pearl Street. Il poliziotto aveva avuto bisogno di più di trenta punti e di una trasfusione. Petrella aveva sostenuto che questo non sarebbe mai successo se il suo uomo avesse avuto una Police Special da puntare contro l’ubriaco. C’era molta gente convinta che se il poliziotto avesse avuto un’arma, l’incidente si sarebbe concluso con un ubriaco morto anziché con un poliziotto ferito.”
"

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editoriale di Geo@Geo

«Fratelli e sorelle buonasera, voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma e sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo alla fine del mondo... ma siamo qui».

Alle 19.06 del 13 marzo 2013 la fumata bianca che ha annunciato al mondo l’elezione del 266esimo Pontefice, certo non ci aveva preparati ad essere testimoni di un fatto, se non unico, sicuramente epocale: due Papi in condominio.
Vederli insieme è un fatto che personalmente mi disorienta, fosse solo per… “morto una Papa, se ne fa un altro”, le dimissioni non rientravano nelle mie visioni o semplicemente non avrei pensato che ci potessero essere.
Vederli insieme, eppure così lontani, non può che aggiungere un sottile senso di vertigine: di sicuro il loro presentarsi al mondo e ai fedeli non può che aver approfondito il solco che li divide.

Questo Francesco viene dall’Argentina, uno stato un cui la Chiesa sostenne la dittatura e nel settembre del 1979 permise il trasferimento di prigionieri in un’isola dell’Arcipelago del Tigre, detta Isola del Silenzio (…) , ma allora il nostro gesuita non aveva alcun incarico o potere decisionale. Negli ultimi mesi assistiamo ad un comportamento inconsueto per un Papa, che cerca di “spostare” la sua Chiesa dal piedistallo “montano” in cui si trova, giù a terra a “livello del mare”: un lavoro che ha bisogno di uno sforzo comune, ma che per il momento sembra portare avanti da solo.

Non penso di incorrere in blasfemia se ricordo una vecchia canzone di Battisti, poiché mi verrebbe da dire "Non è Francesco, ma…"

Un Papa che mai come prima è riuscito a darci un senso di appartenenza e di fratellanza, al di là di ogni fede o religione, solo con la sua presenza e le sue parole semplici e dirette.
In questo periodo di grandi incertezze e di pazzia collettiva il Vescovo di Roma è veramente il Vescovo di tutti e finalmente…: “Annuntio vobis gaudium magnum: Habemus Papam!

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editoriale di Hank Monk

Pochi al mondo cercano di afferrare il problema, altri se ne infischiano completamente.
C'è chi, per puro scrupolo a volte dà una breve occhiata; chi passa con un sorrisino imbarazzato, come per dire: "ma che vuoi che sia". Altri ne percepiscono magari il dramma ma hanno altre priorità, una pacca sulla spalla e via. Oppure c'è chi ci prova ma desiste a fronte delle difficoltà, o chi irrompe prepotentemente (e sono i peggiori) convinti che il cambiamento possa avvenire dall'oggi al domani.

Forse non ce ne rendiamo nemmeno conto, e forse potremmo addirittura essere noi stessi. Potrebbe essere quella signora, in coda dietro alla ragazza carina, o il piccoletto con gli occhiali che si affretta a riempire la sportina. E quel nostro conoscente, che in compagnia ride sempre forte, ma ha quel non so che di triste nello sguardo, siamo proprio sicuri che ne sia fuori?

Cosa ne è di queste persone quando voltiamo lo sguardo?
Cosa ne sarà di noi quando saranno loro a voltarlo?

Cambiando discorso per un attimo, non pensate anche voi che il Macca sia sempre stato un gran paraculo?
Io ne sono fermamente convinto, non lo nego: un canzonettaro, un piacione.

Eppure a volte mi ritrovo a canticchiare "Eleanor Rigby" e mi sento di volergli bene.

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editoriale di ionecapisco

Le Offese, oggi protagoniste assolute del nostro comunicare, del nostro essere, del nostro pensare: a volte ci auto-Offendiamo senza neanche meritarcelo. E' il sintomo inconfutabile che la nostra Società sta degenerando, corrosa da un crisi che non è soltanto economica e finanziaria, ma è anche una crisi di ideali, del rispetto, della solidarietà, dell'equilibrio, dell'etica personale e professionale, dell'educazione, della tolleranza.

Dove non c'è spessore politico, culturale, sociale, ci sono le Offese: prendono il posto degli argomenti e dominano i discorsi, che poi non sono più tali, sono solo Offese. Ogni posto, ogni luogo, diventa come uno stadio, in strada, al bar, in ufficio, alla Camera ed in Senato come al circolo e al pub, ci si schiera da una parte o dall'altra, ma sempre con Offese e capisci da che parte si sta solo ascoltando le Offese e dove vengono destinate.

In tv quanto audience grazie alle Offese? Programmi beceri che a loro volta Offendono chi li guarda.
Politici votati dopo campagne elettorali intrise di Offese, che poi governano in modo Offensivo per il Paese e quelli non eletti Offendono chi è stato eletto e poi anche chi ha pensato di votarli.

Offese in internet, tra gente che neanche si conosce.
Offese a tutti livelli, Offese a chi lavora, e a quelli che non lavorano.
Offese agli animali, al verde, alla natura, a questo pianeta.
Offese a chi l'ha generato, a chi ci ha generato, ne abbiamo per tutti.

Quando penso che questo Paese è stato la culla della civiltà nel Mediterraneo per secoli... divento preda di tristezza e sconforto.

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editoriale di ilfreddo

Un mediocre fotografo è colui il quale usa in modo gratuito e spropositato lo zoom per evitare di dover spostare il culo ed andare alla ricerca della giusta inquadratura d‘insieme capace di meritare quel bel rumore. Click. Conscio di questo ringiovanisco di almeno vent'anni e mi ritrovo ad essere un bambino la notte di Natale mentre godo del nuovo obbiettivo che mi sono regalato due mesi or sono: un piccolo cannone che uso senza remore nelle vicinanze del parcheggio, uno dei posti più tristi ed insulsi che conosco; dando l'illusione di sapere cosa sto facendo cerco di rendere particolare e speciale quel luogo masturbando con veemenza adolescenziale l’apparecchio che profuma di nuovo. Passo le foto al computer e mentre osservo questa lunga sequenza di inutili primi piani con asfalto, erba incolta, mozziconi di sigarette e vattelapesca che sfuocano il contorno vado con la mente altrove. In Grecia.

Alla radio nei mesi scorsi hanno fugacemente parlato proprio della Grecia. Questo paese, che fino a pochi mesi addietro, era al centro di tutti gli editoriali dei quotidiani europei ora sembra sia sparito o che si sia mimetizzato molto bene. Una vipera tra le foglie secche. Guido e vengo a conoscenza dell’uso di medicinali di serie B negli ospedali ellenici; del fatto che, causa malnutrizione/insufficiente apporto calorico, ci sono stati diversi svenimenti nelle scuole di Atene e provincia; che nell’inverno testé trascorso la popolazione, impossibilitata a pagare le bollette del gas, ha bruciato panchine ed alberi dei parchi contribuendo ad aumentare spaventosamente l’inquinamento dell’aria della capitale. Anni addietro ero rimasto abbastanza colpito dalla complessiva sporcizia delle isole greche: chissà come reagirei ora. Immigrati di seconda generazione stanno tornando nelle terre natie messi di fronte ai dati agghiaccianti della disoccupazione uniti al peso crescente del partito (?!?) “Alba Dorata“. Una volta erano i gruppi "evimetal" che ascoltavo ad avere nomi del genere. Seguendo la massa e le mode l’opinione pubblica ha il potere di mettere in risalto un tema per poi farlo scomparire nello sfuocato marasma generale in un lasso di tempo risibile.

Togliendo un po’ di zoom la precaria salute del sistema economico mondiale ha preso il sopravvento su tutto il resto ed è normale che sia così perché colpisce in maniera diretta quello a cui teniamo maggiormente: il nostro standard di vita. Siamo nel bel mezzo di una guerra e, come logico che sia, quanto accadrà nei prossimi anni avrà delle ripercussioni fondamentali per il riposizionamento degli equilibri geopolitici mondiali.

Mi preoccupa terribilmente questo stato di cose: come molti sono un machiavellico ed egoista del cazzo e ho paura che non potrò più avere tutte quelle cose, in gran parte inutili, che compro e che mi ricordo di avere solo quando rischio di dovermene sbarazzare. Anche se non lo dico, e magari mi sciacquo la coscienza con un R.I.D. a "Save the Children", fondamentalmente me ne fotto delle persone che muoiono di fame. Lo so perfettamente che è la loro costante morte e povertà che nutre il mio benessere e mentre generosamente, con il mio euro al giorno gli regalo da mangiare, con la mia indifferenza quotidiana faccio in modo che lo status non cambi. Ma vado a dormire tranquillo.

Trovo altresì interessante, usando sempre lo zoom, notare come l’opinione pubblica si sia ingoiata la spada di Damocle che da qualche decennio pendeva sulla nostra capoccia. Sembrerebbe, dal complessivo silenzio mediatico, che sia stato risolto definitivamente il problema del riscaldamento globale: il 21 dicembre dell’anno scorso, per gioco e poco sul serio, molti hanno volto lo sguardo al cielo in attesa di un fuoco divino. Pochi hanno realizzato che è assai più terreno ed umano il devastante colpo all’equilibrio climatico che stiamo assestando al nostro pianeta. Un pugno cazzuto, forse un K.O., perché non serve essere Mercalli per capire che questi scatti da 0 a 100 (freddo/caldo - siccità/diluvi da "Il Corvo" ed estremizzazioni climatiche in genere) vanno benissimo per le macchine da F1, non troppo per un clima temperato. Se prima si parlava e si faceva almeno un po’ di becera retorica/polemica tra nazioni sull’argomento ora è calato un silenzio agghiacciante! Sarebbe bello avesse davvero la consistenza del ghiaccio perché allora forse potremmo usare il teletrasporto e regalarlo agli orsi del polo nord che vedono la loro casa assottigliarsi con rapidità disarmante ed in totale silenzio.

Il senso di queste righe? Cercare di non dimenticare i contorni (io vi ho portato solo alcuni esempi) che, in base alle priorità del momento, tendono a finire in quel grigio calderone sfuocato. Cercare di usare con parsimonia lo zoom e muovere il culo per avere una visione d‘insieme che ci renda più consapevoli e meno dipendenti da quello che i media spacciano.

"Polar Power"- photo © Joe Bunni

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editoriale di zaireeka

Ieri (10/05/2013) ho assistito ad una puntata, almeno per me, davvero illuminante del “Crozza nel Paese delle Meraviglie”. Illuminante in quanto mi ha messo davanti una verità lapalissiana che però mi era fino a ieri difficile da riconoscere (povero pollo, e chissà quanto è affollato il pollaio...).
Il fatto è questo, e riguarda la nostra amata “Sua Emittenza”, aka “Il Cavaliere”.

Come tutti sappiamo (purtroppo), il personaggio suddetto, che ambisce da anni ad essere considerato il vero unico paladino degli interessi e dell’orgoglio del Popolo Italiano nel mondo, non fa altro, da quando è sceso in politica (più o meno dal ’94), che portare avanti l’idea che i PM di Milano, in primis tale Ilda Boccasini, ce l’abbiano con lui per fini politici e lo perseguitino in maniera del tutto ingiustificata contro gli interessi stessi del popolo italiano.
Io personalmente mi ero fatto l’idea che effettivamente questo gruppetto di giudici, non so se in verità per fini politici o no, chiusi e barricati casualmente in un ufficio del tribunale di Milano (forse perché il tribunale di Milano sembrava avere le mura più alte a prove di parlamentari del PDL?), si divertissero effettivamente a sparare da anni contro Berlusconi bordate di sentenze che quei “poveracci” dei suoi avvocati tentavano in tutte le maniere di parare.
Tutto questo mentre i giudici “buoni” o almeno “equilibrati” delle altre procure italiane non avevano poi in fondo molto di negativo da dire e trovare sul “Divo Silvio”.

Crozza ieri mi ha fatto capire la grande verità.
Più o meno testualmente ha detto durante il suo spettacolo: “Lui accusa i giudici di Milano di perseguitarlo… Ma la ragione di tutto ciò è che si sono trovati a doverlo fare proprio loro semplicemente perché Berlusconi ha scelto come sua residenza privata e come sede della maggioranza dei suoi affari la città di Milano, o comunque luoghi su cui il tribunale della città di Milano è competente dal punto di vista giuridico… La Boccasini ed i suoi amici sarebbe stati ben felici di lavorare di meno se Berlusconi avesse deciso di vivere e risiedere in un’altra parte d’ Italia…”.
Insomma, se è vero quello detto da Crozza (il dubbio è sempre lecito, non mi sono documentato a sufficienza sui dati reali), come al solito, è solo una questione di statistica.

Se tu sei solito ogni dieci affari che fai cinque compierli ricorrendo ad illeciti, se in una città ne fai solo due è facile che siano affari puliti (almeno si spera, altrimenti si può pensare che se non è illegale non ti piace).
Se d’altro canto in un’altra, nella fattispecie Milano, ne hai fatti venti, è molto probabile che almeno una decina siano “affari sporchi” e che, come tali, tu venga “perseguitato” dalla Giustizia.
Tutto qui, elementare Watson (e lo dico a me stesso).

Giudici politicizzati?
No, statistica.

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editoriale di geenoo

Due giorni fa è morto il mio cane. Era un San Bernardo femmina.
Aveva quindici anni, molto per la sua razza.
Era il mio cane, il mio primo e, per ora, ultimo cane.
Era l’unica femmina della cucciolata ed era destinata a morte sicura poiché non “vendibile”. Il suo destino era segnato: o la prendevo io o il giorno dopo sarebbe venuto il veterinario a finire la sua breve vita, a tre mesi dalla nascita.
Ebbi molti dubbi. Pensavo a come gestire un simile molosso, a quanto avrebbe mangiato, allo spazio che avrebbe occupato, alla sua indole vista la probabile mole (e se mordeva chi l’avrebbe fermata?). Tutti questi dubbi dovevano essere risolti entro dodici ore, poi sarebbe stato troppo tardi. I miei avevano sempre avuto cani e gatti, ma questa bestia sarebbe stata affidata a me. E ciò significava alimentarla prima di tutto e poi gestirla. Ero nel secondo lustro dei miei venti anni e di conseguenza ero ancora molto sognatore ma anche molto pragmatico. Avevo finito l’università e stavo entrando nel famigerato mondo del lavoro e questa del “cagnone” era una “grana” da gestire bene: chi cazz’ me lo faceva fare? Insomma, furono dodici ore frenetiche. In quelle dodici ore feci una capatina dallo stronzone che il giorno dopo avrebbe utilizzato una bella siringa per finirla, almeno così diceva. E vidi quel batuffolo bianco a chiazze marroni, con quel musetto imbronciato. A tre mesi già bella grande.
La decisione fu presa.

Nei primi giorni Lea si nascondeva a tutti. Poi pian piano si rilassò. Si fece accarezzare.
Crebbe. Crebbe molto. Diventò un gigante. Non era facile tenerla.
Era spettacolare in gioventù; per esempio quando vedeva un gatto ed in una frazione di un secondo decideva di seguirlo con uno scatto da felino. Nella frazione di secondo successiva io dovevo velocemente spostare il mio peso all’indietro e tirare il guinzaglio per cercare di frenare quella enorme massa di muscoli e pelo da settanta chili che voleva giocare.
E succedeva che il grande animale si impennava letteralmente superandomi in altezza mentre io tendevo allo spasimo il guinzaglio con tutte le mie forze. In quei frangenti la gente si paralizzava. Si congelava anche solo quando abbagliava.
Aveva un suono potente, cupo ed incuteva davvero timore.
Ma era dolce, era buona nel senso letterale della parola.
Era stupenda ed impressionante quando, in un prato, prendeva la rincorsa da cento metri e correndo mi veniva incontro con tutta la sua mole, e vi assicuro che non si fermava.
Si buttava addosso a me e, se non venivo sbattuto a terra (in quel caso arrivava con l’intento di slinguazzare e sbavare), si rovesciava sulla schiena zampettando al cielo.
Mi seguiva a testa bassa e giocava, correva come un mammut, si tuffava in acqua e poi se la scrollava di dosso inondando tutto e tutti. Era uno spettacolo.
Poi la vita va avanti velocemente. Gli anni passano, le vicende umane e canine pure.
E ci ritroviamo più vecchi.

Ora non abbaia quasi più, è molto più magra. Il suo pelo ha perso lo smalto e la sofficità.
Non corre, anzi purtroppo le zampe posteriori non la sorreggono più.
E’ diventata sorda. Ma quando mi vede riesce ancora ad alzarsi e venirmi incontro.
“Quando mi vede” perché ora è rimasta nella casa di famiglia ed io non sono più lì.
Era circa una settimana che non la vedevo. Poi non so perché, il lunedì decido di passare nella vecchia casa.
Non vado direttamente da lei, ora mi fa pena vederla e mi faccio un giro in giardino.
Poi sento tossire ed un impercettibile gemito, mi volto e la vedo sdraiata tra le margherite che mi guarda. Respira molto male. Non tento nemmeno di alzarla. Non so che fare. Riconosco quel respiro. Respira a tratti, tossisce. Ansima. La accarezzo e la accarezzo. Solo questo posso fare.
La guardo.
Poi decido di andarmene. Ma ritorno sui miei passi per un’ultima carezza.

Mi telefonano due ore dopo dicendomi che è morta.

In un attimo non penso più a nulla se non al mio caro cane.

Corri Lea, corri.

P.s. Lo so, è un editoriale “personale”, ma l’ho scritto non per un falso pietismo o sentimentalismo verso gli animali a-la-Bau&Miao o Arca di Noè di Canale 5. L’ho scritto perché sentivo di scriverlo e lasciare due righe per Lea prima di tutto, forse anche egoisticamente per i miei sedici anni di vita volati via con lei ma, più che altro, per riflettere sul nostro rapporto con gli animali.
Diamo loro troppo spazio ed importanza? Penso a tutti i programmi tv dedicati loro ad esempio. Ho sempre ritenuto che quello spazio/tempo sarebbe speso meglio per la gente che non ce la fa a mangiare. E nel mondo, ma già in Italia, ce n’è davvero molta. Prima le persone e poi gli animali. Penso alle signore che spendono 800,00 euro di toletta per le loro cagnoline. Ma penso anche ai bastardi che tengono i loro cani in gabbie di un metro per due. E poi li prendono la domenica mattina per andare a caccia e magari pretendono pure, nell'occasione, che siano docili con loro e che corrano prestanti.
Io credo che il nostro errore più grande sia quello di umanizzare gli animali.
Essi sono animali e debbono essere trattati da animali. Certo rispettati, ma senza esagerare.
Bene, però allora perché sento questa “cosa” dopo la morte del mio cane?

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editoriale di kosmogabri

L’altra sera ho rivisto un tizio in televisione, con la maglia e la sciarpa del Celtic, in trasferta a tifare per gli scozzesi contro la Juventus.
Lo hanno intervistato e non aveva niente del calciatore che fu, se non il pizzetto degli ultimi anni, quasi da ricordarmi l’impiegato dell’ufficio della poste sotto la mia vecchia casa. Poi ho capito che era Enrico “Tarzan” Annoni.

Chi non tifa per il Toro credo ignori o abbia ricordi vaghi di Tarzan, e nel nostro non può che vedere un uomo normale, uno come tanti che va in giro a tifare, per qualcuno o contro qualcuno ha poca importanza. Dopo qualche istante di perplessità l’ho riconosciuto perché il volto di Tarzan mi è sempre stato familiare, non sono mai riuscito a rimuoverlo o ad accantonarlo del tutto, e neppure mi è riuscito di confinarlo in quell’angolo della memoria dedicato a tutto ciò che è “ex”, inteso come prossimo all’exit e alla fuoriuscita dai ricordi: vecchie macchine, antiche compagnie, i breviamoriapalmadimaiorca e simili, tanto l’elenco è uguale per tutti.

Ogni volta che torno a trovare mio zio, vengo ospitato nella camera che mio cugino occupava fino ad una quindicina di anni fa, rimasta uguale anche dopo che se ne è andato di casa, con lo stesso letto, gli stessi libri sulla mensola, la stessa carta da parati, le stesse fotografie prese da un giornale sportivo e incorniciate con la scritta “due tori scatenati”, a raffigurare un mediano dimenticato dai più ed un coriaceo terzino del Toro dei primi anni ’90, quello che finì in semifinale di coppa Uefa o cose del genere. Tarzan.

Capita così che una volta ogni due o tre anni l’ultima immagine che mi appare prima di addormentarmi sia quella dei tori scatenati negli anni ’90, di una stanza da adolescente abbandonata a se stessa e ai due custodi in maglia granata, un tempo idolatrati, per qualche anno ricordati, quindi dimenticati e qualche volta riscoperti, riportati alla mia vita prima che lo faccia – sempre in modo saltuario e occasionale – la televisione o qualche sito internet.

Lo stesso che mi è capitato quando ad un’asta su ebay ho recuperato tutta la serie de “I tre investigatori” e dei “Pimlico Boys”, i gialli dei ragazzi che leggevo quando facevo le elementari o le medie, e mi mettevo io nei panni del quarto investigatore, e la mia camera non era più la mia camera e le finestre si aprivano su Rocky Beach, su Norfolk, sulla caverna del diavolo o sul bosco delle streghe, e mi trovavo a combattere contro i pirati dell’atomo o su chi metteva Londra nel terrore.

Ho provato a rileggerne uno, che mi era sfuggito negli anni ’80, ma facevo fatica a riconoscere luoghi, spazi persone, un po’ come l’altra sera non ho riconosciuto di primo acchito Tarzan Annoni, e davvero lo avevo scambiato per il mio vicino di casa o per un qualche personaggio che vedi sempre ed ovunque, senza davvero riconoscerlo.

Qualcuno mi ha detto che “ife is only as good as the memories we make", e molto spesso ci credo pure io, mi sono sempre beato di ri-conoscere il mio passato, la fisionomia di una persona (basta puntare agli occhi, quelli non cambiano mai, neppure dopo trent'anni), di un luogo, di una Opel Kadett.

Del resto, c'è chi passa i pomeriggi su Google Maps ha riscoprire i posti dov'è cresciuto, o a programmare viaggi immaginari in luoghi in cui non è mai stato, ma che ha sempre creduto di conoscere, magari per averci passato i migliori anni "in un'altra vita, quella precedente".

C'è chi spera in quello che uno scrittore siciliano del secolo scorso chiamava il "miracolo del bis, il bellissimo riessere". Come mio cugino che spera nel Toro in Coppa, e non stacca i poster dalle pareti della camera dove qualche volta tornano a giocare i suoi figli.

Ecco perché mi è difficile spiegare il senso di libertà che ho provato quando per la prima volta dopo tanti anni mi sono smarcato dall’immagine di Tarzan Annoni, per correre verso la porta.

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editoriale di emofiliaco

Qualche anno fa, prima che venisse “disperso” in cinque luoghi diversi, ebbi l’occasione di visitare il Messner Mountain Museum che allora era collocato nel solo Schloss Juval.
Quello che ancora oggi ricordo più volentieri fu che la guida ci spiegò che Reinhold Messner aveva concepito quel luogo oltre che per raccogliere la sua collezione privata di opere artistiche dedicate alla montagna anche per celebrare la divisione dicotomica tra la sua anima, natia, sudtirolese e quella, acquisita, tibetana.

Davanti a un quadro che raffigurava il Kailash ci fu spiegato il particolare rapporto che l’alpinista di Brixen aveva con quella montagna.
Luogo sacro per molte religioni e dottrine di quella zona (Tibet, India, Nepal) sorge in territorio cinese e vanta il record di non essere stata ancora scalata: non per le difficoltà visto che è alta "appena" 6'638 metri e nemmeno (a dire degli esperti) per particolari disagi tecnici ma perché semplicemente, in quanto, a seconda del “rito”, ritenuta Centro dell’Universo, Residenza di Shiva, Sede dello Spirito, eccetera.
Quindi inviolabile.

Chi ci accompagnò ci raccontò che questa cosa non andava (e non va probabilmente) giù alla Repubblica Popolare Cinese tanto che questa spediva annualmente permessi (non richiesti!) urbi et orbi al mondo alpinistico internazionale (quindi anche allo stesso Messner) per scalarla, ricevendo puntualmente, come risposta, picche. Ora io non so quanto ci sia verità e quanto ci sia leggenda in tutto ciò ma mi piace pensare che da qualche parte nel mondo ci sia un posto ancora inviolato e quindi perfetto.
Ora potrei rompervi le scatole con discorsi semantici sul vocabolo “perfetto” ma non lo farò. Fidatevi per una volta e in cambio io “perdonerò” eventuali proteste sul fatto che nella Terra c’è più di un posto ancora “intonso” (si, ma non ditemi la Fossa delle Marianne per favore: non lo è più da tempo).

Spesso mi scopro a pensare e rimuginare su quella gita e su quella storia e altrettanto spesso cerco d’individuare nel mondo quelli che potrebbero essere i miei “Kailash personali”: luoghi intimamente sacri da rispettare, non violare e conservare in una perfezione del tutto campata in aria (è ovvio che spesso se non io altri per i fatti loro l’hanno cancellata) ma personalmente reale.
Un’altra “leggenda” narra che quando gli chiesero “Perché scalare l’Everest?” Mallory rispose “Perché è là.”.

Forse qualcuno, magari convinto della sacralità della Madre dell'Universo, avrebbe voluto dirgli in cuor suo (e anticipando DeBaser di qualche anno) “…ma anche no.”.
Ma luogo comune per luogo comune questa è un’altra storia.

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editoriale di zaireeka

Sono qui a casa, un po’, con grande fatica, davanti al computer, più spesso davanti alla tv, che girovago annoiato e distratto cercando di ingannare il tempo della mattina. Ho appena sentito in tv la dichiarazione post-consultazione con il Presidente della Repubblica dei due capigruppo alla Camera ed al Senato del movimento politico che è stata la vera sorpresa delle ultime elezioni politiche italiane.
Anche questa volta, ostinatamente, si sono mostrati rigidi ed inflessibili sulle loro posizioni, tutti di un pezzo.

Confesso che il tutto mi affascina: l’idea di questa marea di cittadini comuni, di purezza ed onestà indiscutibile, puri come diamanti, tutti sotto una sola bandiera, che, con giustificata arroganza invadono le istituzioni e il parlamento, è semplicemente meravigliosa.
Forse mi ricordano qualcosa, ma preferisco non pensarci.
Sicuramente qualcosa di buono potranno portare all’Italia, ed il rischio di rimettere in gioco, con la loro posizione, personaggi dalla dubbia reputazione, è un problema che va considerato marginale (loro la pensano sicuramente così).
Del resto il loro capo, piuttosto astioso e dal non trascurabile ego, senza mostrare il minimo dubbio, “dice che il movimento vincerà.”.

Può essere.

Dopo aver sentito la dichiarazione in tv, mi sposto davanti al computer.
E leggo: “E’ morto Pietro Mennea. L'ex olimpionico si è spento a Roma a 61 anni. Era malato da tempo. Oro ai Giochi di Mosca, il suo primato mondiale sui 200 metri ha resistito per sedici anni.”.
E per incanto comincio a pensare a quegli anni di piombo ed oscuri della Prima Repubblica, clientelisti e democristiani (nel Sud non ne parliamo…), socialisti e corrotti, che forse la maggioranza degli eletti nel movimento nemmeno ricordano non essendo ancora nati.
E a quello che in quegli anni questo maledetto paese è riuscito a produrre fuori e dentro il parlamento, nonostante tutto.

Mennea era uno di queste cose.
La Presidenza di Sandro Pertini (e lo cito non casualmente in quanto il savonese, guarda caso vicino di casa del leader, ha dedicato la sua vita a combattere il “pensiero unico”), in tutt’altro campo, un’altra.

Ed allora voglio chiudere questa lamentazione, caro amato leader di questo meraviglioso movimento, ricordandoti una delle strofe più belle di quello che è stato uno dei tuoi più grandi amici (dicono che tu sia stato l’ultimo degli estranei alla famiglia a vederlo prima che morisse).
Eccola qua: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.”.

Ricordatela.

Io, dal canto mio, userò quei versi per convincermi che quanto fai possa in fondo davvero migliorare il Paese, un giorno.
Insomma se non proprio come un fiore, immaginarti almeno come un qualcosa che ne possa permettere la crescita.

E’ tutto, ciao Beppe e buona fortuna.

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