editoriale di carlo cimmino

Ho un fratello più piccolo di me di dieci anni. Poiché io ho (quasi) trent’anni, significa lui ne abbia venti. Naturalmente questo gap di dieci anni che prima avrebbe potuto apparire incolmabile, durante gli anni della mia adolescenza, oggi in termini anagrafici è più o meno irrilevante. Certo, sono il fratello maggiore, i ruoli sono comunque definiti, ma, a parte il fatto lui sia un ragazzo decisamente in gamba, devo dire di non essermi mai posto nei suoi confronti come un modello impareggiabile e irraggiungibile. Al contrario, anzi, forse ho assunto sempre un atteggiamento troppo opposto e comunque allora troppo negativo; forse mi sono sempre mostrato troppo facilmente accessibile. Non lo so, ma comunque non è questo il punto.

Naturalmente, infatti, ho con lui un buon rapporto da pari, così come posso dire e sostenere di avere un ottimo rapporto anche con i suoi amici. Inoltre, questa cosa mi spinge comunque a confrontarmi e considerare miei pari anche chi abbia dieci anni meno di me, che, per carità, non sono affatto tanti, ma dobbiamo comunque considerare come, generalmente, i ragazzi, quindi anche i ventenni, siano generalmente sottovalutati e considerati poco attendibili e interessanti da chi abbia dieci, venti, più anni di loro. Questo, devo dire, non è il mio caso e, a fronte di comunque giuste differenze di età e questo relativamente il modo di aprocciare a determinate cose e alla vita in generale, faccio sempre corrispondere quello che può costituire un atteggiamento di apertura a un confronto che sia in ogni caso positivo, assolutamente alla pari.

Quello che voglio dire, in pratica, è che non accade sempre così. Molto spesso, anzi, chi è “più grande” si pone sempre, presso i più giovani, come un modello di vita e comportamentale. E’ come se, traendo rispetto e ammirazione dai più giovani, costituendo per loro un indiscutibile punto di riferimento, questi acquisisse ancora più sicurezza. Come se la sua “grandezza” si misurasse, si accrescesse, si gonfiasse, anzi, proprio grazie a questa cosa. Questa cosa, è chiaro, accade nel confronto tra i ragazzi e i propri genitori, nell’eterno contrasto tra il desiderio di emulazione e le spinte oppositive; ma accade, sovente, anche quando questi, i ragazzi, si rapportino con chi sia immediatamente loro più vicino, quindi i loro fratelli maggiori, delle conoscenze che abbiano più anni di loro.

Questa cosa, è evidente, potrebbe costituire, sotto determinati aspetti, una cosa positiva. E’ chiaro che chi è più grande abbia dalla sua un bagaglio di esperienze e di conoscenze che per un ragazzo possano costituire un bagaglio importante, una vera risorsa cui attingere in tutti i campi della sua vita di tutti i giorni. Tuttavia, molto spesso quello che si viene a creare è invece una relazione più o meno stretta e assolutamente negativa.

Allora, se analizziamo gli ascolti dei ventenni di oggi, possiamo considerare come (parliamo sempre di ascoltatori di musica rock e nel senso più generico possibile della definizione) questi oggi ascoltino generalmente più o meno le stesse cose che io, ma pure chi ha qualche anno più di me, ascoltavo quando avevo la loro stessa età. Quando mi confronto, anzi, con dei ventenni, mi sento quasi in colpa quando dico loro che i vari Pearl Jam, Smashing Pumpkins, Soundgarden e Alice In Chains oggi non mi comunichino più niente. Dentro di me, anzi, considero e lego queste band a un determinato periodo della mia esistenza. Comunque ritengo appartengano al passato e che, a torto o a ragione (qui entrano pure in gioco le valutazioni soggettive e, come tali, sempre indiscutibili), fossero delle band oggettivamente commerciali e dai contenuti musicali e lirici pure parecchio banali.

Non rinnego il mio passato e i miei ascolti passati, ovviamente; dico solo che questi siano appartenuti a una determinata fase storica della mia esistenza (che considero negativa, ma non è questo il punto) e che da ragazzo, in mancanza di internet e pure di un qualche tipo di confronto e di patrimonio di conoscenze che mi guidasse, tutte queste band mi apparivano grandiose e, probabilmente, lo erano perché erano comunque qualche cosa in cui mi identificavo. Mi ci identificavo perché erano sulle riviste e alla televisione; era qualche cosa che faceva parte di me e della mia generazione e allora mi ci rifugiavo.

Il loro effettivo valore artistico, tuttavia, ritengo fosse discutibile e, senza contare questa possa essere una considerazione opinabile, mi sorprende, trovo assurdo queste band siano oggi, a distanza di quindici o vent’anni popolari e ascoltate dai ragazzi più giovani. E allora penso che questo non accada tanto per il loro valore storico e immortale, immortalato nel senso di stabilmente alto nonostante il passare del tempo; credo piuttosto che la generazione dei ventenni sia in qualche modo comunque inevitabilmente affascinata dalla generazione loro immediatamente precedente.Un fascino che tuttavia considero negativo; perché ritengo sbagliato, deviante sopravvalutare ciò che è stato, soprattutto a fronte di una considerazione negativa di tutto ciò che ti circondi e che faccia parte della tua generazione. Oddio, questo non significa accettare tutto, ma non significa neppure assumere un atteggiamento di rifiuto a priori.

Questi ragazzi, insomma, sono stati fregati, oppure si sono fregati, si fregano con le loro stesse mani, ma la colpa, diciamocelo, è pure nostra. E’ colpa nostra che non diciamo loro le cose come stanno veramente. Diciamoglielo, insomma, a questi ragazzi che band come i Pearl Jam e i Soundgarden erano vera spazzatura, comunque non erano meglio di quanto potrebbero oggi essere considerate altre band americane. Smettiamola di prenderli per il culo e siamo onesti con noi stessi; è stata, è una generazione, la nostra, difficile, che ha sofferto e che soffre parecchio perché, anche perché vittima e protagonista di un cambiamento epocale ancora affatto compreso da larghi strati della popolazione e dei vertici dirigenziali a tutti i livelli del nostro stato.Ma guardiamo ai più giovani con il giusto senso critico: insomma, smettiamola e diamo anche loro la possibilità di sbagliare, ma di farlo con la loro testa.

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editoriale di Bartleboom

Il reato di diffamazione è previsto dall’art. 595 del Codice Penale, che punisce chiunque, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione.
In pratica, se io dico pubblicamente che Tizio è, chessò, un “citrone” (da intendersi come qualsiasi offesa pesantissima che vi viene in mente) commetto un reato.
Tanto per chiarire: per “pubblicamente” si intende che la mia affermazione è idonea a raggiungere almeno 2 persone oltre l’offeso.

Bene.
Fino a qualche anno fa, se un qualsiasi utente vi avesse dato del citrone su Deb, non avreste potuto fare nulla.
Meglio: lo avreste anche potuto denunciare e/o citarlo in giudizio per chiedergli i danni, ma molto probabilmente non se ne sarebbe fatto nulla: il PM avrebbe chiesto l’archiviazione e l’Avvocato della difesa avrebbe avuto gioco facile nel sostenere che, in realtà, non c’era alcun danno concretamente risarcibile.
Perché internet era roba per reghezzini, una giungla dove più o meno tutto era concesso, che tanto lì mica ci sono le cose serie.

Ultimamente, però, le cose stanno un po’ cambiando.
Nel senso che sempre maggiore attenzione viene riconosciuta anche a ciò che succede sull’internet.
In pratica, è ormai ritenuto pacifico che ciascuno di noi viva un’esistenza “virtuale”, fatta, alla pari di quella “reale”, di relazioni, legami, dinamiche e, perché no, reputazione.
E visto che, da un lato, rappresenta una fetta sempre maggiore della nostra quotidianità e, dall’altro, spesso finisce per avere ripercussioni sull’esistenza reale, questa “esistenza virtuale” deve ritenersi meritevole tutela.
E il motivo di questo cambiamento è tra i più banali: una bella fetta di giudici, sia civili che penali, è gente di 35-40 anni. Gente, cioè, che ha dimestichezza con lo strumento informatico, è iscritta ai social network, partecipa a forum, segue o addirittura scrive su blog. Gente, quindi, che SA perfettamente cosa vuol dire trovare sul proprio diario FB un commento diffamatorio o avere a che fare con un troll o un molestatore che fa girare mail del cazzo sul tuo conto.

Nei primi anni di frequentazione di debaser (si parla del 2004-2005), mi è capitato spesso di leggere commenti di questo tipo:
Utente A: “Io su questo sito c’ho una certa reputazione!”
Utente B:” Ma quale reputazione, citrone! Che reputazione vuoi avere su un sito internet!?!”
Al tempo, ero solito dare ragione all’utente B.
Oggi come oggi, però, non ne sarei poi tanto sicuro…

Facciamo un esempio.
Io, sig. Bartolomeo Boom, sono su questo sito da circa 9 anni.
Ho scritto recensioni che sono state bene o male apprezzate, sono stato parte attiva dello staff editante, diversi utenti sono miei amici nella vita reale, molti hanno il mio numero di cellulare, alcuni hanno dormito a casa mia.
Insomma: io qui ci sto bene, mi diverto, voglio bene a molta gente e molta gente (penso) mi vuole bene.
Debaser, così come i forum, i siti in cui ci si registra e si lasciano commenti, sono a tutti gli effetti delle micro comunità: se le si frequenta per un periodo sufficiente di tempo, si imparano a riconoscere le personalità e i gusti degli altri utenti, le dinamiche relazionali, gli equilibri.
Questa cosa ha degli effetti senz’altro positivi, perché, ad esempio, ormai so che se un disco o un film piace a Caz o a Nes, quasi sicuramente piacerà a anche a me.
Ma questa cosa ha anche degli effetti “negativi”, perché ormai se vedo in HP una recensione di Minogue33, o come cacchio si chiamava quello là che non si fa vedere da un po’, già so che ci troverò delle puttanate da togliere il fiato.
E questa, secondo me, non può che definirsi “reputazione”.
Magari una forma più blanda di quella che ognuno di noi ha nel mondo reale, ma comunque “reputazione”.

Facebook, poi, ha contribuito a rompere quella sorta di “quarta parete” o come cavolo si chiama quella roba lì, che separa(va) Bartleboom e “Mario Rossi”, tant’è che credo che la stragrande maggioranza degli utenti ormai sappiano quali siano i miei veri nome e cognome, che lavoro faccio, dove abito, la mia situazione sentimentale e robe del genere.
In pratica, si può legittimamente sostenere che Debaser sia parte integrante non solo della mia esistenza virtuale, ma anche della mia vita reale.

Diciamo che domani arriva un qualsiasi utente e si mette a scrivere falsità su di me, inteso come utente Bartleboom. Mi offende, mi denigra, mi accusa ingiustamente di non so immaginare quale porcheria (tengo a precisare sin d’ora: non sapevo che quell’iguana fosse maschio e, in ogni caso, mi aveva detto di essere maggiorenne…).
Beh, per come stanno le cose, secondo me il reato di diffamazione è configurato di brutto.
E, sempre secondo me, avrei pure diritto ad un risarcimento.

Sono stato offeso pubblicamente in un contesto, una comunità (Deb) in cui, che piaccia o no, ho finito per crearmi una “reputazione”.
Magari il fatto mi porterà a non volere più frequentare un sito che mi ha sollazzato per anni. In pratica, sarò costretto a rinunciare – contro la mia volontà – ad un’attività che mi dava piacere.

Che magari può sembrare comunque una cazzata, ma se davvero, per colpa di qualche cretino, non potessi più mettere piede qui dentro, le balle mi girerebbero non poco.
Poi magari non farei mai causa o non presenterei mai una denuncia.
Ma questo non significa che non ci sarebbero i presupposti per farlo.

Ho fatto l’esempio della diffamazione perché è quello più tipico e frequente, ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto anche per altre ipotesi di reato, tipo l’ingiuria, le minacce, lo stalking etc.

Tutto questo per dire cosa?
Mah, tutto e niente.
Lo spunto per scrivere mi è venuto da un commento letto da queste parti qualche giorno fa, in cui un utente un po’ citrone, millantante il titolo di avvocato, sosteneva di vare fatto “partire” (?!?) una denuncia per “diffamazione pubblica” (?!?) e tutti lo avevano sfottuto di brutto.

Ebbene, io dico: non succede perché non succede.

Ma se succede…

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editoriale di Bartleboom

Il reato di diffamazione è previsto dall'art. 595 del Codice Penale, che punisce chiunque, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione.
In pratica, se io dico pubblicamente che Tizio è, chessò, un "citrone" (da intendersi come qualsiasi offesa pesantissima che vi viene in mente) commetto un reato.
Tanto per chiarire: per "pubblicamente" si intende che la mia affermazione è idonea a raggiungere almeno 2 persone oltre l'offeso.

Bene.
Fino a qualche anno fa, se un qualsiasi utente vi avesse dato del citrone su Deb, non avreste potuto fare nulla.
Meglio: lo avreste anche potuto denunciare e/o citarlo in giudizio per chiedergli i danni, ma molto probabilmente non se ne sarebbe fatto nulla: il PM avrebbe chiesto l'archiviazione e l'Avvocato della difesa avrebbe avuto gioco facile nel sostenere che, in realtà, non c'era alcun danno concretamente risarcibile.
Perché internet era roba per reghezzini, una giungla dove più o meno tutto era concesso, che tanto lì mica ci sono le cose serie.

Ultimamente, però, le cose stanno un po' cambiando.
Nel senso che sempre maggiore attenzione viene riconosciuta anche a ciò che succede sull'internet.
In pratica, è ormai ritenuto pacifico che ciascuno di noi viva un'esistenza "virtuale", fatta, alla pari di quella "reale", di relazioni, legami, dinamiche e, perché no, reputazione.
E visto che, da un lato, rappresenta una fetta sempre maggiore della nostra quotidianità e, dall'altro, spesso finisce per avere ripercussioni sull'esistenza reale, questa "esistenza virtuale" deve ritenersi meritevole tutela.
E il motivo di questo cambiamento è tra i più banali: una bella fetta di giudici, sia civili che penali, è gente di 35-40 anni. Gente, cioè, che ha dimestichezza con lo strumento informatico, è iscritta ai social network, partecipa a forum, segue o addirittura scrive su blog. Gente, quindi, che SA perfettamente cosa vuol dire trovare sul proprio diario FB un commento diffamatorio o avere a che fare con un troll o un molestatore che fa girare mail del cazzo sul tuo conto.

Nei primi anni di frequentazione di debaser (si parla del 2004-2005), mi è capitato spesso di leggere commenti di questo tipo:
Utente A: "Io su questo sito c'ho una certa reputazione!"
Utente B:" Ma quale reputazione, citrone! Che reputazione vuoi avere su un sito internet!?!"
Al tempo, ero solito dare ragione all'utente B.
Oggi come oggi, però, non ne sarei poi tanto sicuro…

Facciamo un esempio.
Io, sig. Bartolomeo Boom, sono su questo sito da circa 9 anni.
Ho scritto recensioni che sono state bene o male apprezzate, sono stato parte attiva dello staff editante, diversi utenti sono miei amici nella vita reale, molti hanno il mio numero di cellulare, alcuni hanno dormito a casa mia.
Insomma: io qui ci sto bene, mi diverto, voglio bene a molta gente e molta gente (penso) mi vuole bene.
Debaser, così come i forum, i siti in cui ci si registra e si lasciano commenti, sono a tutti gli effetti delle micro comunità: se le si frequenta per un periodo sufficiente di tempo, si imparano a riconoscere le personalità e i gusti degli altri utenti, le dinamiche relazionali, gli equilibri.
Questa cosa ha degli effetti senz'altro positivi, perché, ad esempio, ormai so che se un disco o un film piace a Caz o a Nes, quasi sicuramente piacerà a anche a me.
Ma questa cosa ha anche degli effetti "negativi", perché ormai se vedo in HP una recensione di Minogue33, o come cacchio si chiamava quello là che non si fa vedere da un po', già so che ci troverò delle puttanate da togliere il fiato.
E questa, secondo me, non può che definirsi "reputazione".
Magari una forma più blanda di quella che ognuno di noi ha nel mondo reale, ma comunque "reputazione".

Facebook, poi, ha contribuito a rompere quella sorta di "quarta parete" o come cavolo si chiama quella roba lì, che separa(va) Bartleboom e "Mario Rossi", tant'è che credo che la stragrande maggioranza degli utenti ormai sappiano quali siano i miei veri nome e cognome, che lavoro faccio, dove abito, la mia situazione sentimentale e robe del genere.
In pratica, si può legittimamente sostenere che Debaser sia parte integrante non solo della mia esistenza virtuale, ma anche della mia vita reale.

Diciamo che domani arriva un qualsiasi utente e si mette a scrivere falsità su di me, inteso come utente Bartleboom. Mi offende, mi denigra, mi accusa ingiustamente di non so immaginare quale porcheria (tengo a precisare sin d'ora: non sapevo che quell'iguana fosse maschio e, in ogni caso, mi aveva detto di essere maggiorenne…).
Beh, per come stanno le cose, secondo me il reato di diffamazione è configurato di brutto.
E, sempre secondo me, avrei pure diritto ad un risarcimento.

Sono stato offeso pubblicamente in un contesto, una comunità (Deb) in cui, che piaccia o no, ho finito per crearmi una "reputazione".
Magari il fatto mi porterà a non volere più frequentare un sito che mi ha sollazzato per anni. In pratica, sarò costretto a rinunciare - contro la mia volontà - ad un'attività che mi dava piacere.

Che magari può sembrare comunque una cazzata, ma se davvero, per colpa di qualche cretino, non potessi più mettere piede qui dentro, le balle mi girerebbero non poco.
Poi magari non farei mai causa o non presenterei mai una denuncia. Ma questo non significa che non ci sarebbero i presupposti per farlo.

Ho fatto l'esempio della diffamazione perché è quello più tipico e frequente, ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto anche per altre ipotesi di reato, tipo l'ingiuria, le minacce, lo stalking etc.

Tutto questo per dire cosa?
Mah, tutto e niente.
Lo spunto per scrivere mi è venuto da un commento letto da queste parti qualche giorno fa, in cui un utente un po' citrone, millantante il titolo di avvocato, sosteneva di vare fatto "partire" (?!?) una denuncia per "diffamazione pubblica" (?!?) e tutti lo avevano sfottuto di brutto.

Ebbene, io dico: non succede perché non succede.

Ma se succede…

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editoriale di kosmogabri

ARIETE
Nati tra il 21 Marzo e il 20 Aprile

Marte in opposizione e son dolori, caro segno di fuoco che cova sotto la brace, tormento e delizia, e la pazienza stringe. Intensità nelle emozioni di cuore, ma testa in fermento: troppa carne sul barbecue. Se non fosse per quella vena polemica, che le parole ti sono nemiche. Forse meglio una corsetta nel parco o nel bosco. Ogni giorno

TORO
nati tra il 21 Aprile e il 20 Maggio

Goditela che è il momento. Tarda primavera frizzante, anche se impegnativa sotto gli aspetti quotidiani, ma ben disposta all'estate incombente. Qualche momento tendente alla malinconia, ma con un asso nella manica: stato di salute leggero, voglia di buttarti in mare, nel sole, in vacanze da condividere con l'amore e le amicizie tue. Fanne riserva

GEMELLI
nati tra il 21 Maggio e il 21 Giugno

Con il piede in due staffe, tra espansività e chiusura a riccio, che mese tormentato, va e vieni! Mai fu la pigrizia più che benvenuta. Ritagliati (tanti) spazi di riposo. Dormire-ricaricare-sognare-scaricare. Bel dialogo - ma non strafare nelle sfogate - con le amicizie e in amore. Approfittane per farti consigliare. Tanto poi decidi tu.

CANCRO
nati tra il 22 Giugno e il 22 Luglio

Ma che inizio d'estate grandioso. Tra i favoriti del mese, procedi a botte di cuore e di testa, a destra e manca, senza colpo ferire. È il tuo anno, già lo senti sulla punta delle dita, ma è sempre utile ricordare che dopo questo, ce ne saranno altri. Riservare un angolo ai sogni, e sviluppare qualche 'piano b'. Che non si sa mai.

LEONE
nati tra il 23 Luglio e il 22 Agosto

Tutti i segni di fuoco sono sotto assedio in questi giorni, caro Leone. Mal comune, mezzo gaudio. Occhio ai colpi di testa, bellezza, tra passione ruggente e botte di pessimismo cupo. Non chiederti poi se ti tengono alla larga. Un alternarsi di emozioni, magari ne faresti volentieri a meno, ecco. Depurazione e riposo, fisico e mentale, e pulizie di primavera. Raccolta differenziata.

VERGINE
nati tra il 23 Agosto e il 22 Settembre

Eh, l'amore ti sta tenendo col fiato sospeso! Ma diciamo piuttosto che è Venere che ti mette sotto pressione, la stronza. Nel cuore in subbuglio per una delusione o un affetto complicato o mai dimenticato, ci si mette pure un calo di energia fisico. È il momento di accogliere il sole nel tuo giardino! E di potare quei rami che ne impediscono la luce. Un giardino vero come te ha bisogno di cure, acqua, luce e aria. Esserlo.

BILANCIA
nati tra il 23 Settembre e il 23 Ottobre

Sei ben disposto alla stagione, agli affetti, alla vita quotidiana, anche se qualche sprazzo di nervosismo ti accalappia e quasi non saiche dire, o magari hai già detto troppo, mannaggia. Niente di grave, solo piccoli incidenti di percorso, sei in una botte di ferro. Bene l'amore e le amicizie. Viaggi. Metti in pratica le tue strategie per stare meglio ancora. Tu sai come fare.

SCORPIONE
nati tra il 24 Ottobre e il 21 Novembre

Il segno del momento che tutto osa e tutto può, nella sua volontà straripante. Energia in calo per il resto del mese, ma con la testa in fibrillazione, ed è tutto in discussione. Il colpo di coda di Saturno ti ha rimesso in riga! Ma non senza qualche sacrificio. E non solo tuo. Però quanto è bello soddisfare la vanità. Prenditela comoda, almeno fino a metà giugno. Poi dopo, conterai i cadaveri.,Chi non risica, non rosica.


SAGITTARIO
nati tra il 24 Ottobre e il 21 Novembre

Tanto sentimento, ma quanto sei timido! Non temere, a breve la riscossa. Anzi, approfitta di Venere sorridente fino alla fine del mese per le relazioni, ma con tanto zen, che tutti gli altri sono in un vortice. E non consolarti con gli stravizi! Un vero sagittario sta sempre in forma, quindi buttati nell'estate. Ti aspetta una metà dell'anno che sarà una stagione nuova di vita. Preparati, allenati, studia, medita. Tempo di semina.


CAPRICORNO
nati tra il 22 Dicembre e il 20 Gennaio

Una botta di spiritualità latente ti ha preso in pieno ed ora sei in ambasce, che lo sai, a trascurare gli affetti non è bello. Ci si mette anche un certo nervosismo, e una certa intolleranza alle lamentele altrui. Consolati, può aiutare sapere che le stelle ci hanno messo il loro zampino? Sii sincero con gli affetti e te stesso e datti tempo. Riposo, riposo, riposo. Staccare la spina e passeggiate nel verde. Coi tuoi pensieri.


ACQUARIO
nati tra il 21 Gennaio e il 19 Febbraio

Che bella stagione dell'amore per te acquario! Fidati dei tuoi sensi, che loro sanno dove, come e quando. Osa e osa. Spazio al nuovo! Momento perfetto per rimetterti in forma, e per sparare tutte le cartucce. Anche per ricaricarti di belle emozioni che male non fa. Nuove conoscenze, e momenti di slancio fisico per niente male. Tra i favoriti dell'estate, stagione sensuale e appassionante. Cavalca l'onda.

 

PESCI
nati tra il 20 Febbraio e il 20 Marzo

Molto bene l'amore, e chi l'avrebbe mai detto, te pesciolino masochista che ami il dramma e il tormento, quasi non ci si crede che sei in grazia. E non ci credi neppure tu. È il momento di deciderti perché una sincronicità celeste tale nella tua sfera affettiva poche se ne vedono. Affetti, amicizie, famiglia, dà il tuo sorriso interiore. Pacificato, pacificherai. Carisma e forma fisica faranno il resto. A tutto tondo.





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editoriale di ilfreddo

Senza preavvisi, con l'incedere dell'autunno inoltrato, smise di nevicare come se fosse stato accidentalmente chiuso un rubinetto. Un bel problema per quella regione che, grazie al cosiddetto "oro bianco” e al progressivo sviluppo del turismo invernale, si era arricchita lasciandosi alle spalle un passato secolare di dignitosa povertà per lasciare posto a ristoranti segnalati della guida Michelin e alberghi di lusso a quattro e cinque stelle. Le prime festività, come un piccolo dramma, e una manciata di sparuti malati di sport che si contentarono di lingue di ghiaccio piene di sassi ed erba. Le finestre delle località turistiche si sarebbero dovute fotografare in quei giorni: gli scatti avrebbero mostrato un esercito di narici al freddo contatto dei vetri in speranzosa attesa. Niente. Molte preghiere, che insulto se rapportato alle quotidiane miserie del globo, vennero rivolte ai piani alti: l’essere umano, infatti, quando ci sono interessi personali in ballo diventa di una miopia imbarazzante. Le richieste, quindi, furono sì lanciate in alto ma è altrettanto vero che non furono raccolte e restituite in basso. O almeno non nel modo corretto.

Bisognava tornare indietro di molti anni per serbare una memoria visiva, una fotografia mentale, di un inverno sì stitico con pendii giallastri, lievemente imperlati solo dalla brina mattutina, all'inizio delle feste natalizie. Diversi impianti, grazie all'ausilio della neve programmata, funzionarono, ma la tristezza e la preoccupazione accrebbero progressivamente perché l’acqua dei bacini artificiali si stava esaurendo con rapidità. Un signore, un viso pieno di profonde e belle rughe, raccontò che nel secondo dopoguerra era capitata la stessa cosa e che, per tale motivo, non c’era da preoccuparsi perché "l'oro bianco", come sempre, sarebbe ricomparso. I climatologi, che è bene non confondere con i meteorologi, sostennero che un blocco improvviso dei fenomeni nivologici non era giustificabile con il riscaldamento globale: gli effetti, infatti, erano destinati a manifestarsi nel medio-lungo periodo ed in modo progressivo; come l'incedere di un'infida e lunga malattia degenerativa.  

La neve, poi, continuò a scendere altrove. La prossima luna, dicevano tutti, toccherà a noi. Venne cambiato il calendario e le giornate cominciarono ad allungarsi ma la siccità completa continuò imperterrita ed indifferente.

Il primo vero fiocco-lenzuolo cadde una fredda sera. Il bambino lo osservò scendere e lo vide posarsi sulla sua mano con la lentezza di una piuma. Gli occhi sgranati, non per l’attesa febbrile, che come ogni infante aveva covato per mesi. No, quello che lo rese per un tempo indefinito un blocco di sale, fu il colore del fiocco. Si stropicciò gli occhi azzurri e osservò meglio la sua mano aperta. Con due dita dell’altra prese quel fiocco, che si stavano sciogliendo al contatto con la pelle, e se lo mise in bocca: una sorta di pizzicotto.

La struttura, la consistenza e le proprietà sono identiche rispetto alla comune neve. L’unica cosa che è cambiata è il colore”. Il dispaccio venne salutato con entusiasmo contagioso. Nessuna spiegazione plausibile venne fornita per il mero mutamento della pigmentazione, ma quello che contava erano i metri di coltre soffice e farinosa che coprivano tutto salvando, apparentemente sul filo di lana, la stagione e le prenotazioni alberghiere.
Fu solo dopo tre giorni che la prospettiva cambiò radicalmente. Quella strana “neve” stava scendendo solamente in regione: appena al di fuori le stesse nuvole davano alla luce fiocchi convenzionali generando un numero infinito di punti di domanda tra esperti e non. E se è vero che la novità, almeno nel breve, attirò, fu altrettanto vero che si trattò di un fuoco di paglia. Le piste, tirate a lucido, rimasero progressivamente deserte. Certo, la regione pullulò di scienziati e quella porzione minuscola di mondo divenne una località sulla bocca di tutti. Il fatto di rappresentare un fenomeno unico al mondo rese inizialmente altezzosi ed orgogliosi gli abitanti che non si resero conto del fatto che era l'isolamento, e non la pubblicità gratuita, quella che stava incombendo su di loro come una ghigliottina affilata.

Di sera le luminarie sembravano spettacoli grotteschi da film dell’orrore perché il contrasto che la luce creava con quella cupa coltre era spettrale. Gli ultimi bambini lasciarono il paese piangendo: non riuscivano ad immaginarsi Babbo Natale in mezzo a questa soffice e fredda sporcizia. Un signore addirittura morì quasi di infarto mentre faceva un’escursione nella neve fresca. In un’intervista che rilasciò successivamente, e che diede il colpo di grazia alla località, affermò che gli sembrava di soffocare e di essere come inghiottito! - Mi reputo una persona razionale - continuava l'articolo - ma quel mare nero mi ha portato quasi al delirio e ho perso il sonno che, chissà quando ritroverò! Località maledetta!

Per quanto tenessero pulite le strade quella coltre rendeva il posto un paese reietto, come se una scopa di saggina avesse raggruppato proprio lì tutti i rifiuti del mondo.

Ed infine arrivarono gli avvoltoi, dapprima con cerchi molto larghi e poi sempre più stretti in attesa di poter banchettare sulla carne in rapida putrefazione. Calcoli astrusi e misteriose predizioni di fine del mondo di civiltà estinte piovvero da ogni dove, un ingorgo apocalittico, con ascolti da record per il godimento dei media che promossero senza ritegno e vergogna trasmissioni fotocopia di qualità ripugnante. La Chiesa non si fece attendere invitando i peccatori a redimersi in attesa dell'ormai prossimo Giudizio Universale invitando, in inchiostro simpatico, i peccatori a chiedere perdono: intestare le proprie proprietà a Dio, unito a cento Ave Maria, poteva essere un buon metodo per salvarsi. Si incrinò tutto, come una nave che in procinto di affondare comincia a rollare pesantemente sulle onde crescenti. I consumi collassarono, chiromanti, chiaroveggenti ed esperti del rapporto con il paranormale si fecero intestare case e risparmi. Il denaro, in poche settimane, perse quasi ogni potere nella quotidianità; le tasse non vennero più pagate da nessuno ed i servizi, per quanti si stenti a crederlo, divennero ancora più inefficienti del solito prima di collassare completamente. Le città come discariche a cielo aperto, i supermercati vennero presi d'assalto: centinaia di morti nella lotta del prodotto sullo scaffale. Scioperi a profusione perché, che senso aveva andare a lavorare? In un baleno, insomma, l'uomo tornò ad essere animale: spinto unicamente dall'istinto di sopravvivenza.

Il panico nelle strade, l’incapacità di mantenere equilibrio anche nelle stesse forze dell’ordine cominciò a dilagare in quanto divenne palese, per la maggioranza della popolazione del mondo, che si era messo in moto un processo irreversibile; alcuni, incapaci di sostenere il crollo della società e delle proprie vite, si affidarono a sette che invitavano, sempre dopo l'intestazione dei beni a loro favore, ad abbracciare l'arte del suicido di massa. A catena, come tessere del domino, tutto questo e molto altro si diffuse con velocità su tutti i continenti. Tutto ciò, è bene ricordarlo, per una mera variazione temporanea del colore dei fiocchi di neve.

Poi d’un tratto, senza un motivo scientificamente comprensibile, la neve tornò a scendere della colorazione giusta che fece calare sul globo un inquietante, imbarazzante e fragoroso silenzio.


(Liberamente ispirato allo spunto iniziale de “Le intermettenze della morte” e a "Cecità" entrambi scritti da Josè Saramago.)

 

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editoriale di soulonice

Uno dei temi più dibattuti nel nostro paese negli ultimi anni è stato sicuramente quello relativo a le intercettazioni. Il tema fu largamente dibattuto, perché se da una parte era evidente ci fossero interessi politici e dei cosiddetti “poteri forti” affinché venisse riformato in via limitativa e riduttiva l’intero apparato relativo alle intercettazioni telefoniche; dall’altro lato è pure vero che il tema della “privacy” in sé sia una questione sempre più sentita da parte de l’opinione pubblica.

Sempre più persone temono per la propria privacy; che ciò che li riguarda possa essere reso pubblico e manifesto agli occhi di tutte le persone e questa paura è chiaramente direttamente proporzionale allo sviluppo della tecnologia e l’invasione in ogni aspetto della nostra privata di forme e mezzi di collegamento alla intera rete e di comunicazione ventiquattro ore su ventiquattro. Il terrore, l’incubo de il grande fratello, quello prospettato dalla letteratura fantascientifica nel corso del secolo scorso, in qualche modo è oggi diventato una realtà. Attraverso internet e i computer, ma pure più semplicemente attraverso degli smartphone, siamo in tutti i momenti possibili connessi a una rete multimediale internazionale.
Le nostre informazioni personali, i nostri pensieri e le nostre parole sono facilmente tracciabili da chiunque e potrebbe bastare una superficiale ricerca su di un motore di ricerca potente e aggiornato come Google per ottenere un quantitativo di informazioni almeno sufficiente su chiunque.

Come se non bastasse, l’affermarsi dei social network, e di Facebook in particolare, ha definitivamente smascherato chi, pure spaventato dalla realtà che lo circondava, aveva deciso di rifugiarsi in questa realtà virtuale, su internet. Aveva imparato a celarsi dietro delle identità fasulle e navigava in questo mondo ideale e in qualche modo incontaminato e plasmabile a seconda delle sue intenzioni come se fosse stato il personaggio di un romanzo cyberpunk.
Allo stesso tempo, è innegabile che larga parte della popolazione mondiale trovi invece fantastico poter condividere i fatti propri con gli altri e, in modo delle volte incosciente, condivide sul web foto e immagini, pensieri e scritti, file audio e filmati video di qualità più o meno amatoriale.

Ammesso che ci sia, dov’è l’errore? Quando ci si deve preoccupare per la propria privacy, quando ci dobbiamo sentire in qualche modo invasi nella nostra intimità.

Da ragazzo mi sono avvicinato al mondo del web con i piedi di piombo, ritenendo che mi stessi addentrando in un modo in larga parte composto da falsità. Negli anni ho poi avuto modo di riconsiderare la mia idea e il mio modo di vedere le cose. Ritengo che il web sia in verità solo una estensione del mondo reale e che non potrebbe essere altrimenti. Non ha una vita propria, ma tutto ciò che lo sostiene sono le informazioni, tutte le informazioni che noi condividiamo o facciamo passare attraverso di esso.

E allora, perché dovremmo spaventarci per la nostra privacy? Abbiamo qualcosa da nascondere, oppure siamo noi che ci vogliamo nascondere, perché abbiamo sempre paura di camminare alla luce del sole e di stare in mezzo agli altri.

(Immagine tratta dal telefilm"Get Smart")

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editoriale di ilfreddo

Dopo avere svuotato la vescica con fare robotico si ferma per cinque secondi sulla bilancia. Pochi istanti per aspettare che il led azzurro faccia comparire quella cifra che, con variazioni modeste, appare giorno dopo giorno. I neuroni sono così addormentati e pigri che esce dal bagno e, solo dopo qualche istante, rientra con un punto interrogativo di dimensioni assai rilevanti sopra la zucca. Eccolo allora ripetere, con maggiore cura stavolta, l’operazione. Stesso risultato. Incredulo, cerca un riscontro visivo e con foga si tasta l’addome, la schiena, le braccia, la faccia trovando rotolini che ieri mica c’erano. Il battito accelerato la fa sedere sul cesso; si sente scendere un paio di goccie di sudore freddo che gli imperlano il viso e la prima idea, vista la vicinanza con il wc, è quella di spingere. Non ridete: avrei voluto vedere voi al suo posto! Come ho detto, infatti, i neuroni erano ancora lenti.

In Antartide da qualche tempo i climatologi hanno cominciato ad analizzare carote di ghiaccio lunghe tre/quattro chilometri. Questi coni di acqua ghiacciata hanno permesso di tornare indietro nel tempo senza abbisognare della coppia Zemeckis/M.J. Fox, una DeLorean, ed un flussocanalizzatore. Tali chilometrici prelievi conservano al loro interno dati sull'atmosfera di periodi assai lontani. Entrando nello specifico quelle "carote" hanno permesso di analizzare l'aria di 600mila anni fa. Per 599.850 anni le parti per milione di anidride carbonica presenti nell’atmosfera del pianeta Terra hanno subito delle variazioni comprese tra i valori di 180 e 280. Spalmate banalmente in un grafico cartesiano tali dati si traducono in curve assai dolci e progressive. L’analisi degli ultimi 150 anni, tuttavia, crea qualche problema di interpretazione perché è come se al dato delle parti per milione di anidride carbonica fosse stato dato loro un bel calcio nel culo dal basso verso l'alto. Che sia questo il motivo per cui i valori sono impennati fino a sfiorare i 400? Usando un termine più "clean", dal 1850 il grafico si è trasformato in una curva esponenziale.

E’ come se una persona di 75-80 kg, dopo aver subito per un ventennio variazioni da yo-yo comprese in un paio di chilogrammi, un giorno si svegliasse scoprendo di essere ingrassato di dieci. Cena pesante, non c'è che dire! Speriamo che si sia divertito almeno.

La quasi totalità della comunità scientifica è convinta che tale “anomalia” non sia frutto di una serata particolarmente bizzarra e senza freni. Sostengono che in questi ultimi decenni il clima, con una frequenza pericolosa, stia dimostrando di smarrire troppo spesso le marce intermedie passando dalla prima alla quinta senza utilizzare il pedale della frizione (variazioni di temperature repentini, periodi di siccità alternati a precipitazioni concentrate ecc...). Ovviamente le anomalie ci sono sempre state: il problema è che le "anomalie", per essere considerate tali, non dovrebbero ripetersi nel breve periodo. D’altro canto sarebbe stupido negare che v’è una percentuale di scienziati che sostiene con fervore e con dati empirici la tesi della ciclicità delle oscillazioni climatiche.

E’ bene sottolineare che gli scienziati non sono entità divine e l'uomo, come ben sappiamo, è nel complesso assai imperfetto. Ci possono essere grosse differenza all’interno delle macro categorie professionali e gli scienziati non credo che facciano differenza. Federico Moccia, per dire, è uno scrittore; ciò non toglie che devo fare molta fatica per considerarlo un "collega" di John Steinbeck. DJ Alessio ha pubblicato qualche singolo, forse pure un paio di album, e credo che possa definirsi, senza timore di poter essere smentito, un cantante o, peggio, un artista. E’ probabile che molti abbiano conosciuto nel loro iter lavorativo un congruo numero di brillanti laureati sgobbare come dipendenti; è altrettanto sicuro che la maggior parte dello stesso campione si sia scontrata negli anni con un ragguardevole numero di “dottori”, magari dirigenti, capaci di ostentare caprina materia cerebrale unita ad una lingua particolarmente abile. Molto flessibile, calda e morbida, nel saper lubrificare ad arte, parti intime atte alla deiezione. Da buon interista posso affermare, senza timore di essere smentito, che a San Siro ho visto in opera zappatori da due milioni di euro all’anno essere impegnati ad arare a più riprese il campo nel corso di un singolo match di cartello. Per quanto il termine calciatore professionista potesse sembrare una barzelletta, credo proprio che lo fossero: hanno giocato pure in Champions League. Una qualsiasi categoria professionale ha al suo interno un numero esorbitante di sfumature che non permettono la generalizzazione.

Eppure alcuni di noi, se leggono in un articolo la parola "esperti", subito cambiano atteggiamento e tendono inconsciamente a dare maggior credito. A taluni non passa nemmeno per l’anticamera del cervello che ci possano essere scienziati mediocri, raccomandati oppure, molto più semplicemente collusi e figli di puttana. Credo che sia comodo credere alle favole accomodanti che procrastinano il problema o lo risolvono cancellandolo. Perché questo ci permette di dormire molto bene la notte.

Tornando al clima credo me ne fotto dei fumosi e retorici convegni internazionali che non portano e nulla e non vengono nemmeno sponsorizzati dai media. Cinicamente credo che noi ce la caveremo e che il problema diventerà serio solo quando saremo sottoterra, con le orbite piene di vermi. Qualcuno risponderà che tra qualche decennio avremo la tecnologia per poter raffreddare il clima artificialmente. Può anche essere. Quello che mi dà fastidio è che ci prendano per il culo.

La storia dell'oscillazione ciclica del clima, l'esempio di questo editoriale, è un insulto alla mera logica di un bimbo e così vale per molti altri temi politici, economici sui quali ci spacciano verità ridicole; per quanto siano sempre griffate dal santo, intoccabile ed odioso termine "esperti".

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editoriale di isidax

Quella sera Paolo prese tre sveglie, le caricò a quindici minuti di distanza una dall'altra, poi le mise dentro una pentola prima di infilarle sotto il letto. Pensò: “Così è sicuro che le sento, stavolta non posso non svegliarmi”.

Poi spense la luce, prese un libro e alla luce di una torcia elettrica lesse per qualche ora.
Arrivarono puntuali, come sempre le quattro del mattino, la prima sveglia strillò per tre minuti inutilmente così come la seconda e la terza; nell’altra camera i genitori di Paolo si guardavano e decisero di non svegliarlo, a loro questa storia della gita a Montisola col gommone non piaceva troppo, avrebbero preferito portare il proprio figlio a fare una gita in Vaghezza, una passeggiata fra i boschi della Val Trompia avrebbe fatto dimenticare a tutti la calura di quel luglio cittadino.

Bruno parcheggiò la nuova Vespa 125 ET3 primavera nel cortile, salì le scale facendo attenzione a non fare troppo rumore, era domenica ed erano solo le cinque del mattino, Paolo avrebbe dovuto farsi trovare in strada ma sicuramente dormiva ancora.
Bussò alla porta, bussò un po’ più forte alla porta, poi ancora più forte.
Quel mattino Paolo uscì senza neanche salutare.

Da Sulzano a Montisola il braccio di lago non è di neanche un chilometro, a sedici anni remando di buona lena ci metti un attimo, e mentre i due amici remavano l’adrenalina cresceva, una giornata da soli in spiaggia e poi avevano adocchiato una parete da scalare a mani nude, sarebbe stato più emozionante di quando pisciarono dal campanile del paese o di quando si buttarono a capofitto giù per la cava. Altro che le impennate con l’Aspes Yuma o il Caballero.

Altre volte Bruno ritornò a casa di Paolo, entrava e rimaneva in piedi senza parlare guardava i genitori, le sorelle e il fratello più piccolo, non parlava, poi dopo qualche mezz’ora tornava a casa sua.
Le visite a casa di Paolo continuarono per qualche mese poi si fecero sempre più rare fino ad esaurirsi completamente, dicono che poi abbia ripreso a parlare.

Io non l’ho più rivisto, di quell’estate ho solo ricordi di merda, anche se forse è stata l’unica volta che mio padre mi ha stretto a sé.

“Scoprire la natura mia ha sempre affascinato, ma, all’alba della vita, la natura mi ha ripreso in grembo”


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editoriale di geenoo

Succede che certe sere sono stanco delle cose successe dall’alba al tramonto.
Così, fatto quanto la società si aspetta da me, qualche volta dopo cena, quale sia il tempo atmosferico, mi butto lungo le vie della città. Fino al venerdì non si vede nessuno e si passeggia bene.
Oggi è stata una giornata particolarmente stronza. Gli accadimenti sembrano strapparti via ogni cosa e la sera, porcaputtana, almeno dopo il calar del sole, cerco e voglio il silenzio. E quindi infilo il giubbino e spalanco il portone.
Il mio passatempo è passeggiare e guardare le finestre accese immaginando la vita all’interno per deviare i pensieri verso lidi più gestibili, casa di un altro, vita di un altro, problemi di un altro.
E così mi ritrovo a camminare sul marciapiede, annuso l’aria umida e fredda ma continua ad essere una serata storta.

I pensieri mi inseguono lungo il viale e mi raggiungono di nuovo dicendomi: "Ma dove cazzo credi di andare?"
Non demordo, se non vanno bene le vite degli altri tiro fuori il telefono, infilo le cuffie, striscio con l’indice sullo schermo liscio e vado di ascolto a caso. Spero nella musica dopo che l’aria scura non ha fatto il suo dovere.

La musica può tanto e finalmente la testa e l’anima si rilassano un po’, i pensieri stavolta sembrano tirare il fiato ed io cammino spedito distaccandomi da 'sto mondo.
Mi rifugio nelle canzoni, volo via un po’.
Finalmente la giornata sembra svoltare dignitosamente. Una vecchia canzone dei The Alan Parsons Project mi acquieta. Sono quasi arrivato a casa, leggero e quasi soddisfatto di essermi liberato delle puttanate quotidiane, quando, d’improvviso, un cappello da baseball mi richiama alla realtà in una frazione di secondo.
"Signore?!"
Eccheccazzo, checcazzo… Il mio cervello torna attivo perché un ragazzino, di notte, lungo un viale deserto, non rientra nei miei piani di rilassamento. Specie uno che mi ferma mentre stavo per andare a dormire con i TAPP nelle orecchie.
“Si?”
“Signore mi aiuta? Non mi sento bene...”
Lo squadro e penso che sembra star perfettamente in forma
“Signore, ho un attacco di panico!”
Via tutto il rilassamento, ecco qua un bel problema di fine giornata.
“Mi spiace.” dico poi, e aggiungo: “Chiamo i tuoi genitori? Magari ti serve un’ambulanza? Che posso fare?”
Ma dentro di me arriva la gendarmeria con un gran frastuono di trombe che si inquadra tra i bastioni del mio cervello, pronta all’attacco o alla difesa. Che fare? Fidarsi? Si, no?

Sembra solo un ragazzo. Avrà al massimo 14 anni. Che cazzo è un attacco di panico? Si lo so, ma non so che effetti dia. Mi vede titubante e mi dice di non preoccuparmi, che non fa nulla, che va da solo.
Sembra ripensarci e chiede solo di accompagnarlo una cinquantina di metri.
“Ok”, gli dico. “Andiamo.”
E penso: vediamo se è una giornata completamente del cazzo o solo in parte. Mentre passeggiamo nell’ombra, mi accorgo di arretrare di mezzo passo. Sto molto all’erta mentre lui, senza guardarmi in viso, mi dice che gli succede spesso e quando chiede aiuto trova difficoltà perché la gente chissà cosa pensa. E ci credo, penso io. Che cazzo vai passeggiando a quest’ora di notte da solo se hai gli attacchi di panico?
Sento che il mio cervello si sta cacando sotto e, soprattutto, che i fottuti chemosensori dell’amigdala se ne sono accorti. E così, ora, il mio 'io primordiale' sta aspettandosi un coltello sotto il collo. Ma la mia coscienza mi dice di star tranquillo, che è solo un ragazzino.
"Vabbé!", mi dice la fottuta amigdala, "Anche un ragazzino può tirare una coltellata!"
E così mi sto spostando per equilibrare i pesi ed assestare un eventuale colpo. O magari scappare come un bambino impaurito, ma questo non lo diciamo.

Poi succede che dopo i cinquanta metri il nostro amico dal cappello da baseball mi dice che...
"Va bene, grazie così."
Mi dà la mano e mi saluta. Gli intravedo per un attimo gli occhi, che mi fissano, ma troppo velocemente per capire come.
Finita qui. Nessuna coltellata e nessuna apparente conferma della eventuale malattia. Lo vedo allontanarsi con passo veloce.

Mah. La vita è strana e mi fa incazzare quando non scrive un finale risolutivo del cazzo.
Specie quando le mie amigdale si sono tutte eccitate.


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editoriale di Flo

"Le parole sono importanti", diceva quello là.

E io l'ho sempre pensato. Ho sempre avuto una piccola mania per le parole. Quand'ero piccola, ho imparato prima a parlare e poi a camminare, rivelando subito un'indole che più tardi si sarebbe affermata. Più avanti, non era raro che mi soffermassi a sfogliare il dizionario o l'enciclopedia per scoprire cosa si nascondesse dietro quei caratteri in neretto. E, col tempo, le parole hanno assunto un ruolo sempre più rilevante: ne ho fatto un culto, una piccola ossessione, una passione e, volendo, ne potrei fare una professione. Provo un fastidio viscerale quando vengono maltrattate e le coccolo e le vezzeggio sulle pagine di un blog e nei dibattii con gli amici.

Eppure, che ci crediate o no, io, con le parole, non sono per niente brava. Ne conosco la morfologia, la formazione, l'etimologia, la struttura (un po' meno la dizione), il corrispondente in altre due o tre lingue. Le catalogo con un'occhiata, le seziono e le scompongo nella loro minima parte e so come disporle in una frase. Ma mi manca riuscire a ordinare i pensieri per farlo, a mettere insieme il coraggio per buttarle fuori.

Un foglio bianco mi lancia nel panico, un "Questa cosa non mi va bene" mi resta incastrato in gola come un boccone amaro, mascherato da un sorriso imbarazzato ed esitante. Per non parlare di una frase take-away per sentimenti che provo col contagocce, come "Ti voglio bene": resta dubbiosa e sospesa tra le cose non dette, lasciando inattese le aspettative degli altri, che quelle stesse parole le usano come una cosa di poco conto, un oggetto usa-e-getta che si butta lì e prima o poi si dimentica.

Forse è per questa mia incapacità di usare le parole che le parole, nella mia vita, hanno assunto tanta importanza.

Ho aperto le orecchie per godermi il suono delle parole in sé, in italiano, in altre lingue, sviluppando una predilezione particolare per la musicalità fricativa del portoghese. Ho spalancato i timpani per tendere l'orecchio agli altri, diventando un'ottima ascoltatrice, ma una pessima consigliera, perché quello che penso raramente riesce a uscire dalle quattro pareti dei miei pensieri.

Nella mia crisi da adolescente incazzata col mondo, invece di tormentare i miei padiglioni auricolari con la rabbia del punk o del metal, l'ho fatto ascoltando un genere fatto praticamente solo di un flusso ininterrotto di parole (ebbene sì, ho ascoltato rap per anni).

L'ho abbandonato più avanti, quando ho scoperto chi alle parole sa affiancare anche la musica. Per lo più semplice, lineare: un giro armonico, un arpeggio di chitarra, le parole sempre al centro, cantate da una voce nuda e discreta. E non è raro che in quelle parole ci trovi pensieri che neanche io sapevo di pensare, perfette espressioni della mia solitudine.

Ho divorato libri per cercare qualcuno che riuscisse a esprimere per me quello che provavo, ma che non riuscivo a tirare fuori. In un certo periodo ho anche pensato di voler fare la traduttrice per prendere le parole altrui, toccarle, plasmarle, farle mie, per convogliare quelle parole a qualcun altro con il mio stesso deficit di parole. Ma forse l'idea non mi stuzzica più: ho troppo rispetto per le parole di chi le sa usare per trasformarle col mio tocco in un ammasso informe di caratteri nero su bianco.

"In principio era il verbo".

Alla fine, invece, non lo so.


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editoriale di zaireeka

Oggi mi è venuta voglia di scrivere. Ma di che cosa?

Forse potrei scrivere qualcosa sul Natale, come ho fatto a volte negli ultimi anni. Chessò, parlare del fatto che ho l’impressione che stia “invecchiando”, che fatichi a tenere accese sui balconi del mio isolato - a guardarli attraverso i vetri appannati (scusate la licenza poetica) di casa mia - le sue quattro luci. E che questo, alla maniera del Tom Waits di “9TH & Heennepin”, mi ha fatto vedere tutta una storia.

Una storia fatta di famiglie che in Italia fanno sempre meno figli, e che forse, di questo passo, Babbo Natale sarà messo prima o poi in cassa integrazione.
Una storia fatta di gente che ha perso il lavoro, o non l'ha mai avuto, e non ha nulla da festeggiare, ed altri che (e non faccio nomi), fra le fanfare di quelli che raccontano che ormai il peggio è passato, rischiano di inciampare malamente nella coda del diavolo e farsi ancor più male.
Fra quelli che raccontano che tutto stia tornando normale e quelli che ci ricordano continuamente che la fine sia vicina, e paiono davvero più contenti e soddisfatti, che addolorati all’idea che prima o poi gli si debba dare ragione.

Comunque sia il governo, a scanso di equivoci, invita i giovani a cambiare mentalità, ad essere meno legati all’Italia, pensare all’Europa, a fare esperienza lavorativa all’estero. Oggi, parlando con dei miei colleghi più giovani, ho avuto la chiara sensazione di quanta disillusione ci sia in giro.
A ben pensarci, in confronto ai genitori della mia generazione, che hanno sofferto da bambini/adolescenti la guerra ma poi hanno vissuto da 30/40enni il boom degli anni '60, e a quelli della mia generazione, che stanno vivendo da 40/50enni questa crisi ma che almeno hanno vissuto da bambini quegli anni felici, la generazione dei 30enni di oggi, che con entusiasmo ha visto nascere internet, nel bel mezzo della "navigazione" sempre più spesso non trova nulla, se non parole e promesse mancate.

E non voglio pensare a quello che potrà essere dei nostri figli.

L’altro giorno ho riascoltato con piacere questa vecchia canzone di Edoardo Bennato.
I versi finali mi hanno lasciato di sasso, li definirei una Storia d’Italia concentrata, dal fascismo ad oggi.

Mioddio, aveva veramente capito già tutto, come andava a finire.

Viva l’Italia, quelli che rimarranno e no, e lo dico con il cuore.

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editoriale di Bartleboom

Da qualche parte, nella primavera del 1998…

Io, Anna e Jenny siamo amicissimi e, da un po’ di tempo, ci facciano un sacco di scherzi.
Difficile dire quale sia stata la scintilla che ha dato fuoco alle polveri. Sta di fatto che siamo nel pieno di un’escalation di puttanate che, a confronto, un comizio di Borghezio è un simposio di teologia organizzato dalle edizioni Paoline.

Ho da poco subito uno scherzo e, così, per vendicarmi, mi metto d’accordo con la professoressa di italiano: in pratica, dovrà entrare in classe con aria molto severa e, inventandosi una roba tipo “Mi sono accorta di non avere abbastanza voti per le presentazioni alla maturità”, fare finta di interrogare a sorpresa Anna e Jenny.
La prof accetta di buon grado, ma, purtroppo, si fa un po’ troppo prendere la mano e quella che doveva essere una finta per farsi due risate si trasforma nell'umiliazione pubblica di due ragazze impreparate, che, ad un certo punto, pensano davvero di avere rovinato tutto il lavoro di un anno.

Inutile dire che non fu quello che volevo.
Inutile dire che spiegai l’accaduto e porsi loro le mie più sincere scuse.
Inutile dire che si vendicarono.

È passato giusto qualche giorno dall’interrogation-gate. Anna e Jenny recuperano una mia foto di qualche mese prima, scattatami durante una gita epicissima a Berlino, in cui, sarcacchio per quale motivo, tengo in mano con espressione effemminata un carciofo. Ispirate da una pubblicità dell’Esselunga molto in voga a qual tempo (“Topolino o ravanello”, “Ballerina o carote?”), la utilizzano per preparare dei piccoli manifesti con la scritta “Carciofo o finocchio?”. Infine, radunano mezzo liceo e, nottetempo (ovviamente a mia insaputa), li appendono ad ognuno degli oltre cento tigli che costeggiano il lungo viale che porta alla nostra scuola.

Il mattino dopo arrivo bello fresco e senza sospettare nulla, parcheggio il mio Sì Piaggio nel posto dei veri fichi, entro dalla porta principale come se nulla fosse… e vengo preso per il culo da tutta la scuola.
Professori e bidelli compresi.

Grandi risate. Pacche sulle spalle. E se ci si ritrova dopo vent’anni per la pizzata di classe del liceo ce lo si ricorda e si ride un sacco come la prima volta e pure deppiù.

Giovedì 26 settembre 2013, alla Camera dei Deputati del Parlamento italiano, si discute di omofobia.
A quanto ho capito, il motivo è che il giorno prima il sig. Barilla ha dichiarato che lui non ha nulla contro gli omosessuali e che, per quanto lo riguarda, possono senz’altro continuare a picchiarselo in culo che tanto a lui piace la gnocca (basta che non sia di Giovanni Rana).
Solo non è ancora il momento di usarli per fare la pubblicità della pasta.
Al massimo si potrebbe fare un’eccezione per le orecchiette.

Dicevo, i rappresentanti del Popolo Sovrano sono lì che si fanno un culo così (oops!) a parlare di omofobia. Il deputato di SEL, Alessandro Zan, gay dichiarato, ha da poco terminato il proprio intervento quando Gianluca Buonanno, classe 1966, mente tra le più illuminate dell’organo (oops!) legislativo e che, pensa un po’, è pure leghista, tira fuori chissà da dove (oops!) un finocchio (nel senso di vegetale) e lo appoggia sul banco.
Segue parapiglia d’ordinanza, dolce, caffè e ammazzacaffè.

Giro sull’internet, e scopro che solo qualche settimana prima lo stesso Buonanno si era fatto notare per avere etichettato sempre i membri (oops!) di SEL come “Lobby dei sodomiti” (tra l’altro al termine di una circonvallazione logico-retorica che ancora oggi se ci ripenso mi provoca labirintite, spasmi e voglia di mandarlo 'affanculo, ma lasciamo stare).

E io vorrei dire a Buonanno e a tutti quelli che battevano le mani come le scimmie con i cimbali: ma non vi sentite vecchi-vecchissimi?

Cioè, Buonanno, tu hai 47 anni, sei sopravvissuto ai paninari, all’electro pop anni ’80, al karaoke con Fiorellino, ai telefilm demmerda anni ’90, alla mucca pazza, all’11 settembre, allo tsunami, a Windows Vista e alla sintonizzazione del decoder per il digitale terrestre.
Hai vissuto sulla tua pelle l’internet 2.0, la globalizzazione, l’outing di George Micheal (si sapeva) e Ricky Martin (non si sapeva!) , la venuta degli smartphone, le pubblicità di Intimissimi, il primo presidente degli Stati Uniti nero…
E non hai imparato un cazzo?

Il mondo ti verrà a prendere, Buonanno.

Te e tutti quelli che sono ancora fermi a quando nel mio paesello padano c’era chi appendeva cartelli con scritto “Non si affitta a veneti e meridionali” e poi si è trovato la propria figlia gravida di uno che di cognome fa Vendramin o Terracciano.

Il mondo non butterà giù la porta con una spallata. Non ci saranno esplosioni, botte o spari.
Entrerà dalla finestra o te lo ritroverai già accomodato sul divano che ti aspetta per un thè al bergamotto (che per un leghista è il massimo).

Sarà tuo figlio che ti confesserà di essere gay.
Sarà il tuo capo che ti inviterà a cena a casa del suo compagno e tu dovrai fare la bella faccia e continuare a leccargli il culo (sì! Proprio il culo! Oh oh oh!).
Sarà il tuo migliore amico che un giorno ti dirà: “Ho lasciato Barbara e adesso sto con Cinzio”.

Forse, allora, capirai che il finocchio non è neppure il peggiore dei mali che ti può capitare.

Perché, al contrario del carciofo, almeno non ha le spine.

(immagine by Katherine Sandoz, Salted & Styled-Fennel)

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editoriale di Olmo Dalcò

Un manipolo di straccioni sdentati faceva quotidianamente la fila sotto la modesta statua di Confucio proprio al centro della piazza, diligentemente compivano questa pittoresca liturgia, attendendo in buon ordine il proprio turno per sbevazzare un po’ di zuppa all’aglio e ruminare un tozzo di pane rancido.
Da li, con un po’ d’attenzione, era possibile percepire la pungente puzza di piscio esalata dai marciapiedi della Bowery poco lontani.
Nel 2003, durante la mia prima e unica trasferta newyorchese, il CBGB’s lo riconobbi così: seguendo come un beagle infoiato e ad orecchie dritte, l’odore dei resti fisiologici dell’umanità sgraziata cantata da Lou.

Quella, nel mio immaginario, era e rimane la sua cifra stilistica. La prima e più forte delle suggestioni che, alla fine dei 40 e dispari minuti di VU&N, mi arrivava.
Il disastroso missaggio della prima versione in cd contribuiva non poco a calare tra le mura di un orinatoio quella parata di spiantati, raccontata da una voce che pareva quella di Dylan sotto anfetamina.
Piscio, diseredati CBGB’s e anfetamine... se penso a Lou, cos’altro?

Mi accomodo su una chaise longue, un uomo con barba, occhiali e giacca in tweed base cachi si appollaia dietro di me. La sua giacca, la posizione da pappagallo del pirata suggerisce che lui (pochi cazzi) è di scuola freudiana. M’invita a continuare.

L’erezione. Quella del tipo col berretto di pelle nera nella quarta di copertina di Trasformer. Io però l’erezione non ce l’ho nel vinile prima stampa italiana, c’è una pudica banda censoria proprio sul pube che rende impossibile financo immaginarsela. La scoprii anni dopo, a casa di Nico Gariboldi..

E poi cos’altro, pensando a Lou?

Il suo ridacchiare nervoso tra i versi è mia moglie/è la mia vita, su Heroin.
La circolarità mesmerica di Venus in Furs, con la viola che progressivamente squadra.
L’attacco all’arma bianca di Vicious.
Gli psicodrammi, a tavola, con Lester Bangs.
L’illibata musa teutonica. Stronza.
Le sue decine di I don’t care: cariatidi punk del mio pensiero.
Il dilemma interpretativo, un po' ignoranza un po' corto circuito emotivo, di you just keep me hangin’ on su Perfect Day: mi tieni sospeso o mi fai penzolare? La differenza, mi consenta Doc, è significativa.
Le serate alcoliche con Sandro e Massimiliano.
Giovannini che quel disco non l’ha mai capito.
Gariboldi che voleva essere Lou.
Marco, col culo pizzo, che era trasformer-dipendente.
Alfredo che masticava il disco della banana con rispettosa circospezione.
Esteban che si faceva tisane di Metal Machine Music.

E qui mi fermo perché, pensando a Lou, ho più ricordi che se avessi mille anni.

Trascinato fuori da queste intermittenze personali, Reed resta solo l’eminenza grigia con gli occhiali scuri dietro al disco più importante della storia della musica rock. Sono pronto imbracciare la pistola, scegliere un padrino e fare venti passi, mostrando la schiena, a chi non è d’accordo. Quel disco dalla cintola in giù l’ha cacato Lou, dalla cintola in su l’ha meditato un violista scozzese dal talento sovrumano e l’idiosincrasia per il rugby. Loro hanno portato le bistecche, il vino e le droghe, Warhol ci ha messo la casa e le donne. La mattina dopo, svegliandosi, tra la nausea e l’eccitazione partì il giro di Sunday Morning e nulla fu più come prima.

Il CBGB’s has gone.
Da qualche giorno pure Lou.
Di quella puzza di piscio non ho più notizie da dieci anni.

L’auspicio feroce, ora che se ne è andato, è che in quel luogo più mentale che geografico chiamato Bowery, seduto a terra con una chitarra accanto (forse un laptop, a qualcuno importa?), ci sia un giovanotto del ’90 emaciato e dall’aria insolente, con una dose nel taschino e 26 dollari in mano.

(*Titolo: è quello di una poesia di Reed contenuta in una vecchia raccolta di suoi versi che ho perduto in uno dei miei tanti traslochi.)

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editoriale di Bartleboom

Il mio kebbabaro di fiducia si chiama…

A dir la verità non lo so.

Nel senso che gliel’ho chiesto un po’ di volte, ma non sono mai riuscito a ricordare e/o a pronunciare correttamente il suo nome.
E così, prima che tutta la faccenda cominciasse a diventare una roba antipatica, abbiamo raggiunto un tacito accordo per cui io non lo correggo quando lui mi chiama (erroneamente) “Mario” e io mi sforzo ogni volta che ci parlo di non usare il suo nome proprio.
Per questo motivo, e ai soli fini di questo editoriale, il mio kebabbaro di fiducia si chiamerà “Rahaal”, che è il nome di un mio amico marocchino e che, quindi, non sarebbe proprio adatto per indicare un turco, ma questo è quello che passa il minareto.

Fatte le presentazioni, è necessaria una precisazione.

Bartletown è un poco più di un paesottone.
Siamo meno di ventimila anime, sparse su un territorio poco più grande di un paio di campi da calcio regolamentari. Roba che è già una fortuna se quando esci dalla doccia non ingravidi per sbaglio la tua vicina di casa o una qualche tua cugina di secondo grado.

A Bartletown abbiamo tutto. Solo che ce l’abbiamo in un unico esemplare.
Abbiamo LA chiesa, IL bar, LA edicola, IL supermercato.
E poi c’è IL panettiere, IL dottore, IL farmacista.
Facciamo un’eccezione solo per GLI stronzi.

Quando, un paio d’anni fa, Rahaal ha aperto “House Kebap” su una delle strade principali del paese, in molti hanno storto il naso. Non dico che IL prete abbia lanciato un qualche anatema durante LA Sacra funzione domenicale. Però capite anche voi, che per una cittadina in cui l’evento più eccitante è stato IL rifacimento del ciottolato nella piazzetta davanti al Municipio nel lontano 2003, l’apertura di un kebabbaro ha rischiato di assumere i connotati dell’invasione da parte delle armate di Saladino.

Tutto questo per dire che, perlomeno nei primi tempi, non è che girasse tutta sta gente da House Kebap…

Io ci sono capitato per la prima volta un venerdì notte di un annetto fa, dopo una serata epica di cui non ho alcun ricordo a parte una tenace infezione alle vie urinarie che conto di riuscire a debellare con giusto un altro paio di cicli di cortisone.
In breve: è tarda notte e sono vittima di una fame da fine serata mostruosa, quando ad un certo punto mi compare davanti un’insegna luminosa con un panino gigante e il Taj Mahaal sullo sfondo. Solo oggi, a distanza di tempo, mi rendo conto che il Taj Mahaal non c’azzecca veramente una mazza con il kebab, ma, al momento, l’unico concetto che sono riuscito a sintetizzare nella mia testa è stato più o meno: In natura, nulla si crea e nulla si distrugge. Tutto è kebab + Taj Mahaal.

Entro e mi becco Rahaal, un ometto sui cinquant'anni con la faccia simpatica e gli occhi buoni, che guarda sconsolato la televisione italiana evidentemente senza capirci un cacchio. Ordino un kebab con ogni condimento possibile e immaginabile, compreso lo sgrassatore per il banco e l’olio esausto per le patatine, Rahaal mi fa notare che il locale sarebbe già chiuso da un quarto d’ora e che stava giusto spegnendo tutto, io scoppio a piangere come un bambino, lui si impietosisce e mi prepara una roba che non è un kebab: è il tuo piatto preferito di sempre, cucinato da tua madre il giorno del tuo ottavo compleanno quando ti hanno regalato la scatola grande dei Lego.

Quella prima sera non abbiamo parlato granché, io e Rahaal. Essenzialmente perché avevo la bocca talmente piena di salsa yogurt che sembravo una vecchia pubblicità della Danone.
Dopo quella prima sera, però, ho iniziato a fermarmi da House Kebap almeno una volta la settimana.
E, dopo le prime settimane, ho iniziato ad andarci anche se non dovevo mangiare: lasciavo la macchina in divieto di sosta con le quattro frecce, buttavo dentro la testa e chiedevo a Rahaal come stava. Lui mi sorrideva forte e diceva qualche cosa di internazionalmente irripetibile sulle tasse e/o su Berlusconi. Io ridevo di gusto e me ne tornavo a casa contento.

Oggi House Kebap è quella che si potrebbe definire un’attività commerciale di successo. Dopo l’iniziale diffidenza, i mie compaesani scimuniti si sono accorti che con € 3,50 ti puoi mangiare un kebab buonissimo e conditissimo che ti toglie la fame chimica e ti fa tirare delle scoregge che tengono lontani zanzare, pappataci e parenti indesiderati fino alla settima e ottava generazione. E così, oggi come oggi, dal venerdì alla domenica, dalle 19:00 alle 21:00, se vuoi un kebab da House Kebab devi mettere in conto almeno mezz’oretta di attesa.

E io ho sinceramente temuto che la fama e la gloria avrebbero cambiato Rahaal e il nostro rapporto. Temevo che non si sarebbe più ricordato di me o del condimento speciale per il mio il panino, che non avrebbe più avuto tempo per dire le sue battute quando passavo dentro a salutarlo senza comprare niente…
Poi, però, l’altro giorno sono ripassato da House Kebap dopo parecchie settimane di assenza. Era domenica sera, all’ora di cena, e il locale era affollatissimo. Ad un certo punto, Rahaal, da dietro il bancone, ha alzato la testa e, quando mi ha visto, ha subito sorriso fortissimo. È andato al lavandino, si è sciacquato le mani e, strafottendosene della gente in coda che smadonnava, è venuto da me per salutarmi.

Lo lo so che la globalizzazione fa schifo e che se avessi davvero a cuore il destino della mia cultura e delle mie tradizioni enogastronomiche dovrei avere la tessera di Slow Food e andare a lanciare le caciotte scadute sulle vetrine dei ristoranti che fanno l’all you can eat. Lo so che, con tutto il ben di Dio che i nostri frigo ci offrono, pensa un po’ se devo andare a mangiare 'ste schifezze che poi sudi al sapore di cipolla per tre giorni.

Però penso che, tutto sommato, in mezzo a duemila Mc Donald’s e seicento Burger King e duecento Old Wild West, magari un posticino per House Kebap lo si può trovare.
Penso che, magari, una globalizzazione a misura di kebabbaro tanto male non può farci. Penso anche che, se in questi tempi grigi sto paese di merda può essere ancora una buona occasione per qualcuno, non mi dispiace che lo possa essere per gente come Rahaal.

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editoriale di Flo

Giorno 1

Ore 10 - Apriamo le danze, che il mio primo incarico da interprete (?) sottopagata abbia inizio! Sono etichettata con un orrido cartellino bianco e giallo e sono vestita come una cretina. Attendo al "desk buyers" con altri interpreti (?) sottopagati, vestiti come me ma che sembrano meno cretini.

Ore 10:20 - Il compratore che mi è stato assegnato, ovviamente, è in ritardo. Arriva con comodo con un altro gruppo di brasiliani, la prima cosa che noto è che si sta smanacciando allegramente il pacco. Piacere di conoscerla, Senhor R., rampante giovine di una grande città del Brasile, a capo di una grande catena di supermercati gourmet.

Ore 10:30 - Siamo già in ritardo prima ancora di cominciare e gli espositori non sono da meno. Ci aggiriamo alla ricerca dello stand giusto, becchiamo il primo, poi il Signor R. annuncia la sua prima visita in bagno.

Ore 10:50 - Mi aggiro disperata tra gli stand, non mi oriento, nessuno mi ha dato indicazioni. Mi scuso col Senhor R., che mi consola dicendomi che sono molto simpatica.

Ore 11:15 - Dopo che i primi due stand non mi hanno manco offerto un assaggio, il simpatico Signor R. (che si chiama come il Senhor R., ma è triestino) me ne offre cinque tutti di fila. Intanto il Senhor R. inizia a lasciare la sua cartellina ovunque, io gioco al riporto.

Ore 12:00 - Seconda visita in bagno del Senhor R., perché io faccio pipì ogni cinque minuti. Ci fa piacere.

Ore 12:25 - Continuiamo a visitare gli stand, ma io, cercando di essere professionale, rifiuto. Il Senhor R. mi intima di bere. E non chiamarmi signore o mi metto a litigare con te. Ok.

Ore 13 - Pausa pranzo, ma seguo il mio assistito, che si unisce al gruppo di brasiliani già visto al mattino. Il Senhor R. mi trascina fuori, mi abbraccia e mi costringe a farmi una foto con lui. Anche il Senhor D. ci tiene particolarmente, si fa una foto con me e poi una con me e con il Senhor R.

Ore 13:15 - Siamo in cinque ma occupiamo il 20% dei posti in area ristoro, annettendoci dei tavoli al di fuori della nostra giurisdizione. Mangiamo coi voucher, ma il pranzo è scarso. Un italo-brasiliano riesce a ottenere un altro giro di aglio con orecchiette, pesto e cozze per tutta la tavolata. Il Senhor R. non ci crede quando gli dico che non ho mai fatto l'interprete. Intanto mi sfottono tutti e mi chiamano "Português de Portugal", ma mi invitano in Brasile, mi offrono fantomatici lavori e minacciano di aprirsi pagine Facebook appositamente per aggiungermi.

ore 13:50 - Il Senhor R. va in bagno.

Ore 14 - La pausa pranzo finisce e ricominciano gli appuntamenti con gli espositori. L'abbiocco post-prandiale è tremendo, io farfuglio cose a caso (ma tanto il Senhor R. si fa capire fingendo di parlare inglese) e continuo a rifiutare assaggi (quando me li offrono) per non addormentarmi sui divanetti mentre mi raccontano per la quarantesima volta la storia del vitigno Glera.

14:40 - Il Senhor R. mi assume come segretaria, scrivo gli indirizzi al posto suo, gli porto la cartellina (così non se la dimentica), gli gestisco gli appuntamenti, descrivo l'azienda al posto suo, gli ricordo di chiedere i campioni, mentre lui continua a bere senza ritegno. Inizia a cambiare colore, le guance gli diventano rosse come al peggiore degli alcolizzati e mi dà gomitate e presentandomi ai venditori come my friend.

Ore 15 - Ok, l'inglese del Senhor R. è meglio di quello della maggior parte dei veneti presenti.

Ore 15:15 - Il Senhor R. va in bagno.

Ore 15:50 - Ripassiamo davanti al Signor R., quello dei cinque assaggi, ci ferma e ci offre un altro bicchiere perché i brasiliani fanno sempre simpatia. Credo di amarlo. Il Senhor R. mi dà pacche sulla spalla e mi lancia occhiatine divertite. Boh.

Ore 16:30 - Brutta pezzente dello stand, avrai le bottiglie fighe, ma non mi lasci neanche il gadget. E il tuo vino fa cagare, stronza.

Ore 17 - Il Senhor R. va in bagno.

Ore 17:30 - Il Senhor R. si dimentica di essere già cliente di uno degli espositori, ma, nonostante la figura infelice, ridacchia e continua a bere.

Ore 17:50 - Finiamo con dieci minuti abbondanti di anticipo, il Senhor R. mi saluta con due baci. Ci vediamo domani. La responsabile, sull'orlo dell'incredulo, mi chiede se sono sicura di aver fatto tutti gli stand, visto che gli altri brasiliani sono in ritardo di quell'ora abbondante sulla tabella di marcia.

Ore 18 - Mentre continuo a ruttare Prosecco, mi riunisco con una amica e facciamo una parte di strada insieme, cercando di attraversare la folla da Barcolana, con tanto di foto commemorativa di una donna in carriera e di una persona vestita in modo ridicolo.

Giorno 2

Ore 9:30 - Arrivo alla Stazione Marittima con la solita mezz'ora di anticipo. E meno male, c'è una nave da crociera a distanza Concordia e un nugolo di turisti multilingue si fa strada a colpi di ombrellate per prendere posto su uno dei venti pullman parcheggiati a caso. Riesco a superare il labirinto di transenne e ad entrare, ma solo dopo aver superato controlli da aeroporto israeliano.

Ore 10 - Arrivano anche gli altri interpreti (ma il nostro cartellino dice "assistenti linguistici") e qualcuno se n'è sbattuto dell'indicazione "abbigliamento formale". Io no, ma non capisco se sembro più o meno cretina rispetto a ieri. In compenso, riesco a fare un cratere nella camicia con la spilla da balia del badge.

10:10 - Mentre aspetto, i venditori con cui ho parlato ieri mi salutano e mi fanno l'occhiolino, qualcuno entra bestemmiando, qualcun altro manda gentilmente a fanculo l'organizzazione disastrosa di oggi (ieri).

Ore 10:35 - Ovviamente il mio assistito arriva con comodo assieme ai suoi amici brasiliani, giusto con quei trentacinque minuti di ritardo che ci fanno saltare il primo espositore con cui abbiamo appuntamento. Ma lui se ne frega, siamo tutti amici, viva l'Italia, viva il Brasile. Mi annuncia che oggi sono la sua sommelier, quindi devo bere.

Ore 10:55 - Il Senhor R. mi molla la sua cartellina e va in bagno. Io uso il mio quadernino per gli appunti per prendere nota di queste cazzate.

Ore 11:15 - Ci accodiamo agli altri brasiliani in un paio di stand. Il Senhor R. sbadiglia, ormai conosce la mappa di Conegliano-Valdobbiadene come se fosse casa sua e le percentuali di zuccheri di brut ed extra-dry come se fossero la sua data di nascita. Ha la faccia da postumi della sbornia, il viso stanco, gli occhi gonfi e si è rotto i coglioni di sentir parlare i venditori, tanto a lui interessa solo il prezzo. Io, intanto, continuo a rifiutare gli assaggi e il Senhor R. mi rimprovera con lo sguardo.

ore 11:25 - Un dibattito sulle dimensioni di un ettaro illumina la nostra giornata.

Ore 11:40 - Il Senhor R. ammette di essere in pieno post-sbronza e ha mal di testa. Mi dice che il giorno prima si è divertito, che è uscito a bere non per lavoro, ma per divertirsi. Gli chiedo dov'è stato, ma non se lo ricorda.

Ore 12 - All'ennesimo stand mi viene offerto un assaggio, finalmente accetto e il Senhor R. è soddisfatto. Gli dico che sono professionale, è ora che inizi a bere anche io.

ore 12:15 - Il Senhor R. va in bagno.

Ore 12:40 - siamo al penultimo stand e i venditori sono di quanto più borioso abbia sentito negli ultimi due giorni. Ma il vino è buono (ma non ci sento né pesca né liquirizia, al contrario di quanto dicono), mando giù tutto il calice per non deludere il Senhor R. I venditori gli chiedono se in Brasile si parla spagnolo e ci mostrano un dépliant in cui ci sono le foto del compleanno di Nina Moric e della sorella di Belén. Io non me ne vanterei troppo, se fossi in voi.

Ore 12:47 - Gli stessi venditori offrono una bottiglia al Senhor R., il Senhor R. la rifiuta e io gli do una gomitata. Quando ci alziamo, cerco di fargli capire che poteva anche prenderla, mi dice che nella valigia non ci sta. Gli dico di prenderla per me con una faccia tosta uscita da non so dove. Il senhor R. torna indietro e si fa dare la bottiglia, Questo è il mio regalo per te.

Ore 13:10 - Siamo leggermente in ritardo, ma riusciamo a finire anche l'ultimo stand, quello di una famosa cantina italiana che produce vini al gusto chimico, perfetti per il Brasile. Il Senhor R. mi ringrazia e mi saluta. Lo fa due volte, per sicurezza, quindi va via.

Ore 13:20 - Vengo intercettata dal Senhor D. che lascia biglietti da visita a gente a caso e mi trascina a pranzo nell'area ristoro, nonostante non abbia i voucher. Lui e l'italo-brasiliano conquistano tre tavoli e rubano quaranta piattini con pesce crudo marinato. Arrivano calici di Prosecco da non si sa dove. Il Senhor D., giovane direttore commerciale di una grande catena di supermercati brasiliana, mi assiste, mi chiede se voglio acqua, mi porta due piatti e mi chiede di sceglierne uno, quando tentenno, mi dice Ok, tutti e due, mi chiama minga amiga, mi circonda le spalle con un braccio e mi chiede se sono sazia. Mi aspetto che a momenti inizi a imboccarmi e a darmi pacche sulla spalla per fare il ruttino.

ore 13.40 - Finiamo di mangiare e riportiamo indietro i calici, uno è ancora pieno. Lo buttiamo? mi chiedono. Scherzi? Lo mando giù tutto d'un fiato.

Ore 14 - Perdo di vista il Senhor D., ma continuo a incontrare l'italo-brasiliano, che sembra si sia rotto le palle pure lui e che dice di fare gli ultimi stand per educazione. Vengo adescata dal Signor R., quello dei cinque assaggi di ieri, che viene apposta per chiedermi se ci sono possibilità di fare affari col Senhor R. Mi usa come esca per gli altri interpreti e ci versa prima un bicchiere di Millesimato, poi un bicchiere di brut mentre cerca di estorcerci informazioni. Mi corrompe con una bottiglia di rosato.

Ore 14:30 - Esco, diluvia, a me fanno malissimo i piedi, ho due bottiglie nella borsa e sono sbronza.

Ah, in tutto ciò, a me il Prosecco fa abbastanza schifo.

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editoriale di macaco

Settembre 2013, undici anni di Brasile, undici anni senza automobile. Non proprio una scelta voluta, ma frutto di diversi fattori: scarsità di risorse economiche, mercato di credito fra i più cari del mondo, prezzo delle automobili considerabilmente alto rispetto alla media mondiale (rispetto a Messico o USA costano il 45% in più ), mobilità già garantita da uno scooter 125 e da un discreto servizio di trasporto pubblico. Poi due figlie a scuola, una casa fuori città ed altre necessità mi impongono di compiere questo passo che si presenta assai più gravoso di quanto non sia nella mia terra natale.

È giunta l'ora di comprar la macchina, insomma, e, dopo aver raccolto sufficienti informazioni e testimonianze, rimangono pochi dubbi e la scelta cade sul modello ritenuto più economico e resistente; la fiat Uno (modello vecchio). Ancora in produzione in Brasile è un auto che ho già posseduto fra il '93 e il '99, anno in cui l'abbandonai in terra di Romania dopo un'avventuroso viaggio con rientro in aereo; scelta avvenuta dopo aver valutato che la vecchietta con ormai 350mila chilometri probabilmente non ce l'avrebbe fatta a riportarmi nel bel paese.

Mai avrei pensato che a vent'anni di distanza avrei ricomprato una Uno usata, meno ancora che per poter far ciò avrei dovuto affidarmi ad un qualche istituto di credito, in questo caso la mia banca che mi ha offerto un prestito con la modica tassa di interessi del 2,4% al mese.
La Fiat uno non è è un bel veicolo, ha un design superato, ma io la prendo con filosofia, ricordandomi che non devo cadere nella tentazione di eleggere un semplice mezzo di trasporto a status sociale, più difficile è trattenermi di dare un ceffone a mia figlia quando dice che è proprio brutta, ma d'altronde studia in una scuola frequentata per la maggiore da gente benestante che gira in auto decisamente più eleganti.

La mia auto non è quella dei miei sogni ma non lo sono neppure quelle in cui si muove la classe A e B della società recifense, Land Rover, Bmw, Audi, marche che fino a qualche anno fa erano eccezioni e ora sono presenza costante nel sempre più infernale traffico metropolitano. L'auto dei miei sogni sarebbe in verità una col motore elettrico, che non dipendesse di benzina e non inquinasse, che più che sogno lo chiamerei illusione. Con tutti gli avanzi tecnologici raggiunti e impiegati nel settore automobilistico, non si è ancora voluto mettere in pensione l'antiquato motore a scoppio, che definirei in questa sede come l'organo di dipendenza personale dal dio petrolio.

Auto, banca e petrolio, il cerchio si chiude, la triade malefica è completa, non c'è scampo...

Aspetta però, la mia Uno ha un motore flex! Ciò significa che funziona anche con l'etanolo, evviva! Corro subito al più vicino distributore e avvicinatomi alla pompa, noto un piccolo cartello esposto per obbligo di legge dove c'è scritto che per essere più conveniente l'etanolo deve avere un prezzo uguale o inferiore al 70% della benzina. A pennarello poi si legge che in quel posto di benzina la proporzione è dell'84%. Io lo interpreto così, che se vuoi puoi mettere etanolo ma sappi che spendi di più, quindi o sei un idealista o sei un coglione.

E penso a Lula... che tristezza, che delusione queste sinistre sudamericane nelle quali una decina di anni fa avevo riposto qualche speranza. Ricordo perfettamente il discorso dell'ex presidente operaio: "L'etanolo è il futuro, lo esporteremo in tutto il mondo, sarà il cavallo di battaglia dell'economia brasileira, è ottenuto da fonti rinnovabili (la canna da zucchero) e quindi sostenibile…" (sostenibile: parola che in bocca a politici e impresari fa rabbrividire).
Risulta oggi evidente che al governo non interessa neppure il mercato interno, in quanto solo una piccola percentuale della popolazione è composta da idealisti e coglioni, e intanto la Petrobras, una delle maggiori compagnie petrolifere del mondo, con 50% di partecipazione statale (sigh!) si fa propaganda col “pre-sal”, giacimenti di petrolio nell'oceano atlantico a profondità infernali, e non dice a nessuno che è in deficit perché non riesce a coprire il fabbisogno interno e deve vendere petrolio importato sottocosto perché il governo mantiene i prezzi bloccati per causa dell'inflazione.

E insomma, il mondo va così e la sensazione di essere presi per il culo è forte. Non mi resta che riempire il serbatoio di etanolo e aspettare il giorno in cui questo maledetto petrolio finisca e si chiuda questa triste era dell'umanità. Quel giorno brinderò con cachaça guardando questo caldo sole tropicale mentre illumina i miei pannelli fotovoltaici che caricano la batteria della mia auto... ma forse è solo un sogno di un idealista o di un coglione.

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editoriale di kosmogabri

Sono il nuovo Sindaco delle isole di Lampedusa e di Linosa. Eletta a maggio, al 3 di novembre mi sono stati consegnati già 21 cadaveri di persone annegate mentre tentavano di raggiungere Lampedusa e questa per me è una cosa insopportabile. Per Lampedusa è un enorme fardello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiuto attraverso la Prefettura ai Sindaci della provincia per poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime 11 salme, perché il Comune non aveva più loculi disponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tutti una domanda: quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?

Non riesco a comprendere come una simile tragedia possa essere considerata normale, come si possa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, per esempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76 ma erano in 115, il numero dei morti è sempre di gran lunga superiore al numero dei corpi che il mare restituisce.

Sono indignata dall’assuefazione che sembra avere contagiato tutti, sono scandalizzata dal silenzio dell’Europa che ha appena ricevuto il Nobel della Pace e che tace di fronte ad una strage che ha i numeri di una vera e propria guerra. Sono sempre più convinta che la politica europea sull’immigrazione consideri questo tributo di vite umane un modo per calmierare i flussi, se non un deterrente. Ma se per queste persone il viaggio sui barconi è tuttora l’unica possibilità di sperare, io credo che la loro morte in mare debba essere per l’Europa motivo di vergogna e disonore. 

In tutta questa tristissima pagina di storia che stiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgoglio ce lo offrono quotidianamente gli uomini dello Stato italiano che salvano vite umane a 140 miglia da Lampedusa, mentre chi era a sole 30 miglia dai naufraghi, come è successo sabato scorso, ed avrebbe dovuto accorrere con le velocissime motovedette che il nostro precedente governo ha regalato a Gheddafi, ha invece ignorato la loro richiesta di aiuto. Quelle motovedette vengono però efficacemente utilizzate per sequestrare i nostri pescherecci, anche quando pescano al di fuori delle acque territoriali libiche.

Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoi abitanti, con le forze preposte al soccorso e all’accoglienza, che dà dignità di esseri umane a queste persone, che dà dignità al nostro Paese e all’Europa intera. Allora, se questi morti sono soltanto nostri, allora io voglio ricevere i telegrammi di condoglianze dopo ogni annegato che mi viene consegnato. Come se avesse la pelle bianca, come se fosse un figlio nostro annegato durante una vacanza.

Lettera aperta di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa

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editoriale di Bartleboom

Enrico Letta, 17 settembre 2013:

“Con il recupero della Costa Concordia abbiamo dimostrato a tutto il mondo che cosa è in grado di fare la tecnologia, la volontà e l’efficienza italiana.”

Una volta, da bambino, ho combinato un casino.

Mia madre aveva messo a bollire il minestrone. Poi, non mi ricordo più per quale ragione, si era dovuta allontanare da casa: sarebbe tornata il prima possibile, ma proprio non poteva fare a meno di lasciarmi da solo per qualche tempo.
Al momento non ci ho nemmeno pensato, ma è stato un bell’atto di fiducia da parte sua. Non fosse altro perché alla pagina 1, riga prima, del Manuale delle Giovani Mamme Marmotte si trova scritto: “Non lasciare mai tuo figlio in età scolare a casa da solo con il fornello acceso. Soprattutto se è destinato ad ascoltare heavy medal fino a trent’anni suonati e ad avere un collezione di porno che manco l’autobiografia di Riccardo Schicchi.”

Vabbeh, è inutile tirarla troppo per le lunghe, tanto sapete già come è andata a finire.
In pratica, appena mia madre si chiude la porta di casa alle spalle, io mi fiondo a fare le mille e una cose divertentissime che si fanno da piccoli (ehm…) quando si è a casa da soli: vedere quanta carta igienica si riesce a fare andare giù prima di otturare il cesso, puciare le macchinine nell’alcool e darci fuoco, fare la pìpì dal balcone, eccetera.
Dopo circa mezz’ora che mi diletto della grossa, ecco che un forte odore di bruciato proveniente dalla cucina attira la mia attenzione. Incuriosito, vado a controllare e…

Disastro!

L’acqua nel pentolone si è completamente prosciugata! Le verzure della valle degli orti sono carbonizzate! Tutta la microcucina della BartleMagione è piena di fumo che la puoi usare come set per la pubblicità della Philip Morris.

Immediatamente un pensiero (peraltro piuttosto precoce per un bambino della mia età), trova albergo nella mia mente: “La mamma mi incula”. Subito seguito da: “Ma no! Io sono il frutto dell’amore carnale tra Ella e mio padre! Lei mi ha generato! Lei mi ama!” Tosto sostituito da: “No, no. Mi incula”.

Occorre agire!

Tempo pochi secondi e mi metto all’opera.
Spengo il fornello. Prendo la pentola e la metto sotto l’acqua fredda.
Spalanco tutte le finestre di casa. Gratto via le verzure carbonizzate dal fondo della pentola e le butto nella pattumiera coprendole con altra monnezza in modo da passare inosservate ad un controllo superficiale. Lavo a fondo la pentola e la riempio di acqua calda del rubinetto. Prendo un’altra busta di minestrone dal freezer e la metto a bollire.
Infine, spruzzo deodorante per tutta la casa come se non ci fosse un domani o come se il buco nell’ozono fosse una diceria messa in giro dalla multinazionali farmaceutiche e da Roberto Giacobbo.

Tempo dieci minuti e già me la sbulleggio di brutto: “Non se ne accorgerà mai…”.
Altri dieci minuti e torna mia madre.

Non fa in tempo a mettere tutti e due i piedi in casa che mi arriva uno schiaffo a mano aperta che probabilmente se oggi sono così scemo tutto è partito da lì. E il motivo è presto detto: la puzza di bruciato si sentiva a qualche isolato di distanza e mia madre aveva già capito tutto dall’androne del palazzo.

Disfatta. Scorno. Delusione. Dolore. Lacrime grosse come cedri mi solcano le guance. Il mio piano crollato come il più fragile dei castelli di carta… Ma, quando tutto pareva perduto, quando ormai la mia autostima stava per raggiungere il primo dei suoi minimi storici, ecco che mi vengono rivolte parole di conforto: “Beh, però sei stato bravo a mettere su dell’altro minestrone…”.

Io non so se sia stata colpa di Schettino, della moldava che glielo succhiava quando è successo il casino, della Guardia Costiera che non ha vigilato, di tutti quelli che sapevano di ‘sta puttanata dell’inchino, e si sono limitati a pensare che era una roba figa.
Però sulla Costa Concordia sono morte delle persone. Alcuni corpi non sono ancora stati ritrovati. E io non ci vedo davvero nulla per cui essere orgogliosi.

La frase di Letta che ho citato mi ha procurato un fastidio quasi fisico.
Perché è come se ci si fosse pavoneggiati per avere messo un bel cerottone su una gamba amputata per sbaglio col tosaerba.
Che poi, no. Non è nemmeno quello che mi fa così incazzare. Il motivo per cui non guarirò mai del tutto dal mio reflusso gastrico è l’ostinazione con cui cerchiamo attenuanti alla nostra incapacità. È il “volemose bene", che, sì, magari facciamo schiantare le navi per fare i guitti, ma siamo dei geni a disincagliarle.

Quello che davvero mi urta è l’autoindulgenza.
L’autoindulgenza di un popolo e di un paese sempre più inetti, sempre più ingiustificabili.
Un popolo e un paese che non hanno ancora capito (o fanno finta di non avere capito) che i bravi bambini non sono quelli che prendono un’altra busta dal freezer, ma quelli che il minestrone non lo fanno bruciare.

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editoriale di Paolo

"Ho messo nei guai me stesso e i miei uomini a causa della mia disattenzione e a causa della mia ingenuità. Mi sento in colpa per i miei sbagli, non me ne faccio una ragione. Porto addosso il peso degli anni che passano e sono cosciente di star crescendo sempre più freddo. Purtroppo sto invecchiando e sto perdendo le forze e i capelli. Guardami! Non puoi vedere altro che un vecchio uomo che un tempo ha creduto di essere Dio.

Un tempo ero davvero forte, insensibile al freddo, insensibile alle variazioni di temperatura, severo e cinico. Supportavo la violenza, pensavo fosse necessaria; non ho mai pensato di essere nel torto. Nonostante la morte dei miei soldati scelti e nonostante la caduta dei miei migliori artiglieri, ho continuato ad incitare i sopravvissuti a uccidere e ad essere uccisi se necessario.
Ora mi rendo conto di averli indirizzati verso un’inevitabile sconfitta. Giocavo e conducevo un gioco infernale, un gioco per il quale milioni di uomini morirono. Il fervore non è mai mancato, i soldati a me subordinati caddero con le armi: essi non gettarono mai la spugna in nessuna situazione e per nessuna ragione al mondo. Loro non sapevano (nemmeno io) che non avrebbero ottenuto niente.

Mentre mi incammino attraverso il giardino guardo le case dei miei vicini, e mi struggo pensando che gli uomini che vidi morire davanti ai miei occhi potrebbero avere avuto esistenze ordinarie, prima della guerra, delle famiglie felici e spazi per muoversi liberamente.
Sono sopravvissuto ma vorrei morire, non una volta, ma cento per tutti gli sbagli che ho commesso nell’arco della mia triste vita. Il mio unico nemico è il passato, ma sto imparando a conviverci, a sopportarlo, perché so che non è possibile dimenticare".

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Queste parole che risuonano di frustrazione sono le parole di un vecchio uomo malato e bavoso, lasciato al suo destino, un uomo che non si fida del mondo, che non crede nel futuro, e tanto meno in una redenzione.
Tutto quello che quell’uomo spera è che questa testimonianza venga letta da qualcuno che la tramandi ai posteri a sua volta.

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editoriale di Ancora D'Oro

Questo è un cazzo di sfogo, una cazzo di confessione di un cazzo di problema: soffro di iperidrosi palmare.
Che cacchio è? Presto detto, mi sudano le mani. Quasi sempre, forse tranne mentre dormo.

È dall’adolescenza che sono attanagliato da questo problema che, pare, colpisca l’1% della popolazione mondiale. Perché cazzo proprio io dovevo cadere in quella sfigatissima percentuale? L’iperidrosi è un problema inverso, nel senso che tutti quelli che si imbattono in una “sudaticcia” stretta di mano pensano ad una cosa corretta in senso assoluto, ma errata nel suo verso.
Il pensiero comune, grossomodo, è questo: “Minchia, che è ‘n’anguilla? Questo è un timido, insicuro, psicolabile e sfigato.
Esatto, ma sbagliato! Cioè, l’iperidrosi deriva da un problema fisico di trasmissione di impulsi sbagliati del sistema nervoso simpatico. Ovviamente, in questo caso, di simpatico non ha nulla, anzi dice delle gran cazzate ai neurotrasmettitori che pompano aceticolina alle ghiandole sudoripare e queste, anche se non è il caso, iniziano ad espellere sudore e anche in maniera inconsulta da pori collocati anche in posti come le mani e i piedi.

Quindi nasce come problema fisico e diventa dramma psicologico successivamente e non il contrario. Così l’iperidrotico è sì sfigato fin dall’inizio, ma diviene timido e insicuro a causa dell’errato funzionamento sistemico. Il massimo della sfiga è, poi, trovare lavoro in un ufficio a contatto con il pubblico e vedere tutte quelle belle facce sorridenti di persone che arrivano con la mano tesa, pronta per essere stretta nella morsa appiccicosa. La tecnica è quella di stringerla forte, in maniera rapida ed energica; per esperienza so che dà meno fastidio, visto che la situazione peggiore, narrata dai più, è quella della mano molle, sudaticcia e trattenuta.
È così, cazzo, non ci posso fare niente e poi la mano me l’hai data tu, chi minchia t’ha detto di darmela! La prossima volta mi saluti a voce e basta. E infatti è così, e, mano a mano chi torna nel mio ufficio, bruciato dall’esperienza, tiene le mani ben distanti dalle mie.

Nell’iperidrotico palmare di grande esperienza, come sono io, scatta un sesto senso. Osserva e memorizza i gesti, le peculiarità delle persone che incontra, cerca altri “simili” e li individua con estrema facilità, perché la gestualità è la sua stessa e opera a difesa creando una sorta di barriera immaginaria, a protezione del suo orribile stato. Questo atto, quasi inconsapevole, è l’avvio della timidezza e dell’insicurezza, derivate soprattutto dal blocco a relazionarsi fisicamente con il resto del mondo.
Soffre, il sudato, soffre dentro e soffre per tempi lunghissimi, tramutando il problema in ossessione, spesso in un vero e proprio complesso di inferiorità o, quanto meno, di diversità.
Soffre e gli brucia l’anima, rendendolo ora cinico e misantropo, ora amorevole e sensibile, ma sempre scosso in un crogiuolo di sentimenti che richiamano Eros e Thanatos, amore e morte.

Così ti isoli e ascolti il tuo cazzo di progressive, ma questo è un altro problema. Lo so, ci sono le soluzioni. Esiste un’operazione, anche se molto complessa e delicatissima, esiste il botulino, esiste un lungo ciclo terapico di elettroforesi.
Poi pensi che fino qui ci sei arrivato così, che una famiglia e degli amici te li sei fatti a prescindere e dici: “Vaffanculo mondo, io ci sono lo stesso e dopo ho confessato, qualcuno in più mi capirà.

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