editoriale di kosmogabri

"Il coraggio è quasi una contraddizione in termini. Esso implica un forte desiderio di vivere che prende la forma di essere pronti a morire." (Gilbert Keith Chesterton)

(…) Per lottare contro la mafia non può assaporare i piccoli piaceri della vita quotidiana. E' vero quello che dicono?
Bhé diciamo che c'è molto di vero, si, indubbiamente questo tipo di attività incide pesantemente sulla privacy, su questo non c'è dubbio.
Come lo vive lei?
Mah, direi con rassegnazione…
Lei ha detto, o pare che abbia detto, "il vigliacco muore più volte al giorno, il coraggioso una volta sola". Questo significa che non ha paura?
L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno. E' saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza.
(intervista a Giovanni Falcone)

Diciotto anni fa, il 23 maggio 1992 alle 17.59, la deflagrazione di una bomba al tritolo piazzata sull'autostrada che da Trapani va verso Palermo, precisamente a Punta Raisi vicino a Capaci, metteva fine alla vita del giudice Giovanni Falcone, direttore generale degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia, di sua moglie Francesca Morvillo, pure lei magistrato, e di tre agenti di scorta.

Penso che si è tutti d'accordo: quello che il giudice Falcone ha lasciato dietro di sé è un nobile esempio di rettitudine coerente, di forza d'animo superiore, di intelligenza imparziale, di rigore etico. Vorrei ricordarlo a voi tutti con quel sorriso franco che tra le labbra e gli occhi tristi gli scaturì alla parola "rassegnazione", da lui pronunciata durante l'intervista qui citata. Proprio quella rassegnazione alla paura contro la quale ha sempre combattuto strenuamente, ma che, senza farsene sopraffare, gli è stata compagna nell'ombra durante gli ultimi anni di vita.

Io non sono italiana e non sono informata, e probabilmente è presunzione la mia, questa di ricordarvi la ricorrenza della morte tragica di un uomo di legge, stimato ed ammirato come un eroe anche fuori dai patrii confini. Di sicuro sono pure inopportuna, in questo giorno in cui molti di voi festeggiano un sospirato trofeo calcistico.
E' solo che vorrei cogliere l'occasione per farvi quella domanda che è ormai da troppo tempo che mi pongo, ora più che mai, in questi tempi di norme dagli emblematici nomi di una puttana e di una trasmissione tv...

Di uomini così, come Falcone, come Borsellino, uomini dalla schiena dritta e dallo sguardo schietto… ne fanno ancora?

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editoriale di sfascia carrozze

Ogni tanto mi piace ascoltare chi non la pensa come me, così facendo non si passa per "sparoni" ma anzi, si assume un aurea super partes che fa molto intellettuale e che piace molto alle donne (o almeno mi piace crederlo).

Comunque sia mi affascinava una teoria particolarmente complessa del dott. XX (esimio scienziato che rifiuta ogni credenza metafisica, compresa la religione) nella quale si dipanava la tesi da Lui corroborata che "la musica nasce come un puro disegno estremamente matematico", razionale e controllabile come può farlo un tecnico informatico con la sua calcolatrice da ufficio.

Teoria azzardata o semplicemente una provocazione? Ottima domanda, e nelle due ore passate seduto in quelle scomode seggiole da conferenza ci ho pensato parecchio. Ascoltando come i maggiori capolavori della musica classica e moderna siano frutto praticamente del mero calcolo aritmetico che segue lo schema armonico ligio come una scolaretta che prende appunti in primo banco.

Sarà.. ma io mica ci vedo Clapton, o addirittura Hendrix vestiti da ragioniere che calcolano algoritmi, storni passivi e radici cubiche prima di sfornare le rispettive "Tears in Heaven" o "Bold as Love". La musica viene da dentro l’anima di ognuno di noi, e come il libero arbitrio nessun altro la può controllare, e nessuno può dirci come dobbiamo sentirci o cosa ascoltare ORA. Incazzati, volubili, malinconici, euforici, psichedelici, maliziosi, arditi, festanti o politicamente scorretti siamo solamente noi stessi.

NOI, che piangiamo guardando un film in bianco e nero, che sospiriamo pensando a un sogno rivolti al tramonto, e, perchè no, che scriviamo recensioni di sconosciuti dischi underground per accelerare una catarsi interiore.. forse crediamo che ci sia ancora una speranza, che il piacere sia di una bellezza fuggevole e la musica uno dei (pochi) modi per imprigionarlo in una teca di cristallo..

Ho visto la luce scoprendo la chitarra poco più di 7 anni fa, anche se l’amore per la musica e l’impegno profuso a livello pratico in questa "parte di mondo" supera ampiamente in anni la metà della mia esistenza.

E comunque sia a me, la matematica ha sempre fatto schifo.

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editoriale di sfascia carrozze

Dietro al banco dei fiori si muove agile. Prende il vaso col rododendro bianco, la rosa, la pervinca e con la forbice taglia e sminuzza, veste il fiore - più che altro quello che è stato un fiore e che da qualche momento è una salma, un cadavere di fiore: se i fiori potessero parlare - lo imbelletta e lo prepara nel suo chiffon improvvisato, nel suo velo da sposo. Porge il fiore. Chiede il denaro. Figli di tutte le età pagano. E´ la festa della mamma.

Dietro al banco dei fiori si sente a suo agio. Saranno il caldo e l´umidità che creano un clima tropicale, anche se fuori promette pioggia (non pioggia tropicale). Saranno certi fiori tropicali, certi odori tropicali che se chiudi gli occhi potresti essere da qualche parte lontano. Tropicale anche tu. Nel suo caso, "da qualche parte lontano" vorrebbe dire a casa, tipo Santo Domingo o qualche posto della Tortuga, ma senza Salgari e Corsari neri a imbellettare le isole come i fiori o le salme.

Donna tropicale, parla la lingua di questi posti, lavora in questi posti, si è sposata con un uomo di questi posti, anzi, a dirla tutta, con l´Uomo di Questi Posti, l´archetipo, il modello il fantoccio di Questi Posti. Il pirata della Tortuga che parte in una Pasqua come le altre e torna con una moglie "diversa da tutte le altre". E´, a tutti gli effetti, la Donna di Questi Posti, importata direttamente dei Tropici e riadattata, recuperata, rivisitata, riciclata. E´ come le spezie, le patate e il pomodoro, dal (presunto) Oriente con furore, direttamente sui nostri piatti, una specie di salmone che ri-trova la propria casa.

La Nuova Donna di Questi Posti ha i riccioli sulle spalle, la pelle scura, gli occhi profondi, la maglietta sformata che copre un corpo sformato, anche se riesce difficile immaginare la forma di un tempo, se mai c´è stata ed è stata diversa.

La Nuova Donna di Questi Posti si chiama Gladys, sua figlia è meno esotica con il suo "Francesca". Solo l´occhio allenato scorge in lei il tratto tropicale, perché anche il papà ha fatto il suo mestiere. La Ragazza di Questi Posti, è, a tutti gli effetti, uguale ad ogni altra ragazza di questi posti. Alla gioventù aggiunge il sorriso di chi è sempre stato a casa sua, e ci sta bene.

Mi piacciono le strategie evolutive. Mi piace questo dna straniero che risale la corrente, si unisce a Quello di Questi Posti in cui lo schiavismo ama travestirsi in tanti modi, si immerge sott´acqua e si nasconde dentro le cellule di una ragazza come tutte le altre, solo un po´ più scura e forse un po´ meridionale.

Mi piace l´idea che questo dna un domani si riproduca con altri uomini e donne di questi posti, si moltiplichi, si espanda sotterraneo, e si prenda poi questa pianura, i suoi capannoni, i suoi svincoli, i suoi campanili e le sue pasticcerie, fiorerie, discount ipermercati, multisala, club da concerti, happening, mostre, outlet, concessionarie di automobili, ricoprendoli di palme, orchidee, ibiscus, sotto un sole ed una pioggia finalmente tropicali.

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editoriale di fosca

Ammettendo di essere ormai lontana anni luce dal fenomeno adolescenziale e post-adolescenziale dell’aggregazione per gruppi e del riconoscimento in una compagnia, sicuramente ne ricordo ancora chiaramente le dinamiche e modalità di appartenenza e “convivenza” al suo interno. Devo dire che, in effetti, la mia esperienza in tal caso è stata lunga e prolifica in quanto ai tempi, la mia cosiddetta Compagnia vantava, tra i fondatori e gli aggiunti negli anni, la 40ina di membri onorari. E siamo stati un bel blocco compatto fino a pochi anni fa.

Quando ci muovevamo in massa in occasioni quali i campeggi estivi o viaggi simili, sembrava la carovana dei carrozzoni del circo, con tanto di tende e pellegrini al seguito, e facevamo un certo effetto.

Chiaramente non con tutti era possibile avere lo stesso tipo di relazione affettiva e c’erano sicuramente le eccezioni sia in senso buono sia meno buono. Feeling, preferenze, simpatie, incontri fortunati a pelle, affascinazioni e vere e proprie cotte; e ovviamente antipatie, motivate o presunte, sopportazione, indifferenza, fino al totale e reciproco ignorarsi.

Chiunque di noi lo avrà sicuramente sperimentato: ci sono persone con cui entriamo immediatamente in contatto in modo quasi privilegiato, quelle che, senza che realmente facciano qualcosa di eccezionale, ci diventano immediatamente intime e care; persone alle quali siamo da subito “permeabili” e che troviamo irresistibili. Persone in cui è facile specchiarsi e riflettersi. A volte basta una sola frase, un guizzo in uno sguardo, un commento appropriato, un comportamento disinvolto, un’osservazione arguta.

Poi ci sono quelle che non arrivano così al fondo di noi, ma restano comunque tra le preferite, che se sono presenti o meno fanno la differenza, dalle quali, piace avere sempre un parere su tutto.

Poi ancora quelle che definisco “souvenir” da serata, che se non ci sono non è una tragedia ma che se arrivano ti rallegrano per tutto il tempo.

Infine ci sono quelle che proprio non puoi soffrire, che hanno tutta una serie di cose che ritieni inaccettabili in un interlocutore, che appena iniziano a parlare, ti fanno venire voglia di cambiare canale o girarti dall’altra parte. O magari di andare a dormire quando hai semplicemente finito di incazzarti.

E poi per ultime, quelle a te invisibili, quelle che ti lasciano indifferente, che non hanno mai un’intuizione che ti faccia trasalire, che non vedi perché sono grigie in mezzo ad un mondo colorato, o semplicemente perché tu con loro sei daltonico.

E poi c’è DeBaser, che è di nuovo esattamente tutto questo: è la mia compagnia trasposta dalla vita reale al virtuale, che è poi vita anche questa dato che da 7 anni a questa parte mi tiene quasi quotidianamente compagnia, con tutti i suoi mood e le sue contraddizioni, pregi e difetti.

Ci siamo anche lasciati io e DeBaser una volta e forse ci lasceremo ancora.

Però al momento, è la mia compagnia online.

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editoriale di sfascia carrozze

Roberto Saviano..

..ormai sempre lui, la camorra, per carità: ma non è lui ad aver scoperto la camorra, non è lui il solo che l’ha denunciata, ci sono registi autorevoli, c’è gente come magistrati che l’hanno combattuta… e sono morti, lui è superprotetto, giustamente sempre deve essere protetto, però, come dire.. non se ne può più, voglio dire, di sentire che lui è l’eroe, gli hanno pure offerto la cittadinanza onorev… ma di che cosa? Non si capisce, ha scritto dei libri contro la camorra come ha fatto tanta altra gente, senza far clamore, senza andare sulle prime pagine, senza raccogliere firme, senza rompere… ahem, volevo dire, scusate, senza disturbare la riflessione della gente, che ha capito bene.

Un paese come è il nostro è contro la malavita organizzata.

Emilio Fede - 09.05.2010

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editoriale di telespallabob

Queste parole sono rivolte al sindaco di Adro (Provincia di Brescia). "Mi piacerebbe chiederle se fosse cosciente del fatto che il suo senso di legalità spiccia e ad ogni costo lo stanno subendo dei bambini, visto che a loro viene impedito di mangiare. Le vorrei chiedere anche un'altra cosa: avrebbe il coraggio di andare a scuola, guardare in faccia quei bambini e dire loro: "Voi non mangiate perché i vostri genitori non pagano la tassa"? Mettiamo caso che lei mi dicesse di sì e poi lo facesse le vorrei dire che provo disgusto per lei. Mettiamo caso che lei mi dicesse: "Ci sono gli insegnanti, glielo devono dire loro" il disgusto sarebbe il doppio perché dietro la tanto decantata "legalità" c'è uno che si fa propaganda e poi si nasconde dalle sue responsabilità. Mettiamo caso che lei mi dicesse di sì, andasse a scuola e poi all'ultimo rinunciasse ad un proposito del genere. Bene, quello che proverebbe si chiama senso di colpa. Non ho altro da dirle, distinti saluti."

Non so come la vedete voi ma una società che nega ad un bambino di mangiare è semplicemente la peggiore possibile. A me, grasso ventenne, potete dire di saltare un pasto ma non ad un bambino. Non c'è legge che tenga.

"Certo bisogna farne di strada / da una ginnastica d'obbedienza / fino ad un gesto molto più umano / che ti dia il senso della violenza / però bisogna farne altrettanta / per diventare così coglioni / da non riuscire più a capire / che non ci sono poteri buoni." (Nella Mia Ora di Libertà, Fabrizio De André)

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editoriale di Targetski

A Montebelluna ci arrivi, da qualsiasi strada tu provenga, attraversando una distesa di capannoni. A sud trovi le aziende del distretto della scarpa, derelitte in mezzo ai campi di mais come balene spiaggiate; a ovest, dopo l’ospedale, con le Prealpi sullo sfondo dietro i mobilifici dismessi, hai la sensazione di stare in Ohio, pur non avendolo mai visitato; a nord c’è la bassa collina che guarda il paese, costellata dalle ville degli imprenditori e riempita, nell’aria, dai cani che abbaiano; a est è stato da poco costruito un ipermercato tutto sviluppato in altezza, di modo che dalla provinciale, facendo il cavalcavia, non possa sfuggire alla vista. Stare alla stessa quota della scritta ‘Iperlando’, magari con un tramonto estivo sugli specchietti retrovisori, dà un brivido che molti pomeriggi anonimi trascorsi in casa non riescono a regalare. La scuola in cui insegno si trova in centro, appena a nord, calata quasi come una Madonna, con la sua struttura tipicamente gesuitica e i suoi muri beige mocassino, tra le case dei ricchi. Era una scuola cattolica, negli anni Sessanta, di quelle con il pavimento di piastrelle a mosaico e l’odore, negli armadi e lungo i corridoi, di cera e di confetti. Oggi è un liceo sociale frequentato da ragazze che dovrebbero fare di Montebelluna un posto più consolante. Le alunne della mia classe fanno volontariato, studiano diligentemente, prendono appunti, si danno una mano tra loro. Quando ho spiegato il Barbarossa e Alberto da Giussano, certo, si guardavano fiere, facendosi l’occhiolino e riproducendo le espressioni gongolanti dei loro genitori che commentano i tiggì regionali. Ma qua funziona così, mi sono detto: è il sistema locale. Tra le ragazze, isolata, c’è Giada. Veste di nero, si trucca di nero, non studia mai. Ha due anni in più delle compagne, con le quali solo dopo un paio di mesi è riuscita a socializzare. Scrive dei temi meravigliosi, stracolmi di una sensibilità che deborda da ogni parola e persino dalla grafia un po’ barocca, tutta spostata verso destra, difficile da decifrare: una scrittura allenata, di certo, dalla fatica di molti fogli. Quando riconsegno i temi alla classe, glielo ripeto ogni volta: «Lo scritto va benissimo, Giada. Ma se non studi niente...», senza finire la frase, perché le ultime parole porterebbero nei burroni dove sembra che stiano immersi, come rami storti, i suoi pensieri. Così a gennaio le do 8 allo scritto e 4 all’orale, senza che nulla in lei cambi. Quando devo rimanere fuori a pranzo vado a mangiare un panino con la porchetta nell’osteria dove si raccoglie la gioventù punk. Sembra, da fuori, una trattoria come molte altre, ma quando entri senti una canzone dei Cure o dei Pennywise. Poi faccio un giro per il centro, ficcandomi sempre nel piccolo negozio di dischi accanto alla scuola. Si chiama ‘il buco’, cosa che ho sempre ritenuto molto simbolica, soprattutto osservando la gente che lo frequenta, di mattina, come se fosse un locale notturno con le luci fosforescenti in bagno. Ci trovi roba di importazione, vinili rari, etichette indipendenti. Un giorno, prima di un ricevimento pomeridiano, comprai “Missing Chairs” degli Wire, lo portai con me nell’osteria punk e chiesi di metterlo sullo stereo. Fuori dalla vetrata potevi vedere le macchine che saettavano verso i capannoni, mentre la cameriera lanciava le freccette al tirasegno come mirando alla piazza centrale. Poi andai al ricevimento fischiettando “Marooned”, e mi sentii anch’io, a mio modo, parte del sistema locale. Quello che mi sfuggiva, del sistema, era dove stesse Giada. Fin dall’inizio dell’anno capitava spesso che entrasse in classe, alla prima ora, con cinque o dieci minuti di ritardo, gli occhi più pesti rispetto alle altre mattine. Chiedeva scusa («la corriera...») e si sedeva. Un giorno d’inverno, di quelli crudi, con la nebbia che scendeva fitta sui centri abbronzanti e sui pakistani vicino alla stazione, al suo ennesimo ritardo persi la pazienza. Le dissi che non era più tollerabile, per rispetto del professore che si alzava alle sei e mezza e delle sue compagne che erano sempre in orario, e che da allora avrei preteso sempre una giustificazione firmata, altrimenti sarebbe rimasta fuori. Lei si scusò e si sedette al suo posto, senza che nulla in lei fosse cambiato. Al consiglio di classe, due settimane dopo, la professoressa di scienze sociali disse che dal centro di assistenza per minori dove Giada viveva le avevano fatto sapere che i suoi problemi di bulimia si erano di nuovo acuiti. Tutti i professori scossero la testa, in segno di afflizione. A pensare che quando Giada entrava in ritardo era perché aveva passato la notte a vomitare sulla tazza, togliendo ore al sonno, mi vennero brividi diversi da quelli che provavo ogni giorno, sulla provinciale, raggiungendo la stessa quota della scritta ‘Iperlando’, o sentendomi tra i mobilifici dismessi come in Ohio. Pensai che c’erano cose che non rientravano, in nessun modo, nel sistema locale. Pensai che la mattina dopo avrei dovuto portare io, a Giada, la giustificazione. A marzo la mia supplenza finì. Da quando sono venuto a sapere che Giada è stata bocciata, a Montebelluna non ci vado più.

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editoriale di Targetski

A Montebelluna ci arrivi, da qualsiasi strada tu provenga, attraversando una distesa di capannoni. A sud trovi le aziende del distretto della scarpa, derelitte in mezzo ai campi di mais come balene spiaggiate; a ovest, dopo l’ospedale, con le Prealpi sullo sfondo dietro i mobilifici dismessi, hai la sensazione di stare in Ohio, pur non avendolo mai visitato; a nord c’è la bassa collina che guarda il paese, costellata dalle ville degli imprenditori e riempita, nell’aria, dai cani che abbaiano; a est è stato da poco costruito un ipermercato tutto sviluppato in altezza, di modo che dalla provinciale, facendo il cavalcavia, non possa sfuggire alla vista. Stare alla stessa quota della scritta ‘Iperlando’, magari con un tramonto estivo sugli specchietti retrovisori, dà un brivido che molti pomeriggi anonimi trascorsi in casa non riescono a regalare.

La scuola in cui insegno si trova in centro, appena a nord, calata quasi come una Madonna, con la sua struttura tipicamente gesuitica e i suoi muri beige mocassino, tra le case dei ricchi. Era una scuola cattolica, negli anni Sessanta, di quelle con il pavimento di piastrelle a mosaico e l’odore, negli armadi e lungo i corridoi, di cera e di confetti. Oggi è un liceo sociale frequentato da ragazze che dovrebbero fare di Montebelluna un posto più consolante. Le alunne della mia classe fanno volontariato, studiano diligentemente, prendono appunti, si danno una mano tra loro. Quando ho spiegato il Barbarossa e Alberto da Giussano, certo, si guardavano fiere, facendosi l’occhiolino e riproducendo le espressioni gongolanti dei loro genitori che commentano i tiggì regionali. Ma qua funziona così, mi sono detto: è il sistema locale.

Tra le ragazze, isolata, c’è Giada. Veste di nero, si trucca di nero, non studia mai. Ha due anni in più delle compagne, con le quali solo dopo un paio di mesi è riuscita a socializzare. Scrive dei temi meravigliosi, stracolmi di una sensibilità che deborda da ogni parola e persino dalla grafia un po’ barocca, tutta spostata verso destra, difficile da decifrare: una scrittura allenata, di certo, dalla fatica di molti fogli. Quando riconsegno i temi alla classe, glielo ripeto ogni volta: «Lo scritto va benissimo, Giada. Ma se non studi niente...», senza finire la frase, perché le ultime parole porterebbero nei burroni dove sembra che stiano immersi, come rami storti, i suoi pensieri. Così a gennaio le do 8 allo scritto e 4 all’orale, senza che nulla in lei cambi.

Quando devo rimanere fuori a pranzo vado a mangiare un panino con la porchetta nell’osteria dove si raccoglie la gioventù punk. Sembra, da fuori, una trattoria come molte altre, ma quando entri senti una canzone dei Cure o dei Pennywise. Poi faccio un giro per il centro, ficcandomi sempre nel piccolo negozio di dischi accanto alla scuola. Si chiama ‘il buco’, cosa che ho sempre ritenuto molto simbolica, soprattutto osservando la gente che lo frequenta, di mattina, come se fosse un locale notturno con le luci fosforescenti in bagno. Ci trovi roba di importazione, vinili rari, etichette indipendenti. Un giorno, prima di un ricevimento pomeridiano, comprai “Missing Chairs” degli Wire, lo portai con me nell’osteria punk e chiesi di metterlo sullo stereo. Fuori dalla vetrata potevi vedere le macchine che saettavano verso i capannoni, mentre la cameriera lanciava le freccette al tirasegno come mirando alla piazza centrale. Poi andai al ricevimento fischiettando “Marooned”, e mi sentii anch’io, a mio modo, parte del sistema locale.

Quello che mi sfuggiva, del sistema, era dove stesse Giada. Fin dall’inizio dell’anno capitava spesso che entrasse in classe, alla prima ora, con cinque o dieci minuti di ritardo, gli occhi più pesti rispetto alle altre mattine. Chiedeva scusa («la corriera...») e si sedeva. Un giorno d’inverno, di quelli crudi, con la nebbia che scendeva fitta sui centri abbronzanti e sui pakistani vicino alla stazione, al suo ennesimo ritardo persi la pazienza. Le dissi che non era più tollerabile, per rispetto del professore che si alzava alle sei e mezza e delle sue compagne che erano sempre in orario, e che da allora avrei preteso sempre una giustificazione firmata, altrimenti sarebbe rimasta fuori. Lei si scusò e si sedette al suo posto, senza che nulla in lei fosse cambiato.

Al consiglio di classe, due settimane dopo, la professoressa di scienze sociali disse che dal centro di assistenza per minori dove Giada viveva le avevano fatto sapere che i suoi problemi di bulimia si erano di nuovo acuiti. Tutti i professori scossero la testa, in segno di afflizione. A pensare che quando Giada entrava in ritardo era perché aveva passato la notte a vomitare sulla tazza, togliendo ore al sonno, mi vennero brividi diversi da quelli che provavo ogni giorno, sulla provinciale, raggiungendo la stessa quota della scritta ‘Iperlando’, o sentendomi tra i mobilifici dismessi come in Ohio. Pensai che c’erano cose che non rientravano, in nessun modo, nel sistema locale. Pensai che la mattina dopo avrei dovuto portare io, a Giada, la giustificazione.

A marzo la mia supplenza finì. Da quando sono venuto a sapere che Giada è stata bocciata, a Montebelluna non ci vado più.

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editoriale di Appestato mantrico

Tralasciando qualunque commento riguardo il (dubbio) valore religioso del matrimonio, cosa su cui non voglio ora focalizzare la mia attenzione, esso riveste un duplice senso, antropologico e legale. Antropologico perchè, in quanto rito di passaggio, ciò che sancisce realmente l'unione tra due persone è l'accettazione e la consapevolezza dell'unione stessa all'interno della comunità in cui si vive. Nell'atto del matrimonio la coppia si presenta pubblicamente non più come due individui singoli, bensì come un unico attore sociale che agisce e si muove all'interno della società in vista del proprio sostentamento. I due membri che la compongono, oltre all'implicita dichiarazione affettiva che così palesano, assumono di conseguenza il dovere legale di sostenersi vicendevolmente, oltre ad una serie di diritti tutelativi ed economici.

Nonostante io creda che nessuna autorità, religiosa o laica che sia, detenga realmente l'autorità di sancire qualcosa che è affare totalmente personale, so tuttavia di essere immerso fino al collo nella società e di esserne legato indissolubilmente, come ognuno di noi: di qui non si scappa. Perciò, ho sempre condiviso il principio borghese secondo cui ognuno deve poter essere libero nei limiti in cui tale libertà non va a ledere quella altrui. La recente sentenza della Corte Costituzionale in ambito dei matrimoni gay ha riposto la decisione finale nelle mani degli organi legislatori - come è giusto che sia. Ora, tutti sappiamo benissimo chi siede attualmente sul trono e di che pasta è fatta la sua cerchia, quindi non ci sarebbe da stupirsi molto se il tutto si riverserà nei migliori dei casi in un nulla di fatto. Eppure permane un immenso vuoto non tanto istituzionale quanto culturale in quest'ambito, dovuto sostanzialmente a due fattori: la tremenda pigrizia intellettuale che negli ultimi vent'anni ha ufficialmente investito il nostro Paese dando come conseguenza l'attuale classe politica, d'altra parte specchio ideale di chi veramente vive oggi in Italia, e la presenza sempre più bigotta e oppressiva di Sua Santità & scagnozzi che intorpidiscono fortemente l'opinione pubblica (basti pensare alle recenti polemiche sulla pillola abortiva). Non riconoscere legittimità alle coppie gay relega queste al ruolo di elementi "anormali" nell'ordine sociale, sparute aberrazioni tenute nascoste in quanto pericolose per la sedicente concezione della "normalità" di questa nostra Italietta veterocattolica e conservatrice. Inutile dire che da tutto questo risultino esserci dei cittadini di serie A e di serie B, che non vedono riconosciuti i propri diritti pur contribuendo nè più nè meno come tutti gli altri alla sopravvivenza collettiva.

Siamo tutti uguali, ma alcuni più uguali di altri.

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editoriale di zaireeka

Sono tre/quattro giorni che sono incazzato nero.

Ho avuto uno scontro verbale bello tosto con un collega con cui da anni pensavo di aver instaurato un rapporto di stima reciproca e di franchezza, nonché, per quanto possa essere possibile in ambito lavorativo, di amicizia.

Purtroppo si è dimostrato particolarmente infantile, del tipo quelli che ti tolgono il saluto o che sulle e-mail ti chiamano per cognome (unico, tutti gli altri per nome) per farti capire che ce l'ha con te.

Oggi pomeriggio sono tornato casa ed ho acceso il televisore.

Mi trovo "Simo" Ventura che parla della sua "Isola dei famosi" ed in particolare di un tipo, non so chi, che pare sia il top dei top dei tamarri "trendy" isolani di questa edizione.

Dice che è ormai un idolo, addirittura anche un idolo di, udite udite, Aldo Busi.

Dice, Simona, che Busi le ha detto che un giorno, pur di essere reso edotto riguardo alle sue straordinarie conoscenze di strategia "isolana", sarebbe diposto anche ad insegnargli un pò di grammatica.

"Sembra un personaggio di Pasolini, nevvero?" dice l'intervistatrice.

"E' vero. Pasolini sarebbe stato pazzo di lui!!!" risponde Simona.

A questo punto non so se potrà succedere veramente, ma mi piace crederlo.

Che stasera, verso le 10:00 p.m., P.P.P improvvisamente "risorga" (è da poco passata Pasqua, non mi sembra fuori luogo, in fondo) direttamente su quella maledetta spiaggia di Ostia.

Si alzi, si rechi alla sede RAI di Roma (o di Milano, non so, del resto è tutta fantasia).

Salga al piano giusto, entri nello studio mentre "Simo" si esalta raccontando dell'ultimo lancio di noci di cocco fra "Mariangela Melato" e "Giancarlo Giannini", le metta una mano sulla bocca e la zittisca.

Dopo di che, messosi comodo e con tutte le telecamere puntate su di lui, racconti a tutt'Italia, una volta per tutte, la verità sulla Sua morte.

Ed infine, spenta definitivamente la "Televisione" e tutti i suoi "mostri", sbattuta alle spalle la porta dello studio, si incammini verso Casa per tornare a dormire definitivamente la Pace dei Giusti.

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editoriale di blechtrommel

“Ehi, non tocca a te parlare adesso?”
Iris si scuote i capelli e si accende un’altra sigaretta. Mi scruta da quelle fessure che ha per occhi e si versa un altro bicchiere. Mi sento vulnerabile e in balia di qualsiasi pensiero angoscioso.
“Bene così” dice Sol. Poi fa una pausa e dice: “...stasera mi mancano tutti”. Lei l’avrebbe capito di sicuro.
“Uno bisogna che esca un po’” lancia un’occhiata a Sol “Capisci cosa voglio dire?”.
“Oh Gesù” dice lui, guardandoci entrambi “L’hai già detto...”.
Iris, un po’ come la mia prima moglie, quando dorme sogna in maniera piuttosto violenta e d’improvviso mi prende una fitta alla caviglia, proprio dove mi ha colpito stanotte, nel sonno. Ogni tanto mi chiede della famiglia, di mio figlio.
Altroché se capisce, Iris.
Dall’arena si sente la banda che ha ricominciato a suonare e alcuni accordi riescono a superare la distanza fra noi e i musicisti.
Sol si toglie di nuovo il cappello e se lo rigira fra le mani come se volesse controllare la tesa.
“Ma è davvero fuori pericolo? I medici hanno detto che non è in coma” Rimane in attesa, fissandoci.
“Che vuoi che dicano?” sbotta Iris “Non sanno manco loro come finirà”.
“Ho visto...” dice Sol, ma non sembra molto convinto.
Siamo seduti in soggiorno, attorno al tavolo, coi copioni e delle bottiglie di chissà cosa a stabilire certe distanze. Inizio a sentire la pioggia battere sopra il tetto e mi alzo a chiudere le finestre.
“Sentite” dico “E' inutile stare qui a chiedersi come finirà. Stavamo provando, no?”.
“Già” dice Iris, guardando verso il salotto e tirando una boccata di fumo, mentre stringe gli occhi.
Riprendiamo i nostri copioni in mano e cerchiamo il punto dove avevamo interrotto.
“Mi sembra che dovessi essere tu a parlare”.
“Si, Iris. Un attimo, ho perso il segno”.
“Terza riga”
“Grazie. Ok”.
Inspiro e cerco di non pensare. Recito.
“Tesoro, non ti demoralizzare. Le cose cambieranno. Ti aiuterò io a trovarne uno, questo fine settimana. Andrà tutto bene, vedrai”.
Sol sogghigna sconfortato.
“Cazzo Sol, la vuoi piantare?! Non abbiamo concluso un cazzo stasera” dice Iris.
“Ma che hai? Non ho parlato!”
“Senti Sol” fa un profondo respiro e si abbassa di una spanna, soffiando l’aria dal naso “Nessuno di noi tre è dell’umore giusto per provare, ma dobbiamo farlo. Ok?”.
“Ok, ok...” dice lui, abbassando lo sguardo. “E' solo che mi sembra ridicolo farlo senza di loro”.
“Dobbiamo, Sol”.
“Lo so, lo so”.
Ripeto la battuta come se non fosse successo niente.
“Non so...” recita Iris.
“Davvero” dico io, e le poso le mie mani sulla sue, come da copione. Sento di non essere mai stato spontaneo in vita mia. Da piccolo pensavo sempre che la mia vita fosse uno di quei film che tanto guardavo.
Iris mi guarda e sorride. “Grazie” dice. Poi gira la pagina.

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editoriale di Taurus

In fondo ci vogliono bene. Ci avvertono, ci danno dei chiari avvisi, come il padre che protegge il suo pargoletto, i nostri beneamati politici si battono per noi, vogliono il nostro bene e solo la nostra salute.

Ricordate l'influenza H1N1? Si, proprio quella, la pericolosissima influenza che aveva colpito mezza Europa e fatto stragi e rischiava di colpirci e contaggiarci tutti. Allora i nostri beneamati onorevoli senza pensarci due volte, diedero mandato di acquistare migliaia e migliaia di dosi contenenti il famigerato vaccino, perchè in fondo loro si preoccupano della collettività, e l'hanno dimostrato con le innumerevoli conferenze stampa del ministro alla Salute Fazio prima e il nazional-popolare Topo Gigio dopo con un efficace spot.

Pazienza, se poi questa psicosi da influenza e i casi mortali si sono rivelati essere limitatissimi e rari. Un flop. Bella notizia, direte voi? E invece no, piangiamo lo stesso noi poveri Cristi.

Non è un caso se nei vari telegiornali, si sia dato più spazio prima a questa psicosi di massa, che non invece ad un epilogo amaro per le tasche dei consumatori: ovvero uno sperpero di milioni di euro di denaro pubblico (pagato da tutti), per una abnorme quantità di vaccini acquistati e rimasti inutilizzati e praticamente adesso utili per riempire le nuove discariche in via di costruzione.

Non esiste niente di indissolubile, è tutto un insieme di sfumature ben definite, di pieni e vuoti, di estremi distanti parecchio. Dunque il consumatore ci perde, ma l'azienda produttrice di quei vaccini, adesso può brindare a tarallucci e vino, per aver firmato un vantaggioso contratto che la tuteli e incassato milioni di euro, per un servizio non sfruttato appieno.

Non abbiamo dati e intercettazioni alla mano, ma non mi stupirei se certi signorotti e manager stessero festeggiando al telefono (ricordate quegli omini che brindavano al telefono dopo il terremoto in Abruzzo?), per l'enorme guadagno ricavato dall'operazione H1N1, grazie all'interdizione di qualche tecnico e Mister del Governo incapace di fare delle stime certe e creare solo ulteriori dissesti nei conti pubblici, già al macero, firmando un contratto con clausole e condizioni svantaggiose per lo Stato, per una fornitura numericamente sproporzionata.

Ma in fondo, si dice che la salute è tutto e vale più di qualunque altra cosa al mondo: dunque aprite il portafoglio adagio e sorridete, pazienza se non siete su "Scherzi a parte".

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editoriale di kosmogabri

Gianna Beretta Molla. Chi era costei?
Qualche lettore poco più attento della media avrà visto in questi giorni il trafiletto con cui qualche quotidiano ha dato la notizia della morte del marito, l’Ingegnere Pietro Molla.

Ebbene, Gianna Beretta Molla era una pediatra, classe 1922.
Aggiungiamo qualche particolare biografico, tratto dal sito ufficiale del Vaticano.
Nel settembre 1961 ella, oltre ad un marito, dicono le cronache, innamoratissimo, era già madre di tre figli: un maschietto di quattro anni e dieci mesi, e due femminucce rispettivamente di tre anni e nove mesi e di due anni e un mese.
Immaginiamoci un attimo il quadretto: Due professionisti, un medico e un ingegnere, nella Lombardia di quell’Italia in pieno boom economico, con tre deliziosi marmocchi in età prescolare.
In quello stesso mese di settembre 1961, verso il termine del secondo mese della quarta gravidanza, Gianna Beretta Molla si accorge di avere un fibroma all'utero.
La parte commovente la teniamo corta.
Nonostante sia un medico, e sappia benissimo a cosa va incontro, la signora accetta solo le cure indispensabili e non nocive al nascituro, che darà alla luce sette mesi più tardi, nell’aprile 1962.
Sette giorni dopo il parto Gianna Beretta Molla muore, lasciando 4 (quattro) orfani in tenera età ed un vedovo.

Quarantadue anni dopo, nel 2004, fu proclamata Santa dal Papa polacco. Santa. Ripeto, Santa.

Non conoscevo questa storia, fino ad oggi, 3 aprile 2010. L’ho letta negli stessi giornali che da settimane sbattono titoloni sui casi di preti sporcaccioni che mettevano le mani addosso ai chierichetti.
Ma quella dei preti dalle mani lunghe (diciamo le mani), oltre ad essere una storia risaputa anche se non per questo meno grave, è una storia che riguarda gli uomini-prete, non la Chiesa, non la Fede, non la Dottrina.
La Chiesa, oltre ad un moderato danno di immagine, non rischia nulla.
La Chiesa è la perfetta istituzione di potere davanti alla quale mi inchino.
Non per nulla ho sempre preferito i Gesuiti, ricchi, cinici e colti, al pretino di campagna dal cuore grande.

E la Chiesa non rischia nulla perché gli uomini si scandalizzano (falsamente) di questi pur gravi fatti, ma non mettono a fuoco che il vero Male, la vera vergogna che grida vendetta al Cielo, il vero cancro che divora l’Uomo come essere senziente, è proprio quella Fede e quella Dottrina contro natura che ci propone come Santa da adorare una donna la cui vicenda umana dovrebbe farci un orrore nero e senza fondo, che dovrebbe farci piangere per la sorte di bambini innocenti, che dovrebbe indignarci perché la comunità di cui facciamo parte richiede ancora i sacrifici umani. I sacrifici umani per esorcizzare la Paura della Vita, qui ed ora, e la Paura del Nulla, nel quale presto o tardi saremo felici di vederla precipitare.

P.S. Naturalmente smentisco tutto quello che c’è scritto qui sopra; bisogna essere dei pazzi per trattare temi di questa portata in poche righe, dentro una paginetta di un sito popolato da adolescenti brufolosi e vecchi rincoglioniti dalle canzonette rock.

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editoriale di enbar77

Giornata uggiosa oggi, Ilfreddo punge abbastanza e al lavoro, allo sportello 4 delle famigerate “Assicurazioni Rorix”, dirette dal terribile Ivo Avido, si è presentata gente che davvero non aveva niente da fare. Prima un certo ValerioRivoli a cui ho chiesto la targa dell’auto per compilare un modulo ed è tornato dopo mezz’ora con un cacciavite e la targa in mano. Ne arriva un’altro, pieno di tic, un po’ Psycroptic che mi chiede di parlare con un operatore. Io allibito:“Scusi ma io qua mica Spurgopozzineri! Ma guarda tu che Schizoid man mi doveva capitare!” Meno male che all’una, invece del tramezzino al Dlf avevamo organizzato un pranzo di lavoro con i colleghi d’ufficio, Flo, per gli amici Florestano, Alessandro il cantante, diminuito in Alevox, e Nicola detto Nickghostdrake, perché conosceva a memoria tutte le battute del film con la Moore e i titoli di tutte le puntate di Goldrake. Mancava Franco, ci avrebbe raggiunto in auto e infatti lo abbiamo riconosciuto subito, in lontananza, mentre strombazzava con il suo clacson anni ’30. “Beep-Deep-Beep-Deep-Frenk! Ma quanto ti ci è voluto?” Abbiamo scelto un posto carino, la rinomata trattoria “Dolomitia”, dove Fosca, la padrona, cucina prelibatezze veneto-trentine e le serve in costumi tirolesi a colpi di roboanti yodel con effetto eco. Lo stile è inconfondibile e ti avverte del suo arrivo con il suo eccezionale “Giola-la-ii-uuuuh!”. Dopo esserci ben rimpinzati di salsicce di cinghiale e carne di cervo abbiamo cantato, brilli, opere del repertorio classico napoletano tipo Core-A-Core, cercato di smaltire l’abbuffata con 500 vanesse alla vaniglia e ammazzato il caffè con tanta di quella grappa che la percentuale di tasso alcolico nel sangue aveva toccato picchi da ergastolo pari a due metri cubi. 

Tornato a casa mi sono lavato, rasato e messo in ordine. Avevo dei baffi alla Mr.Moustache e dei capelloni arruffati tipo il guru Galakordi Urtis Krat In quelle condizioni non sarei piaciuto alla mia ragazza, Teresa, che avrei incontrato nel pomeriggio. Erano tre giorni che non la sentivo né vedevo. L’ultima volta avevamo litigato a causa della mia pigrizia e disordine in casa. In questo ero davvero Senzastile. Vado a prenderla all’uscita dal lavoro. La scorgo all’orizzonte. Mi vede e sorride. Evidentemente le è passata la legittima incazzatura. Mi corre incontro come nei film ed io faccio altrettanto. Mi chiama sulle note di “Volare”- “Oh Enbar, Oh oh”. Ed io di rimando, anche per rispetto a Modugno: “Oo° Terry °oO oh oh oh!” Intento a raggiungerla dimentico che le mie scarpe non sono dotate di abs e lo scontro è inevitabile. I miei incisivi inferiori le si conficcano nella fronte che in compenso mi fa saltare quelli superiori. “Dolore! MaTaCà fatto? Stoopid! Pazzo assassino!” Andiamo di corsa dal medico di famiglia, il sanguinario AristarcoScannabue, famoso medichirotodentista dove il nome era tutto un programma. Ci guarda con il camice ornato con macchie da macellaio e ci chiede mentre affila famelico il MrBisturi in cosa può esserci utile. Con un richiamo che sembra un diktat nazista manda via il suo cane, Rupert, un alano brandeburghese che stava rosicchiando l’osso, residuo dell’ultima operazione.-“Rupertsciamenna!” Cane nebulizzato. Mentre Teresa si accarezzava la ferita con un batuffolo d’ovatta imbevuto d’Algol, il dottore tagliava e incideva manco fosse Albrecht Durer. Tra atroci sofferenze sono riuscito malamente a biascicare: ”Tottope faxxia biano ghe mi sempla ti avexe un Cappio al pollo! Tevo rimetiare tue inxixivi non tue bolari!” Alla fine lei aveva un ricamo in fronte ed io avevo chiuso l’inestetica balconata con due incisivi in ceramica tipo leprotto.

Siamo tornati a casa che stavano per iniziare i cartoni animati. Per nulla al mondo mi sarei perso “Le avventure di Darkeve”. Io affondo sulla poltrona di Vellutogrigio scansando i fumetti di Donnie Darko e Teresa si immerge nel suo solito tediosissimo yoga, pratica annoverata tra gli hobby dopo aver letto un maledetto saggio di un certo Appestato Mantrico acquistato su consiglio di un’amica da Voodoomiles, il negozio di articoli esoterici. Un giorno o l’altro glielo riduco in cenere. In televisione non c’era quasi nulla. Un film sullo sbarco ad Omahaceleb-rato da Spielberg, una puntata di Lupin, un’altra di He-Man contro Skeletron, Magomarcelo analizzava i tarocchi su un canale privato e la Goggi urlava MaledettaPrimavera dal Festival Nacional de la Cancion di El Nadador

All’improvviso Teresa si è presentata con una conturbante baby doll bianca a pois rossi. Il cerotto in fronte era grande quanto un biglietto da 5 euro ma passava in secondo piano. L’eccitamento era salito fino al diapason del cervello. “Ah Birbabirba, questo non me lo dovevi fare!” Mi guarda, mette un broncio da bambina e mi dice:” Moreee? Facciamo un po’ di ponci-ponci, eh? Tortellino mio?” Ed io come un lupo mannaro: “Ma si, bella bisteccona, facciamo pace!” -  “Eh si! Cosa vuoi che siano due punti in confronto al nostro amore, raviolone!”. Mi sbottono la camicia e mostrando la maglietta di Superman ribatto: “Ma si, dai cosa vuoi che siano due incisivi in confronto al Vortex della nostra passione, brasatona! Adesso mi Tiragiòimudand e poi fadazà-fadazà-Fedezan76 volte faremo l’amore come due armadilli!” - Un momento fragolino! Ce li hai i palloncini? Oggi sono al mio 12° giorno di ciclo, in piena ovulazione e se non tieni a freno i tuoi animaletti tra nove mesi saremo in tre!” – “Noooo! E che ‘Azzo, li ho dimenticati e la farmacia di turno sta a venti km da qui!” L’implacabile Teresa aveva un ciclo più preciso di un Vacheron Constantin e sull’argomento ne sapeva una più di Ogino-Knaus. Sconfitto prima di attaccare, la fisso negli occhi e le dico:” Oh Teresina! Ma sai che c’è di nuovo? Mi è venuta fame!”

Che cazzataaaa!

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editoriale di ilfreddo

Il tepore primaverile mi fa, affabile, l’occhiolino: ad un gelato non so dire di no durante la pausa pranzo. Si sta bene sulla panchina; né troppo caldo, né troppo freddo. Niente vento e solo risate ed aria rilassante a fare da piacevole contorno. Stavo attaccando di gusto il pistacchio, quello color criptonite, nella Piazza del Duomo quando con la coda dell’occhio qualcosa ha catturato la mia attenzione. Metto a fuoco ed ecco una famigliola uscire dal gelataio ed inforcare quattro trabiccoli elettrici a due ruote. Ben presto si sono allontanati veloci, agili e silenziosi tra la gente curiosa. Sono rimasto imbambolato per qualche istante.

Il pistacchio cola al sole e solo quando tocca la mano mi “sveglio” e chiudo la bocca che nel frattempo si era aperta. Forse nelle grandi città questi aggeggi sono già alla moda da diverso tempo, ma in questo piccolo capoluogo incastonato tra i monti no. Una novità che mi ha scioccato. Anche dopo il lavoro ho rivisto il sorriso di quella "famiglia Mulino Bianco" che stava sponsorizzando queste macchine elettriche ed il pensiero è andato più in là. A tra qualche anno, quando forse la maggior parte dei cittadini abili a camminare si sposterà la sera, nei centri storici, lasciando come scia quel fastidioso rumore elettrico. Questa società del tutto subito, facile e senza sforzo, si è dimenticata persino di avere dei piedi.

Trovo sia un insulto a chi è troppo anziano e si muove provando veramente dolore appoggiandosi ad un bastone; uno sputo in faccia nei confronti di chi invece ha handicap che non gli permettono di usare le gambe; uno pugnalata per chi, per un verso o per l’altro, le ha magari perse. Eppure questo costoso trabiccolo, se accendo la tv e mi guardo in giro, devo tristemente ammettere che ci sta a pennello nella società odierna. Dove lo sport si può praticare in salotto guardando lo schermo della TV e muovendo solo pochi passi. Mi piacerebbe avere il potere per regalare lo sguardo di un neonato; per palesare impietosamente quello che lui innocentemente vede e di conseguenza assimila. Due o più giganti che masturbano con enfasi un pezzo di plastica tra risa e incazzature mentre guardano una cosa colorata.

Inforco la scarpette per correre lontano e consumarli. I piedi. Passo dopo passo, chilometro dopo chilometro, vedo il panorama cambiare con me e mi sento bene. Arrivato in cima alla salita tendo l’orecchio e mi fermo.

Quel ronzio elettrico quassù non arriva ancora.

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editoriale di azzo

"Non sono mai stata una gran fumatrice, ma penso che l'opinione dell'America sull'erba sia davvero ridicola. Cioè, state scherzando? Se ognuno fumasse erba, il mondo sarebbe un posto migliore. Non sto mica dicendo di essere stonati tutto il giorno... se non la usi correttamente può ostacolare la tua creatività e farti chiudere in te stessa". Kirsten Dunst

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editoriale di fosca

In una società votata al consumo, che in esso trova il proprio bisogno primario e la propria più evidente debolezza, abituati come siamo all’idea che tutto sia deperibile e soprattutto sostituibile, finiamo per vivere applicando questa regola anche agli ambiti più profondi ed istintivi dell’esistenza, spaziando dalle cose materiali alle relazioni umane e sociali.
Abituati ai rasoi usa e getta, ai cellulari in promozione, alle tv al plasma e alla macchina a rate, sembra che i più non siano ormai capaci di distinguere cosa valga davvero, nel senso più ampio del termine, valore, e cosa no, cosa sia davvero sacrificabile e cosa necessario, cosa e soprattutto chi, quale affetto valga la pena di conservare e custodire con cura, e cosa invece vada gettato nel grande pattume esistenziale.
Tutto è intercambiabile, alienati e convinti dell’idea che lasciata una cosa sicuramente potremo cercarne e trovarne una migliore, magari completamente diversa, o anche no, nulla ci ferma, nulla è più potente della nostra folle corsa verso la perenne quanto utopistica sconfitta dell'insoddisfazione.
Così assistiamo a questo grande rinnovamento, vedendo le persone a noi vicine cambiare una relazione o chiudere un matrimonio con la stessa velocità con cui cambiano l’arredamento, contendendosi i figli quasi come farebbero con l’ultimo capo di abbigliamento firmato in super saldo nella boutique del centro o come l’ultimo fichissimo modello di orologio da polso.
Del resto siamo abituati a cambiare tutto e spesso, nel solo tempo necessario, per esempio, ad entrare e girare in un negozio tra altri individui alla ricerca di quel che di speciale possa attirare la nostra pigra attenzione.
Chissà cosa pensano certi anziani di questa nostra fame insaziabile.

Certe sere rientro a casa, stanca morta, e senza dire una parola metto su uno di quelli che definisco i miei cd preistorici che farebbero rabbrividire un adolescente divora musica fast-food, uno di quelli talmente datati che mia zia avrebbe definito “del voltes-indrè”, letteralmente “talmente vecchio che per vederlo dovresti voltarti all’indietro”. Faccio quelle due telefonate ad amici che mi seguono pazientemente da decenni e ripeto all’infinito i gesti della routine che oltre ad una consuetudine un po’ annoiata e snob mi danno una tiepida sicurezza.

Ma soprattutto guardo dentro i suoi occhi sapendo che per quanto potremo mai discutere e litigare, non andremmo comunque facilmente nel giardino del vicino a cercare qualcosa di più nuovo e per questo più interessante, pur non sapendo con certezza quanto questo tacito impegno potrà durare e vivere con noi, di noi.

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editoriale di Bartleboom

Quando ero bambino sognavo di fare l’ingegnere.
Passavo intere giornate a giocare con i Lego e mi immaginavo da grande con una lunga coda di cavallo a progettare case e automobili, ponti e aeroplani. Perchè pensavo che non ci fosse niente di più bello del mettere insieme dei pezzi che da soli non servono a nulla e riuscire a costruirci qualcosa che funziona davvero.
Con gli anni ho capito che questa cosa, in realtà, la fa il mio carrozziere, ma allora ero giovane ed inesperto delle cose della vita, e così mi lasciavo crescere i capelli e sognavo di fare l’ingegnere.

Da ragazzo sognavo di fare il dottore.
Sfoggiando una pettinatura imperturbabile (curata, ma non eccessivamente seriosa), avrei scoperto vaccini, debellato epidemie, zinzignato infermiere devote, moltiplicato i pani e i pesci.
E così mi pettinavo accuratamente tutte le mattine, nella speranza di arrivare, un giorno, a dire anche io: “Signora, le serve la fattura?”, col sorriso monello sul viso e l’orologio d’oro al polso.

Al momento di iscrivermi all’università, sognavo di fare l’avvocato.
Mi immaginavo baluardo a difesa dello Stato, delle istituzioni, della società civile e della legge.
E sognavo una bella casa in città e una bella casa al mare. Una bella macchina. Bei vestiti. E un bel ciuffo ribelle da rimettere a posto, con gesto sicuro e sbarazzino, al termine di un’arringa appassionata.

Oggi sogno un mutuo. Decennale. A tasso fisso. Che mi permetta di acquistare una casa decorosa per me e per quella che sarà la mia famiglia.
Sogno di avere sempre soldi a sufficienza per prenotare una visita specialistica senza passare dalla mutua, per avere sempre il serbatoio della macchina più o meno pieno e per pagare le bollette. Sogno la salute per me e per i miei cari. E, perché no, sogno di non morire troppo presto, ma nemmeno troppo tardi.

A volte penso che i miei erano sogni impossibili.
Altre volte che non mi sono impegnato abbastanza per realizzarli.
Altre ancora che è la vita a ridimensionare i sogni.

Ma la maggior parte delle volte non penso a niente, mi misuro la stempiatura allo specchio e mi chiedo: “Ma come è possibile che non abbiano ancora trovato una cura per la calvizie?”.

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editoriale di kosmogabri

Non so se ve ne siete accorti, ma i giornali di mezzo mondo scrivono che l'economia, seppur lentamente, ha ripreso a crescere. Questo è il titolo, quello che richiama l'attenzione, che ti fa sospirare un: "Ah, che culo!" e poi, in basso, più piccolo, perché sicuramente più insignificante per noi che andiamo di fretta, perché il tempo è denaro, la vita è breve e blablabla, ci scrivono che, nonostante la leggera ripresa, la disoccupazione continua ad avanzare.

Ma come fa ad aumentare la disoccupazione se il nostro sistema economico è in ripresa? Come farà mai? Fa allo stesso modo di come fa negli Stati Uniti, campione più che adeguato, che, nonostante sia il paese più ricco del mondo continua a produrre disoccupati su disoccupati, anche perché dicevano quegli stronzi degli economisti neo-classici che quando il sistema è perfettamente in equilibrio - roba che è più semplice vedere il Torino vincere di nuovo lo scudetto - ci saranno, comunque, un 4-5% di disoccupazione "fisiologica". Bello, insomma.

Il punto non è da dove arriva la disoccupazione (arriva dalla rivoluzione industriale, prima i contadini badavano a sé stessi ed alla propria sussistenza) o la completa assurdità del nostro sistema economico che richiede per ogni persona ricca almeno 500 povere - almeno così sosteneva Adam Smith, uno che, comunque, non ha mai scritto per "Repubblica". E non si stratta nemmeno di disquisizioni di stampo filosofico, nonostante sia palese, per usare le parole di Nietzche, che siamo tutti passati dallo status di "servi della gleba" a quello di "servi salariati" o che i termini "sviluppo" e "progresso" - per ricordare Pasolini - non sono sinonimi, cosa che, comunque, può confermarvi un qualsiasi abitante del Delta del Niger o di Taranto.

Il punto è che siamo arrivati alla crisi conclusiva e finale, quella tanto agognata da Marx che, culo suo, almeno su una cosa c'ha beccato. In verità non c'ha beccato nemmeno su questo, ma gliel'abbuono per non risultare antisemita oltre i civili parametri (battuta di spirito, ridere please), e che cazzo (volgarità gratuita, ridere please), ma rimane che non ne ha previsto i modi. Per lui si trattava della suprema crisi di sovrapproduzione delle merci, crisi scientificamente cicliche e reali, ed anche in questo ha sbagliato.
Con il mercato globale, culo nostro, non potrà più esserci una crisi delle merci, con la pubblicità e l'inculcare bisogni inutili anche all'abitante del Delta del Niger serviranno, nonostante gli occhi che si ritrova, un bel paio di Ray Ban a goccia, magari specchiati, poi in sella al cammello e vai coi Chips!

L'attuale crisi è una crisi di sovrapproduzione, ma non delle merci. E' una crisi di sovrapproduzione umana.
Un tempo si zappava la terra (settore primario), poi si fabbricavano bulloni (settore industriale), poi si fabbricava energia e altre cose nocive (seconda rivoluzione industriale) e poi s'è cominciato a vendere servizi (settore terziario).
Ecco, un tempo, se volevamo andare a vedere come e di cosa moriva l'abitante del Delta del Niger andavamo dalla nostra agenzia di viaggi preferita, si prenotava un volo e un albergo; poi, pochi giorni prima di partire si passava alla banca a cambiare i soldi. In questo modo davamo da mangiare al proprietario dell'agenzia di viaggi; al benzinaio, se ci recavamo all'agenzia con l'auto, o al comune, se andavamo con la metro; all'usciere della banca che aveva dovuto distogliere lo sguardo dalla Gazzetta dello Sport al nostro passaggio e allo stronzo che lavorava allo sportello. Oggi, se ancora c'interessa andare a vedere di cosa muore l'abitante del Delta del Niger prenotiamo aereo ed albergo comodamente da casa e i soldi li ritiriamo al bancomat, appena arrivati, ammesso ce se sia uno, in Niger, ma io dico di sì. Il terzo mondo è pur sempre di questo mondo.
Questa è la nostra crisi. Le mansioni, il tessuto di rapporti lavorativi e sociali che seguivano ad una qualsiasi nostra azione fino a cinque anni fa sono stati completamente spazzati via dall'E-Commerce e dal "progresso" tecnologico.

Il vero problema è che con ogni nostro click, per ogni servizio ottenuto comodamente da casa c'è qualcuno che viene rimpiazzato da esso, dal nostro click. Non è neppure la macchina che fa fuori l'uomo, come da retorica socialista degli albori. E' proprio l'uomo che fa fuori l'altro uomo. Una sorta di lotta biblica in cui il padre di famiglia che perisce non è spazzato dalla collera di Dio, causa nubifragio, perché sodomizzava le pecore e bestemmiava. No, è sommerso da un nubifragio debiti di una vita propostagli che non può sostenere e che gli è stata definitivamente sottratta da una connessione adsl e addio televisore al plasma.
Questa crisi, che, furbescamente, associano a quella del '29, non è quella che c'hanno presentato. Non è una crisi finanziaria divenuta reale. Questa crisi, purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista, è ben più grave ed è stata fatta scattare nel momento in cui si è avuta una crisi finanziaria, perché giustificare un numero crescente di disoccupati, in questo evoluto ed esuberante sistema economico, con altre frasi all'infuori del solito "Eh, c'è crisi" è dura. Questa è una crisi d'esaurimento del sistema, non è un caso se il precedente passo collettivo dell'economia globale è stato trasformare il "lavoro a tempo indeterminato" in precariato a vita. E' stato un preparare le condizioni iniziali, come sfilarsi il costume dalle chiappe aspettando lo start per partire per i 100 metri stile libero.

E allora diciamocelo. Siamo arrivati all'ultima stazione, al capolinea. Tanti, troppi esseri che richiedono servizi che possono ottenere da soli o merci che possono esser fabbricate senza l'ausilio di nessun uomo. Dieci, massimo quindici anni e il Capitalismo, come oggi lo conosciamo, sarà storia passata, ammesso che non arrivi prima la guerra perché, si sa, quando le cose vanno a rilento la guerra diventa l'unico modo per far ripartire il gioco dall'inizio e dare una accelerata e con una guerra, di questi tempi, finisce come la pensava Kubrick, con due idioti ubriachi che mandano il mondo all'altro mondo.

Oh, allora niente scherzi: dieci, massimo quindici anni e ci ritroviamo qui. Mi prenoto per il posto di sciamano un po' rattuso.

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editoriale di JURIX

Ogni tanto mi capita di guardare la televisione, quando sono fuori casa. Al bar, a casa di amici durante una partita a carte oppure quando lavoro di notte e quei 15 minuti di zapping a casaccio si fanno.

Stasera è domenica, pullulano le trasmissioni sportive, magari mi becco i gol del Parma. Magari.
Perchè una volta esisteva "90° Minuto", ed in 20 minuti era possibile vedere tutti i servizi, compresi la serie B e la lettura dei risultati di C. Ora no, le tribune di approfondimento calcistiche durano come un colossal cinematografico degli anni '50, e contando che la serie B la fanno giocare da martedì a mezzogiorno sino al sabato alle 16:45, potete ben immaginare che argomenti si inventi il "parterre" di esperti composto da ex-modelle, avvocati, tuttologi vari e attori di soap opera presente in studio. Togliendo le trasmissioni dei canali "minori" durante le quali una persona normale "disimpara l'itagliano", da una parte c'è Ciccio Valenti e dall'altra fanno pure parlare Bagni. Penso di essermi spiegato.

Comunque, l'altra sera ho avuto una botta di culo, vista anche l'importanza di Bari-Parma che insieme a Chievo-Catania penso sia stato l'ultimo servizio prima dell'hockey su cemento, e ad un orario imprecisato della notte, probabilmente dopo aver discusso sulla nuova ragazza di Ronaldinho o sul risvolto dei calzini di Del Piero: TADAAAM, mi son visto la sintesi; Bari-Parma=1-1, partita tranquilla, alla fine tutti contenti per il punticino, sento pure come curiosità che per la prima volta in serie A ambedue i guardalinee erano ragazze.

Gol, Ri-gol, fischio finale, e con uno share prossimo al 2% mi guardo le interviste del dopo partita, primo naturalmente Masiello, suo il bel gol che fissa (meritatamente) il segno "X".
L'inviato a bordocampo di turno dà il meglio di sè e trova una domanda più banale di: "A chi dedichi il gol?" e stuzzicando il giocatore sulle assistenti di gara, quest' ultimo se ne esce (più o meno) con: "Sì se la sono cavata, anche se non è il loro lavoro"... ma che cazzo vuol dire? Non è finita perchè il difensore barese continua dicendo: "Sì dai, insomma cerchiamo di dar loro una mano..."; cerchiamo? E chi? Noi uomini? O noi "mondo del calcio"?

Per l'amor di dio, frase innocente, detta a caldo, c'è un milione (o 150.000...) di problemi più grossi in giro, ma a me ha colpito come certi stereotipi rimangano cementati nel quotidiano e che ci siano lavori per i quali una donna non sia adatta solo in quanto tale.
Mah...comunque ho deciso: la prossima volta torno a guardarmi le azioni salienti su Youtube senza audio e con i Ramones in sottofondo.

Che poi, se posso dire la mia, secondo me non era rigore...

immagine: Cristina Cinidi più