editoriale di azzo

"Non sono mai stata una gran fumatrice, ma penso che l'opinione dell'America sull'erba sia davvero ridicola. Cioè, state scherzando? Se ognuno fumasse erba, il mondo sarebbe un posto migliore. Non sto mica dicendo di essere stonati tutto il giorno... se non la usi correttamente può ostacolare la tua creatività e farti chiudere in te stessa". Kirsten Dunst

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editoriale di fosca

In una società votata al consumo, che in esso trova il proprio bisogno primario e la propria più evidente debolezza, abituati come siamo all’idea che tutto sia deperibile e soprattutto sostituibile, finiamo per vivere applicando questa regola anche agli ambiti più profondi ed istintivi dell’esistenza, spaziando dalle cose materiali alle relazioni umane e sociali.
Abituati ai rasoi usa e getta, ai cellulari in promozione, alle tv al plasma e alla macchina a rate, sembra che i più non siano ormai capaci di distinguere cosa valga davvero, nel senso più ampio del termine, valore, e cosa no, cosa sia davvero sacrificabile e cosa necessario, cosa e soprattutto chi, quale affetto valga la pena di conservare e custodire con cura, e cosa invece vada gettato nel grande pattume esistenziale.
Tutto è intercambiabile, alienati e convinti dell’idea che lasciata una cosa sicuramente potremo cercarne e trovarne una migliore, magari completamente diversa, o anche no, nulla ci ferma, nulla è più potente della nostra folle corsa verso la perenne quanto utopistica sconfitta dell'insoddisfazione.
Così assistiamo a questo grande rinnovamento, vedendo le persone a noi vicine cambiare una relazione o chiudere un matrimonio con la stessa velocità con cui cambiano l’arredamento, contendendosi i figli quasi come farebbero con l’ultimo capo di abbigliamento firmato in super saldo nella boutique del centro o come l’ultimo fichissimo modello di orologio da polso.
Del resto siamo abituati a cambiare tutto e spesso, nel solo tempo necessario, per esempio, ad entrare e girare in un negozio tra altri individui alla ricerca di quel che di speciale possa attirare la nostra pigra attenzione.
Chissà cosa pensano certi anziani di questa nostra fame insaziabile.

Certe sere rientro a casa, stanca morta, e senza dire una parola metto su uno di quelli che definisco i miei cd preistorici che farebbero rabbrividire un adolescente divora musica fast-food, uno di quelli talmente datati che mia zia avrebbe definito “del voltes-indrè”, letteralmente “talmente vecchio che per vederlo dovresti voltarti all’indietro”. Faccio quelle due telefonate ad amici che mi seguono pazientemente da decenni e ripeto all’infinito i gesti della routine che oltre ad una consuetudine un po’ annoiata e snob mi danno una tiepida sicurezza.

Ma soprattutto guardo dentro i suoi occhi sapendo che per quanto potremo mai discutere e litigare, non andremmo comunque facilmente nel giardino del vicino a cercare qualcosa di più nuovo e per questo più interessante, pur non sapendo con certezza quanto questo tacito impegno potrà durare e vivere con noi, di noi.

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editoriale di Bartleboom

Quando ero bambino sognavo di fare l’ingegnere.
Passavo intere giornate a giocare con i Lego e mi immaginavo da grande con una lunga coda di cavallo a progettare case e automobili, ponti e aeroplani. Perchè pensavo che non ci fosse niente di più bello del mettere insieme dei pezzi che da soli non servono a nulla e riuscire a costruirci qualcosa che funziona davvero.
Con gli anni ho capito che questa cosa, in realtà, la fa il mio carrozziere, ma allora ero giovane ed inesperto delle cose della vita, e così mi lasciavo crescere i capelli e sognavo di fare l’ingegnere.

Da ragazzo sognavo di fare il dottore.
Sfoggiando una pettinatura imperturbabile (curata, ma non eccessivamente seriosa), avrei scoperto vaccini, debellato epidemie, zinzignato infermiere devote, moltiplicato i pani e i pesci.
E così mi pettinavo accuratamente tutte le mattine, nella speranza di arrivare, un giorno, a dire anche io: “Signora, le serve la fattura?”, col sorriso monello sul viso e l’orologio d’oro al polso.

Al momento di iscrivermi all’università, sognavo di fare l’avvocato.
Mi immaginavo baluardo a difesa dello Stato, delle istituzioni, della società civile e della legge.
E sognavo una bella casa in città e una bella casa al mare. Una bella macchina. Bei vestiti. E un bel ciuffo ribelle da rimettere a posto, con gesto sicuro e sbarazzino, al termine di un’arringa appassionata.

Oggi sogno un mutuo. Decennale. A tasso fisso. Che mi permetta di acquistare una casa decorosa per me e per quella che sarà la mia famiglia.
Sogno di avere sempre soldi a sufficienza per prenotare una visita specialistica senza passare dalla mutua, per avere sempre il serbatoio della macchina più o meno pieno e per pagare le bollette. Sogno la salute per me e per i miei cari. E, perché no, sogno di non morire troppo presto, ma nemmeno troppo tardi.

A volte penso che i miei erano sogni impossibili.
Altre volte che non mi sono impegnato abbastanza per realizzarli.
Altre ancora che è la vita a ridimensionare i sogni.

Ma la maggior parte delle volte non penso a niente, mi misuro la stempiatura allo specchio e mi chiedo: “Ma come è possibile che non abbiano ancora trovato una cura per la calvizie?”.

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editoriale di kosmogabri

Non so se ve ne siete accorti, ma i giornali di mezzo mondo scrivono che l'economia, seppur lentamente, ha ripreso a crescere. Questo è il titolo, quello che richiama l'attenzione, che ti fa sospirare un: "Ah, che culo!" e poi, in basso, più piccolo, perché sicuramente più insignificante per noi che andiamo di fretta, perché il tempo è denaro, la vita è breve e blablabla, ci scrivono che, nonostante la leggera ripresa, la disoccupazione continua ad avanzare.

Ma come fa ad aumentare la disoccupazione se il nostro sistema economico è in ripresa? Come farà mai? Fa allo stesso modo di come fa negli Stati Uniti, campione più che adeguato, che, nonostante sia il paese più ricco del mondo continua a produrre disoccupati su disoccupati, anche perché dicevano quegli stronzi degli economisti neo-classici che quando il sistema è perfettamente in equilibrio - roba che è più semplice vedere il Torino vincere di nuovo lo scudetto - ci saranno, comunque, un 4-5% di disoccupazione "fisiologica". Bello, insomma.

Il punto non è da dove arriva la disoccupazione (arriva dalla rivoluzione industriale, prima i contadini badavano a sé stessi ed alla propria sussistenza) o la completa assurdità del nostro sistema economico che richiede per ogni persona ricca almeno 500 povere - almeno così sosteneva Adam Smith, uno che, comunque, non ha mai scritto per "Repubblica". E non si stratta nemmeno di disquisizioni di stampo filosofico, nonostante sia palese, per usare le parole di Nietzche, che siamo tutti passati dallo status di "servi della gleba" a quello di "servi salariati" o che i termini "sviluppo" e "progresso" - per ricordare Pasolini - non sono sinonimi, cosa che, comunque, può confermarvi un qualsiasi abitante del Delta del Niger o di Taranto.

Il punto è che siamo arrivati alla crisi conclusiva e finale, quella tanto agognata da Marx che, culo suo, almeno su una cosa c'ha beccato. In verità non c'ha beccato nemmeno su questo, ma gliel'abbuono per non risultare antisemita oltre i civili parametri (battuta di spirito, ridere please), e che cazzo (volgarità gratuita, ridere please), ma rimane che non ne ha previsto i modi. Per lui si trattava della suprema crisi di sovrapproduzione delle merci, crisi scientificamente cicliche e reali, ed anche in questo ha sbagliato.
Con il mercato globale, culo nostro, non potrà più esserci una crisi delle merci, con la pubblicità e l'inculcare bisogni inutili anche all'abitante del Delta del Niger serviranno, nonostante gli occhi che si ritrova, un bel paio di Ray Ban a goccia, magari specchiati, poi in sella al cammello e vai coi Chips!

L'attuale crisi è una crisi di sovrapproduzione, ma non delle merci. E' una crisi di sovrapproduzione umana.
Un tempo si zappava la terra (settore primario), poi si fabbricavano bulloni (settore industriale), poi si fabbricava energia e altre cose nocive (seconda rivoluzione industriale) e poi s'è cominciato a vendere servizi (settore terziario).
Ecco, un tempo, se volevamo andare a vedere come e di cosa moriva l'abitante del Delta del Niger andavamo dalla nostra agenzia di viaggi preferita, si prenotava un volo e un albergo; poi, pochi giorni prima di partire si passava alla banca a cambiare i soldi. In questo modo davamo da mangiare al proprietario dell'agenzia di viaggi; al benzinaio, se ci recavamo all'agenzia con l'auto, o al comune, se andavamo con la metro; all'usciere della banca che aveva dovuto distogliere lo sguardo dalla Gazzetta dello Sport al nostro passaggio e allo stronzo che lavorava allo sportello. Oggi, se ancora c'interessa andare a vedere di cosa muore l'abitante del Delta del Niger prenotiamo aereo ed albergo comodamente da casa e i soldi li ritiriamo al bancomat, appena arrivati, ammesso ce se sia uno, in Niger, ma io dico di sì. Il terzo mondo è pur sempre di questo mondo.
Questa è la nostra crisi. Le mansioni, il tessuto di rapporti lavorativi e sociali che seguivano ad una qualsiasi nostra azione fino a cinque anni fa sono stati completamente spazzati via dall'E-Commerce e dal "progresso" tecnologico.

Il vero problema è che con ogni nostro click, per ogni servizio ottenuto comodamente da casa c'è qualcuno che viene rimpiazzato da esso, dal nostro click. Non è neppure la macchina che fa fuori l'uomo, come da retorica socialista degli albori. E' proprio l'uomo che fa fuori l'altro uomo. Una sorta di lotta biblica in cui il padre di famiglia che perisce non è spazzato dalla collera di Dio, causa nubifragio, perché sodomizzava le pecore e bestemmiava. No, è sommerso da un nubifragio debiti di una vita propostagli che non può sostenere e che gli è stata definitivamente sottratta da una connessione adsl e addio televisore al plasma.
Questa crisi, che, furbescamente, associano a quella del '29, non è quella che c'hanno presentato. Non è una crisi finanziaria divenuta reale. Questa crisi, purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista, è ben più grave ed è stata fatta scattare nel momento in cui si è avuta una crisi finanziaria, perché giustificare un numero crescente di disoccupati, in questo evoluto ed esuberante sistema economico, con altre frasi all'infuori del solito "Eh, c'è crisi" è dura. Questa è una crisi d'esaurimento del sistema, non è un caso se il precedente passo collettivo dell'economia globale è stato trasformare il "lavoro a tempo indeterminato" in precariato a vita. E' stato un preparare le condizioni iniziali, come sfilarsi il costume dalle chiappe aspettando lo start per partire per i 100 metri stile libero.

E allora diciamocelo. Siamo arrivati all'ultima stazione, al capolinea. Tanti, troppi esseri che richiedono servizi che possono ottenere da soli o merci che possono esser fabbricate senza l'ausilio di nessun uomo. Dieci, massimo quindici anni e il Capitalismo, come oggi lo conosciamo, sarà storia passata, ammesso che non arrivi prima la guerra perché, si sa, quando le cose vanno a rilento la guerra diventa l'unico modo per far ripartire il gioco dall'inizio e dare una accelerata e con una guerra, di questi tempi, finisce come la pensava Kubrick, con due idioti ubriachi che mandano il mondo all'altro mondo.

Oh, allora niente scherzi: dieci, massimo quindici anni e ci ritroviamo qui. Mi prenoto per il posto di sciamano un po' rattuso.

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editoriale di JURIX

Ogni tanto mi capita di guardare la televisione, quando sono fuori casa. Al bar, a casa di amici durante una partita a carte oppure quando lavoro di notte e quei 15 minuti di zapping a casaccio si fanno.

Stasera è domenica, pullulano le trasmissioni sportive, magari mi becco i gol del Parma. Magari.
Perchè una volta esisteva "90° Minuto", ed in 20 minuti era possibile vedere tutti i servizi, compresi la serie B e la lettura dei risultati di C. Ora no, le tribune di approfondimento calcistiche durano come un colossal cinematografico degli anni '50, e contando che la serie B la fanno giocare da martedì a mezzogiorno sino al sabato alle 16:45, potete ben immaginare che argomenti si inventi il "parterre" di esperti composto da ex-modelle, avvocati, tuttologi vari e attori di soap opera presente in studio. Togliendo le trasmissioni dei canali "minori" durante le quali una persona normale "disimpara l'itagliano", da una parte c'è Ciccio Valenti e dall'altra fanno pure parlare Bagni. Penso di essermi spiegato.

Comunque, l'altra sera ho avuto una botta di culo, vista anche l'importanza di Bari-Parma che insieme a Chievo-Catania penso sia stato l'ultimo servizio prima dell'hockey su cemento, e ad un orario imprecisato della notte, probabilmente dopo aver discusso sulla nuova ragazza di Ronaldinho o sul risvolto dei calzini di Del Piero: TADAAAM, mi son visto la sintesi; Bari-Parma=1-1, partita tranquilla, alla fine tutti contenti per il punticino, sento pure come curiosità che per la prima volta in serie A ambedue i guardalinee erano ragazze.

Gol, Ri-gol, fischio finale, e con uno share prossimo al 2% mi guardo le interviste del dopo partita, primo naturalmente Masiello, suo il bel gol che fissa (meritatamente) il segno "X".
L'inviato a bordocampo di turno dà il meglio di sè e trova una domanda più banale di: "A chi dedichi il gol?" e stuzzicando il giocatore sulle assistenti di gara, quest' ultimo se ne esce (più o meno) con: "Sì se la sono cavata, anche se non è il loro lavoro"... ma che cazzo vuol dire? Non è finita perchè il difensore barese continua dicendo: "Sì dai, insomma cerchiamo di dar loro una mano..."; cerchiamo? E chi? Noi uomini? O noi "mondo del calcio"?

Per l'amor di dio, frase innocente, detta a caldo, c'è un milione (o 150.000...) di problemi più grossi in giro, ma a me ha colpito come certi stereotipi rimangano cementati nel quotidiano e che ci siano lavori per i quali una donna non sia adatta solo in quanto tale.
Mah...comunque ho deciso: la prossima volta torno a guardarmi le azioni salienti su Youtube senza audio e con i Ramones in sottofondo.

Che poi, se posso dire la mia, secondo me non era rigore...

immagine: Cristina Cini di più
editoriale di zaireeka

Una delle prime volte che spedii un mio editoriale a DeBaser mi accorsi solo dopo averlo fatto di aver commesso un errore sintattico di "distrazione" nella chiosa finale.

Proprio nell'ultima riga, quella che, almeno nel mio stile, è solita suggellare il (pessimo) senso del tutto.

Non ricordo esattamente l'errore, ma ricordo perfettamente che mi domandai se il mio "editor" avrebbe notato la cosa ed avrebbe corretto l'errore.

Se, leggendolo, avrebbe mantenuta l'attenzione desta fino alla fine in modo da beccare l'errore, porre rimedio, e fare in qualche misura l'editoriale "suo".

O se mi avrebbe semplicemente preso a male parole.

Tempo dopo mi successe un'altra cosa simile in ambito lavorativo.

Un documento "tecnico" draft di specifiche S/W ricevuto da un committente (un malloppazzo di 500 pagine, una palla mortale...) su cui fornire commenti, con un requisito "burla" nell'ultima pagina inserito ad arte al fine di valutare il livello di attenzione nell'analizzare il documento fino all'ultima pagina.

In uno dei miei stralunati salti iper-metaforici, conditi da considerazioni cervellotiche sul libero arbitrio (o, meglio, sulla sua apparente illusorietà), mi venne allora da pensare al Divino Artista.

Sì, parlo proprio di Lui, l'Alfa e l'Omega e tutto quello che c'è in mezzo.

Colui che ha scritto il copione di questa bellissima storia dell'Universo che tutti recitiamo ogni giorno, spedita da chissà dove.

E se la nostra libertà consistesse semplicemente nell'essere, piuttosto che attori, gli editors, o, meglio, i correttori di bozze di una versione draft del suo più grande Capolavoro?

Non sarebbe poi tanto male, in fondo.

Pensate all'editor che invece di "correggere" Dio, deve correggere me.

In questo caso, cari ragazzi, lo dico a voi ma lo dico anche a me, manteniamoci svegli fino alla fine.

Oltre ad un bel po' di noia, ai tanti scherzi, agli errori non voluti ed agli altri messi ad arte per sondare la nostra attenzione, chissà che non ci scappi anche qualche piacevole dolce sorpresa, che solo la Sua mente infinita può aver pensato, e che possiamo fare "nostra".

E che spieghi definitivamente il senso del tutto.

Al massimo, se le sorprese trovate non ci saranno piaciute o non ci avranno resi pienamente felici, ci toccherà scrivere sul nostro epitaffio:

"Hanno vissuto perchè in fondo, nell'Universo, non c'era comunque niente di più bello da fare ...".

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editoriale di sfascia carrozze


Direttore
, perché ha mentito a milioni di persone dicendo che l’avvocato Mills è stato assolto anziché aver ottenuto la prescrizione?

Non ho mai mentito, mai!

Non è vero che il Tg1 ha detto: "Mills è stato assolto?".

In otto edizioni del Tg1 ho detto quello che dovevo dire. Poi c’è stata quella sintesi...

Lei è stato intercettato mentre dice a Berlusconi che al suo richiamo lei è sempre pronto.

Questo lo dice lei!

Prima delle dichiarazioni di Spatuzza ha detto anche che se: "A Palermo fanno qualche scherzetto intervengo io". Lo dice lei questo! Lei! Lei era in contatto con la "cricca" e poi ha fatto un editoriale contro quelle intercettazioni.

Non sapevo assolutamente di essere intercettato. E quello che ho detto lo ripeterei ancora adesso.

Ha mai assecondato richieste del ministro Tremonti di dare meno spazio a Brunetta?

No, assolutamente no.

Direttore, le pare corretto essere a disposizione del premier?

Io non sono a disposizione, lo sono come lei è a disposizione di Travaglio.

Io non mentirei se qualcuno me lo chiedesse.

Ma neanche io mento.

Dire che Mills è stato assolto, mentre in realtà il reato per cui era stato giudicato è risultato prescritto dopo una condanna, non è una bugia?

Ci sono otto edizioni del Tg1 in cui diciamo che il reato è prescritto. Per quanto riguarda il titolo c’è una scuola di pensiero, e se lei studia probabilmente se ne accorgerà, che dice che si può utilizzare nel linguaggio... diciamo volgare della televisione, un termine del genere. La sera poi torniamo a parlare di prescrizione, e il comitato del Tg1 prende atto con soddisfazione della precisazione. Questo è un atteggiamento strumentale tutto votato a fare campagna elettorale: banaaaale!

Lo sanno tutti che assoluzione e prescrizione non sono sinonimi.

No, dico che nel linguaggio televisivo si può arrivare anche a questo tipo di semplificazione.

E nel linguaggio giornalistico?

Eh?! Io parlo del linguaggio televisivo! Capito? Un attimo che cerco l’autista (lo chiama, ndr).

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editoriale di enbar77

Mi sono svegliato di soprassalto e sentivo battere forte il cuore. Avevo sognato un gatto che mi fissava e mi diceva di chiamarsi Trellheim. Non lo avevo mai conosciuto ma mi è piaciuto un sacco.
Mi sono alzato, tutto assonnato e mentre ascoltavo un vibrante Supersoul, per svegliarmi meglio mi sono vestito e ho lasciato la mia Casamorta vecchia e cadente per correre come d'abitudine al bar sottocasa. Anche per prendere un po' d'Aries. Senza guardare chi ci fosse dietro al bancone, per mera consuetudine ho chiesto: "Geenoo? Un crodino!". Con viva sorpresa mi sono sentito rispondere: "Ahò! Gino ‘o dici a tu' fratello a 'mme me chiammino Eleuterio e nun te sbaja più pecchè sennò te do ‘n cazzotto e te faccio girà ner Kosmogabri, vabbè?".

Chi era costui? Sbigottito ho lasciato il bar e sono scappato. Avevo bisogno di un pezzo per la macchina e ho cercato in tutti i negozi di autoricambi per auto della città. Niente da fare. Troppo obsoleto, non più in produzione. Alla fine mi sono rivolto allo Sfasciacarrozze in periferia, il più grande scasso d'Italia, un vero Tempio di Iside dei ricambi.
Davanti al cancello c'era un Blackdog, fortunatamente attaccato ad una catena che ringhiava come un toro. Ma qualcosa ha attirato la mia curiosità che è diventata stupefatta Contemplazione. Accanto al cagnone c'era un Macaco in gabbia ancora più incazzato! Entrambi non promettevano nulla di buono. Il primo ha cominciato ad abbaiare ferocemente e l'altro aveva tutta la voglia di stritolarmi come uno straccio da cucina bagnato. Con una buona dose di necessario uhuhpanicouhuh ho bussato al campanello. Mi ha risposto Carlo Cimmino, il proprietario, tipo Brusko. "Chi è che rompe li cojoni?" Ecco! Infatti sapevo di disturbarlo mentre visionava la finale di Coppa dei Campioni del 1976 in videocassetta. "Carlè sono Enbar77 sto cercando un pezzo introvabile e..." Breve pausa e poi sento urlare: "De Lorenzo!" Era l'aiutante. "Vedi che vonno!". Quest'ultimo sbuffando si è alzato dallo sgabello del suo sgabuzzino dove stava studiando di nascosto il "Capitale" di Marx. "Buongiorno! In cosa posso esserle utile?". "Buongiorno a lei! Stavo cercando, sperando che possiate aiutarmi, un deflettore posteriore per una Trabant del 1982". L'aiutante ha strabuzzato gli occhi e ha detto: "Caspiterina che ricambio assurdo! All'uopo le consiglio vivamente di rivolgersi a qualche esercizio similare nella ex DDR, in quanto il supporto da lei richiestomi non figura più in produzione dalla caduta del muro di Berlino avvenuta quattro lustri orsono! Che tempi! A quell'epoca la Germania era divisa in due e se qualcuno tentava con mezzi sia ingegnosi che abbietti di scavalcare il precitato muro rischiava di tornare a casa impallinato come un colabrodo. Poi c'era la Stasi che control...."

Dovevo fermarlo a tutti i costi: "Hey, hey, mi scusi, non vorrei sembrare scortese ma ho solo bisogno di questo pezzo. Anche perché devo passare a ritirare il Panappeso netto dal fornaio. E' possibile trovarlo ancora?" Lui ha sorriso e ha risposto: "Vedo un po' di poterla accontentare spulciando nel fornitissimo archivio del KGB, ehm... scusi, nel nostro magazzino!" Dopo qualche minuto l'ho rivisto correre verso di me trionfante: "Signore, l'ho trovato! Ed è anche stato fortunato in quanto risulta essere stato prodotto nel 1988! Ben più recente dell'anno di immatricolazione della sua auto d'epoca! Mopaga, però".

Ero davvero soddisfatto. Che Fiquata! Mentre tornavo a casa, nella vetrina dell'agenzia di viaggi furoreggiava un last-minute per andare a visitare "The green Manalishi" o un low-coast per London. Poi sono passato davanti la porta a specchi del negozio di musica Suonoonous e quello di articoli paranormali Anatas. Sono passato anche a ritirare un trancio di pizza bianca dal TheJargonking of pizza. Salito su a casa ho acceso il televisore e stravaccato sulla poltrona ho iniziato a fare un po' di zapping. Sul primo canale c'era un film di fantascienza dove c'erano Starblazer e Muffinman contro il Venusiano Sarcastico sul pianeta Bartleboom. Sul secondo Telespallabob cercava per l'ennesima volta di uccidere Bart Simpson. Sul terzo c'era un programma di cause civili con giuria popolare. Il GiudiceWoodcock stava emettendo l'ennesima sentenza manco fosse il Giustiziere. Tutto incazzato urlava all'imputato: "Io ThePunisher, chiaro?".

Sull'altro canale c'era una televendita di GustavoTanz e sull'altro ancora il cartone animato "Manliuzzo il re del karate". Sui canali musicali potevo scegliere tra il film-evento di Woodstock, una interessante rassegna di RockAntologya, un concerto degli Hellring o un video di Chris Cornell. Basta televisione. Magari mi connetto un po' con Pataweb ma... accidenti! Dovevo passare dal Dott. Fottermeier al reparto di Psychopompe per ritirare le analisi!
Ok, basta! Non voglio più rompervi con questa storia e quindi metto la parola fine e Puntinicazpuntini...

Questo scritto vuole essere un omaggio a chi, nel bene o nel male occupa una buona fetta del mio tempo libero. Non potendo elencare tutti ho citato coloro che ho semplicemente "frequentato" e/o visto circolare di più. Sperando di non aver offeso nessuno premetto che tutto ciò che precede è generato da sincera goliardia e parafrasando Tognazzi ne' "Il male", ognuno deve rivendicare il proprio diritto alla cazzata!

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editoriale di ilfreddo

Oggi è una giornata primaverile nella quale mi sento leggero e tiepidamente allegro: nella perfetta condizione, quindi, per sbandierare buoni propositi che puntualmente, lo so, andranno a puttane.

Ed è così, per caso, che mentre passeggio se ne esce questo pensiero/desiderio: “Vorrei riuscire in quest’anno tondo, tondo, a non raccogliere tutte le innumerevoli provocazioni che mi si parano davanti quotidianamente“.
Quelle gratuite, intendo: fastidiosamente costruite a tavolino. Ami giganteschi con succulente esche al seguito alle quali spesso non so dire di no, mangiandomi pure la canna da pesca in microfibra. Buche grandi e profonde nelle quali caderci dentro, mi fa incazzare tremendamente ingigantendo la mia bile. Riuscire a nuotarne a largo; guardare per terra e saltarle con fare felino mi farebbe, credo, stare bene e sentire meno allocco.

Vi ricordate quella pubblicità di tanti anni addietro delle caramelle gommose con il giocatore di basket? A me non sono mai piaciute. Eppure hanno venduto e ancora vendono uno sproposito perché quello spot che le pubblicizzava, e le identificava, è riuscito ad incarnare bene la mediocrità di molti di noi. Mediocre pecorame che di fronte ad una provocazione oggettivamente ridicola, quella dell’inutile “capacità” di riuscire a non masticare una  caramella, non sa resistere dal fare il San Tommaso.

I casi in cui siamo tentati dal rispondere alla meschina provocazione altrui, converrete con me, sono molteplici. Provate a far scorrere una giornata tipo nella vostra mente. Ma tranquilli, non è mio intento tediarvi con una marea di sterili esempi. Il buon proposito del 2009 era infatti quello di imparare ad essere più sintetico.

Ve ne porto in dono solo uno, insignificante per importanza e che tuttavia spesso ci accomuna. Ho deciso di partire da qui, infatti, per cominciare la mia scalata contro la temibile forza oscura delle Fruit Joy.

Li vedo scrivere e pigiare i tasti con ghigno stampato in faccia: pensano ai commenti che riceveranno. Agli insulti che, generosi, gli regaleremo. E di questo, è palese, ne godono avidamente. Vorrei tanto essere capace di leggere una recensione scritta apposta con il culo, scritta apposta per far incazzare o per stupire con i suoi paragoni assurdi e poi saltarla in bello stile: lasciarla da parte. Niente 1 e niente 5, niente commento. La pelle che, punta da una zanzara, implora e scongiura una veloce ed innocua grattata. Quell'insana voglia di non masticare; che alla fine altro non è che il loro gioco. Del cazzo.

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editoriale di kosmogabri

La questione è molto semplice, quasi banale, pertanto non mi stupirò se qualcun altro l'avesse già affrontata.
Chi ha una formazione musicale metal alle spalle parte avvantaggiato nell'ascolta della musica tutta.
Esempi pratici: per chi riesce a sopportare, intendo proprio a livello fisico, un disco come "City" degli Strapping Young Lad, l'ascolto di "Trout Mask Replica" sarà una passeggiata di salute. Il noise dei Royal Trux, poco più di una filastrocca pop per orecchie temprate a colpi di "Psalm 69".
La banalità del concetto sta tutta qua: ci sono soglie del rumore diverse, variabili da persona a persona e i metallari, avendola molto bassa, hanno accesso ad una maggior quantità di "informazione musicale", rispetto a chi per spezzare l'ascolto di songwriters intimisti, riesce al massimo a tollerare un Teatro Degli Orrori d'annata.
I non-metallari sono, nell'eccezione etimologica della parola, più ignoranti di chi si abbevera anche a questa fonte.
Ovvio che l'ascolto di musica non è una gara, ma di fatto questo "soffitto di cristallo" esiste e io voglio sottolinearlo.
Perché? Essenzialmente perché sono stanco dei continui attacchi al metal. Fermi tutti! "Continui attacchi": ma esistono veramente o sono solo frutto della mia mente?
Dove finisce la mia sensibilità e dove comincia il mondo esterno?
Esiste davvero un razzismo intellettuale verso determinati generi?
E il metal oggi, A.D. 2010, ha davvero bisogno di essere ancora difeso?
E se la mia più che una difesa, fosse un attacco a chi non rispetta i gusti degli altri, dietro una presunta superiorità intellettiva che deriva, in una interpretazione davvero originale del concetto stesso di intelligenza, dall'ascolto passivo dell'altrui genialità, genialità che ovviamente mai, o raramente, si realizza in generi inferiori come metal e simili?
Non so dare una risposta certa a tutti questi interrogativi.

Potrei fare numerosi esempi a supporto della mia tesi ma credo che basti leggere qualche giornale o girare nel web, anche su questo sito, e leggere i commenti sul metal per farsi una visione autonoma dell'argomento.
Sottolineo almeno una "discriminizzazione" molto sottile, quella di ignorare il genere, con la conseguente ghettizzazione in riviste/siti settoriali, da parte delle riviste più in vista.
Per carità, le scelte editoriali sono sacre, quello che confonde è che molto spesso queste riviste/siti web hanno o, peggio, vantano pretese enciclopediche dall'alto dei 27654 dischi ascoltati mensilmente o ipotetiche "pietre emiliane" del rock, per poi de facto ignorare quasi totalmente un mondo così vasto ed eterogeneo.
"Rage Against The Machine", "SCIENCE", "The Downward Spiral", "Dirt", "Badmotorfinger", "Around the Fur, "System of a down", "Aemina", "Korn", "Roots": se uscissero oggi, quante riviste ne darebbero notizia?

Ho trentadue anni. Ascolto musica da quando ne avevo dodici. Sto invecchiando perché se ascolto un disco thrash mi viene mal di testa. Ma ancora oggi la speranza, ogni volta che inserisco un disco nuovo nel lettore, è quella di riprovare lo stesso brivido lungo la schiena di quando ascoltai per la prima volta "Welcome To The Jungle".
Voi no?

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editoriale di kosmogabri

I Giudici dicono che la 'Ndrangheta è entrata in Parlamento: è una affermazione terribile. Proviamo a fermarci un momento e capire cosa vuol dire. Significa che il potere mafioso ha messo piede nel luogo più importante e delicato dello Stato: quello dove il popolo si fa sovrano e la democrazia si realizza. E' questa la vera emergenza di cui dovremmo discutere: è come un terremoto, una valanga, solo che la colpa non è del fato, non è stata una calamità: sapevamo tutto. La criminalità organizzata prima crea zone dove il diritto non entra poi si espande, invade l'economia, si appropria del Paese e infine entra lei stessa nello Stato. Ci sono anni di inchieste, prove raccolte, fiumi di denaro che testimoniano l'immenso potere delle mafie d'Italia: prime le cosche siciliane, poi le calabresi e campane hanno tolto al sud ogni possibilità di sviluppo e avvelenano l'intera economia. Ma la vera emergenza non è questa, l'emergenza è che tutto questo passi come l'ennesimo scandalo silenzioso al quale siamo rassegnati. L'emergenza è che tutto ciò non faccia sentire nel cuore, nello stomaco, nella mente di ogni Italiano, qualunque sia il suo credo e la sua posizione politica, una indignazione che lo porta a ribellarsi, a dire: "Ora Basta!"

[ Roberto Saviano - 25.02.2010 - da tv.repubblica.it]

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editoriale di kosmogabri

Mio malgrado, non sono una persona che si commuove spesso. La mia professoressa d'italiano, al liceo, mi ripeteva spesso che sono una persona "acomunicativa", che non vuole comunicare realmente con nessuno, che vuole tenere una parte di sé per sé. Ed è vero, di me parlo con me e sono incapace di commuovermi. Le lacrime, mio malgrado, le regalo di rado pur sentendone la necessità. Capita a tutti, credo, di sentire l'esigenza di svuotarsi, che sia lo scroto o il cuore. Ecco.
I percorsi delle mie lacrime sono guidati, mi conosco. Le cose che mi commuovono sono quelle che parlano di me, quelle in cui riconosco una parte, un passaggio della mia storia, del mio viaggio. Sono un egocentrico, mi piango, quasi, addosso. Per discolparmi aggiungo anche che sono un egocentrico non per scelta, ma per assenza di alternative: ad avercelo un prossimo adeguato.

Mi commuove la tomba di mia nonna e il ricordo delle sue mani. Quelle mani che d'inverno si sporcavano, insieme alle mie, di tuorlo d'uovo e farina, nei freddi pomeriggi, nella speranza che le chiacchiere venissero buone.
Mi commuove il ricordo del mio gatto, Cartesio, che pesava 12 chili quando è morto e che dormiva poggiandosi sui miei piedi pur di riscaldarmi e questo nonostante abbia passato la mia infanzia tagliandogli i baffi e tentando di chiuderlo nella lavatrice.
Mi commuove il ricordo del mio cane, Miky, che odiava, eccetto me, il mondo intero e che mi ha allietato nei momenti più bui con modi che nemmeno sapeva di possedere. Mi commuove il ricordo del suo corpo, sporco d'urina e chiuso in una gabbietta di una clinica veterinaria, dopo trentacinque crisi convulsive in quindici ore.
Mi commuove il sorriso di "Uèuè". Non so come si chiami questo africano che mendica all'uscita del mio tabaccaio, ma così lo chiamo perché questo è quel che dice quando mi vede arrivare: "Uèuè". Ha gli occhi tristi e quando sorride, più che sorridere, sembra arricciare il viso in una smorfia di inadeguatezza, come se sorridere, per lui, fosse una cosa rara. Non so come si chiamI, ma gli voglio bene.
Mi commuove Cesare Pavese, perché siamo cresciuti assieme, perché mi ha cresciuto e perché mi ha parlato un sacco di volte.
Mi commuove John Fante perché Nick Bandini è mio nonno ed io, come Arturo Bandini, amo il vecchio perché Dostoevskjj mi ha spiegato come fare.
Mi commuove Pino Daniele perché "Terra Mia" è la storia, l'inizio e la fine di Napoli e di tutti i napoletani. Perché prima ancora d'esser me stesso sono un napoletano, perché non desidero esser nient'altro e perché "una camminata dentro i vicoli, in mezzo agli altri" è la cosa più forte che abbia mai sentito pronunciare. Mi commuove perché lo sento, non l'ascolto.
Mi commosse, una volta, una tela esposta alla National Gallery che ritraeva il golfo di Napoli con una luce scura, all'alba forse o subito dopo un tramonto invernale. L'autore era un certo "Anonimo napoletano", come a dire che quello è il sentire collettivo e così mi commosse. Capita.

Andavo a letto, aspettavo il sonno, ho visto Sanremo. Sapevo che Nino D'Angelo partecipava, come lo sapevo non lo so. Non l'ho visto cantare, non ho retto cinque minuti, in fondo mi amo anch'io. Però oggi ho cercato la canzone, l'ho trovata. Mi sono trovato. Ho pianto. L'ho fatta ripartire per cinque volte ed ho pianto. Pianto, pianto, pianto.
Dentro c'è tutto, spiega tutto. Al diavolo le spiegazioni sociologiche, economiche, politiche. A 'fanculo lo struttural-funzionalismo, a 'fanculo Lewis. Dentro ci sono le vite di tutti i meridionali, di tutti gli ostaggi d'Italia, di chi "cresce col pane amaro" ed è per questo "un italiano straniero".

Nino D'Angelo mi ha commosso, roba che sarebbe più semplice ammettere la propria omessualità per un omofobico, ma, in fondo, non mi importa. Sto bene e non vado oltre, anche perché è il ritornello a suggerirmi: "Meridionale, simm' terra chin' e mare ca nisciun' po capì". Zanzà

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editoriale di Bartleboom

Il posto in cui vivo è una strana via di mezzo tra un paese e una città: non abbastanza grande per avere un centro commerciale, ma abbastanza grande per non riuscire a trovare parcheggio.

Non conosco quasi nessuno dei miei compaesani.
Però conosco Camillo.

Quelli come Camillo alcuni li chiamano ritardati, altri “uno che non è tutto lui”.
Per De Gregori sono quelli che trasportano “grandi buste di plastica del peso totale del cuore”. Solo che Camillo s’è scelto come busta un vecchio carriolone, scassato e arrugginito, con cui gira per tutto il paese. Anche se piove. Anche se nevica.

Camillo sorride sempre. A tutti. E se gli dici qualcosa e lui non capisce, beh, allora sorride un po’ più forte.

Quando eravamo bambini, capitava che Camillo passasse davanti al cancello della scuola e la maestra ci aveva insegnato a salutarlo e ad essere gentili con lui.
Tutti, in paese, quando lo vedono passare lo chiamano, e se hanno qualcosa che non usano più, qualcosa da buttare, gliela danno. Lui carica tutto sul suo carriolone e lo porta alla discarica. E tutti gli danno qualche euro. Così, per il disturbo.
Poi ci sono pure i figli di puttana che gli rifilano le vecchie cinquecento lire, oppure quelli che lo prendono in giro: gente per cui occorrerebbe un inferno apposta, molto più doloroso e molto più lungo.

Un po’ di tempo fa ho incontrato Camillo in un negozio di animali. E’ andato al bancone, ha rovesciato sul ripiano non so più quante monete, e ha chiesto del becchime per canarini. Il tipo del negozio gli ha detto: “Camillo, ti ricordi, vero, che oggi è l’ultimo giorno che siamo aperti? Guarda che da domani devi andare da un’altra parte, hai capito?”
Camillo non ha detto niente.
Lo ha guardato in faccia, dritto negli occhi. E ha sorriso un po’ più forte.

“Sono vent’anni che viene qui a comprare becchime per canarini. Tutti i giorni”, mi ha detto il negoziante, quando Camillo è uscito. “Speriamo abbia capito che da domani siamo chiusi…”.

Ci ho pensato parecchio, nei giorni successivi.
Chissà se il giorno dopo Camillo è tornato al negozio. Chissà se ci è tornato il giorno dopo ancora. Chissà quante volte è tornato, prima di capire che quella serranda sarebbe rimasta abbassata per sempre. E chissà se ha trovato un altro posto dove comprare il becchime.

L’altro giorno ho rivisto Camillo.
Era in mezzo alla strada e intralciava il traffico col suo carriolone pieno di cianfrusaglie.
Ad un certo punto, uno di fuori, un forestiero, ha suonato il clacson e lo ha mandato a quel paese.
Camillo si è fermato. Si è voltato. E lo ha guardato in faccia, dritto negli occhi.
E ha sorriso un po’ più forte.

E allora ho pensato che, sì, forse aveva trovato un altro posto dove comprare il becchime.

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editoriale di fosca

Era accaduto per caso.
Certo, ne aveva sentito parlare in abbondanza dai media e dalla gente in generale ma non le era mai capitato di trovarsi invischiata in uno schifo simile.
Quel giorno stava cercando un file in rete, operazione certo discutibile ma prassi comune per molte persone. Beh, questo era un file musicale di un cd introvabile, ed aveva spulciato diverse fonti prima di trovare questa, all’apparenza la più attendibile. C’erano volute almeno tre ore per scaricarlo tutto ma alla fine lo aveva, era questo l’importante, no? Solo sul tardi l’aveva controllato, a fine giornata, quando oramai l’elenco delle cose da fare si era  finalmente esaurito.
In relax, impreparata. Per questo la botta fu ancora più forte.

Non si trattava di un file musicale, la cartella era divisa in sottocartelle, tutte pesanti, tutte contenenti file formato jpg. Foto.
Prima la delusione, uffa,  poi la curiosità: ne apre una.
Non è possibile. Sbatte gli occhi, un senso di repulsione. Ne apre un‘altra. Ancora. Cazzo non è possibile, non è possibile. Ne apre cinque, nove, apre ogni cartella, ancora e ancora. Decine e decine di foto inequivocabili. La bocca dello stomaco si restringe. Oltre quattrocento immagini. Sta lì e fissa lo schermo, immobile. Incredula.
Bambini e bambine. Ma soprattutto queste ultime.

Aumenta il senso di nausea, inizia la rabbia, e infine lo sgomento.. Chi è questo bastardo che mette foto simili in rete, chi è lo stronzo che la obbliga a questo scempio… Non ci può credere. Non aveva mai potuto nemmeno immaginare che i corpi dei bambini potessero essere immortalati in QUEL modo, che si potessero fare scatti simili a dei bambini, cazzo, Gli Innocenti. Sì lo sapeva, ma per sentito dire, non per esperienza personale. Così è tutta un’altra cosa.
Si riprende, cancella tutto, cancella il file, lo toglie dai condivisi, spegne il pc. Fa altro. Deve fare altro.

Passano due giorni, deve fare qualcosa. Deve fare in modo che qualcuno indaghi su questo schifo ma possibilmente rimanendone fuori, non rischiando in prima persona il coinvolgimento, ci mancherebbe questo.
Per lo share si va dalla sanzione amministrativa fino al penale, poi con questo materiale…
Interroga avvocati, amici magistrati, amici fidati. Si trova una scappatoia. Ripete il download, prepara un cd e lo consegna anonimamente alla polizia tramite amici ed aspetta, aspetta, aspetta. Aspetta che qualcosa accada.

Ma quelle foto, eliminate dalla cartella condivisi, eliminate dall' hard disk, cancellate dalla routine, non se ne vanno, sono sempre lì, impresse, con la forza impressionante del primo dagherrotipo, con la loro cruda malizia che in uno scatto ha infangato secoli di racconti di candida innocenza e di sogni sereni.

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editoriale di isidax

Mio padre era del '20. A dieci anni finita la quinta elementare fu preso come garzone nella bottega del sarto del paese, mio padre non aveva il fisico per finire fra i monti a coltivare viti alte solo 35 centimetri da terra. Mio padre era un drago con le forbici in mano, con un taglio per un cappotto e una giacca riusciva a fare anche un gilet. A diciotto anni era già il miglior sarto del paese.

Dash è nato nel '70. A sedici anni era già una pezza d'uomo, s'incamminò sui monti tentando di raggiungere la libertà chiamata Jugoslavia.  Qualcuno lo aveva illuso dicendogli che se fosse giunto fin là poi avrebbe potuto chiedere asilo politico al Canada. Gli sgherri gli ruppero le ossa e lo rimandarono a Valona.

Nel '40 c'era la guerra, mio padre fu fatto abile ed arruolato nonostante i suoi quarantaquattro chilogrammi, non si perse d'animo prese la sua sacca e s'incammino fra i monti alla volta di Cagliari. Durante il periodo di servizio fu colpito dalla malaria e mandato in convalescenza. Prese la sua sacca e tornò a piedi fra le sue montagne, scoprì solo nel 1983 di essere stato congedato nel '48. "Meglio così" pensò "Me li calcolano ai fini pensionistici".

Dash a vent'anni si fece 24 mesi di marina ed imparò tante cose sul mare e sui venti. Negli anni Novanta prese due fusti di olio, li legò fra loro e si gettò nel mare, con lui altre tre zattere con altre persone. Dopo tre giorni di mare senza mangiare né bere, vennero avvistati da una motovedetta italiana, Dash si gettò a nuoto cercando di raggiugere la riva. La guardia costiera gli ruppe qualche osso e lo rimandò a Valona.

Negli anni '50 Carbonia era ancora una fiorente cittadina, la miniera dava lavoro ad oltre diecimila minatori. Mio padre decise che era giunta l'ora di fare il grande salto: mai più sarto in un paese di poche anime. Prese la sua sacca, salutò la madre e, sempre a piedi, partì. Giunto a Carbonia comiciò a lavorare e si fece una famiglia

Negli anni '90 Dash aveva una bella moglie e un figlio. Decise di scappare di nuovo dall'Albania: sequestrò un motoscafo e cominciò a correre, San Foca, Lecce, Bari, tutto di corsa per non farsi prendere e rimandare indietro, si fermò solo a Brescia. Valona - Brescia a piedi e autostop in soli tre giorni. Le guardie ancora lo cercano a San Foca.

Nel '64 Carbonia era sempre più città fantasma. Ogni giorno sempre più amici e parenti dicevano: "Vado in continente".
Mio padre aveva già quarantaquattro anni, prese la moglie i cinque figli e finì in ferriera nella provincia di Brescia.

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editoriale di Cornell

Abbiamo finito il pasto, passando per dolce, frutta, caffè e ammazzacaffè. Non ci rimane più nulla da mangiare. La mensa è finita, andate e professate il vostro bagaglio di ignoranza al mondo.

Tagli, tagli e ancora tagli all'istruzione, non ci sono i fondi e noi che facciamo? Invece di tagliare su spese folli e totalmente inutili per cercare di dare un'adeguata formazione scolastica ai nostri ragazzi, futuro di questo sbandato paese, divenuto ormai lo zimbello di questa Europa unita e non solo, tagliamo la geografia e soprattutto la storia dell'arte dalla maggior parte degli istituti.

Maria Stella Gelmini, Ministro dell'Istruzione, Università e Ricerca, pensa che un'ora la settimana sia più che sufficiente per l'assimilazione e apprendimento del patrimonio artistico "immenso" e "universale" Italiano.

Certo, dedicare un'ora per comprendere il genio di Leonardo e Michelangelo, il tocco di Giotto, Caravaggio, Botticelli, l'inventiva di Brunelleschi, Alberti e Bernini, la grandezza dei monumenti Romani, gli Etruschi. Forse è fin troppo e a chi interessa poi?

Il Ministro chissà per quali competenze è stato scelto, poiché di professione fa l'avvocato, laureata in Giurisprudenza, che esperienza avrà dunque, oltre a quella personale, simile a quella di milioni di giovani, di scuola, istruzione, formazione e ricerca? Chissà. E intanto taglia...

Siamo stati e saremo sempre nei secoli a venire, la culla dell'Arte mondiale, la Nazione che ha insegnato la storia dell'arte al mondo, vengono da ogni parte per ammirare la Cappella Sistina, il David, la Pietà, il Cenacolo, la Basilica di Assisi, S. Maria del Fiore, S. Maria Novella... Il turismo è una delle risorse più importanti, c'è fame di Arte, i musei sono sempre pieni, ci sono code per ammirare i capolavori dei grandissimi artisti italiani. E noi che facciamo? Giustamente rendiamo ancora più ignoranti i nostri ragazzi privandoli del piacere di apprendere una parte fondamentale della Storia d'Italia.

Non puoi conoscere la storia del nostro paese se non conosci la storia dell'arte, è impensabile. Ma forse abbiamo intenzione di formare scimmie ammaestrate senza creatività alcuna. Abbiamo bisogno di nuove generazioni creative, non di automi!

La ricerca è fondamentale per lo sviluppo e la crescita di un paese e noi facciamo lavorare i ricercatori sull'azione efficace di un deodorante per le ascelle? O di un dentifricio? Oppure paghiamo gente per sapere se la "sindrome del cuore spezzato" esista veramente o meno e sia da considerarsi un malattia? Tagli alla ricerca, tagli all'istruzione.

Ma tagli al vostro stipendio da vergogna, privilegi e al personale praticamente inutile di cui vi attorniate no? Ridateci la nostra terra, capolavori compresi, e levatevi una buona volta dagli zebedei!

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editoriale di Paps

Diciamocelo, non capita tutti i giorni di poter conversare amabilmente con qualcuno venuto da un mondo distante anni luce dal nostro.
No, non parlo di un pianeta lontano, ma di quel medioriente che l'italiano medio "conosce" grazie agli approfondimenti serali del TG4, sempre puntuale nel ricordarci che gli arabi, quando non hanno l'inguaribile vizio di farsi saltare per aria, portano comunque una barba decisamente fuori moda, vestono in maniera ridicola e hanno tutta l'aria di non lavarsi abbastanza.
Per non parlare del loro profeta, poligamo e pedofilo.
Questa volta, però, l'interlocutore non è uno di quei loschi figuri che ispirano meno fiducia persino del loro stilista, bensì una donna, bellissima, affascinante, una regina.
Roba da "Mille e una notte".
Oddio, vuoi vedere che è l'occasione buona per stabilire un dialogo serio? Vuoi vedere che grazie alla sua bella presenza ci liberiamo in un colpo solo di mille luoghi comuni, paure ingiustificate e stupide generalizzazioni?
Si, potremmo chiederle che cosa ci accomuna e che cosa ci distingue, quali sono le speranze e le inquietudini della "sua" gente, potremmo farci raccontare di un mondo di cui non sappiamo NULLA.
Insomma, in una sola domanda:

"Maestà, ci dà la ricetta dei suoi dolci al cioccolato?".

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editoriale di TheJargonKing

Impermeabile alla vergogna.

Patetico, ignobile, ridicolo, vergognoso, ignominioso, volgare …

Sarebbe addirittura inutile parlarne, eppure sto tentando di cercare un aggettivo che possa, in un sol colpo, definire lo spettacolo della prima puntata sanremese. Il nazional-popolare per eccellenza sta ormai scadendo verso abissi infiniti. Una serie di eventi che sanno di sdoganamento, di traghettamento verso un nulla sempre più dilagante e totale.

Se non si vuole dare peso alle parole, l’inizio pare persino apprezzabile, con il ritorno di Bonolis/Laurenti. Poi, facendo un po’ d’attenzione, ecco che saltano fuori, a mo’ di indice quelli che saranno i temi “caldi” della manifestazione, quasi a voler mettere le mani avanti: “Attenzione che tra poco vedrete questo e quest’altro e, d’altro canto, non vedrete questo e quest’altro.”

Gli elementi di discussione possono essere tanti, partendo da una presentatrice che vuole apparire come la casalinga di Voghera, legge dal gobbo persino le virgole, simula ignoranza su svariate cose, così, per avvicinarsi ad un pubblico imbecille, che in quelle cose sa riconoscersi benissimo e persino senza sentirsi preso per i fondelli. Un Cassano che, persona simpatica e sincera, sembra quasi sia stato messo lì per invitare chi di dovere a lasciarlo giocare in Nazionale, ma che nell’economia dello spettacolo ci sta come i cavoli a merenda, senza contare quella frase magari non ricercata, ma detta: “Comunque tiferò Forza Italia …” … allibito! Un Cutugno che, poverino, non sa più se scegliere di stare in piedi o tenere il tono della canzone, zigzagando tra inutili tentativi di acuto e bassi praticamente inudibili. Un trio, e qui siamo all’apice, formato in maniera cavalleresca da Pupi, Principi e Tenori, una farsa ignobile che fa crescere quel sentimento di odio che almeno la metà degli italiani ha per quell’inutile omuncolo della feccia nobile europea. Viene da chiedersi perché nessuno abbia mai voluto istruirlo su un minimo senso di vergogna e umiltà. Pupo che canta così impegnato, quasi dalla sua bocca stia uscendo la più grande canzone del secolo, mentre incrocia lo sguardo con il Filiberto in un’intesa magari studiata, ma tanto, tanto finta, e poi quell’inutile tenore, di cui nessuno saprà mai il nome, che riesce a stamparsi sorrisi ebeti sul viso nell’istante topico del: “Italia Amore Mio”. Salvo capire, con calma, che il refrain è rubacchiato da “Somewhere Over The Rainbow” e che Pupetto, magari, se la vedrà con una causa di plagio. Andando avanti ecco Nino D’Angelo, uguale a se stesso, esattamente come potevamo aspettarcelo. Eliminato, forse, non tanto per una canzone neppure brutta, ma perché cantata in dialetto e questo è il festival della canzone italiana, non di quella dialettale.

Tra alti e bassi il festival va avanti. Buono Cristicchi che dice sante cose in una canzone abbastanza centrata. Buona, perché anomala, Arisa, anche se l’idea delle Sorelle Bandiera l’avesse già usata Arbore qualche lustro fa. Assurdo, totalmente sproporzionato il voler leggere un frammento del testo di Morgan: chissenefrega! Neppure stesse leggendo un poema di D’Annunzio. No: una vagonata di retorica recitata in maniera totalmente inespressiva, condita da sguardi ammiccanti, come a chiedere il consenso di tutti. No carina, pettoruta, il mio consenso non lo hai. Arriviamo allo strip finale che, pur porco io, pur fantastico il culo della ragazza, trovo sinceramente e totalmente fuori luogo. D’accordo stiamo sparando sulla Croce Rossa e tutto è molto facile. È pure difficile dire qualcosa di nuovo e costruttivo su un Festival che fa dell’impermeabilità alla vergogna il proprio credo. Allora, trovato l’aggettivo?

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editoriale di zaireeka

In questi giorni si parla molto di questo film, "Paranormal Activity".

Un film fatto "in casa", con pochissimi soldi.

Mia moglie mi ha raccontato di aver visto il trailer di tre minuti, e di essersi spaventata solo con quello.

A Steven Spielberg, che non è un pivellino,  pare sia successo di peggio.

Dice che è il film che lo ha spaventato di più fra tutti quelli che ha visto durante tutta la sua vita, e che non riesce più a dormire al buio da solo.

Il film racconta di una coppia annoiata di coniugi che per fare qualcosa di originale decide, piuttosto che iscriversi ad un circolo di scambisti, di filmare con una telecamera ad infrarossi quello che succede durante la notte nella propria stanza da letto mentre dormono.

E lì comincia l'avventura.

Ed il terrore degli spettatori, e cinema costretti ad interrompere le proiezioni causa scene di panico collettivo.

Devo dire che il film mi incuriosisce molto.

Stamattina avevo quasi deciso di andarlo a vedere, chiaramente da solo, mia moglie aveva già escluso di accompagnarmi.

Andarci con mia figlia non era il caso.

Però l'idea di base mi pareva davvero intrigante.

E soprattutto originale.

L'idea che succeda qualcosa di oscuro e fuori dal nostro controllo mentre continuiamo a dormire tranquillamente, inconsapevoli.

Poi, dopo aver letto gli ennesimi resoconti di cronaca politico-giudiziaria sui giornali, mi è venuta l'illuminazione e ci ho ripensato.

In fondo, vivendo in Italia, mi sono scocciato di questi film che non fanno altro che copiare la realtà.

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editoriale di fosca

E’ una freddissima giornata di fine gennaio, di quelle che senza guanti non ce la si fa.
In agenda una lista di almeno 10 cose da fare tra cui la spesa, quella grossa di fine mese che sa le spaccherà la schiena ed anche qualcos’altro. Ma la priorità della giornata rimane l’andare a trovare i genitori, che abitano decisamente non dietro l’angolo, così propone a sua madre di andare insieme al supermercato e passare un po’ più di tempo in reciproca compagnia. La madre accetta di buon grado.

Si prepara, prende il cd dei Durutti Column da ascoltare in macchina e si porta dietro anche il cane.
In poco più di una mezzora è a casa loro, cosa che le fa sempre uno strano effetto dire, visto che la sua camera è sempre tale e quale e strapiena dei suoi vinili e libri che non è ancora riuscita a portare via e che presume resteranno lì ancora per un bel pezzo. La madre ogni volta inscena la solita pantomima in cui lamenta che la casa sia ancora selvaggiamente piena dei suoi effetti, ma sa che in realtà non le dispiace per niente, ordine a parte. E sta al gioco.

Il pomeriggio passa lieve tra chiacchiere, azioni di routine e gesti di intimità ed intesa mai perduti che dolcemente sembrano rovesciare l’ago della bilancia e l’ordine delle cose ma in modo sottile e naturale: non è dovuto solo all’età ma lei si scopre sempre più adulta accanto a loro e da adulta si approccia e comporta. Materna, protettiva e colma di attenzioni. Nel modo in cui loro lo furono con lei a suo tempo ed in cui tuttora lo sono, nonostante l’età.

L’Amore, il prendersi cura dei propri cari non ha tempo, né genetliaco.

E’ un continuum che vive di vita propria e di fasi alterne, che ognuno sperimenta senza razionalizzare.
Tornati a casa, scarica loro tutta la spesa e mentre il padre le dice (ma senza insistenza) di lasciarla lì, lei gliela porta al 2° piano lasciando che loro salgano lentamente.
Dopo aver tagliato i capelli al padre, rituale mensile, e bevuto qualcosa di caldo insieme, arriva l’imbrunire e con esso l’ora del rientro e, con la macchina colma, arriva il momento di rimettersi in autostrada. Li abbraccia, li bacia e saluta. Una carezza al cane e prendono le scale.
Quindi si volta a guardarli. Eccoli lì, con quell’espressione che ama tanto, nei loro vestiti comodi, con quel sorriso malinconico e un po’ acquoso, lievemente curvi, con i capelli grigi che adora spettinare e con quell’espressione vagamente triste che lascia lì sospesa la voglia di rivedersi subito, tangibile e tenera. Lui le sta alle spalle, ancora tanto alto, la sovrasta e cinge con un braccio posato delicatamente sul fianco, lei attaccata alla porta fa un cenno di saluto.

E’ quasi arrivata al portone quando sente lo scatto della serratura dall’alto, tlack tlack, e li pensa al riparo da tutto e tutti. O almeno spera.

Sale in macchina e con lo sguardo appena umido, accarezza il muso nero del cane sul sedile posteriore, mette in moto e parte.

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