Mio malgrado, non sono una persona che si commuove spesso. La mia professoressa d'italiano, al liceo, mi ripeteva spesso che sono una persona "acomunicativa", che non vuole comunicare realmente con nessuno, che vuole tenere una parte di sé per sé. Ed è vero, di me parlo con me e sono incapace di commuovermi. Le lacrime, mio malgrado, le regalo di rado pur sentendone la necessità. Capita a tutti, credo, di sentire l'esigenza di svuotarsi, che sia lo scroto o il cuore. Ecco.
I percorsi delle mie lacrime sono guidati, mi conosco. Le cose che mi commuovono sono quelle che parlano di me, quelle in cui riconosco una parte, un passaggio della mia storia, del mio viaggio. Sono un egocentrico, mi piango, quasi, addosso. Per discolparmi aggiungo anche che sono un egocentrico non per scelta, ma per assenza di alternative: ad avercelo un prossimo adeguato.
Mi commuove la tomba di mia nonna e il ricordo delle sue mani. Quelle mani che d'inverno si sporcavano, insieme alle mie, di tuorlo d'uovo e farina, nei freddi pomeriggi, nella speranza che le chiacchiere venissero buone.
Mi commuove il ricordo del mio gatto, Cartesio, che pesava 12 chili quando è morto e che dormiva poggiandosi sui miei piedi pur di riscaldarmi e questo nonostante abbia passato la mia infanzia tagliandogli i baffi e tentando di chiuderlo nella lavatrice.
Mi commuove il ricordo del mio cane, Miky, che odiava, eccetto me, il mondo intero e che mi ha allietato nei momenti più bui con modi che nemmeno sapeva di possedere. Mi commuove il ricordo del suo corpo, sporco d'urina e chiuso in una gabbietta di una clinica veterinaria, dopo trentacinque crisi convulsive in quindici ore.
Mi commuove il sorriso di "Uèuè". Non so come si chiami questo africano che mendica all'uscita del mio tabaccaio, ma così lo chiamo perché questo è quel che dice quando mi vede arrivare: "Uèuè". Ha gli occhi tristi e quando sorride, più che sorridere, sembra arricciare il viso in una smorfia di inadeguatezza, come se sorridere, per lui, fosse una cosa rara. Non so come si chiamI, ma gli voglio bene.
Mi commuove Cesare Pavese, perché siamo cresciuti assieme, perché mi ha cresciuto e perché mi ha parlato un sacco di volte.
Mi commuove John Fante perché Nick Bandini è mio nonno ed io, come Arturo Bandini, amo il vecchio perché Dostoevskjj mi ha spiegato come fare.
Mi commuove Pino Daniele perché "Terra Mia" è la storia, l'inizio e la fine di Napoli e di tutti i napoletani. Perché prima ancora d'esser me stesso sono un napoletano, perché non desidero esser nient'altro e perché "una camminata dentro i vicoli, in mezzo agli altri" è la cosa più forte che abbia mai sentito pronunciare. Mi commuove perché lo sento, non l'ascolto.
Mi commosse, una volta, una tela esposta alla National Gallery che ritraeva il golfo di Napoli con una luce scura, all'alba forse o subito dopo un tramonto invernale. L'autore era un certo "Anonimo napoletano", come a dire che quello è il sentire collettivo e così mi commosse. Capita.
Andavo a letto, aspettavo il sonno, ho visto Sanremo. Sapevo che Nino D'Angelo partecipava, come lo sapevo non lo so. Non l'ho visto cantare, non ho retto cinque minuti, in fondo mi amo anch'io. Però oggi ho cercato la canzone, l'ho trovata. Mi sono trovato. Ho pianto. L'ho fatta ripartire per cinque volte ed ho pianto. Pianto, pianto, pianto.
Dentro c'è tutto, spiega tutto. Al diavolo le spiegazioni sociologiche, economiche, politiche. A 'fanculo lo struttural-funzionalismo, a 'fanculo Lewis. Dentro ci sono le vite di tutti i meridionali, di tutti gli ostaggi d'Italia, di chi "cresce col pane amaro" ed è per questo "un italiano straniero".
Nino D'Angelo mi ha commosso, roba che sarebbe più semplice ammettere la propria omessualità per un omofobico, ma, in fondo, non mi importa. Sto bene e non vado oltre, anche perché è il ritornello a suggerirmi: "Meridionale, simm' terra chin' e mare ca nisciun' po capì". Zanzà
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