editoriale di Precisino

Per scrivere un editoriale, bisognerebbe aver qualcosa da dire.
Il problema è che io non ho nulla da dire.
O meglio: ne avrei di cose da dire.
Ma perché?
Oggi l’unica forma di comunicazione sta nel non detto.
Asciugare. Come un tempo la pasta al sole.
Tutti parlano di tutto. “A schiovere” (letteralmente “a spiovere”, significativamente “a cazzo di cane”), come si dice dalle mie parti di un'altra vita, sovente, senza cognizione di causa e, soprattutto, senza pudore.
Abbiamo perso il senso della foglia di fico.

Un mio amico filosofo, morto troppo vecchio per entrare nel mito e troppo giovane per passare alla storia, diceva che l’umanità si poteva salvare solo con un bel periodo di oscurantismo, una trentina d’anni almeno (ed erano appena gli anni ’80, sarebbero già finiti!). Il non sapere nulla di nulla. “Via dal tanfo, via dal tanfo e per le strade...”. L’inconsapevolezza leggera della vita. Il rendere evento il parto d’un maiale, o la moria di polli del tuo vicino. L’apprezzamento della stilla di sudore prodotta da un corpo affaticato, teso non allo scolpire addominale, ma al semplice faticare.
Ma attenzione: lui non era un luddista, come non lo sono io d’altronde, ma aveva i piedi ben piantati nella terra e, tra le rughe precoci, gli scorreva il mar Mediterraneo. Era un operaio, e amava gli Stones, che aveva visto dal vivo a Napoli nel 1982, carico di sogni suoi e “endovenati”. Vi dico questo solo per allontanare, eventualmente, l’immagine del Buddha de “noantri” o del JimMorrison “der Tufello”.

Un semplice uomo. Che errava (nel doppio senso del verbo) e pensava semplicemente col solo contenuto del suo cranio.
E oggi riderebbe, come vorrei essere in grado di farlo io, senza protervia perché non era roba sua, di tutto quello che si sente in giro.
Ma, d’altronde “oggi chiamano filosofi sé stessi, gli insegnanti di filosofia”… tre puntini sospensivi come da copione.

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editoriale di Geo@Geo

Ogni tanto - che sempre più spesso è “ogni sempre” - mi ritrovo inca***ta come dice il zelighiano Gioele Dix. Non ho l’aplomb e gli occhiali scuri del personaggio, ma i maroni in terra sì.

Linee Guida (LG) in ogni dove. Su Google ne trovi un’infinità con gli acronimi più fantasiosi: per il MIUR e l’INRAN, per una sana alimentazione, per l’SGSS e l’AIC, per il disaster recovery delle pubbliche amministrazioni(?), per il WCAG (queste riguardano il Web), per una sana alimentazione…
Dimenticavo: sapevate che esistono LG per la definizione delle terre e delle rocce da scavo?

Le Linee Guida in pratica sono un insieme di raccomandazioni messe su per cercare di rendere appropriato “un comportamento desiderato”.
Un comportamento desiderato? Ma allora stiamo parlando di buon senso, intuizione, esperienza, cultura, buona educazione, onestà intellettuale e morale.
Ah, ecco, adesso si capisce meglio, ma non le sopporto più lo stesso.
Comunque, non vi vorrei apparire così scriteriata e quindi vi propongo delle belle LG: vuoi mettere un pizzico di auto-ironia?

Ma sì, ma va bene, continuate con le LG, tanto chi ne è schiavo sino in fondo? Forse una categoria c’è: quella dei decerebrati , intesi come quelli che non hanno idee proprie, ma tanta voglia di “adeguarsi al pensiero comune e/o di tendenza”.

Vuoi vedere che codeste LG sono la cosa migliore che ci può capitare in questo mondo decerebrato di globalizzati? O era in questo mondo globalizzato di decerebrati? Non ricordo il primo pensiero, ma che differenza fa…
Facite Vobis.

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editoriale di kosmogabri

Ci sono dei fine settimana in cui mi capita di portare fuori il cane, dove stanno i miei. Immancabilmente, implacabile, mette il muso a terra appena uscito dal cancelletto di casa, scende la via per cinquanta metri, gira a destra, rasenta tutto il muro fino al viale. Poi attraversiamo il viale, e lui, sempre naso a terra, tenace, testardo, arriva fino al palo giallo della fermata del bus. Annusa, e piscia.

Linea 2 Bis. Il cane non lo sa che io la linea 2 Bis l’ho presa quasi ogni mattina, per otto anni, quando facevo le medie e le superiori; prima della sua nascita, prima della nascita dei suoi genitori e forse anche dei suoi nonni, insomma prima del suo pedigree. E non lo sa che il palo della linea 2 Bis era un traguardo ed un punto di partenza, ogni giorno, quando mi alzavo dieci minuti prima che arrivasse il bus, milavavomivestivofacevocolazioneecorrevodirettamenteinstradasenzaessermimessolozainoaddosso.

Per otto anni ho preso quasi ogni mattina il bus che mi portava a scuola e che arrivava alla mia fermata già pieno della gente del quartiere prima e del paese prima, così che io e i due tre della fermata – che non conoscevo, e con cui non parlavo perché ero sempre in ritardo – dovevamo salire a spintoni, stringerci sulle porte, e sperare che si chiudessero.

I giorni peggiori era quando pioveva, perché c’erano molte più persone, e di salire non se ne parlava nessuno, dovevi aspettare la prossima corsa che ti faceva arrivare in ritardo, o sperare nella pietà della vicina di casa che portava le figlie alle private e ti dava un passaggio in Mercedes, perché i Suv non li avevano ancora inventati e il Pajero lo usavano i mariti.

I giorni migliori era quando era bel tempo e si faceva primavera, c’era meno gente e si stava in piedi con un poco di spazio, ne vedevo e sentivo di tutti i colori, del tipo che senso ha che Piovanelli sia andato alla Juve, a me ed a mio papà il Trio che fa i "Promessi Sposi" ha sempre fatto ridere, oggi pomeriggio andiamo in sala giochi e cerchiamo di finire "Dragon Ninja", quanto costa la Best Company di tua sorella, le Lumberjack sono da sfigato meglio le Timberland e via dicendo.

Poi mi ricordo Serena, che stava sempre nel sedile in fondo e non sono mai riuscito a parlarle, finché si è saputo che d’estate aveva trovato uno in piscina e ogni illusione era finita; Paola che era decisamente più grande di me, tanto più grande che a un certo punto non si è più vista salire, e passava davanti alla fermata guidando il maggiolone bianco della madre; Stefania, che metteva i tacchi e un giorno si è messa a parlarmi di Dario Argento, e di quanto belli erano i suoi film, e che il suo preferito era "Inferno", e che sarebbe andata all’Università perché tutto le stava stretto, e che.

E poi c’era M. Metto solo l’iniziale perché i nomi alle altre li ho messi a caso, mi ricordo più i loro volti che come si chiamavano, o forse non ho mai avuto il coraggio di chiedere, o anche di sentire il loro nome vero.

M. invece la conoscevo, perché andavamo a scuola assieme e faceva la classe accanto alla mia, condividendo le ore di ginnastica e il bus. Di M. ricordo che aveva i capelli lunghi tutta la schiena, e biondi. E i pantaloni stretti e chiari. Lei a volte mi parlava, io stavo zitto, ma poi pensavo a lei nei giorni difficili, come il sabato e la domenica.

Una decina d’anni fa ho provato a cercarla su google, con la speranza vile di non trovare niente, che si fosse sposata con qualche imprenditore o qualcuno di successo o con qualche non so cosa, e fosse sparita: e invece faceva il medico in Bolivia, con le foto del progetto e con tutti i malati e i bambini attorno, con la richiesta di donazioni o di aiuto da parte dei giovani medici di tutto il mondo. E sono rimasto zitto, come stavo zitto sul bus.

Sto scrivendo questo editoriale su un treno di quelli belli – di quelli seri, tipo freccia – in un momento in cui ho il doppio o il triplo degli anni dei passeggeri della corsa 2 Bis della mattina presto, che nel frattempo continua il suo servizio mentre io, e gli altri, ci siamo dispersi altrove.

Vorrei scrivere che sono malinconico, che ricordo con nostalgia i tempi del 2 Bis, che nulla tornerà e che quando ho perso M. l’ho persa per sempre, e che M. non c’è più, oggi c’è un medico nel terzo mondo; che Serena e Paola sono diventate mamme e guidano finalmente i Suv o le utilitarie che costano come le Mercedes; che Stefania sicuramente fa l’aiuto regista a Parigi, o a Londra, o non fa nulla di tutto questo, magari si guarda nello specchio e accende un’altra sigaretta.

Vorrei dirvi tutto questo ma la verità è che non ho nulla da dire, oltre al fatto che per otto anni sono salito su un bus, prima di cominciare a salire sui treni.

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editoriale di enbar77

Dire che "Sono stato a Redipuglia" sembrerebbe un tantinello riduttivo. Ed in fondo lo è. Dà l'impressione di una frase buttata giù con la noia spavalda di un lattante che racconta una improbabile gita scolastica. Magari tra un morso al panino e uno sguardo velleitario alla belloccia della classe.
Questo abbrivio è stato inserito volutamente, per confrontarlo con un più meritevole "Ho annoverato nell'orgoglio la possibilità di aver visitato il Sacrario Militare di Redipuglia". Ecco, funziona molto meglio anche se macchinoso. Per lo meno è degno di ciò che la mia coscienza ha potuto percepire in una giornata fredda, dove il sole non riusciva a filtrare la corazza spessa di nembi minacciosi in stato d'allerta.

Quando vivi in un paese che ti permette di perdere senza sforzo quel poco di dignità o integrità morale strenuamente difese nel quotidiano, sono convinto che in posti come questo puoi ancora trovare qualcosa che dimostri il contrario.

"Non curiosità di vedere ma proposito di ispirarvi vi conduca.".

L’ingresso pretende silenzio e rispetto. Una mano dal cielo ti impone di liberare la mente da ogni cosa. Sono quasi solo, salvo qualche nostalgico e, con vivo stupore, qualche giovanissimo. La quiete del luogo è infastidita per un pugno di secondi dalle poche macchine in transito sulla strada che divide in due il riposo della gloria. Interessante sapere, di fronte alla prima tomba incontrata sul cammino, che il Duca d’Aosta, Emanuele Filiberto di Savoia, ordinò espressamente di essere tumulato accanto i propri uomini morti in battaglia. Oggi un suo infimo discendente omonimo non ha proprio un cazzo da fare.

Nomi, gradi, reparti, settori… in migliaia stampati con rilievo su un bronzo eterno. Vado alla ricerca, senza dissimulare uno stupido orgoglio, di almeno un soldato che portasse il mio stesso cognome, pur non essendo mai stato innestato nell’albero genealogico a cui appartengo. Ne conto quattro o cinque ed è per me un valore aggiunto. Magari bambinesco, ma vi garantisco che nel contesto può assumere una piccola soddisfazione d’acciaio. Continuo a percorrere la scalinata seguendo la linea di una serpentina che ha il potere di trainarti fino alla sommità. Man mano che percorro le pareti costellate di nomi, un senso di inquietudine mi limita il respiro. Un pizzico di commozione mi coglie nel leggere troppe volte, una sola lettera seguita da anonimi puntini.
Un povero dio che non può essere ricordato da nessuno. Potrebbe essere lui, ma il dubbio rimane. Delle sue spoglie resta solo l’iniziale del cognome o del nome, difficile da attribuire a qualcuno che, oltre alla sventura di morire in guerra è stato colto dall’implacabile mannaia dell’oblio. Ad un passo dal milite ignoto. Ne incontrerò a decine con i nomi morsicati dal tempo. Soldato F., Soldato M., Soldato G., che la sorte non impedisca ai posteri di ringraziarvi.

Su ogni gradone appare in rilievo la scritta "Presente”. Nell’insieme è suggestiva ma purtroppo offuscata da un sapore fascista che ritengo indegno. Non a caso il monumento è del 1938, l’anno in cui lo stesso pover’uomo che promulgò le leggi razziali, qualche anno dopo, sulla scia di un folle bruciò la meglio gioventù italiana nel velleitario tentativo di spezzare le reni alla Grecia di quella gran puttana della madre.

Giunto sul Golgota della Prima Guerra Mondiale c’è una cappella che raccoglie la gloria di oltre sessantamila soldati non identificati. Torno giù e prima di accedere al parco del Colle S. Elia situato di fronte, una scritta mi fa sinceramente rinvigorire:
"O viventi che uscite se non sentite più sereno e più gagliardo l’animo voi sarete qui venuti invano.".

Nel parco c’è la possibilità di entrare in trincea e vedere da vicino i mezzi con cui le uniche persone che possono fregiarsi del titolo di Patriota, hanno combattuto, con l’ausilio di unghie e denti per strappare un pezzo di terra all’Austria. I sentieri sono ornati da cumuli di pietre su cui sono apposte delle targhe che declamano atti eroici in versi colmi di puro orgoglio nazionale. Mi permetto di indicarne qualcuno ma sono tutti bellissimi.

Il Fante: "Passasti fra le genti come il piccolo Fante ed ora nella fossa rimbalzi a noi gigante.".

Le Pinze Tagliafili: "Se fur vane le pinze valsero i denti.".

Cappellano Militare: "Soldato della spada e della Croce anche nel sonno vigilo. La voce ascolta. Parlo a Dio, che i cuori ammalia. Dico: - Signore!, e tu rispondi: - Italia! ".

In queste frasi trovo una forza d’animo devastante. C’era sincerità, patriottismo, emozione. Gli stessi fattori che ho rilevato nelle lettere dei condannati a morte della resistenza, gli splendidi epitaffi degli ultimi patrioti raccolte dall’Einaudi. Quegli italiani ci credevano. Sissignore, ci credevano. Non oso immaginare cosa potrebbero pensare se vedessero cos’è l’Italia oggi. Mi guardo intorno, sono solo e mi vergogno.
Nel cuore ho riservato un palco d’onore ad una frase che vale tutta l’esperienza. Una piccola emozione che spero proviate tutti.

Soldato Ignoto: "Che t'importa il mio nome? Grida al vento Fante d'Italia e dormirò contento!" .


Ecco, carissimo amico ad un passo dal Milite Ignoto. La tua umiltà ha un valore immenso e tanto basta per essere stato giustamente rivendicato.
Ho pianto.

che fiko quest'editoriale, allora scrivilo anche tu!

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editoriale di Hank Monk

Si era tutti in fila, pronti per essere giudicati. Remissivi e docili non si pensava ad altro che al proprio turno; certo, si sapeva che non tutti saremmo stati idonei. Io, per conto mio, pensavo ad un mare limpido. Colori saturi e morbidi: l’azzurro di un flutto, una spiaggia dorata, bagnanti con cappelli di pagliuzze e costumi rossi. Mi ritrovavo invece immerso nel grigiore, e non era facile accettare di non essere uno dei protagonisti della mia fantasticheria. La realtà era costituita da colori sgualciti, l’autorità era una cultura austera e auto compiacente; anche un poco boriosa, per dirla tutta.

Io lo stavo accettando, ma non riuscivo più a viverlo con serenità. Tutto quello che desideravo era un bel luogo in cui passare la mia vita, una donna da amare e delle persone di cui prendermi cura. E invece ero lì in fila, sperando in un successo che mi proiettasse in un futuro in cui dovermi mettere costantemente alla prova, spendere le mie energie per un qualche tipo di gloria. Sembra che sia necessario dovere dimostrare di essere qualcuno, come se la nostra abilità in una qualche disciplina ci potesse fornire l’attestato del nostro valore.

Perché bisogna sempre agire? Perché non basta essere?

Stavo rimuginando sulla mia triste condizione quando venni urtato; una voce gentile mi chiese scusa e mi sorrise. Fui molto grato a quella voce sorridente, mi infuse una certa tranquillità.
Sarebbe bello poter godere dei momenti felici anche senza esserne coinvolti in prima persona; il punto è che una cosa non è bella se non ci riguarda, e quel sorriso non mi avrebbe dato nessuna serenità se fosse stato rivolto a qualcun altro. Venni scartato, con infamia tra l’altro; ma quell’occasione mi permise di conoscere la ragazza che si celava dietro a quella voce sorridente e riscoprii il gusto di essere amato.


Il bello di essere amati è che si è amati per quello che si è, non per quello che si fa. Questo comporta una notevole serenità a riguardo della propria persona e della sua funzione all’interno di questo universo. Ed è questa serenità che ci permette di guardare il mondo con sguardo più compiaciuto; di non additare impietosamente alla pochezza della nostra vita, ma di vederla piena anche se vissuta nella nebbia.
Abbandonata l’angoscia di dovere dimostrare, si trova la piena gioia dell’essere: in questo stato riusciamo a godere anche di una brumosa periferia, della compagnia di persone che prima ritenevamo insoddisfacenti e si smette di arrovellarsi nel cercare un senso.

Il senso tuttavia è semplice: è essere felici. Ma per esserlo abbiamo bisogno di qualcuno che ce ne dia il permesso, qualcuno che ci accetti in quanto esseri statici e che non sia interessato ai nostri successi più di quanto non lo sia a ciò che potrebbe accadere durante un ipotetico scontro tra buchi neri.

che fiko quest'editoriale, allora scrivilo anche tu!

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editoriale di kosmogabri

Ci sono cose, più di altre, che riescono a scatenare un fortissimo senso di appartenenza e un campanilismo fuori dal normale. E’ il caso dell’editoriale di tale Jan Fleischhauer, pubblicato sul settimanale on-line della quotata rivista tedesca Der-Spiegel.

Il senso dell’articolo è, più o meno, quello di denigrare l’italiano medio, identificabile in Schettino, il vile, incosciente, fannullone e pavido comandante della Costa Concordia, affondata sulle rive dell’isola del Giglio.

Secondo quel signore tedesco, dimentico di tutto ciò che di malvagio e quasi neppure citabile, la Germania ha fatto al mondo, ecco che se ne esce con frasi secondo le quali il comandante di quella nave non avrebbe potuto essere che italiano, non certo tedesco, non certo inglese.
Lungi da me, con questo scritto, prendere le difese del comandante, vorrei sottolineare come io - e presumo la stragrande maggioranza dell’uomo medio italiano - non abbia nulla di identificabile con quel personaggio, così negativo, unico e isolato nel suo gesto insulso.

Quindi, caro scribacchino tedesco, sappia che io posso essere considerato un italiano medio, uno che vive del proprio lavoro, che non truffa, non corrompe, non delinque, con una coscienza grazie alla quale tenta di fare il meglio della propria vita, senza voler strafare o pretendere l’impossibile. Capita, a volte, di voler fare qualche passetto un pelo più lungo delle gambe, ma sono solo attimi, stroncati dall’imperante crisi generalizzata.

Come italiano medio, prima della laurea, per mantenere i miei studi e prima di poter indirizzare tutte le mie forze nel mestiere che ho scelto per la mia vita, ho fatto un po’ di tutto: il barista, il cameriere, il muratore, il rappresentante e anche il bagnino. E’ proprio questo ultimo mestiere che mi fa ricordare un episodio nel quale un suo concittadino tedesco, decisamente incosciente e forse un po’ stupido, pensò di poter fare il bagno con un mare mosso ben al di là delle sue possibilità. Ebbene, a rischio della mia vita, lo salvai prima che la corrente lo facesse schiantare sulla scogliera. Le assicuro che la mia vita fu messa davvero a repentaglio per il gesto del tutto sconsiderato del suo connazionale. Be’, ora mi piace immaginare quell’uomo, allora sulla sessantina, come suo padre e pensare che se io non lo avessi salvato, lei non esisterebbe neppure e l’articolo, così sconcio, nei miei confronti e di tutti gli italiani medi, forse non lo avrebbe scritto nessuno.

Tutto questo pur comprendendo la filosofia del cittadino medio, già, perché quando in estate vediamo un tedesco dalla pelle bianchiccia, rotolarsi al sole, unto e bisunto di improbabili oli solari, con al suo fianco innumerevoli lattine di birra, e rivederlo verso sera praticamente ustionato, rincoglionito dal sole e dalle birre, passeggiare con la sua enorme pancia rossa e i suoi sandali in cuoio con i calzini, ecco, mi viene proprio da pensare che quello sia uno stupido e ottuso tedesco medio.

Forse innocuo, ma al quale non affiderei neppure il compito di farmi funzionare un frullatore.

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editoriale di fosca

Per varie ragioni, da qualche tempo alla mattina esco abbastanza prima del solito per recarmi al lavoro, e volendo variare un po’ la routine ho anche deciso di cambiare tragitto e quindi mezzi di trasporto. Più di uno, purtroppo. Il tempo che perdo in questa occasione è abbastanza considerevole ma lascia spazio a molte riflessioni, sempre che se ne abbia voglia già a quell’ora.
Abitando a Milano ed avendo un’affezione particolare per questo mezzo, la prima parte del tragitto (prima di inabissarmi in metropolitana) la passo sul tram, possibilmente in zona finestrino con musica in cuffia, anzi cuffiette, ci tengo a sottolineare: non sono fautrice del ritorno alle “cuffie dimensione Rischiatutto” per l’ascolto stradale. Ho quindi modo di osservare le persone che incrocio, quelle che mi si muovono intorno, a volte al fianco, o sui marciapiedi, habitués come me della fascia oraria di primissima colazione, quelli che a volte hanno ancora le righe del cuscino stampate sul volto, o i capelli schiacciati sotto il peso dei sogni. Mi piace sbirciare le espressioni, indovinare gli umori dalle rughe di queste, provare ad immaginare il tipo di lavoro dall’atteggiamento o dall’abbigliamento per quanto l’abito non faccia il monaco, specie nelle metropoli.

Certo, e nelle metropoli è abbastanza usuale che gli stati umorali e le espressioni facciali di cui sopra siano fin dalla mattina presto sull'incazzoso andante, specie in spazi di poco più di un metro quadro, da condividere con minimo altre nove persone ridotte a sardine, con le quali ci si riduce ad avere più intimità che coi propri cari la sera…

Quello che mi colpisce maggiormente è l’attività frenetica da formicaio degli addetti al lavoro di portineria nei palazzi condominiali, per signorili o modesti che siano.
A quell’ora li trovi già tutti fuori, sul marciapiede adiacente, rossi paonazzi per il freddo pungente del mattino invernale, con sempre le stesse giacche, con la loro canna dell’acqua che brandiscono stile frusta e la loro scopa a prova di asfalto, lì che puliscono e puliscono e puliscono ogni mattina gli stessi trecento centimetri quadri di androne, di marciapiede, di passo carraio con la stessa cura e gli stessi gesti di ogni mattina.
Passandogli a fianco quasi ti viene voglia di chiedere scusa per la tua invadenza e le tue suole non proprio monde che vanno a rendere del tutto vano lo stesso rito del giorno prima e di quello prima ancora.

Ed ogni volta non posso fare a meno di chiedermi che senso abbia (far) pulire l’asfalto non tanto ovviamente da tracce di urina umana e non, o a volte da bottiglie, cartacce e sputi, quanto piuttosto da quei pochi variopinti petali secchi volati da balconi striminziti, quelle poche foglie morte di dimensioni lillipuziane lasciate da alberi decennali che a dispetto del progresso affondano le loro radici nell’asfalto, contro ogni logica umana e buon senso, o da quelle centinaia di migliaia di passi che da anni solcano marciapiedi e vite umane, raccontando chissà quali storie di miseria o felicità, gioventù o decadenza, di parcheggi disperati e richiesta di elemosina, di capannelli di ragazzi davanti ai citofoni o all’aperitivo del bar a fianco.

Mi stupisce ancora questa ostinazione a fornire un decoro di facciata, proprio quando si sa che quello che si vorrebbe lustro e lindo non è il parquet del salotto buono ma il marciapiede di catrame antistante il portone condominiale, ma che proprio i condomini vogliono lindo. E quindi ogni mattina ed in ogni angolo della città, loro sono lì, caparbi e a decine, a condurre la loro battaglia personale e irrisolvibile contro l’asfalto, contro il perbenismo borghese e il bisogno altrui di avere sempre il controllo su tutto, perfino sull’assurdo.

Una di queste mattine lo faccio… ne fermo uno a caso e glielo dico: “Lascia stare, tra mezzora è come ieri. Piuttosto vatti a prendere un caffè al bar, ce l’hai proprio di fianco. Vedrai che non se ne accorge nessuno”.

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editoriale di Geo@Geo

Non so se sia permesso linkare in un Editoriale, ma questo è L'Editoriale per eccellenza: 25 Gennaio 2005. Non sono poi tanti gli anni che ci separano da quel fatidico giorno e non mi pare che nel frattempo le cose siano cambiate talmente tanto da far parlare di "DeBaser in procinto di morire…" (cit).

Gli ultimi cambiamenti, che hanno fatto storcere il naso ai conservatori, sono forse solo apparentemente "commerciali", in realtà movimentano il sito e permettono interscambi in diretta: esattamente come in una chat!

Chi, con queste novità, entra in chat dove il numero dei partecipanti è ovviamente limitato? Ma quando mai rinunceresti ad interloquire con chi vuoi, quando vuoi e dove vuoi? Ma perché mai rinunciare a quel pizzico (?) di esibizionismo, che ti permette di far vedere quanto sei figo (o fiko) a tutti i debaserioti connessi in quel preciso momento?
Non me ne frega una cippa se i lettori penseranno alla solita sviolinata da parte di Geo: sono adulta e vaccinata, e di sicuro non mi preoccupo di dire (o scrivere) quello che penso (qui ci vorrebbe una faccina impenitente!). Ohibò!

Arrivati a 'sto punto, ci si potrebbe chiedere (ma anche no), che c'entra il titolo; vi darò solo un piccolo indizio: quello che sembra, non sempre è, ed il film lo descrive bene!

PS: Come ha detto una mia amica, auguro a tutti "Buon Tempo e Tanta Forza.".

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editoriale di kosmogabri

Cerco il nome della modella che guardando in macchina dice "Cchiù grossa è a minchiata!" dopo che Fiorello ha detto "Chiù longa è a pensata!" e finisco nel coso twitter di Fiorello e trovo una twittata di un Dolce e Gabbana, che nel caso in ispecie è il Gabbana, tocco il link e finisco nella cosa di twitter del Gabbana, dove il Gabbana, che scrive twittate che sembrerebbe mio nipote, avessi un nipote (avessi un nipote proprio a Gabbana dovrebbe somigliare? Anche no, appunto.) ha messo un link. Clicco anche quello (ma non hai proprio un cazzo da fare? E invece no, solo c'è qualche pausa tra un cazzo e l'altro, scusate il francesismo).

E sono magicamente di fronte a Don Lurio e Lola Falana.

Ora, non sto a dire (anche se a dire sembrerebbe canonicamente destinato un "editoriale") quel che m'è parso, nella sua semplicità, questo "Testa spalla" completo.
Anzi, vedete voi e poi dite voi a me, se vi garba. Ma segnalo il commento sottostante il filmato, di Candykikka, undici mesi fa. Io sono abbastanza antico da ricordarlo, nel senso che ricordo di averlo visto, quel balletto, dentro un televisore in biancoenero (chissà perchè si ricordano cose così e si riescono a dimenticare cose indimenticabili).

Candykikka no, non l'ha visto. Candykikka non era nemmeno concepita come possibilità antropologica mentre la Rai mandava in onda "Hai visto mai?". O forse si, ed è stato realizzato proprio per lei, questo piccolo leggerissimo e disarmante miracolo catodico, dalla preveggenza coreografica di Don Lurio, per una futura generazione che avrebbe chattato, twittato e sciallato.
E la dice bene, benissimo, Candykikka, questa minuscola nostalgia, che mi ricorda Borges (pensa che deprecabili associazioni riesce a produrre una mente corrotta), per un passato altrui...

Dice: "E' possibile che mi manchi un tipo di tv che non ho mai visto?" Mi ha strappato un sorriso, Candykikka.

Mi ha ricordato cosa mi accade quando, ad esempio, nell'inquadratura in bianco e nero entra Mitch o Ava Gardner. E poi giri canale e, se ti va bene, ti becchi Massimo Ghini. E la Buy. Ma questo è ancora altro, un'altra "longa pensata" destinata a produrre "grossa minchiata", che Vi/mi risparmio, ed esula dall'intento.

L'intento era un bacino a Candykikka. E una risposta: "Sì, è possibile.".


P.S.: mi tocca scusarmi se questa roba qui sostituirà in home page il precedente DeEditoriale "Itaca Hotel", la spietata rotazione DeUniversale mostra il suo volto beffardo per mia mano.

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editoriale di kosmogabri

La cosa migliore, da sempre, è il mare fuori stagione. Fuori stagione vuol dire non in estate: troppe persone, troppo caldo, troppa sabbia, troppe barche, troppo Righeira, troppo "abbronzatissimo in preda ad uno spasimo", troppo; ma non vuol dire neppure in inverno, troppo vento, troppe onde, troppo vuoto, troppo Ruggeri-Bertè, troppa estate che se ne va e quando torna “sai a me cosa fa”, troppo pure qui.

Il migliore dei fuori stagione, per me, è l’autunno, meglio se ha quella coda di caldo che ti rende libero di camminare, fra gli odori di ultimi fiori che sbocciano, scambiando la fine del beltempo col suo inizio, come chi scambia gli ultimi anni di vita con la sua adolescenza, e prova a ripartire nei locali da ballo che vedo lì in fondo, sulla strada, “aperti tutto l’anno”. Ovviamente, con orchestra “dal vivo”, che poi vuol dire voci e cori su basi registrate tanti anni fa.

Fuori stagione è l’inizio dell’ultimo ottobre, un sabato pomeriggio libero all’improvviso, una finta qualsiasi per ritrovare due ore di silenzio, e via lungo il braccio del porto, due chilometri che si protendono verso il mare, fanno un lieve deviazione verso sinistra a metà cammino, ed in fondo fino al faro rosso, che non ha mai salvato nessuno, non serve a nessuno, ma farà luce anche stasera, come allora, come sempre e come domani, per chiunque incroci questo orizzonte.

Se sei bravo, se prendi l’angolazione giusta ed impari a dimenticare, in fondo al braccio del porto puoi fingere di essere nel pieno di quell’orizzonte, puoi ignorare la città alle tue spalle e rimanere perfettamente sospeso fra l’azzurro mobile del mare screziato dalle onde, e l’azzurro immobile del cielo senza una nuvola, col riverbero di un sole troppo debole per scaldare, ma troppo vivo, ancora, per fingere un calore che non c’è.

Una finzione di azzurro, ed una finzione di solitudine, circondato da pescatori che cercano questo posto per veder emergere dal mare pesci che non porteranno mai a casa; nuotatori del quartiere della marina, con mazzi di carte, birre e tavolini improvvisati per giocarsi gli spiccioli a carte e far saltare il banco quando i conti non tornano; una giovanissima coppia che rivive le vacanze appena trascorse in una di quelle goffe passeggiate a due che puoi fare solo se hai la testa dell’adolescente, a qualunque età; la donna incinta che prende il sole mentre il marito parla con l’amico invadente a proposito della nipote che calcia il pallone come un uomo, ed è pure una bella ragazza, e tutto “addàvenire”.

Tutto “addàvenire” e tutto “passinnanzi” in fondo al faro, in mezzo al finto oceano dove si spalancano i finti infiniti di un piccolo golfo, mentre stai in una pozza ai margini del mondo, che se lanci una pallina giusto all’altezza dei tuoi occhi – ipotizzando l’assenza di attrito di gravità di ostacoli – ti tornerebbe tutto indietro dopo essere passata dalla Grecia, dall’Egitto, dall’Oceano indiano, pacifico, Polo Nord, Islanda, dall’Irlanda e dalla Francia.

Ti tornerebbe tutto indietro, perché nulla, davvero, se ne va, come se dall’ultimo orizzonte cominciassero a spuntare le vele, e dopo di esse le barche, e sulle barche tutto quello che hai perduto, e che hanno perduto gli altri prima di te: e così vedresti la parente che non hai mai conosciuto “perché è morta a diciotto anni poverella, e la madre poi di crepacuore”, lo zio anziano che ha tentato di suicidarsi a novant’anni “ma poi l’hanno salvato ed è morto sereno nell’ospizio dietro casa”, la classe delle elementari e la gita a Venezia che “poi non ci siamo più tornati”, l’ellepì che avevi prestato a quelli di Roma e chissà che fine ha fatto, la cosa che hai scritto questa mattina e l’hai persa perché word non funziona bene, il sorriso che hai dimenticato e quello che non hai restituito, gli occhi verdi e i capelli sciolti, il pallone andato al largo ed i fastidi di ogni età, perché essere felici è possibile, ma anche no.

Prendo e me ne vado perché mi aspettano, dando un ultimo saluto alla donna incinta, che guardava il mare come me. So che è una bambina. Non so nemmeno se qui ci torno; ma sarei felice se la bambina vedesse, un domani, tornare me.

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editoriale di JURIX

Sabato 15 ottobre abbiamo assistito tutti alle immagini provenienti da Roma; inutile ripercorrere la giornata e le devastazioni, più intereZZante porsi degli interrogativi scientifico/matematici ai quali numerosi tuttologhi, politichesi ed ex-calciatori fidanzati con ex-veline hanno invano tentato di rispondere.

InnaZituttolo: chi sono questi black block? Nessuno lo sa, anche se nessuno li ha visti, ed è molto strano perché quando una cosa non si vede, solitamente tutti sanno cos'è. Ed allora ci tocca procedere per intuiZioni ed ipotesi. C' è chi parla di tecnici del CERN di Ginevra impassamontagnati; si spiegherebbe con ciò il fatto che si sono teletrasportati dall' estero per poi, alla fine della manifestazione, smaterialiZZarsi. Altro che neutrini.
Aggiungo che, durante il corteo, alcuni esemplari di Blackus-Blockum (espressione latina un po' razzista che significa: "Bloccalo! E' un negro!") sembravano godere pure di una certa invisibilità, come racconta Peter Venkman dei GhostBusters nello svolgimento del servizio d'ordine.

Numerosi cittadini che si recavano al parco (perché in TUTTE le sommosse e/o manifestazioni, c'è qualcuno che va al parco, anche se la città non ne ha uno) riferivano poi di ragazzi col volto coperto che si intrufolavano nei tombini e nelle fognature, ipotesi che avvalora l'uso di maschere antigas; un certo Asdrubale Mangiatassi raggiunto dalle telecamere del "Processo di Biscardi" (fiondate sul posto tra i lacrimogeni alla ricerca della partita causa degli scontri in questione) afferma oltretutto di avere visto il maestro Splinter e forse anche una tartaruga Ninja.

Ma il mondo scientifico/ortopedico ne sa ancora troppo poco, d' altronde, sembra sia veramente impossibile da parte della polizia contattare od avvicinare uno di questi "incappucciati", riferiva un black block durante la sua intervista ad un giornalista di Repubblica.

E mentre l' ufficio-stampa dell' Udeur diffondeva una nota di biasimo all' Odeur (Organizzazione Devastazioni E Usurpamento Roma) nella quale si criticava il fatto che nei numerosi insulti ai vari leader politici non ci fosse traccia di qualcuno che sapesse chi è Mastella e D' Alema rilasciava una breve intervista/sermone di tre ore nella quale partendo dal corteo degli Indignados finiva per parlare di bicamerale e Pds, i misteri si infittivano, chi asseriva che i devastatori avessero due telefonini a testa (e subito qualche giornalis... ehm... qualcuno di "Libero" scriveva di getto un pezzo contro le intercettaZioni) e chi smentiva tirando in ballo la telepatia.

Ci si è trovati davanti pure a sdoppiamenti di personalità: mentre una nota del Ministero degli Interni parlava di anarchici addestrati in Grecia (paese famoso per i suoi CFT, Centri Formazione Terroristici, gestiti da mujahideen del PAOK Salonicco), il Ministro Maroni dichiarava che i black block erano "TUTTI italiani", con grande sollievo da parte di alcuni leghisti ed esponenti di La Destra; il "made in Italy" prima di tutto. Anzi alcune voci che giravano al molo 13 parlavano del sequestro di venti container di black block contraffatti e non conformi alle norme UE provenienti dalla Cina.

Ma ora che la matematica ci viene incontro dicendo per voce del ministro dell'Interno che i delinquenti erano 3'000, bisognerà mettersi d' accordo con la questura che sembra avesse contato 2'700 partecipanti alla manifestazione.

In conclusione, io non so, gli enigmi sono tanti, ma prima di vedere in azione Vespa che ha già ordinato il plastico del black block o la puntata di "Voyager" dove Giacobbo mette in relaZione l'apparizione degli incappucciati con le sacre scritture e naturalmente coi templari, mi sento di raccomandarvi una cosa: se in piazza al vostro paesino vedete passare il sub-comandante Marcos o Rey Mysterio, chiamate la Guardia Forestale.

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editoriale di sfascia carrozze

Allora:

devono bloccare le intercettazioni per salvare il puttaniere (ieri Libero titolava "Silvio come Amanda" (!)). Partono dicendo bòn, blocchiamo tutto. Esagerano, consapevolmente.

Qualcuno dice porca vacca, qui chiudono tutto. Gente che spesso non sa nemmeno di cosa parla comincia a diffondere la notizia.

Panico.

La minoranza di italiani che usa un po' l'internet si indigna. L'opposizione (che fino a questo punto manco sapeva di cosa diavolo si stesse parlando) cavalca l'indignazione. Caos di dichiarazioni da parte di gente che non c'entra un cazzo con la questione e nemmeno è in grado di capirla, figuriamoci spiegarla.

Bòn, dicono, adesso dichiariamo che i blog non rientrano nella normativa. E neanche wikipedia, aggiungono.

Blog? Wikipedia? Casso xei, dicono a Mestre.

Per salvare l'anziano puttaniere questi sono disposti a fare qualunque cosa, ma evidentemente non è così semplice, perché l'anziano puttaniere ne combina troppe. Per dire: l'anziano puttaniere non è mai stato intercettato. È che parla al telefono con trafficanti di puttane (e droga) e loro sì che vengono intercettati.

E quindi cosa si fa? Si bloccano le intercettazioni di chi traffica in puttane e droga? Sì, ci si prova. Però, insomma, suona un po' male. Cioè, qualcuno potrebbe anche incazzarsi, hai visto mai.

Allora fanno un gran casino, minacciano di chiudere tutto il mondo, così poi quando ne chiudono solo una piccola parte son tutti contenti e tutti hanno vinto.

'Sto paese di merda ha rotto i coglioni.

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editoriale di kosmogabri

Se chiudo gli occhi e immagino i profumi d'infanzia della campagna lucana, quella in cui trascorrevo i tre mesi di vacanza scolastica, ne ricreo due distintissimi: quello del fieno arso al sole, più o meno fino ai dieci anni, e quello, successivo, del gas naturale di sfiato dei primi pozzi di petrolio della Val D'Agri.

Che il petrolio della Val D'Agri copra oggi il fabbisogno nazionale del 10%, con un' area di di trivellazione di quasi cento ettari, è cosa risaputa.
Che il paese Viggiano (natale di mio padre) ne tragga diversi milioni di euro (pare 17 annui) in royalties per concessioni all'Eni, un po' meno, sebbene immaginabile.

Sono tornato in quella terra dopo quasi dieci anni di assenza, con l'idea di girare in lungo e in largo i luoghi dove Pasolini trovò l'ispirazione per il suo Vangelo, di respirare la stessa aria esule di Carlo Levi, di interrogare una regione così timida quando vuole manifestare le sue immense eredità greche, romane, normanne, saracene, spagnole. Una terra che ha laghi e montagne che tolgono il fiato, con calanchi alti fino a quattrocento metri cosparsi di fauna marina millenaria e che promuove l'eolico e gli idrodotti.

Al petrolio neanche ci pensavo più. Persino il suo "profumo" si era fatto più discreto.

Poi però mi sono arrivate all'orecchio quelle parole dai pesci morti del Pertusillo e la verità di quella "offerta" di acquisto delle proprietà dei miei, ché i pozzi devono diventare almeno cento, di altri 70 ettari. Aut-aut, prendere od espropriare.

E allora ho ringraziato la Madonna Del Sacro Monte che i miei nonni non siano arrivati a vedere il Peggio. Anche solo il loro.

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editoriale di MorgueOfAbsinth

Da quando ho compreso la grande coerenza di tutte le genie di fanatici razzisti sparsi per il mondo ho iniziato provocatoriamente a tramutarmi in mostro. Le bionde famiglie ariane dei sobborghi tedeschi o americani, i solitari paranoici che pullulano nelle foreste norvegesi, gli estremisti religiosi che vedono nel secolarismo dell’uomo occidentale la fucina di tutti i mali sono accomunati dall’ammirabile coerente fermezza del proprio odio.

Quando simili individui iniziano a camminare nel mondo dipingono il proprio nemico. E a quel ritratto rimangono fedeli spesso per tutta la vita, proclamando con feroce orgoglio la propria superiorità su negri, froci, ebrei, occidentali, atei, appartenenti ad altre religioni, ad altre etnie, ad altri stati. Fermezza e coerenza, nessuna vergogna nell’ergersi come paladini di un proprio universo immaginario che si staglia come un monolite su fetide pianure popolate da nemici inumani ed inferiori.

La strage compiuta da Breivik in Norvegia è stata la causa che mi ha portato a riconsiderare alcune assunzioni. Nell’isola Utøya sono stati uccisi circa 76 ragazzi appartenenti alle sezioni giovanili del Partito Laburista. La commozione generale è stata grande, foto e video ad alto tasso di emotività si sono susseguiti per lungo tempo, copiose sono scese le lacrime nel ricordare la strage. Ognuno di questi 76 virgulti della buona borghesia europea, multietnica, colta, liberale e antirazzista è stato pianto come martire dell’Europa, come vittima della barbarie estremista. Mi sono chiesto da cosa derivi invece la freddezza con cui è stata accolta la notizia della strage presso la moschea di Jamrood in Pakistan, datata agosto 2011. Eppure anche li sono morte decine di persone ad opera di un fanatico imbottito di esplosivo, persone con storie, volti, sogni, desideri esclusivi.

Allora ho meditato. Ho pensato che se vieni ucciso e sei biondo e benestante, oppure se hai un volto esotico ma un pedigree, socialmente parlando, di tutto rispetto, la tua morte produrrà una commozione che spingerà ad organizzare marce, fiaccolate, sfilate ed ogni altro tipo di ributtante manifestazione necrofila in tuo onore. Se invece il tuo futuro è quello di diventare pastore come migliaia di avi prima di te, se sei coperto da una lunga barba nera e da un turbante, se sei una donna resa invisibile da un lungo velo, la tua uccisione porterà ad un articolo di fondo sui quotidiani ed ad un rapido oblio. Nessuna lacrima, nessuna fervida meditazione sul valore della tua vita spezzata, nessuna intervista ai tuoi tutori universitari. Anche perché all’università non ci vai neppure.

Questo potrebbe anche essere una cosa giusta e ragionevole, ma solo sottostando a varie condizioni. Che nessuno di coloro che hanno pianto per Utøya e hanno taciuto per Jamrood si permetta di discettare poi di lotta al razzismo, di umanità, di rispetto sconfinato per il prossimo. Che tutti questi abbiano il coraggio di diventare coscienti del proprio inconsapevole razzismo, nutrito della convinzione che esista una sola razza degna di pianto dopo la morte violenta: la nostra, quella che dimora nel nostro villaggio ingrandito, quella che realmente è composta da uomini e non da primitivi dalle rozze tradizioni, subumani eternamente in guerra con i quali c’è ben poco in comune.

A dispetto dell’informazione che oggi viaggia rapida e tutto può far sapere di tutto il mondo, restiamo sostanzialmente gli stessi da molti millenni: ma se un tempo si ammetteva l’esclusiva importanza del proprio piccolo gruppo, oggi si pretende di includere nel nostro interesse sincero l’intero mondo; Utoya e Jamrood, l’entità della reazione, totale e nulla, sono qui per indicare la nostra stessa iniquità, la nostra stessa mancanza di coerenza.

In sintesi, il nostro stesso razzismo.

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editoriale di enbar77

Quando Lennon declamava questi versi, nel lontano 1965, sembrava volesse esaltare la qualità del soggetto, tesserne, in un sottile turbine di nuvole psichedeliche, le lodi. Nel mio caso, dei norvegesi, non posso fare altro che lodarne la solidarietà, pazzesca, che ha lasciato un’impronta indelebile nell’archivio dei miei stati emozionali.
Tra le città toccate dall’itinerario di una recente crociera nuziale, ho avuto la fortuna di solcare il suolo di Oslo. Città bellissima, per carità, pulita, ordinata, organizzata, precisa. Tutti fattori che in Italia ci vengono solo in sogno, insomma. Anche molto cara, se si pensa che un biglietto orario per il tram, necessariamente utilizzato per coprire in breve tempo la distanza tra Aker Brygge e il Vigelandsparken (splendido), costa circa 28 corone, ossia 4 euro, beh…

La giornata soleggiata non riusciva a stemperare l’atmosfera pesante lasciata qualche pugno di giorni prima da un lucidissimo squilibrato di estrema destra, Anders Breivik, che ha deciso di cancellare dalla terra novantatré persone tra colpi di fucile ed autobombe. A questo, giusto per farci riconoscere ancora un po’, va aggiunto che due schifosi porci leghisti, Borghezio e Speroni, approvano in qualche modo le idee espresse dall’invasato. Di fronte ai moli era stata allestita una parete su cui applicare fiori alla memoria delle vittime. Qualcuno ha lasciato qualche messaggio. Qualcun altro ha appoggiato dei fiori sui muretti accanto la fermata del tram. Un silenzio pesante regnava privo di ogni contrasto. Raggiungiamo la Karl Johans Gate, una delle strade principali della città e qualcosa mi fa intuire che di espressioni floreali ne vedrò altre. Non si trattava solo di aiuole curate o piazze decoratissime. Non ricordo uno spazio dove non fosse stato apposto un omaggio. Ogni cittadino ha voluto materializzare la propria vicinanza a coloro che sono stati barbaramente mutilati negli affetti. Tra i petali adagiati nell’acqua delle fontane e quelli che galleggiavano tra le schiume di bocche d’ottone. Mazzetti anonimi appoggiati ai piedi delle statue, sui gradini delle scalinate di imponenti palazzi, tra le colonne dell’Università e i sentieri piastrellati del Teatro Nazionale. Qualcuno, per fissarli ai pali dei semafori e dei segnali stradali, ha usato addirittura dei lacci di plastica monouso, di quelli che si utilizzano per raccogliere la cavetteria traboccante dei computers o per persuadere dal furto i ladri di copriruote in plastica delle nostre macchine.

Mai avrei immaginato, però, ciò che ho visto, per puro caso, all’incrocio con la Stortorvet, la piazza che accoglie una bellissima chiesa, la Domkirken Sokn.
Un semaforo mostrava inutilmente i suoi colori. Allo stesso tempo, come se volesse chiedere un’udienza poi inevasa, emetteva anche dei suoni sordi. Nessuno, tranne noi, spostò di qualche oncia lo sguardo per soddisfare una quanto mai inopportuna curiosità impegnata a carpire il significato di quei secondi in decorrenza tra il rosso e il verde. Ci avremmo fatto caso a tempo debito.
Non ho memoria di un’area di notevoli dimensioni, tappezzata da così tanti fiori. Le rotaie del tram e l’asfalto circostante erano stati amorevolmente seppelliti da migliaia di mazzetti, lumini, bandierine e messaggi lasciati da chiunque si trovasse a passarci. Che solidarietà tentacolare.

Non riesco a dire altro in merito, tranne che è stato assolutamente doveroso lasciare un piccolo contributo emozionale a coloro che saranno costretti a soffrire per sempre. E’ stato difficile lasciare la piazza e trovare un equilibrio tra il cuore e la mente. Mai, come allora il tempo si è dimostrato tiranno. Chi avrebbe mai immaginato tanta partecipazione nella fredda Norvegia? Mai visto omaggio così grande. E sono fiero, con mia moglie, di averne fatto parte.
Il giorno dopo abbiamo saputo, dal giornalino che lasciano in cabina, che tutti i fiori sono stati rimossi. In dodici giorni, ne erano stati adagiati a tonnellate e solo sulla Stortorvet coprivano ogni millimetro quadrato di un’area di 50 metri per 30. Inutile dire che l’umanità, in Norvegia, si somma con la saggezza e l’intelligenza. I fiori sono diventati compost, i lumini sono stati tutti riciclati e i messaggi, le foto, le bandierine e i pupazzi, sono ora conservati nel Palazzo del Governo. Per chi non vuole dimenticare.

Isn’t it good, Norwegian… love.

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editoriale di ilfreddo

In quei giorni, che ora appaiono così lontani e sbiaditi, me ne stavo appollaiato a Lisbona a godere un autunno insolitamente tiepido che sembrava essere stato strappato direttamente dalla pellicola di un happy ending con tanto di titoli di coda, musica e vattelapesca. Aria rilassante, quiete, ed ore capaci di scorrere lente e piacevoli: proprio come l'acqua nelle larghe anse di un fiume al tramonto. Le notizie che leggevo in quei giorni d'ottobre 2008 sembravano provenire da Marte, così aliene da me che, tra un paragrafo e l’altro, poggiavo lo sguardo su quelle strade tranquille, festanti e calorose. Il contrasto era così forte che l’impatto di quelle notizie mi arrivava quasi completamente svuotato del suo impatto iniziale. Eppure la prima tessera di un domino lungo un oceano, dopo aver traballato a lungo, era infine caduta. Tranquilli, non voglio parlare della situazione del nostro paese. Non serve proprio che uno stronzetto come il sottoscritto la fotografi più o meno bene.

Il mio pensiero è rivolto verso un’ottica di lungo periodo e di più largo respiro. Ho come l’impressione che in questi tre anni tutta questa informe e cervellotica massa di “esperti”, “politicanti” ed “economisti”, si sia impegnata con furore ed impegno per rincoglionirci e gettarci sabbia negli occhi. Per nasconderci un fatto molto semplice: nessuno sa dove cazzo stiamo andando.

Tralasciando la disgrazia Italia & Co., che paga ora quanto non fatto per decenni, quello che mi preoccupa e spinge a scrivere è che siamo in un periodo difficilmente catalogabile volgendo lo sguardo al passato. L’economia ciclicamente ha sempre avuto momenti di boom alternati ad altri di profonda recessione. E le guerre proprio a questo servivano! Si ammazzavano un bel po’ di persone con le armi, ma il grosso lo facevano le carestie alimentari e le epidemie che ne conseguivano. Venivano distrutti molti edifici, infrastrutture e questo tabula rasa creava la spinta per il nuovo benessere. Fino ad una nuova guerra. E così via. Il problemino è che Alberto e=mc al quadrato aveva ragione quando affermava qualcosa simile a “La quarta guerra mondiale si combatterà con le clave.”. La terza infatti, a suo dire, sarebbe stata molto poco auspicabile. E così la tecnologia ha reso impraticabile, otturato con un megastronzo, la valvola di sfogo che questo sistema nel quale viviamo ha utilizzato per rilanciarsi. Viviamo sempre più a lungo, siamo sempre di più, le risorse diminuiscono. E ora…

Ora è inutile che mi guardi schifato, affermando che sia un pazzo, perché scrivo di volere la guerra! Cazzo, se è questo quello che pensi hai abboccato come un tonno all’amo del titolo senza leggere il contenuto, oppure è palese che la sbornia di ieri sera mica l’hai digerita tanto bene. Come al solito non sono propositivo. Se sei un nerd, amico, mi dispiace deluderti ma mica sono il fottuto Gandalf: non ho oracoli da consultare, bastoni da far ruotare o anelli da cercare.

Oggi avevo solo voglia di dirTi, carissimo de-utente, senza freni quello che mi passa per la testa balorda. Se straccio questa merda di un giornale che ora mi rassicura, e che domani invece mi bastonerà senza pietà, e guardo con i miei occhi il futuro che scruto è incerto e nero. Una nuvola che si allunga per formare in cielo un punto interrogativo che subito si racchiude a pugno, per poi far affiorare un dito medio con tanto di fulmini e saette che manco Zeus! E se non mi viene voglia di mettere su famiglia, impelagarmi in un mutuo, forse non è solo ed esclusivamente per mera pigrizia e bambocciaggine estrema, ma anche per un pizzico di divina illuminazione.

Non mi preoccupa tanto questa crisi attuale, perché volgo lo sguardo oltre e mi sembra evidente che il mondo, più prima che poi, dovrà trovare un riassetto completamente nuovo.
Un equilibrio che per noi privilegiati sarà assai peggiore delle politiche "lacrime e sangue" che i nostri governi saranno costretti a varare per tenere in piedi questo vecchio e decrepito sistema ormai al collasso.

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editoriale di Bartleboom

Premessa n. 1: non sarà un editoriale particolarmente illuminante. Tutt'altro. Però sta cosa ce l'ho qui da un po' e voglio sapere se me la sto prendendo per nulla;

Premessa n. 2: l'altro ieri è cominciato il Ramadan. Niente acqua e niente cibo dall'alba al tramonto. Peccato che siamo ad agosto, il sole sta bello pizzo nel cielo per 18 ore al giorno e se va bene ci sono 25° all'ombra. Il Presidente delle associazioni islamiche italiane (chiedo scusa, ma non sono riuscito a trovare il nome e la carica esatti) ha concesso che chi lavora nei campi, spezzandosi la schiena sotto il sole, è perlomeno autorizzato a bere. La notizia, però, non è stata accolta positivamente da tutti: infatti c'è stato chi si è lamentato ed ha giudicato questa deroga ingiusta e comunque non giustificata;

E ora l'editoriale vero e proprio.

Non riesco più a guardare i programmi di cucina.

Non che prima me la spassassi granché tra "Chef per un giorno", quello con Mengacci, quell'altro con lo chef che insulta tutti e mi chiedo come mai non abbia ancora trovato qualcuno che lo aspetti fuori e gli faccia scoprire un uso alternativo del mestolone...

Però, devo ammetterlo, ogni tanto l'occhio ce lo buttavo. A colazione, ad esempio, mi guardavo Top Chef e me la sghignazzavo di brutto sentendo dei nomi mostruosi per descrivere dei piatti che assomigliano tanto ad una tartina col burro.

A pranzo, i seni generosi della Clerici mi accoglievano e mi cullavano, mentre cuochi ormai familiari si sbattevano per stare dietro a concorrenti incapaci anche di aprire un uovo senza combinare un casino pazzesco.

Poi ho iniziato a notare quanto cibo venga sprecato in questi programmi. Chili e chili di prodotti soltanto per le scenografie. Centinaia di uova solo per fare la "Prova di velocità" in cui vince chi monta a neve per primo l'albume. Poi c'è la prova in cui vince chi riesce a disossare più polli. Quella in cui si affettano più cipolle. Quella in cui si trita più carne. Insomma: vince chi butta più cibo.

Ma porca miseria. Ma solo io mi sono sentito ammorbare la fanciullezza con frasi del tipo: "O mangi sta minestra o butto la nonna dalla finestra?" "Non ti alzi finchè non hai finito tutto"? "Non giocare col cibo"?

Ora, non voglio riesumare l'antico detto "In Africa i bambini muoiono di fame...". Però oggi, qui da noi, c'è gente che fa fatica a fare la spesa e questi sprecano supermercati interi di roba per vedere chi è più fico col frullatore. Sta cosa mi fa impazzire. Mi procura lo stesso fastidio fisico di una qualsiasi intervista a Gasparri.

Come lo concludo questo editoriale? Non lo so. Non penso ci siano grandi conclusioni da tirare. E allora me la cavo con una frase che ripete sempre un tizio che conosco. Secondo lui è una citazione, ma ogni volta che gli chiedo di chi, mi dice un nome diverso:

"Se vuoi davvero bene a tuo figlio, cerca di fargli provare sempre un po' di freddo e un po' di fame".

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editoriale di Gallagher87

Uno sguardo è bastato per capire che non voleva fargli lo scontrino fiscale, e ad Antonio conveniva non chiederglielo perché avrebbe pagato ogni singolo DVD 0,10 € in meno. "Conviene", quante volte usiamo questo termine in funzione delle situazioni che viviamo?

L' “Italian Revolution - democrazia reale ora”, termine con cui l'informazione scritta e online descrive quel movimento che dovrebbe essere l'alter ego degli "indignados" spagnoli, in realtà qui in Italia non avrebbe motivo reale di esistere, o meglio non pragmaticamente.
Voglio essere chiaro per non essere frainteso: ci sarebbero tutte le carte in regola per far partire un moto di risposta apolitico, penso ad esempio, a situazioni di gap che viviamo giorno dopo giorno come possono essere l'impatto delle imposte sulla benzina o l'aumento spropositato dell' RCA, per non parlare più in generale della crisi economica, politica e sociale che attanaglia più o meno tutto il paese.
L' “Italian Revolution" non ha motivo di esistere semplicemente perché non è presente nel nostro DNA.
Sicuramente la fotografia della Spagna di oggi e di ieri (penso al regime di Franco ma non voglio entrare nel merito) è forse persino più grigia della nostra, e si sa che bisogna farsi sentire quando la pancia è vuota, quando fa male, a dispetto delle coreografie degli stadi di Madrid e Barcellona, ritraenti la bella presenza di centomila paganti. Certo non può neanche essere questa la foto della Spagna, l'esempio dello stadio è un momento, è un istante che può essere un momento di svago, o in altri casi un momento di ritrovo per chi magari la crisi la sente un po' meno.

Tornando a noi, il concetto di ciò che "conviene a me" a dispetto degli altri, non è certamente un esclusiva del nostro bel paese, ma forse è presente sotto più forme e in modo più massiccio che in altri paesi detti "industrializzati". Per il "conviene a me" non alludo a riferimenti politici come leggi "ad personam" di cui tanto si sente parlare, intendo la realtà che ognuno di noi vive nei rapporti sociali. L'esempio iniziale dello scontrino fiscale può essere legittimo ma relativo, perché magari i controlli (a sorpresa!?) della guardia di finanza possono variare di incisività da comune a comune, da regione a regione, come la stessa indole del venditore e dell'acquirente alla convenienza reciproca può variare secondo svariati parametri. Se solo però tentassimo per un attimo a capire perché ad esempio, andare da un parrucchiere da donna in salone costa dieci volte di più rispetto ai parrucchieri casa per casa, senza analizzare ciò che dice la legge consente di fare e al di là di ciò che "conviene" a me come consumatore, potremmo anche iniziare a capire perché l' “Italian Revolution" perde di valore, e di conseguenza potremmo anche iniziare a capire perché vengono giocati in una nazione in crisi, 50-60 miliardi di € all'anno in giochi d'azzardo legalizzati (Superenalotto, Win For Life, ecc.) con una possibilità su 620 milioni di azzeccare il 6 vincente, e una su 120mila di strappare un 4 che ci arricchirebbe con la bellezza di 250, 300 €, insomma addio crisi!

Ora, tralasciando che sia più facile che l'asteroide Apophis colpisca la Terra nel 2036 (ebbene si) augurandoci che la crisi nel frattempo sia passata, sfrutto le mie ore di cassa integrazione (legittima?) per potervi scrivere questi miei pensieri e conscio del fatto che potrei far scaturire una serie di commenti più o meno democratici, memorabili a tal punto da doverli salvare in un file word su un DVD, che se dovessi chiedere al mio amico Antonio, pagherei soltanto 0,40 €. Tutto sommato conviene.

Ogni Stato ha i rivoluzionari che si merita.
(Palmiro Togliatti)

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editoriale di telespallabob

Ve li ricordate gli Indignados? Il movimento 15-M, chiamati così dalla prensa spagnola, aveva attirato l'attenzione della stampa di tutto il mondo, Italia compresa (nel nostro paese l'attenzione agli esteri è pressoché nulla). E' passato oltre un mese da quelle giornate ma la rete che aveva generato quel movimento è ancora attiva, in programma sono previste altre manifestazioni dopo quelle del 19 Giugno.

Lasciamo da parte gli Indignados e riavvolgiamo il nastro, eravamo alla vigilia delle elezioni amministrative del 22 Maggio. Una tornata elettorale importante, l'ultima prima delle “elecciones generales” dell'anno prossimo. A livello nazionale è stato pesante il crollo del PSOE di Zapatero, a vantaggio del PP guidato da Mariano Rajoy. I risultati elettorali spagnoli sono stati commentati anche da noi, dedicando poca attenzione all'altro grande dato di queste elezioni: l'exploit di Bildu. Piccolo excursus: cos'è Bildu? E' un partito che ha riunito le principali forze dell'izquierda abertzale con l'obiettivo di presentarsi a questa tornata elettorale. Un secondo tentativo visto che Sortu, altro partito legato alla galassia abertzale, era stato escluso dal Tribunale Supremo in base alla discussa Ley de Partidos (quella che aveva portato all'illegalizzazione di Batasuna). In verità anche Bildu era stata prima esclusa il 3 Maggio e poi riammessa il 5, alla vigilia dell'inizio della campagna elettorale (che ufficialmente inizia nelle due settimane antecedenti le elezioni). Bildu, nella regione del Pais Vasco (province storiche di Araba, Biskaia e Gipuzkoa) e in Navarra, ha raccolto 313mila voti e con il 23% è secondo solo al EAJ-PNV (330mila voti, 24%) per numero di votanti ma è il primo partito per numero di consiglieri eletti. Ha ottenuto grandi consensi nei piccoli centri, spesso riportando la maggioranza assoluta, e nella cintura industriale attorno a Vitoria-Gasteiz e Donostia-San Sebastian. In quest'ultima città e nella rispettiva provincia è risultato il primo partito.
E' un risultato storico quello uscito fuori dalle urne, prima di tutto la somma dei voti ai partiti baschi (compresi Aralar, crollato in questa tornata, e Nafarroa Bai) è maggiore rispetto alla somma dei partiti “spagnoli”. In secondo luogo la forza elettorale e politica del movimento abertzale è coincisa con il momento di massima debolezza, in tutti i sensi, dell'ETA. L'organizzazione terroristica è ridotta ai minimi termini, dallo scorso Gennaio vige un “cessate il fuoco” permanente. Dallo scorso aprile è stato accompagnato, tramite due lettere inviate alle associazioni degli imprenditori baschi e della Navarra, dalla rinuncia all'impuesto revolucionario, vale a dire una sorta di pizzo richiesto a imprenditori e commercianti per il finanziamento. E' un gesto clamoroso, non era mai successo (in occasioni di altre tregue temporanee i commercianti ricevevano ancora le lettere con le richieste estorsive) e ad oggi nessuna delle due azioni è stata disattesa. Le elezioni offrono un segnale importante all'ETA, al Governo (per ora quello di Zapatero) e alla nomenklatura politica di Madrid perché dimostrano la bontà delle idee autonomiste e l'interesse della gente nei confronti della questione basca.
oluzione non-violenta della questione basca.

Le elezioni e il conseguente successo di Bildu rappresentano un'occasione storica per Euskal Herria, come giustamente hanno dichiarato Martin Garitano (nuovo Diputado General di Gipuzkoa) e Arnaldo Otegi, ex-portavoce del Batasuna attualmente agli arresti e sotto processo per tentata ricostituzione dello stesso (rischia fino a 10 anni di galera). Oltre alla difesa dei valori e delle identità basche c'è da affrontare la crisi economica (è una delle regioni più ricche della Spagna. E' basco il BBVA, uno dei gruppi bancari più ricchi e potenti d'Europa), la questione dell'Alta Velocità (vista come priorità politica dal governo ma molto criticata a livello popolare), dei 700 prigionieri politici (in queste settimane è esploso il caso di Aurore Martin, dirigente del Batasuna estradata in Francia dopo che in Spagna era stato emesso un mandato di cattura contro di lei. Solamente una forte mobilitazione ne ha evitato l'arresto dopo la sua ricomparsa in un'assemblea pubblica a Biarritz), della libertà d'opinione e della rappresentanza delle istanze basche (la Ley de Partidos resta un pericolo, visto il fuoco incrociato di parte dell'opinione pubblica spagnola). I politici europei parlano di libertà dei popoli, di autodeterminazione (22 stati dell'UE hanno riconosciuto il Kosovo). Sappiate che queste parole non valgono per tutti, non valgono nel cuore dell'Europa per il popolo più antico del nostro continente.

[Nella foto la prima pagina del quotidiano “La Razon” del 6 Maggio 2011, il giorno prima il Tribunale Supremo con 6 voti a favore e 5 contrari aveva riammesso Bildu alle elezioni. Non c'è bisogno di tradurre]

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editoriale di james

Premetto che non ho mai dato tanto peso alle storie sugli ufo, alieni eccetera, le ho sempre considerate in fondo come simpatiche cazzate e nulla di più. Ma tre giorni fa mi è successa una cosa.

Ero di ritorno dalla festa di laurea di un mio caro amico d'infanzia. Saranno state le due di notte circa. Tratto di strada buio lungo la costa ionica lucana, ero solo in auto. Mancava ancora un bel tratto per arrivare a casa - la festa infatti si è tenuta nella villa degli zii del mio amico, zona turistica, a circa un ora e mezza di macchina da casa mia. Forse avevo bevuto troppo, non tanto alcolici, quanto bibite, e all'improvviso ebbi l'urgente bisogno di fermarmi per fare pipì. Accostai l'auto, scesi, feci pipì e poi guardai un po' verso l'alto come a dire: "Oh finalmente, ci voleva proprio", quando vidi un puntino luminoso nel cielo, una luce biancastra giallognola, che si muoveva. "Toh guarda, una stella cadente, devo esprimere un desiderio" pensai, ma guardando meglio mi accorsi che procedeva lentamente ma con traiettoria perfettamente orizzontale, al che pensai fosse semplicemente un aereo.

Poi però si fermò. "No, nemmeno un aereo, è solo un elicottero" dissi fra me e me. E fu a quel punto che successe una cosa stranissima, la luce cambiò colore. Da giallino chiaro virò a un rosso acceso, fra il rosso e l'arancione diciamo, e poi improvvisamente decollò verso l'alto, con traiettoria verticale, perpendicolare al suolo, a velocità elevatissima, tanto da scomparire alla mia vista nel giro di un paio di secondi al massimo.
Avevo con me una videocamera, ma non feci in tempo a riprendere niente, perché tutto durò non più di dieci secondi credo.

Tornai a casa, ma non presi sonno facilmente, quell'episodio continuava a ripetersi nella mia testa. Mi addormentai credo molto tardi. Il giorno dopo continuai a pensare a quello che avevo visto, senza riuscire a darmi una spiegazione.

Perché vi sto dicendo tutto questo? Perché ho bisogno di raccontare questa cosa a qualcuno, ma ho paura di essere preso per scemo. Quindi la scelta del racconto anonimo. Credo che nessun razzo possa procedere orizzontalmente, fermarsi in volo e poi decollare in verticale, nemmeno aerei o elicotteri.

Mi interesserebbe sapere se a qualcuno è successa una cosa simile, se qualcuno ha delle spiegazioni plausibili, insomma se qualcuno sa dirmi che cazzo è stato.

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