editoriale di Bartleboom

"Ogni uomo, per essere felice, dovrebbe avere un pizzaiolo, un kebabbaro e un negozio di dischi di fiducia”
(Anonimo Bartolomeo, 2013)

Il mio pizzaiolo di fiducia si chiama Geppino, all’anagrafe Giuseppe Tortorella (nome di fantasia, ma magari anche no), classe 1940, emigrato negli anni Sessanta da Caianello (CS), titolare del Ristorante Pizzeria “Il Veliero d’Oro” di Bartletown.

E’ stato per anni il pizzaiolo di fiducia di mio padre, finché il diabete, il cardiologo e mia madre che ci scassa la minchia a tutti con ‘sta storia che si mangiano troppi carboidrati, hanno deciso che il mio vecchio, in pizzeria, non ci doveva più mettere piede.
E così, oggi, Geppino è il MIO pizzaiolo di fiducia.

La storia di Geppino è uguale a quella di tanti altri “saliti al nord”. Valigia di cartone, italiano stentato, tutti che ti chiamano “uè tèrùn”, cento figli da mandare a scuola. Poi viene fuori che fai una Napoli che è pura poesia, la moglie se la cava in cucina, la figlia più grande la metti alla cassa, il figlio disgraziato a servire ai tavoli anche se sono più i piatti che rompe di quelli che riesce a servire.
E allora va a finire che ti puoi permettere di comprarti un posto che è solo tuo.
E finisce che la gente ti conosce e ti vuole bene e ti viene a trovare.

La storia di Geppino, dicevo, è uguale a quella di tanti altri.
Però a me piace un po’ di più delle altre.
Perché lui non la racconta mai.
Perché è vera.

Notizia dell’ultimo mese o giù di lì: Geppino ha venduto “Il Veliero d’Oro”.
Ai cinesi.

Quando me l’hanno raccontato non ci volevo credere e così settimana scorsa ho buttato dentro la testa con la scusa di una Bufalina e una Capricciosa col salame piccante e sono riuscito a scambiare quatto parole con Geppino.
In pratica funziona così: la figlia s’è sposata e il marito s’è rotto le palle che lei rientra all’una di notte sei giorni la settimana, il figlio ormai ha finito l’università e di rimanere a lavorare in pizzeria non se ne parla, Geppino e la moglie hanno settant’anni e sono stanchi.
Poi le tasse sempre più alte, i controlli dell’ASL sempre più rigidi, il commercialista, i dipendenti che guai a chiedergli di fare mezz’ora in più…
Tutto troppo difficile, tutto troppo complicato.

Mio padre dice che se le cose vanno a rotoli è colpa della mia generazione di ultratrentenni sfaccendati e bamboccioni, senza spina dorsale e senza spirito di sacrificio. Mia madre dice che è colpa della crisi, della kasta, del governo (ladro). Mia sorella che è colpa dei musi gialli che non muoiono, dei pakistani che dormono in venti in un appartamento senza pagare l’affitto, dei marocchini che si ubriacano, degli albanesi che stuprano le nostre donne e saccheggiano i nostri villaggi.

Io non so nemmeno se c’è, una colpa.
Figuriamoci se so di chi è.

Però mi piacerebbe riuscire a pensare che dietro ai nuovi proprietari, dietro quelle facce giallognole più o meno tutte uguali, dietro quei sorrisi un po’ ebeti di chi non capisce mai veramente del tutto quello che gli stai dicendo, dietro quelle cucine sistematicamente impresentabili, ci possano essere storie come quella di Geppino.

Forse non basterebbe a rendere la loro Napoli altrettanto buona.
Ma almeno renderebbe il tutto un po’ meno triste.

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editoriale di ZannaB

Fa male.
Ogni secondo.
Sempre di più.

Mi tolgono l’accappatoio, mi aprono le corde, salgo sul ring baldanzoso convinto di vincere il match. Perché io VOGLIO vincere il match!

Gong!
Primi secondi di studio reciproco, qualche colpo per tenere la distanza.
Capisco subito che il mio avversario è veloce e ha un sinistro niente male, infatti già nella prima ripresa subisco un paio colpi, niente di importante, ma uno al volto abbastanza forte lo accuso.

Torno all'angolo, il sopracciglio è spaccato e perde sangue, il mio secondo mi tampona e mi chiede se è tutto a posto. “Sono un pugile, è il mio lavoro prendere pugni, non mi fermerò per così poco!
Testardo.
Ma il mio avversario si accorge della cosa e insiste sul lato malmesso del mio viso, colpo su colpo, con una costanza invidiabile.
E ancora una volta il suo guantone colpisce il mio sopracciglio.
Dolore.
L’arbitro controlla la ferita, mi chiede se ce la faccio a continuare, faccio cenno di si con la testa.

Boxe!
Faccio un paio di finte ma ormai la mia forma è compromessa, sono lento, lui se ne accorge, anticipa le mie mosse, gancio proprio allo scadere della ripresa: ancora il sopracciglio.
All'angolo!

Due misere riprese e sono già finito. Il mio secondo è preoccupato, vuole chiuderla qui, ma io insisto! Io ci credo, so che ci sono ancora le possibilità per fare bene, conosco le mie capacità e voglio andare avanti!

Terza ripresa.
Il mio volto è gonfio e parare i colpi del mio avversario è sempre più difficile.
I miei guantoni, raccolti al volto per tenere la guardia, mi fanno un male cane anche solo quando sfiorano la ferita, ormai sempre più aperta.
Non saltello più, bensì barcollo, la mia vista è offuscata, arriva un altro colpo, questa volta non l’ho neanche visto partire.
Cado a terra.

L’arbitro inizia a contare, il mio secondo è preoccupatissimo, mi urla di non alzarmi!
Eppure ne ho presi tanti di pugni nella vita, dovrei essere abituato”.
Ma questa sera i guantoni picchiano sempre lì, sulla stessa ferita, continuamente, insistentemente, e la mia povera carne martoriata dai colpi non ce la fa più a resistere al dolore.

Fa male.
Ogni secondo.
Sempre di più.

Ma una volta che sei salito sul ring vuoi arrivare sempre in fondo, credi sempre di potercela fare, hai sempre quella speranza che cerca di mandarti avanti.
Vuoi sempre un’altra ripresa.
Vuoi sempre un’altra occasione.

L’arbitro conta il sette, mi metto in ginocchio, all’otto sono in piedi.
Testardo, voglio andare avanti, contro tutto e contro tutti.

Ma il mio secondo si aggrappa alle corde, getta la spugna, mi prende a spalla e senza che io abbia nemmeno la forza di oppormi mi porta via dal ring.
Ormai non vedo più niente, sento gli urli del pubblico quando il pugno del mio avversario viene alzato dall'arbitro a proclamazione della sua vittoria.

Il match è finito, ho perso.
Nello spogliatoio guardo il mio volto tumefatto allo specchio, fatico a riconoscermi.
Il mio secondo mi medica le ferite e mi fa “Cosa volevi fare prima? Farti ammazzare?

La vita è un po’ come la boxe: ogni tanto arriva un colpo e bisogna saperlo incassare.
Ma se i colpi picchiano sempre sullo stesso sopracciglio diventa ogni giorno più difficile sopportarli, soprattutto quando decidiamo testardamente di andare avanti. Fa male.
Ogni minuto.
Sempre di più.

E nella vita non c’è nessun cazzo di secondo che ti getta la spugna.

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editoriale di ilfreddo

Li ho incontrati per la prima volta al risveglio durante una bella e fresca mattinata primaverile. Una tremenda fitta che mi ha fatto cacciare un sonoro "ahia" e ritornare immediatamente nella posizione iniziale per massaggiarmi la schiena dolorante.

"Buongiorno egregio signore. Io ed miei colleghi, La compagnia dei mal di…, siamo assai lieti di fare la Sua conoscenza e vogliamo salutarLa cordialmente dal momento che da questo istante è probabile che ci vedremo con frequenza, tendenzialmente crescente, negli anni a venire. Da buoni vicini Le portiamo in dono un piccolo consiglio: provi pure a scendere dal letto ma lo faccia con calma e soprattutto, ascolti noi, non dia la colpa del malessere temporaneo al materasso. Ci dispiace farLe notare che quella da cambiare sarebbe la sua schiena“.

E’ stato un piccolo shock provare dolore non a causa di un trauma, ma per la mera usura del corpo. Nulla di grave, ma un malanno sufficiente per intristirmi molto; la compagnia dei “Mal di” ha sottolineato come la mia giovinezza se ne sia andata. E come ogni incontentabile bipede penso che sia scivolata troppo velocemente e comunque non nel modo in cui avrei voluto. In queste circostanze è assai facile cedere alla tentazione di chiudere gli occhi, cacciare la testa per terra e negare l’evidenza perdendo, con il passare del tempo, lucidità e spirito critico. E di questo vi voglio parlare.

Quel nonnetto di 80 anni che ha tagliato il traguardo ha gareggiato assieme ad altre trecento persone in una gara di corsa su sentieri montani. Guardare quel corpo sofferente ed avvizzito che, con fare lievemente robotico, è stoicamente arrivato al traguardo a distanza di ore dal primo non mi ha fatto battere automaticamente le mani o sentire la musichetta del film “Giorni di gloria“. Al contrario mi ha fatto provare pena. Tonnellate di compassione per una persona condannata a gareggiare spinta esclusivamente dall’impossibilità di disattendere l'aspettativa dei suoi paesani; quelli che, a differenza mia, si sono spellati le mani mentre lo chiamavano con il suo nome da battaglia "Highlander". In quel volto, in quelle rughe profonde e piene di sudore, non ci ho visto nemmeno un briciolo di gioia per una prestazione sportiva straordinaria in relazione all'età, ma solo sollievo. Diventerò anch’io così? Ho pensato questo e brrrrrrrr… un iceberg mi è franato addosso. Nel caldo estivo uno stormo di oche si è posato sulla mia pelle per rimanerci e così, in un caldo fottuto, ho cercato disperatamente calore in un bicchiere di grappa.

La piccola non riesce ancora a parlare ma non è fame quella che la fa strillare; punta le dita al cielo e quello che sta vivendo è poco meno di un incubo. La nonna sorride affabile e premurosa cercando di calmarla, ignara del fatto che sta peggiorando la situazione. Movimenti rallentati, collosi ed incatramati come se ci fossero pesi da venti chili sul suo volto. E’ così che risponde quella pelle stirata sugli zigomi e sugli occhi mentre tenta di dare alla luce un sorriso; un movimento che la rende simile ad una di quelle creature che albergano nella mente della neonata di notte e che non la fanno dormire. Labbra come canotti che lottano contro le profonde onde lunghe del collo.

Ci ho messo diverse ore e bestemmie per insegnarle a vedere un Dvd in autonomia; gli sms da seconda elementare come il K2 in inverno. Nonostante le palesi difficoltà quando ha sentito parlare di Twitter ha voluto gettare nel cesso degli euro per acquistare un tablet. Talvolta navighiamo velocemente in internet e non sa nemmeno lei che pesci prendere perché tutto quello che le propongo è, a suo dire, inutile. Evidentemente il pesce non le piace e quello che le interessa è il poter dire alle amiche che è capace di navigare: poco importa che sia una barca a vela alla mercé della bonaccia. Tutto questo mi intristisce perché sono anni che le chiedo come cazzo si fa a fare del buon pane in casa: quello che a lei riesce così bene.
Segreto di stato.

Dicono che la comunicazione non verbale sia quella più funzionale per far capire in modo inequivocabile le reali intenzioni ed infatti gli animali parlano così con noi e tendenzialmente li capiamo senza grossi problemi. Ed allora come è possibile che costui, mentre sono al lavoro, si appigli alla mia faccia di vetro manco avesse delle ventose al posto dei polpastrelli? E’ talmente convinto di far ridere che se potesse si strapperebbe il braccio all’altezza della spalla per potersi stringere la mano e si nutre, dio solo lo sa come, del mio sorriso di ghisa la cui traduzione è “fottiti e levati dal cazzo che ho una pila di sospesi da finire!

Ripenso all‘osceno sequel de “La strana coppia” e mi domando, ricordando il primo capitolo o lavori come “Prima Pagina”, come sia possibile che Jack Lemmon e Walter Matthau non si siano resi conto dell’oscenità di quel remake con Sofia Loren. Soffro nel vedere un cocciuto e talentuoso atleta sul viale del tramonto che non riesce ad ammettere che il suo tempo è finito e che il buon vino che era non sta affatto migliorando ma si sta progressivamente inacidendo; sento il brano di una band morta musicalmente da decenni che cerca di tornare alla ribalta con cerchi di plastica da galera. Soldi? Non credo.

Realizzo che la piccola e cieca torturatrice medievale che mi ha rimesso in sesto la mano operata con quaranta sedute di fisioterapia aveva ragione. In quelle ore di dolore e rinascita della mia zampa, abbiamo aperto mille discorsi. Ricordo che era solita ripetere, con laconica tristezza, che nella sua giornata tipo incontrava molta gente che brancolava nel buio pur avendo una vista tecnicamente perfetta. A ripensarci bene è un’osservazione abbastanza banale e retorica che, tuttavia, spesso non prendiamo nemmeno in considerazione, convinti del fatto che sia un problema che non ci possa riguardare.

Eppure è proprio vero che tutti siamo condannati a diventare con il tempo ciechi. Il fatto è che si tratta di uno scemando meschino dall'incedere talmente lento e progressivo che non ci possiamo rendere conto del momento in cui la luce si spegne. La mancanza della vista ci costringe a procede goffamente a tastoni lasciando il fianco scoperto per le ciniche e silenziose derisioni di chi, ancora ci vede.

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editoriale di Bartleboom

A pensarci bene le pistole non mi sono mai piaciute.

Per chi, come me, è nato a fine anni ’70 ed è cresciuto succhiando raggi gamma direttamente dalle poppe esplosive di Venus Alfa (la moglie di Mazinga, per i profani), durante gli anni dell’infanzia la polvere da sparo rappresentava un’invenzione tutto sommato priva di vero fascino. Insomma: se proprio “arma” deve essere, che sia perlomeno un robot trasformabile che posso guidare muovendo due leve del cacchio mentre una tipa superpopputa dal nome gonfia-mutanda tipo “Sashiko Ayakawa” osserva le mie gesta con un misto di apprensione ed eccitazione al sicuro dall’interno della base ultimo baluardo dell’umanità minacciata dagli alieni provenienti dal pianeta Gasparrix III.

Nel mio caso, poi, uno dei più brutti ricordi della mia fanciullezza è legato ad una scena di un film dal titolo sconosciuto, in cui un povero soldato (sicuramente americano e sicuramente impegnato nella lotta contro i nazisti e/o i comunisti) rimaneva orrendamente sfigurato a causa dell’inopinabile esplosione del suo fucile.

Se poi ci aggiungiamo il fatto che mia madre mi ha imbottito di morale evangelico-animista sin dalla fase anale (quella infantile, s’intende. Non quella che ci si scopre a vivere più o meno intorno ai 34 anni, quando ti ritrovi annoiato a morte in casa da solo e tua moglie è al supermercato e non tornerà prima di un paio d’ore, poi, però, rientra in anticipo perché ha lasciato a casa il cellulare e ti trova a gambe all’aria sul divano buono del salotto con la sua spazzola preferita infilata nel culo…), dicevo, se poi aggiungiamo il fatto che mia madre mi ha cresciuto con la filosofia del “piuttosto che fare del male agli altri, fallo a te stesso” (giuro), ecco che si capisce perché da piccolo non mi piacevano le pistole.

Inutile stare tanto a disquisire se mi piacessero le armi durante la pubertà o l’adolescenza. Essenzialmente perché ogni ricordo che ho del periodo tra gli 11 e i 17 anni mi trova seduto da qualche parte a controllare se è proprio vero che non ci si può staccare da soli il birillo e furia di pugnette.
Meglio, quindi, passare direttamente all’età della ragione: età di grandi riflessioni, grandi decisioni e, conseguentemente, grandi delusioni.

Mi è capitato di sparare, qualche volta, pur non avendo fatto il militare.
E non mi è piaciuto.

La pistola ha un peso strano, che nessuna bilancia riesce del tutto a misurare. Un peso compensato solo in parte dalla fregola che ti viene al pensiero di quanto potere ti può dare quel pezzo di ferro. A me quel peso ha sempre fatto cagare e, dopo le prime volte in cui ho accettato - essenzialmente per spirito di emulazione – di andare ad un poligono, ho preferito declinare educatamente l’invito e starmene a casina bella ad aspettare che la mia fidanzata andasse al supermercato per annoiarmi un po’ sul divano del salotto che tanto lo abbiamo preso all’IKEA per pochi euri.

Tutto sto pippone per dire cosa?

Più o meno questo:
… Non credo sia concepibile una civiltà umana senza armi.
… Tutto sommato penso che, in un contesto politico-istituzionale internazionale come quello in cui viviamo, gli Stati debbano avere un proprio esercito.
… Se fino a qualche anno fa l’idea che un privato cittadino potesse detenere legittimamente un’arma in casa non mi non dava grande fastidio, negli ultimi tempi sto maturando l’opinione contraria.

E’ che mi sono veramente rotto le palle di tutte 'set storie di bambini di cinque anni che “approfittando di un momento di distrazione del padre che stava pulendo in cucina un M-16 da assalto modificato con l’aggiunta di mirino telescopico e lanciagranate, ha impugnato l’arma e ha fatto fuoco uccidendo l’intera famiglia di sedici persone. Il piccolo si è quindi barricato nel recinto della sabbia ed è stato arrestato solo dopo l’intervento dei berretti verdi. ”.

Che poi lo so che c’è tutto dietro un mega-lavaggio del cervello di quello sbiancato di Obama che la vuole mettere nel popò alle lobby delle armi repubblicane e quindi stanno facendo una compagna di demonizzazione pazzesca delle armi e adesso tutti i giorni c’è qualche bambino che spara alla mamma, alla sorella, al cane, a se stesso, eccetera eccetera eccetera.
Però penso anche che alla base del principio – peraltro decisamente strumentalizzato - per cui “Ogni cittadino deve potersi difendere” c’è soprattutto una sconfitta. La sconfitta di uno Stato che, molto semplicemente, non è in grado di difendere i propri cittadini.

Vi lascio con una citazione. Semplice, tutto sommato banale. Ma che – forse – un fondo di verità ce l’ha:

"“Nell’ultima riunione del comitato della Zona Libera, Hugh Petrella aveva chiesto e ottenuto di poter armare i suoi aiutanti. All’inizio di giugno un ubriaco aveva malmenato uno dei poliziotti e l’aveva scaraventato dentro una vetrina del Broken Drum, un bar di Pearl Street. Il poliziotto aveva avuto bisogno di più di trenta punti e di una trasfusione. Petrella aveva sostenuto che questo non sarebbe mai successo se il suo uomo avesse avuto una Police Special da puntare contro l’ubriaco. C’era molta gente convinta che se il poliziotto avesse avuto un’arma, l’incidente si sarebbe concluso con un ubriaco morto anziché con un poliziotto ferito.”
"

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editoriale di Geo@Geo

«Fratelli e sorelle buonasera, voi sapete che il dovere del Conclave era di dare un vescovo a Roma e sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo alla fine del mondo... ma siamo qui».

Alle 19.06 del 13 marzo 2013 la fumata bianca che ha annunciato al mondo l’elezione del 266esimo Pontefice, certo non ci aveva preparati ad essere testimoni di un fatto, se non unico, sicuramente epocale: due Papi in condominio.
Vederli insieme è un fatto che personalmente mi disorienta, fosse solo per… “morto una Papa, se ne fa un altro”, le dimissioni non rientravano nelle mie visioni o semplicemente non avrei pensato che ci potessero essere.
Vederli insieme, eppure così lontani, non può che aggiungere un sottile senso di vertigine: di sicuro il loro presentarsi al mondo e ai fedeli non può che aver approfondito il solco che li divide.

Questo Francesco viene dall’Argentina, uno stato un cui la Chiesa sostenne la dittatura e nel settembre del 1979 permise il trasferimento di prigionieri in un’isola dell’Arcipelago del Tigre, detta Isola del Silenzio (…) , ma allora il nostro gesuita non aveva alcun incarico o potere decisionale. Negli ultimi mesi assistiamo ad un comportamento inconsueto per un Papa, che cerca di “spostare” la sua Chiesa dal piedistallo “montano” in cui si trova, giù a terra a “livello del mare”: un lavoro che ha bisogno di uno sforzo comune, ma che per il momento sembra portare avanti da solo.

Non penso di incorrere in blasfemia se ricordo una vecchia canzone di Battisti, poiché mi verrebbe da dire "Non è Francesco, ma…"

Un Papa che mai come prima è riuscito a darci un senso di appartenenza e di fratellanza, al di là di ogni fede o religione, solo con la sua presenza e le sue parole semplici e dirette.
In questo periodo di grandi incertezze e di pazzia collettiva il Vescovo di Roma è veramente il Vescovo di tutti e finalmente…: “Annuntio vobis gaudium magnum: Habemus Papam!

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editoriale di Hank Monk

Pochi al mondo cercano di afferrare il problema, altri se ne infischiano completamente.
C'è chi, per puro scrupolo a volte dà una breve occhiata; chi passa con un sorrisino imbarazzato, come per dire: "ma che vuoi che sia". Altri ne percepiscono magari il dramma ma hanno altre priorità, una pacca sulla spalla e via. Oppure c'è chi ci prova ma desiste a fronte delle difficoltà, o chi irrompe prepotentemente (e sono i peggiori) convinti che il cambiamento possa avvenire dall'oggi al domani.

Forse non ce ne rendiamo nemmeno conto, e forse potremmo addirittura essere noi stessi. Potrebbe essere quella signora, in coda dietro alla ragazza carina, o il piccoletto con gli occhiali che si affretta a riempire la sportina. E quel nostro conoscente, che in compagnia ride sempre forte, ma ha quel non so che di triste nello sguardo, siamo proprio sicuri che ne sia fuori?

Cosa ne è di queste persone quando voltiamo lo sguardo?
Cosa ne sarà di noi quando saranno loro a voltarlo?

Cambiando discorso per un attimo, non pensate anche voi che il Macca sia sempre stato un gran paraculo?
Io ne sono fermamente convinto, non lo nego: un canzonettaro, un piacione.

Eppure a volte mi ritrovo a canticchiare "Eleanor Rigby" e mi sento di volergli bene.

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editoriale di ionecapisco

Le Offese, oggi protagoniste assolute del nostro comunicare, del nostro essere, del nostro pensare: a volte ci auto-Offendiamo senza neanche meritarcelo. E' il sintomo inconfutabile che la nostra Società sta degenerando, corrosa da un crisi che non è soltanto economica e finanziaria, ma è anche una crisi di ideali, del rispetto, della solidarietà, dell'equilibrio, dell'etica personale e professionale, dell'educazione, della tolleranza.

Dove non c'è spessore politico, culturale, sociale, ci sono le Offese: prendono il posto degli argomenti e dominano i discorsi, che poi non sono più tali, sono solo Offese. Ogni posto, ogni luogo, diventa come uno stadio, in strada, al bar, in ufficio, alla Camera ed in Senato come al circolo e al pub, ci si schiera da una parte o dall'altra, ma sempre con Offese e capisci da che parte si sta solo ascoltando le Offese e dove vengono destinate.

In tv quanto audience grazie alle Offese? Programmi beceri che a loro volta Offendono chi li guarda.
Politici votati dopo campagne elettorali intrise di Offese, che poi governano in modo Offensivo per il Paese e quelli non eletti Offendono chi è stato eletto e poi anche chi ha pensato di votarli.

Offese in internet, tra gente che neanche si conosce.
Offese a tutti livelli, Offese a chi lavora, e a quelli che non lavorano.
Offese agli animali, al verde, alla natura, a questo pianeta.
Offese a chi l'ha generato, a chi ci ha generato, ne abbiamo per tutti.

Quando penso che questo Paese è stato la culla della civiltà nel Mediterraneo per secoli... divento preda di tristezza e sconforto.

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editoriale di ilfreddo

Un mediocre fotografo è colui il quale usa in modo gratuito e spropositato lo zoom per evitare di dover spostare il culo ed andare alla ricerca della giusta inquadratura d‘insieme capace di meritare quel bel rumore. Click. Conscio di questo ringiovanisco di almeno vent'anni e mi ritrovo ad essere un bambino la notte di Natale mentre godo del nuovo obbiettivo che mi sono regalato due mesi or sono: un piccolo cannone che uso senza remore nelle vicinanze del parcheggio, uno dei posti più tristi ed insulsi che conosco; dando l'illusione di sapere cosa sto facendo cerco di rendere particolare e speciale quel luogo masturbando con veemenza adolescenziale l’apparecchio che profuma di nuovo. Passo le foto al computer e mentre osservo questa lunga sequenza di inutili primi piani con asfalto, erba incolta, mozziconi di sigarette e vattelapesca che sfuocano il contorno vado con la mente altrove. In Grecia.

Alla radio nei mesi scorsi hanno fugacemente parlato proprio della Grecia. Questo paese, che fino a pochi mesi addietro, era al centro di tutti gli editoriali dei quotidiani europei ora sembra sia sparito o che si sia mimetizzato molto bene. Una vipera tra le foglie secche. Guido e vengo a conoscenza dell’uso di medicinali di serie B negli ospedali ellenici; del fatto che, causa malnutrizione/insufficiente apporto calorico, ci sono stati diversi svenimenti nelle scuole di Atene e provincia; che nell’inverno testé trascorso la popolazione, impossibilitata a pagare le bollette del gas, ha bruciato panchine ed alberi dei parchi contribuendo ad aumentare spaventosamente l’inquinamento dell’aria della capitale. Anni addietro ero rimasto abbastanza colpito dalla complessiva sporcizia delle isole greche: chissà come reagirei ora. Immigrati di seconda generazione stanno tornando nelle terre natie messi di fronte ai dati agghiaccianti della disoccupazione uniti al peso crescente del partito (?!?) “Alba Dorata“. Una volta erano i gruppi "evimetal" che ascoltavo ad avere nomi del genere. Seguendo la massa e le mode l’opinione pubblica ha il potere di mettere in risalto un tema per poi farlo scomparire nello sfuocato marasma generale in un lasso di tempo risibile.

Togliendo un po’ di zoom la precaria salute del sistema economico mondiale ha preso il sopravvento su tutto il resto ed è normale che sia così perché colpisce in maniera diretta quello a cui teniamo maggiormente: il nostro standard di vita. Siamo nel bel mezzo di una guerra e, come logico che sia, quanto accadrà nei prossimi anni avrà delle ripercussioni fondamentali per il riposizionamento degli equilibri geopolitici mondiali.

Mi preoccupa terribilmente questo stato di cose: come molti sono un machiavellico ed egoista del cazzo e ho paura che non potrò più avere tutte quelle cose, in gran parte inutili, che compro e che mi ricordo di avere solo quando rischio di dovermene sbarazzare. Anche se non lo dico, e magari mi sciacquo la coscienza con un R.I.D. a "Save the Children", fondamentalmente me ne fotto delle persone che muoiono di fame. Lo so perfettamente che è la loro costante morte e povertà che nutre il mio benessere e mentre generosamente, con il mio euro al giorno gli regalo da mangiare, con la mia indifferenza quotidiana faccio in modo che lo status non cambi. Ma vado a dormire tranquillo.

Trovo altresì interessante, usando sempre lo zoom, notare come l’opinione pubblica si sia ingoiata la spada di Damocle che da qualche decennio pendeva sulla nostra capoccia. Sembrerebbe, dal complessivo silenzio mediatico, che sia stato risolto definitivamente il problema del riscaldamento globale: il 21 dicembre dell’anno scorso, per gioco e poco sul serio, molti hanno volto lo sguardo al cielo in attesa di un fuoco divino. Pochi hanno realizzato che è assai più terreno ed umano il devastante colpo all’equilibrio climatico che stiamo assestando al nostro pianeta. Un pugno cazzuto, forse un K.O., perché non serve essere Mercalli per capire che questi scatti da 0 a 100 (freddo/caldo - siccità/diluvi da "Il Corvo" ed estremizzazioni climatiche in genere) vanno benissimo per le macchine da F1, non troppo per un clima temperato. Se prima si parlava e si faceva almeno un po’ di becera retorica/polemica tra nazioni sull’argomento ora è calato un silenzio agghiacciante! Sarebbe bello avesse davvero la consistenza del ghiaccio perché allora forse potremmo usare il teletrasporto e regalarlo agli orsi del polo nord che vedono la loro casa assottigliarsi con rapidità disarmante ed in totale silenzio.

Il senso di queste righe? Cercare di non dimenticare i contorni (io vi ho portato solo alcuni esempi) che, in base alle priorità del momento, tendono a finire in quel grigio calderone sfuocato. Cercare di usare con parsimonia lo zoom e muovere il culo per avere una visione d‘insieme che ci renda più consapevoli e meno dipendenti da quello che i media spacciano.

"Polar Power"- photo © Joe Bunni

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editoriale di zaireeka

Ieri (10/05/2013) ho assistito ad una puntata, almeno per me, davvero illuminante del “Crozza nel Paese delle Meraviglie”. Illuminante in quanto mi ha messo davanti una verità lapalissiana che però mi era fino a ieri difficile da riconoscere (povero pollo, e chissà quanto è affollato il pollaio...).
Il fatto è questo, e riguarda la nostra amata “Sua Emittenza”, aka “Il Cavaliere”.

Come tutti sappiamo (purtroppo), il personaggio suddetto, che ambisce da anni ad essere considerato il vero unico paladino degli interessi e dell’orgoglio del Popolo Italiano nel mondo, non fa altro, da quando è sceso in politica (più o meno dal ’94), che portare avanti l’idea che i PM di Milano, in primis tale Ilda Boccasini, ce l’abbiano con lui per fini politici e lo perseguitino in maniera del tutto ingiustificata contro gli interessi stessi del popolo italiano.
Io personalmente mi ero fatto l’idea che effettivamente questo gruppetto di giudici, non so se in verità per fini politici o no, chiusi e barricati casualmente in un ufficio del tribunale di Milano (forse perché il tribunale di Milano sembrava avere le mura più alte a prove di parlamentari del PDL?), si divertissero effettivamente a sparare da anni contro Berlusconi bordate di sentenze che quei “poveracci” dei suoi avvocati tentavano in tutte le maniere di parare.
Tutto questo mentre i giudici “buoni” o almeno “equilibrati” delle altre procure italiane non avevano poi in fondo molto di negativo da dire e trovare sul “Divo Silvio”.

Crozza ieri mi ha fatto capire la grande verità.
Più o meno testualmente ha detto durante il suo spettacolo: “Lui accusa i giudici di Milano di perseguitarlo… Ma la ragione di tutto ciò è che si sono trovati a doverlo fare proprio loro semplicemente perché Berlusconi ha scelto come sua residenza privata e come sede della maggioranza dei suoi affari la città di Milano, o comunque luoghi su cui il tribunale della città di Milano è competente dal punto di vista giuridico… La Boccasini ed i suoi amici sarebbe stati ben felici di lavorare di meno se Berlusconi avesse deciso di vivere e risiedere in un’altra parte d’ Italia…”.
Insomma, se è vero quello detto da Crozza (il dubbio è sempre lecito, non mi sono documentato a sufficienza sui dati reali), come al solito, è solo una questione di statistica.

Se tu sei solito ogni dieci affari che fai cinque compierli ricorrendo ad illeciti, se in una città ne fai solo due è facile che siano affari puliti (almeno si spera, altrimenti si può pensare che se non è illegale non ti piace).
Se d’altro canto in un’altra, nella fattispecie Milano, ne hai fatti venti, è molto probabile che almeno una decina siano “affari sporchi” e che, come tali, tu venga “perseguitato” dalla Giustizia.
Tutto qui, elementare Watson (e lo dico a me stesso).

Giudici politicizzati?
No, statistica.

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editoriale di geenoo

Due giorni fa è morto il mio cane. Era un San Bernardo femmina.
Aveva quindici anni, molto per la sua razza.
Era il mio cane, il mio primo e, per ora, ultimo cane.
Era l’unica femmina della cucciolata ed era destinata a morte sicura poiché non “vendibile”. Il suo destino era segnato: o la prendevo io o il giorno dopo sarebbe venuto il veterinario a finire la sua breve vita, a tre mesi dalla nascita.
Ebbi molti dubbi. Pensavo a come gestire un simile molosso, a quanto avrebbe mangiato, allo spazio che avrebbe occupato, alla sua indole vista la probabile mole (e se mordeva chi l’avrebbe fermata?). Tutti questi dubbi dovevano essere risolti entro dodici ore, poi sarebbe stato troppo tardi. I miei avevano sempre avuto cani e gatti, ma questa bestia sarebbe stata affidata a me. E ciò significava alimentarla prima di tutto e poi gestirla. Ero nel secondo lustro dei miei venti anni e di conseguenza ero ancora molto sognatore ma anche molto pragmatico. Avevo finito l’università e stavo entrando nel famigerato mondo del lavoro e questa del “cagnone” era una “grana” da gestire bene: chi cazz’ me lo faceva fare? Insomma, furono dodici ore frenetiche. In quelle dodici ore feci una capatina dallo stronzone che il giorno dopo avrebbe utilizzato una bella siringa per finirla, almeno così diceva. E vidi quel batuffolo bianco a chiazze marroni, con quel musetto imbronciato. A tre mesi già bella grande.
La decisione fu presa.

Nei primi giorni Lea si nascondeva a tutti. Poi pian piano si rilassò. Si fece accarezzare.
Crebbe. Crebbe molto. Diventò un gigante. Non era facile tenerla.
Era spettacolare in gioventù; per esempio quando vedeva un gatto ed in una frazione di un secondo decideva di seguirlo con uno scatto da felino. Nella frazione di secondo successiva io dovevo velocemente spostare il mio peso all’indietro e tirare il guinzaglio per cercare di frenare quella enorme massa di muscoli e pelo da settanta chili che voleva giocare.
E succedeva che il grande animale si impennava letteralmente superandomi in altezza mentre io tendevo allo spasimo il guinzaglio con tutte le mie forze. In quei frangenti la gente si paralizzava. Si congelava anche solo quando abbagliava.
Aveva un suono potente, cupo ed incuteva davvero timore.
Ma era dolce, era buona nel senso letterale della parola.
Era stupenda ed impressionante quando, in un prato, prendeva la rincorsa da cento metri e correndo mi veniva incontro con tutta la sua mole, e vi assicuro che non si fermava.
Si buttava addosso a me e, se non venivo sbattuto a terra (in quel caso arrivava con l’intento di slinguazzare e sbavare), si rovesciava sulla schiena zampettando al cielo.
Mi seguiva a testa bassa e giocava, correva come un mammut, si tuffava in acqua e poi se la scrollava di dosso inondando tutto e tutti. Era uno spettacolo.
Poi la vita va avanti velocemente. Gli anni passano, le vicende umane e canine pure.
E ci ritroviamo più vecchi.

Ora non abbaia quasi più, è molto più magra. Il suo pelo ha perso lo smalto e la sofficità.
Non corre, anzi purtroppo le zampe posteriori non la sorreggono più.
E’ diventata sorda. Ma quando mi vede riesce ancora ad alzarsi e venirmi incontro.
“Quando mi vede” perché ora è rimasta nella casa di famiglia ed io non sono più lì.
Era circa una settimana che non la vedevo. Poi non so perché, il lunedì decido di passare nella vecchia casa.
Non vado direttamente da lei, ora mi fa pena vederla e mi faccio un giro in giardino.
Poi sento tossire ed un impercettibile gemito, mi volto e la vedo sdraiata tra le margherite che mi guarda. Respira molto male. Non tento nemmeno di alzarla. Non so che fare. Riconosco quel respiro. Respira a tratti, tossisce. Ansima. La accarezzo e la accarezzo. Solo questo posso fare.
La guardo.
Poi decido di andarmene. Ma ritorno sui miei passi per un’ultima carezza.

Mi telefonano due ore dopo dicendomi che è morta.

In un attimo non penso più a nulla se non al mio caro cane.

Corri Lea, corri.

P.s. Lo so, è un editoriale “personale”, ma l’ho scritto non per un falso pietismo o sentimentalismo verso gli animali a-la-Bau&Miao o Arca di Noè di Canale 5. L’ho scritto perché sentivo di scriverlo e lasciare due righe per Lea prima di tutto, forse anche egoisticamente per i miei sedici anni di vita volati via con lei ma, più che altro, per riflettere sul nostro rapporto con gli animali.
Diamo loro troppo spazio ed importanza? Penso a tutti i programmi tv dedicati loro ad esempio. Ho sempre ritenuto che quello spazio/tempo sarebbe speso meglio per la gente che non ce la fa a mangiare. E nel mondo, ma già in Italia, ce n’è davvero molta. Prima le persone e poi gli animali. Penso alle signore che spendono 800,00 euro di toletta per le loro cagnoline. Ma penso anche ai bastardi che tengono i loro cani in gabbie di un metro per due. E poi li prendono la domenica mattina per andare a caccia e magari pretendono pure, nell'occasione, che siano docili con loro e che corrano prestanti.
Io credo che il nostro errore più grande sia quello di umanizzare gli animali.
Essi sono animali e debbono essere trattati da animali. Certo rispettati, ma senza esagerare.
Bene, però allora perché sento questa “cosa” dopo la morte del mio cane?

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editoriale di kosmogabri

L’altra sera ho rivisto un tizio in televisione, con la maglia e la sciarpa del Celtic, in trasferta a tifare per gli scozzesi contro la Juventus.
Lo hanno intervistato e non aveva niente del calciatore che fu, se non il pizzetto degli ultimi anni, quasi da ricordarmi l’impiegato dell’ufficio della poste sotto la mia vecchia casa. Poi ho capito che era Enrico “Tarzan” Annoni.

Chi non tifa per il Toro credo ignori o abbia ricordi vaghi di Tarzan, e nel nostro non può che vedere un uomo normale, uno come tanti che va in giro a tifare, per qualcuno o contro qualcuno ha poca importanza. Dopo qualche istante di perplessità l’ho riconosciuto perché il volto di Tarzan mi è sempre stato familiare, non sono mai riuscito a rimuoverlo o ad accantonarlo del tutto, e neppure mi è riuscito di confinarlo in quell’angolo della memoria dedicato a tutto ciò che è “ex”, inteso come prossimo all’exit e alla fuoriuscita dai ricordi: vecchie macchine, antiche compagnie, i breviamoriapalmadimaiorca e simili, tanto l’elenco è uguale per tutti.

Ogni volta che torno a trovare mio zio, vengo ospitato nella camera che mio cugino occupava fino ad una quindicina di anni fa, rimasta uguale anche dopo che se ne è andato di casa, con lo stesso letto, gli stessi libri sulla mensola, la stessa carta da parati, le stesse fotografie prese da un giornale sportivo e incorniciate con la scritta “due tori scatenati”, a raffigurare un mediano dimenticato dai più ed un coriaceo terzino del Toro dei primi anni ’90, quello che finì in semifinale di coppa Uefa o cose del genere. Tarzan.

Capita così che una volta ogni due o tre anni l’ultima immagine che mi appare prima di addormentarmi sia quella dei tori scatenati negli anni ’90, di una stanza da adolescente abbandonata a se stessa e ai due custodi in maglia granata, un tempo idolatrati, per qualche anno ricordati, quindi dimenticati e qualche volta riscoperti, riportati alla mia vita prima che lo faccia – sempre in modo saltuario e occasionale – la televisione o qualche sito internet.

Lo stesso che mi è capitato quando ad un’asta su ebay ho recuperato tutta la serie de “I tre investigatori” e dei “Pimlico Boys”, i gialli dei ragazzi che leggevo quando facevo le elementari o le medie, e mi mettevo io nei panni del quarto investigatore, e la mia camera non era più la mia camera e le finestre si aprivano su Rocky Beach, su Norfolk, sulla caverna del diavolo o sul bosco delle streghe, e mi trovavo a combattere contro i pirati dell’atomo o su chi metteva Londra nel terrore.

Ho provato a rileggerne uno, che mi era sfuggito negli anni ’80, ma facevo fatica a riconoscere luoghi, spazi persone, un po’ come l’altra sera non ho riconosciuto di primo acchito Tarzan Annoni, e davvero lo avevo scambiato per il mio vicino di casa o per un qualche personaggio che vedi sempre ed ovunque, senza davvero riconoscerlo.

Qualcuno mi ha detto che “ife is only as good as the memories we make", e molto spesso ci credo pure io, mi sono sempre beato di ri-conoscere il mio passato, la fisionomia di una persona (basta puntare agli occhi, quelli non cambiano mai, neppure dopo trent'anni), di un luogo, di una Opel Kadett.

Del resto, c'è chi passa i pomeriggi su Google Maps ha riscoprire i posti dov'è cresciuto, o a programmare viaggi immaginari in luoghi in cui non è mai stato, ma che ha sempre creduto di conoscere, magari per averci passato i migliori anni "in un'altra vita, quella precedente".

C'è chi spera in quello che uno scrittore siciliano del secolo scorso chiamava il "miracolo del bis, il bellissimo riessere". Come mio cugino che spera nel Toro in Coppa, e non stacca i poster dalle pareti della camera dove qualche volta tornano a giocare i suoi figli.

Ecco perché mi è difficile spiegare il senso di libertà che ho provato quando per la prima volta dopo tanti anni mi sono smarcato dall’immagine di Tarzan Annoni, per correre verso la porta.

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editoriale di emofiliaco

Qualche anno fa, prima che venisse “disperso” in cinque luoghi diversi, ebbi l’occasione di visitare il Messner Mountain Museum che allora era collocato nel solo Schloss Juval.
Quello che ancora oggi ricordo più volentieri fu che la guida ci spiegò che Reinhold Messner aveva concepito quel luogo oltre che per raccogliere la sua collezione privata di opere artistiche dedicate alla montagna anche per celebrare la divisione dicotomica tra la sua anima, natia, sudtirolese e quella, acquisita, tibetana.

Davanti a un quadro che raffigurava il Kailash ci fu spiegato il particolare rapporto che l’alpinista di Brixen aveva con quella montagna.
Luogo sacro per molte religioni e dottrine di quella zona (Tibet, India, Nepal) sorge in territorio cinese e vanta il record di non essere stata ancora scalata: non per le difficoltà visto che è alta "appena" 6'638 metri e nemmeno (a dire degli esperti) per particolari disagi tecnici ma perché semplicemente, in quanto, a seconda del “rito”, ritenuta Centro dell’Universo, Residenza di Shiva, Sede dello Spirito, eccetera.
Quindi inviolabile.

Chi ci accompagnò ci raccontò che questa cosa non andava (e non va probabilmente) giù alla Repubblica Popolare Cinese tanto che questa spediva annualmente permessi (non richiesti!) urbi et orbi al mondo alpinistico internazionale (quindi anche allo stesso Messner) per scalarla, ricevendo puntualmente, come risposta, picche. Ora io non so quanto ci sia verità e quanto ci sia leggenda in tutto ciò ma mi piace pensare che da qualche parte nel mondo ci sia un posto ancora inviolato e quindi perfetto.
Ora potrei rompervi le scatole con discorsi semantici sul vocabolo “perfetto” ma non lo farò. Fidatevi per una volta e in cambio io “perdonerò” eventuali proteste sul fatto che nella Terra c’è più di un posto ancora “intonso” (si, ma non ditemi la Fossa delle Marianne per favore: non lo è più da tempo).

Spesso mi scopro a pensare e rimuginare su quella gita e su quella storia e altrettanto spesso cerco d’individuare nel mondo quelli che potrebbero essere i miei “Kailash personali”: luoghi intimamente sacri da rispettare, non violare e conservare in una perfezione del tutto campata in aria (è ovvio che spesso se non io altri per i fatti loro l’hanno cancellata) ma personalmente reale.
Un’altra “leggenda” narra che quando gli chiesero “Perché scalare l’Everest?” Mallory rispose “Perché è là.”.

Forse qualcuno, magari convinto della sacralità della Madre dell'Universo, avrebbe voluto dirgli in cuor suo (e anticipando DeBaser di qualche anno) “…ma anche no.”.
Ma luogo comune per luogo comune questa è un’altra storia.

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editoriale di zaireeka

Sono qui a casa, un po’, con grande fatica, davanti al computer, più spesso davanti alla tv, che girovago annoiato e distratto cercando di ingannare il tempo della mattina. Ho appena sentito in tv la dichiarazione post-consultazione con il Presidente della Repubblica dei due capigruppo alla Camera ed al Senato del movimento politico che è stata la vera sorpresa delle ultime elezioni politiche italiane.
Anche questa volta, ostinatamente, si sono mostrati rigidi ed inflessibili sulle loro posizioni, tutti di un pezzo.

Confesso che il tutto mi affascina: l’idea di questa marea di cittadini comuni, di purezza ed onestà indiscutibile, puri come diamanti, tutti sotto una sola bandiera, che, con giustificata arroganza invadono le istituzioni e il parlamento, è semplicemente meravigliosa.
Forse mi ricordano qualcosa, ma preferisco non pensarci.
Sicuramente qualcosa di buono potranno portare all’Italia, ed il rischio di rimettere in gioco, con la loro posizione, personaggi dalla dubbia reputazione, è un problema che va considerato marginale (loro la pensano sicuramente così).
Del resto il loro capo, piuttosto astioso e dal non trascurabile ego, senza mostrare il minimo dubbio, “dice che il movimento vincerà.”.

Può essere.

Dopo aver sentito la dichiarazione in tv, mi sposto davanti al computer.
E leggo: “E’ morto Pietro Mennea. L'ex olimpionico si è spento a Roma a 61 anni. Era malato da tempo. Oro ai Giochi di Mosca, il suo primato mondiale sui 200 metri ha resistito per sedici anni.”.
E per incanto comincio a pensare a quegli anni di piombo ed oscuri della Prima Repubblica, clientelisti e democristiani (nel Sud non ne parliamo…), socialisti e corrotti, che forse la maggioranza degli eletti nel movimento nemmeno ricordano non essendo ancora nati.
E a quello che in quegli anni questo maledetto paese è riuscito a produrre fuori e dentro il parlamento, nonostante tutto.

Mennea era uno di queste cose.
La Presidenza di Sandro Pertini (e lo cito non casualmente in quanto il savonese, guarda caso vicino di casa del leader, ha dedicato la sua vita a combattere il “pensiero unico”), in tutt’altro campo, un’altra.

Ed allora voglio chiudere questa lamentazione, caro amato leader di questo meraviglioso movimento, ricordandoti una delle strofe più belle di quello che è stato uno dei tuoi più grandi amici (dicono che tu sia stato l’ultimo degli estranei alla famiglia a vederlo prima che morisse).
Eccola qua: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.”.

Ricordatela.

Io, dal canto mio, userò quei versi per convincermi che quanto fai possa in fondo davvero migliorare il Paese, un giorno.
Insomma se non proprio come un fiore, immaginarti almeno come un qualcosa che ne possa permettere la crescita.

E’ tutto, ciao Beppe e buona fortuna.

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editoriale di emofiliaco

Probabilmente sarò démodé però credo ancora nel motto “Conosci il tuo nemico per poterlo combattere.”.
Questa caratteristica fa sì che ogni giorno passi un po’ del mio tempo a leggere, sul web ma anche in cartaceo, giornali e altri prodotti editoriali che considero deleteri per l’umanità. Lo stesso vale pure per Tv, Radio e altri media. Va da se che spesso nel pattume possa crescere, se non fiori, qualche erbetta e quindi mi capita di trovare spunti di riflessione se non qualche punto d’accordo/contatto.

Oggi mentre leggevo un “quotidianaccio” milanese mi sono imbattuto in un vero genio del pensiero contemporaneo: in un articolo dedicato alla nuova edizione del talent show culinario “Masterchef” uno dei tre “giudici” (non ricordo quale) ha espresso più o meno questo concetto (vado a memoria cercando di preservare il significato “intrinseco”): il nostro è un talent diverso perché non è come quelli musicali che se sei stonato sei stonato e stop, qui chiunque riesce a cucinare (anche se non è detto che lo sappia fare) e quindi pensa “tanto vale provarci”.

Ora io considero come uno dei mal del secolo (subito dopo, come già detto, l’insoluto di pagamento e il relativismo) i talent show: beceri prodotti di protagonismo solipsistico da parte di personaggi che altrimenti sarebbero a cogliere le “maruzze” (televisivamente parlando) che tra le altre cose discendono direttamente dal desiderio voyeuristico del popolino che una decina d’anni fa ha fatto germogliare i reality (show).
Aggiungo che ho cominciato a mal tollerare questo fiorire di programmi culinari in un onanismo gastronomico che ha fatto nascere dei veri e propri mostri “papilliferi”.

Ma il punto non è questo perché quello che mi lascia perplesso è che uno che, teoricamente, dovrebbe saper cucinare (e quindi conoscerne le regole: perché ci sono e piuttosto complesse) visto il “ruolo” possa solo svilire con un tale parallelismo quello che è uno dei modi più efficaci di donare felicità (e dal mio punto di vista pure di esprimere talento artistico).

Ok. Le attenuanti forse si trovano nel fatto che non è quello che realmente pensa ma semplicemente porta alla luce quello che potrebbe essere un pensiero diffuso ma il dubbio enorme rimane e si contorce nello stomaco come la pasta mal lievitata di una pizza mangiata a mezzogiorno (non si fa!).

Intendiamoci: tutto sta da quale pulpito proviene la predica. Io sono “cresciuto” a pane e tv locali dove veri maestri della cucina tradizionale regionale badavano al sodo (e scusate il gioco di parole) e soprattutto non cucinavano in abito da sera (e a querelle su gatti in umido avrebbero reagito come chiunque, armato di buon senso e umorismo, dovrebbe fare: con una risata) e non usavano termini come “disgustato”.
Apparire forse è tutto e la forma sta sconfiggendo la sostanza ma rimango convinto che eleganza e competenza possano convivere: il problema è capire è chi non vuole che ciò succeda.

Ah… il titolo?
Secondo la commedia “Sapori e Dissapori” la risposta è “burro, burro e burro.”.

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editoriale di kosmogabri

Cioè, voglio dire, voi mi capite. Non è che per forza si riesca sempre ad avere delle cose interessanti da dire. Contemporaneamente non è che si abbiano sempre delle cose interessanti con cui controbattere o solo dare un parere. Se si chiede di condividere ok, ci sta. Ma se semplicemente si parla di emozioni, di cose personali, idee e pensieri, non è che per forza si debba dare il proprio giudizio, pensando magari di avere ragione sui pensieri degli altri. A volte il silenzio vale più di mille parole. A volte il silenzio invece fa male come e più di un calcio nello stomaco.

Penso a quella volta che camminando per strada ho visto scritto su un muro “Un giorno io ho cagato qui!” e c’era una freccia che andava ad indicare un punto verso il lato basso della strada. Divertita e incuriosita (sono semplice, a me la cacca fa sempre ridere) ho potuto osservare le diverse reazioni della gente che passando la leggeva, essendo ad altezza occhi: chi commentava scandalizzato, chi rideva di gusto, chi si lamentava con indignazione e chi addirittura scattava foto. Qualcuno poi non ha mostrato alcun interesse, altri non l’hanno manco vista.

Solo dopo qualche giorno è apparsa di fianco la scritta “Bravo. E io un giorno ho letto sta’ cagata!”.

Ce n’era bisogno? Si. No. Forse. Voi cosa ne dite?

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editoriale di isidax

"Io vedo poco e devo portare gli occhiali che a me non piacciono, perché sono già brutto e mi fanno diventare schifoso.
Vorrei chiuderli nel cassetto senza mai più riprenderli, ma non posso.
A me non piace portare le camicie perché mi danno fastidio.
Pensando a come mi devo vestire alle nozze di mio zio Angelo io e mia mamma litighiamo perché lei mi dice che dovrò portare la camicia.
Invece a me piace portare i maglioni alla dolcevita perché quelli non mi grattano il collo.
Sono piuttosto timido e quando mi dicono qualcosa mi metto a piangere.
Vorrei proprio darmi delle sberle!
A me invece piacerebbe essere robusto, coraggioso e felice.
Mi trovo molto bene nella mia scuola alta e robusta, ho dei compagni buoni, scherzosi e, certe volte, asini.
La mia maestra è buona, bassa coi voti ma io che sono piuttosto bravo ho anche parecchi dieci, nove e otto.
Se cambierei questa scuola io diventerei pazzo, perché qui mi trovo più bene di un re, ma purtroppo fra un anno e mezzo la devo lasciare per andare alle medie, come tutti gli altri ragazzi.
Dietro al mio banco c'è Massimo S., un ragazzo alto, simpatico ma un poco stufone, perché allunga sempre le gambe fino sotto la mia sedia e mi fa solletico.
Desiderei che non mi faccia più solletico, perché io lo soffro molto.
In storia e geografia ho un voto non molto bello perché, mentre studio, mi perdo via con le mosche che girano intorno al lampadario e con i cani che abbaiano nei piazzali..."
9 Marzo 1972

Ricordo sempre quella mattina a scuola, dopo la ricreaziona la maestra decise di farci giocare nel cortile.
Era una luminosa mattinata di Maggio, Mario se ne stava , al solito, un po' in disparte poi disse :"Signora maestra... mi fa male la testa." Il bidello lo accompagnò a casa, poi l'anno scolastico finì senza che lui tornasse.
Ancora oggi, dopo quarant'anni, ogni tanto penso a lui, al suo sorriso timido, ai sui capelli biondi e alle, ormai solite, dieci calle bianche che da quarant'anni sono lì, sempre fresche, sotto la suo foto e il suo nome.
Mario d'anni dieci.

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editoriale di mauro60

L’Uomo è portato a pensare di essere il fulcro delle Cose. L’Uomo pensa: “La cosa più piccola che esiste è quello che possiamo vedere con i più potenti microscopi a disposizione o quello che la nostra mente può immaginare di studiare.”. Ed anche: “La cosa più grande è quella che i più grandi telescopi possono rilevare o che la nostra mente può immaginare di studiare.”. Risultato: l’Uomo pensa di essere più o meno al centro di un segmento che rappresenta l’Universo, figurato - idealmente per intenderci - congiungendo l’entità più grande a quella più piccola concepita. Il problema è che quasi sempre l’immaginazione è ridotta.

Quando avevo circa quindici anni lessi una storia a fumetti messa a chiusura di un giornalino di supereroi della Marvel Comics. Un racconto “illuminante” per me, e faceva più o meno così: in un lontano futuro una spedizione di uomini parte con un astronave e va nello spazio profondo con l’obiettivo di scoprire dov’è il confine dell’Universo e cosa c’è oltre, se c’è qualcosa. Dopo varie peripezie la squadra di astronauti si ritrova ad avere lì davanti il confine dell’Universo (non mi ricordo come fanno a capirlo ma prendiamola così). Chiamano la base sulla Terra e dicono: “Ci siamo, questo è un momento emozionante, fra poco vi diremo cosa c’è oltre: il Nulla o Dio.”. L’ultimo disegno del racconto fa vedere una piccolissima astronave (cioè loro) che, uscendo da un pallone, si ritrova in un enorme campo di calcio.

Morale: il nostro Universo, che ci pare così grande e infinito, se noi non ponessimo l’umanità al centro del mondo potrebbe essere un niente in rapporto a ciò che Esiste. Un punto qualsiasi, all’inizio, alla fine o in posizione iesima sulla linea immaginaria di ciò che E’. Lo spazio, il tempo, è tutto relativo. Un senegalese che ti si avvicina e ti offre un accendino da comprare e che per far vedere che l’oggetto funziona gira la rotellina e fa schizzare le scintille prima dell’accendersi della fiamma, bene, quell’evento che per noi ha dimensioni piccolissime e una durata di qualche decimo di secondo potrebbe essere l’arco di esistenza di un Universo, comandato da proprie leggi fisiche che ha durata, per chi c’è dentro, di miliardi e miliardi dei loro “anni”.

Mi vengono ancora i brividi a pensare a quei momenti in cui, ragazzo, avevo scoperto questi nuovi orizzonti, non tutti compresi a quel momento, ma che sarebbero destinati ad essere nel tempo punti di riferimento del mio modo di ragionare e di affrontare le cose.

Noi siamo niente in confronto alla vastità dell’esistente. E’ giusto che gli uomini studino, scoprano, cerchino la verità e le leggi della Natura, ma lo devono fare sapendo che serve fino a un certo punto perché non potremo mai avere la pretesa, coi mezzi che abbiamo o che avremo nel futuro, di rispondere a domande tipo: “Dove finisce l’Universo?” “Come è nato?” “Quando finirà?” “Chi o cosa l’ha creato?” Solo dannate ipotesi.

Non dico che l’umanità non deve tendere a studiare e a cercare risposte, fa parte della propria natura la fame di conoscenza e serve al progresso, basta però che lo faccia tenendo presente con la dovuta umiltà che l’Uomo è una piccola, infinitesima parte del Mondo. E con questa consapevolezza e umiltà si deve rispettare, amare e vivere. Siamo un mattoncino di questa magnifica Realtà: che l’abbia creata Qualcuno che ci ama o, come io penso, Qualcosa che ci ignora, per certi versi ha un’importanza relativa.

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editoriale di ilfreddo

Il problema è che ogni bipede, in quanto governante e re assoluto del proprio agire e pensare, è condannato a credere di avere sempre ragione. Se commettiamo un errore le circostanze eccezionali, o le mancanze altrui, giustificano quel comportamento anomalo rendendolo inevitabile e quindi accettabile. Non possiamo essere parte del problema che, giocoforza, va ricercato all‘esterno nei meschini e riprorevoli comportamenti del resto della popolazione. Ma se ognuno ha questa cognizione di sé, come è possibile giustificare tutto lo schifo che ci circonda quotidianamente e che si perpetra nel tempo? Se tutti pensano di essere - il fatto che non lo diciamo apertamente non conta un cazzo - speciali e fuori dal comune rispetto alla mediocrità come può questa splendida moltiplicazione dare un risultato così scadente?
I conti non tornano.

D’altro canto siamo tutti CT della nazionale e voteremmo volentieri per il partito che vede noi a capo: i soli capaci di risolvere in pochi anni tutti i problemi con un sonoro schiocco delle dita. E' normale che sia così: in qualunque landa siamo nati ci hanno inculcato nei secoli a martellate, a seconda del fan club divino di appartenenza, l’idea che siamo stati scelti da un essere/entità superiore. Posso capire che nell’ignoranza dei tempi che furono si potesse anche credere ad una cosa del genere, ma ora…
Provate ad osservare la luna di stasera. E’ distante poco più dei cento metri di Bolt alla velocità della luce. Il disco arancio che colora la sera? Una canzone medio lunga dei Pink Floyd. Dati questi banalissimi paletti la mia mente, non so la vostra, non riesce a materializzare i confini di una distanza assolutamente risibile come quella di un pidocchioso anno alla velocità della luce. Ma il culo dell’universo è molto più grosso: una manciata di miliardi di anni più grosso e credere che quel granello di sabbia, quello blue e carino, sia stato unicamente scelto con cognizione di causa da un posto grande come qualche milione di miliardi di deserti del Sahara è follia. Da un punto di vista probabilistico, e con le giuste proporzioni, capisco perché tanta gente sputtani il proprio stipendio nei videopoker et similia.

Sarebbe interessante se la gente imparasse ad ammettere che siamo semplicemente frutto del caso. Passando dal macro al micro, e qui concludo, mi viene da pensare a quanti miliardi di “girini”, che abitavano nei testicoli di mio padre, sono morti su di una maglietta/fazzoletto oppure spiaccicati contro un muro di lattice. Non sono venuto al mondo perché più resistente, forte e furbo degli altri. A seconda della prospettiva ho avuto culo/sfiga.
Non siamo esseri speciali, ma animali pieni di tutti quei difetti che si palesano quotidianamente sotto i nostri occhi e che alimentiamo in prima persona, in primissima fila. Forse con questa prospettiva diminuirebbero un po' le occhiate snob, e da lontano, che siamo soliti rifilare, scuotendo la testa, con cadenza giornaliera. La consapevolezza di essere figli del caso ci potrebbe rendere meno altezzosi e giudici nei confronti altrui in una costante gara di comparazione al ribasso per rendere più accettabili le nostre mancanze. Ecco il mio proposito del 2013: essere meno snob, cagazzi e giustificazionista per i miei, di errori.
Il fatto che queste due righe finiranno ammucchiate sotto la polvere in buona compagnia è ovviamente secondario.

Ma questo editoriale, a rileggerlo, pare proprio dimostrare che sia difficile, oserei dire impossibile, uscire da quel cerchio nel quale siamo condannati a girare come dei criceti del cazzo. Sempre convinti di avere ragione… siamo solo patetici.

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editoriale di Bartleboom

Alla batteria ci metterei senz’altro “E.”.
Ci eravamo conosciuti a sei anni, al corso di mini basket. Nel tempo siamo rimasti amicissimi, fino a condividere i gusti musicali e il sogno di diventare - a nostro modo -musicisti.
Solo che una batteria costa un frego di soldi, ci vuole un posto dove tenerla e, soprattutto, a meno che non abiti nella zona desertica compresa tra Lonate Ceppino e Peveranza di Cairate, al primo colpo di rullante i vicini chiamano l’ARPA e tuo padre si mette a smadonnare come neanche l’indimenticato Germano Mosconi. E, così, quando alla fine io e un altro paio di pulciosi siamo riusciti a procurarci chitarra e basso, “E.” si è comprato delle bacchette da centomila lire e ha iniziato ad esercitarsi con i cuscini del divano buono della sala.
Poi, al sabato pomeriggio, si andava tutti in sala prove a fare le cover dei Black Sabbath e lui picchiava come se non ci fosse un domani.
O come se non ci fosse altra batteria su cui picchiare.
Che poi era proprio così.

Alla chitarra solista ci metterei “D.”.
A diciannove anni aveva lasciato casa dei genitori ed era andato a vivere al limitare di un piccolo bosco, in una baracca di cemento in mezzo ad una discarica di marmo: trenta metri quadri circa, in cui “D.” era riuscito a ricavare soggiorno, angolo cottura, soppalco con zona notte, bagno e - soprattutto - sala prove.
Possedeva in totale quindici dischi (giuro), tra cui un greatest hits di Bob Marley e uno di Bruce Springsteen. Se gli parlavi di Vasco o di Ligabue, ti diceva una roba del tipo: “Con la roba che fanno, non sfonderanno mai.” (…).
Tecnicamente impresentabile, millantava una mai del tutto confermata frequentazione di un non ben precisato corso di chitarra latino-americana, che, a suo dire, aveva lasciato un segno indelebile sul suo chitarrismo naif.
Il suo motto preferito era: “A tutti piace bere il latte fresco. Ma nessuno vuole svegliarsi alle quattro per andare a mungere la vacca”.
A distanza di dieci anni rimane uno dei più grandi insegnamenti che un essere umano mi abbia mai regalato.

Al basso ci metterei “F.”.
Conosciuto sui banchi del liceo come tipo timido e abbastanza pacato.
Lo costringemmo a comprarsi un basso da cinquantamila lire quando fu chiaro che non avremmo trovato un bassista disposto a venire a suonare con noi nemmeno chiedendo la grazia a Santo Lemmy.
Dopo l’iniziale impaccio, “F.” si rivelò un musicista dotatissimo.
Inutile dire che iniziò presto a darsi arie da gran virtuoso e a dedicarsi anima e cor(d)e ad una non meglio precisata “estetica musicale” al cui cospetto noi altri poveracci facevamo la figura degli scimmioni di 2001 Odissea nello spazio.
Altrettanto inutile dire che, nel giro di breve tempo, fondammo un coro di voci bianche con cui mandarlo affanculo, lui e i suoi virtuosismi di sta ceppa. Oppure fu lui a mandarci affanculo. Difficile dirlo.

Alla voce ci metterei “M.”.
Un genio, ma senza scherzare.
Praticamente un distributore automatico di testi.
Gli facevi sentire un riff, gli dicevi una roba del tipo “Vorrei che questa canzone parlasse del difficile momento in cui hai un attacco di cagotto tipo Horishima più Nagasaki e non trovi le chiavi di casa”, e lui tirava fuori da qualche parte una linea vocale e un testo che tu non potevi fare a meno di pensare: “Questo è un genio.”.

Alla chitarra ritmica ci metterei… beh, a dir la verità, ci metterei il sottoscritto.
Perché ad un certo punto della mia vita c’ho creduto davvero alla possibilità non dico di fare il musicista, ma almeno di imparare a suonare uno strumento. In maniera dignitosa, perlomeno.
E poi un giorno finisco un puzzle, decido di metterlo in una bella cornice, prendo una lastra di vetro, la lastra si spezza, le schegge mi si conficcano nelle dita, vado al pronto soccorso, mi mettono dei punti e da allora ho poca sensibilità nei polpastrelli e, oggi, per me, avere in mano un plettro o una zappa è più o meno lo stessa cosa.

E non dico che i miei sogni siano andati in frantumi insieme a quella lastra di vetro…
Non fosse altro perché è capitato troppo presto, o comunque prima che dentro me si facesse strada la voglia di crederci davvero, di provarci.
Non fosse altro perché la vita mi ha portato da tutt’altra parte e in fondo mi va bene così.
Non fosse altro perché nessuno della gente con cui ho suonato in quegli anni ha continuato.
Non fosse altro per tanti motivi che adesso non saprei nemmeno dire, ma che da qualche parte, sono convinto, ci sono.

Dico solo che c’è un modo di godere che non c’entra nulla con il sesso.
Ma è roba di amplificatori, di cavi, di pedali e corde di nikel.
Roba che ti vengono i brividi e ti sorride la faccia.
Roba di vibrazioni, di esplosioni, di velocità.
Di suono che ti riempie.

E quel suono sei tu.

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editoriale di Talkin' Meat

Sostanzialmente c'è questo individuo, un tipo a caso, di cui non è fondamentale conoscere né l'identità né la fisionomia: un tipo a caso, la cui unica caratteristica che conta aver bene presente è il dolore che egli vive, un dolore che in sé, un'eziologia, può anche averla, così come un'ontologia, ma che l'individuo in questione non conosce; ebbene, a causa di questo dolore lui si sente solo, e fin qui niente di nuovo. In famiglia, cogli amici, durante una corsa in metropolitana tutto quello che vede è ciò che lo fa sentire così solo, in quanto chi vede e la persona con cui parla non fanno altro che acuire in lui quel discreto senso di discreto disagio nel trovarsi davanti e/o intorno persone che hanno tra loro in comune una cosa, cioè la diversità con e l'allontanamento emotivo - scaturito dal fatto che quel tipo, appunto, ha questa sorta di dolore qua - da questo tipo a caso.

Insomma, un giorno il tipo a caso, che da ora in avanti, avendo in un certo senso perso la propria casualità, chiameremo la Persona Col Dolore, decide di parlare del disagio che lo assilla con qualcuno, non tanto per arrivare a dedurne l'eziologia quanto per instaurare una specie di ponte ["Ponte" sarebbe potuto essere il sottotitolo di questo racconto, n.d.a.] tra lui e la sabbia in cui il dolore ha uniformato gli altri arrivando a farli identificare alla Persona Col Dolore sotto la semplicistica etichetta di "Altri", quindi - come detto - decide di parlarne e ne parla, ma l'unico risultato che gli è dato ottenere è un ulteriore isolamento emotivo dovuto al fatto che l'Interlocutore - vuoi perché sommerso da problemi propri vuoi perché l'eziologia del dolore non sia affiorata nel discorso della Persona Col Dolore nonostante tutti gli sforzi, e permettendo al massimo di ripetere alla Persona Col Dolore alcune frasi di circostanza - non ha infine dato modo alla Persona Col Dolore (da qui in avanti, PCD) di avere l'impressione che lui, cioè l'Interlocutore, capisse di cosa la PCD parlasse o, meglio, dato che il qui presente sta utilizzando il focus sul personaggio dell'Interlocutore, farneticasse, facendola, cioè la PCD, sprofondare in una solitudine ancor più greve perché in sé riportava le tracce di un'empatia sconfitta.

A ogni modo, tralasciando le varie elucubrazioni e i diversi moti d'animo vissuti tra questa conversazione e quella che sto per andare a raccontare, la PCD decide che, forse, ha semplicemente colto l'Interlocutore in un momento no, o, meglio, non si è sufficientemente spiegata, così prende la decisione di - come detto - interpellare un Secondo Interlocutore, col quale però, sebbene le proposizioni epesegetiche fioccassero, risulta il medesimo risultato precedente.

E qui la faccenda si complica.

Ora, infatti, la PCD si sente inequivocabilmente sola, sconfitta, addolorata ed è come se, in qualche assurdo modo assurdo, la funzione che prima avrebbe potuto descrivere la relazione tra il suo dolore e la solitudine conseguente, ovvero:

y = ∫(x)

dove y indica il dolore e x la solitudine direttamente proporzionale al dolore y, si sia rovesciata, mantenendo, sì, valida la precedente ma, pure, creandone una seconda, ovvero:

x = ∫(y)

di modo da rendere variabile l'invariabile e costante la variabile dipendente dall'adesso variabile… un cazzo di circolo vizioso dove il dolore, la cui ontologia/eziologia/- rimane un'incognita, frutta solitudine che, a sua volta, frutta dolore, quindi in pratica alla fine del racconto troviamo la PCD in una scena tipo (davanti allo specchio, sul divano senza nulla fare o con gli occhi fissi sul display del telefono che squilla, squilla, squilla e a chiamare è qualcuno che nella mente della PCD si presenta come esistificante solitudine esistificante dolore), bloccata nell'intenzionalità e con un'aurea oblomoviana attorno al corpo, anzi, necessariamente immobilizzata dalla consapevolezza che qualsiasi cosa lei faccia, o, meglio, riesca a fare sarà qualcosa che acuirà quella solitudine e, dunque, quel dolore, tanto da portarla a identificarsi con esso e essere la PCD di cui sopra, e sarebbe bello che il racconto si chiudesse in un'immobilità di parole & vicende pari alla sua.

Domanda: Cheddevefare la PCD?

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