editoriale di kosmogabri

Dal quartiere in cui sono cresciuto al centro città ci vogliono pochi minuti, passando per l’unica via che collega le palazzine tutte uguali - come scatole di cartone messe l’una accanto all’altra nella certezza di una pronta spedizione verso altri luoghi, altri tempi ed altri spazi - al groviglio confuso delle vie più antiche, un tempo gran dimora della borghesia commerciale, ed oggi affittate, a poco prezzo, a gruppi, più o meno clandestini, di migranti e similari.

Mi spiegavano che quando possiedi una casa, in centro, la sua manutenzione ti viene a costare troppo, e non puoi facilmente venderla o affittarla a qualche giovane coppia o famiglia italiana: chi non ha i soldi, chi vuole il garage sotto casa, chi teme i soffitti troppo alti e le ombre che sembrano nascondersi lungo i corridoi e le vetrate che, troppo lunghe, collegano la camera da pranzo alla zona notte, ed a bagni troppo difficili da riscaldare, senza doccia e con la vasca da bagno corta, sagomata come un sedile.

Tutto troppo anni Dieci o troppo anni Cinquanta, troppo lontano dalla perfetta geometria degli scatoloni che orbitano lontano dal sole delle piazze, troppo distante dalla stessa idea che, in quelle scatole di periferia, ci puoi stare per poco e non per sempre, come tappa verso la villetta a schiera o quella con ampio giardino, su nei paesi di collina. Dove i bambini crescono all’aperto, puoi giare in bicicletta e, forse, avere un cane.

Chi il cane non lo può immaginare, il garage non lo postula neppure, chi impara a pedalare per andare in fabbrica, si accontenta allora di vivere il presente sotto gli alti soffitti del passato, passando in pochi mesi dall’asfissia del doppio fondo del camion agli ampi sospiri che solo una stanza che “non ha/ più pareti/ ma alberi/ alberi infiniti”, come quella dell’ex casino in fondo alla via, può ancora dare a chi ci dorme, oggi come ieri.

I casini sono un retaggio della vecchia città militare, delle caserme e dei clienti che negli anni ’50 affollavano i palazzi, per defluire negli anni ’60 e ’70 verso un paio di viali di periferia, attorno al cinema che, ancora negli anni ’80, ospitava nei sabati e nelle domeniche pomeriggio film di un certo genere - per intenderci, quelli con le locandine fascette nere - e nei lunedì mattina, potrei testimoniare, i saggi di fine anno delle scuole elementari. Un modo come un altro di coprire i costi di gestione di sale in disuso.

Il cinema non c’è più, da anni. E pure le caserme sono ormai chiuse. Restano i militari di un tempo, specie quelli meridionali, che si sono stabiliti attratti dalla bellezza della città o di qualche cittadina, senza necessariamente passare per le ampie stanze degli edifici del centro.

Uno, divenuto poi generale, era il padre di un mio compagno di classe, tifava incongruamente Genoa ed era uguale a Paolo Villaggio, nella versione Belva Umana. Da adolescenti, i due figli avevano la croce celtica sui caschi del motorino, e, si mormora, uno dei due fu fermato in una manifestazione di skins. Un altro, rimasto maresciallo, era il mio vicino di casa fin quando stavo dai miei, e pare non abbia mai lavorato in vita sua, come parrebbe confermare la pensione raggiunta in surplace, appena prima dei cinquant'anni, sconfitto però dalla moglie infermiera, che era in pensione già attorno ai quaranta.

Il mio preferito, però, è “il maresciallo”, quello che alcuni scambiano, da lontano, per mio padre, ma non lo è. Alcuni lo chiamano così, ma non so se il titolo tardivo corrisponda al grado dei tempi belli, di cui residua il portamento, il taglio corto di capelli, l’incedere con la testa dritta e lo sguardo avanti, sempre a braccetto della moglie, e, da qualche anno ormai, assieme alla figlia, al genero, ed ai nipotini, cresciuti fino ad avere l’età che io avevo quando lui era ancora in servizio.

Non so se il maresciallo frequentasse i casini del centro, ma mi piace pensare che, già negli anni ’50, andasse a braccetto con la stessa donna, incinta della figlia che ora porta le borse della spesa e sgrida i bambini sotto lo sguardo flemmatico del padre; che già negli anni ’60, e poi via via fino ad oggi, facesse il percorso periferia-centro-periferia che quasi ogni giorno immagino faccia, sempre più spesso da quando ha tolto la divisa.

Quando sono fuori città, lontano chilometri, spero sempre di ritrovarlo al mio ritorno, di incrociarlo e di riconoscerlo, anche se non so il suo nome, anche se lui non sa il mio. Negli ultimi anni, è quasi scaramanzia: anche se è invecchiato, spalle ormai curve, a me pare sempre dritto come un fuso, lo sguardo in avanti e sempre fisso.

Dare immensa importanza a chi non sa il tuo nome, non ti conosce, ti ignora, è un modo come un altro per ingannare il tempo.

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editoriale di Bartleboom

A sei anni il nucleare fu Ken Shiro.
Sapete, no? "Siamo alla fine del XX secolo, il mondo interno è sconvolto dalle esplosioni atomiche…".
Epicissimo. Roba da brividi.
Roba che quasi quasi mi faccio investire da una tonnellata di acqua radioattiva così divento forte come Toki e più incazzato di Godzilla.

A otto anni il nucleare fu una gita scolastica.
Meglio: una gita scolastica mancata.
Erano i primi giorni dell'aprile 1986 e la IV B della Scuola Elementare di BartleTown si apprestava a fare visita al Parco della Preistoria di Vergate sul Membro (MI).
Pochi giorni prima della partenza, però, succede un gran casino da qualche parte in Russia o giù di lì, non si capisce bene dove. Dai telegiornali iniziano bombardamenti a grappolo di immagini di enormi camini in cemento armato e inquietanti operai con le maschere a gas e le tute di plastica arancione. La gente parla di contaminazione, di nube tossica, chi tocca l'erba muore.
E così niente gita.
Unico vantaggio: a casa Boom, il minestrone viene mandato in esilio sino a data da destinarsi.

A dodoci anni il nucleare fu un documentario.
Mezz'ora girata male, inquadrature traballanti, colori spenti, zero ritmo. Provenienza: Cernobyl, Ucraina.
Ci sono campagne abbandonate che solo a vederle in televisione ti viene freddo alle ossa. Casolari isolati, animali abbandonati.
C'è una pecora: ha la mascella deforme, non si sa come faccia ad alimentarsi. Un'altra ha tre paia di zampe.
C'è una donna. Anziana, ma non troppo. Fissa la telecamera e non dice niente. Tiene in braccio un bambino senza occhi, con le articolazioni delle gambe al contrario. Sono passati vent'anni e il ricordo di quel documentario riesce ancora ad angosciarmi.

A sedici anni il nucleare fu "Nuclear Winter" dei Sodom: super chicca thrash metal, tra le prime canzoni che ho imparato a suonare con la mia Ibanez koreana. Non so più quanti sabato pomeriggi ho passato a consumarci plettri e polpastrelli.

A trenta e passa anni, il nucleare è Fukushima, lo tsunami, gli elicotteri che buttano acqua sui reattori, i bambini con le mascherine sulla bocca e le mamme col latte radioattivo. Il Governo giapponese che ogni giorno dice una cosa diversa.

A trenta e passa anni, il nucleare doveva essere anche un Referendum.
Ho cercato di informarmi, di capire.
L'internet l'ho scartato quasi subito: il più delle volte viene fuori che i siti sull'argomento sono in realtà gestiti dall'ufficio stampa dell'Eni. Oppure da qualche aiuto-vice-sottosegretario alle politiche energetiche. E allora tanto vale.

Così ho deciso di chiedere alla gente che conosco, chissà mai che ne sappiano più di me.
E' venuto fuori di tutto:
- "Le centrali non sono sicure! Guarda che casino in Giappone!"
- "Ma che ti frega! Tanto se ne scoppia una francese facciamo comunque la fine del calamaro nel fritto misto!"
- "E le scorie?! Eh?! Le scorie?! Lo sai che mantengono la radioattività per mille milioni di anni?!"
- "In Germania le hanno sotterrate e dormono sonni tranquilli"
- "Il petrolio presto finirà! Abbiamo bisogno di altre fonti di energia!"
- "Anche l'uranio presto finirà. Dobbiamo investire sulle fonti rinnovabili!"
- "Sì, bravo! Vatti a vedere gli scempi ambientali dell'eolico in Calabria!"

E via discorrendo.
Sono arrivato alla conclusione che chi parla di nucleare o ha qualche interesse di troppo nella faccenda, oppure ne sa quanto me.

E allora ci ho rinunciato.
Davvero.
Ho deciso che non voglio essere informato sul nucleare.
Mi bastano i miei ricordi.
E le mie paure.

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editoriale di ilfreddo

Arriva la mail di un collega con invito all’inaugurazione del suo nuovo romanzo. Tonnellate di pacche sulle spalle, baci e complimenti che Giuda Iscariota al confronto è un dilettante. Lo inizio una settimana dopo ed è una merda. Sembra sia una malattia: se non scrivi un libro, che venga pubblicato o no è secondario, non sei nessuno. Rettifico. Non sei qualcuno.

Qualche settimana dopo il tasto “Back Space”, alla millesima pressione di giornata, salta fuori dalla tastiera e mi tira un calcio volante alla Van Damme (nell’hard disk ha un sacco di film d’azione anni ‘80/’90 del calibro di “Senza esclusione di colpi“) al dito medio. Incazzato nero, è quello il colore dei quadrilateri placcati, se ne esce con un: “Ragà, mo’ hai veramente rotto er cazzo e nun sei manco alla prima frase!” Mi ero quasi dimenticato di averlo comprato a Roma. Questo dannato pc. Lo guardo incredulo e dolorante mentre pavoneggiandosi si rimette a posto in alto a destra, proprio sopra l’amico “Enter” che lo applaude energicamente guardandomi con aria di sfida.

Il fatto è che prendere un guanto e sfidare questa parete da ospedale che mi guarda sprezzante è un cubo di Rubik per un daltonico. E se è vero che, quando in un’indefinita fase REM un sottofondo di archi da “Il Gladiatore” accompagnerà le pagine che si accumuleranno veloci una sull‘altra, concludere sarà uno spasso è altrettanto vero che arrivare fin lì sarà tedio e disperazione. Ci saranno momenti in cui avrò voglia di prendere questo pc romano e coniare una parola magica come “appappalua“, che a pensarci bene non è poi molto più stronza di “abracadabra“, e donargli la vita. Ma farei questo solo per sadico godimento. Ogni tasto premuto, una pugnalata profonda nella scheda madre. E il periodo stavolta col cazzo che lo farei terminare tanto facilmente: lo infarcirei di subordinate e descrizioni inutili, per un imo e denso bagno di appiccicoso sangue elettronico. Perché anche se non sono uno scrittore, il blocco dello scrittore deve essere una gran brutta cosa ed io sarò il giustiziere delle tastiere mangia ispirazione.

Un altro calcio al dito, proprio sull‘unghia, da parte di quel brutto figlio di puttana rettangolare che mi dice sorridendo: “Ma stai a scherzà? Sogna, sogna perché nun c’hai talento! Quattro ore per du’ righe, a Sciacckespirre!”

Proseguo senza dargli troppa soddisfazione. Continuo a premerlo, ovviamente molto più del dovuto, e nell'immaginazione disbosco mezza Amazzonia tanto sono ispirato e prolisso; veloce ed agile scavallo metà percorso e penso, da ignobile presuntuoso, che in fin dei conti "Back Space" stia sbagliando. Non serve mica avere talento. Sarebbe sufficiente, ora che nella mente la mia opera è già ben rilegata pronta per la produzione in serie, che una stupida tessera del domino scorrendo tra gli scaffali pieni dicesse ad un‘altra: “ma questo qui, (e indicherebbe me nella foto sul retro), è fuori come un balcone”. E così, “appappalua”, un incidente d’avorio per un libro cult.

Ok, sarebbe per mediocrità altrui ma mica ci credo a termini come meritocrazia, io. Perché se ci saranno pure un bel po’ di suicidi di massa fra due dicembri per quanto ha previsto una civiltà estinta, converrete con me che humus fresco e sterco di primissima qualità in giro non ne manca proprio. Ed allora uno potrebbe pure pensare che non provare a sfruttarla, questa pausa neurologica di una gran bella fetta del globo, sarebbe un delitto perché in un prossimo futuro potremmo pure cominciare a svegliarci.

Ma forse hai ragione tu Jean Claude “Back Space”. Il mondo è già sufficientemente pieno di Arturi Bandini che smanierebbero per potersene stare rinchiusi per mesi in una stanza polverosa di un Hotel d’America a scrivere quello che, ai loro occhi - ma solo ai loro, cazzo - sarebbe il capolavoro che li renderebbe immortali. Lì, sullo scaffale dei classici, a parlare con Twain e Hemingway come vecchi amici al pub.

In realtà solo un tremendo mal di testa per milioni di “Back Space” inutilmente pigiati che invece vorrebbero solo poter dormire o, perché no, scopare con quel gran pezzo di plastica di F12 che non li fila di striscio e che, proprio per questo, li fa impazzire e tirare calci volanti a destra e a manca sulle nostre povere dita.

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editoriale di fosca

“Non ce la faccio più” e reclinando il capo cercava di nascondere le lacrime, inutilmente.
Non un sussulto in tutto il corpo, solo un flebile sospiro emesso con sofferta rassegnazione.
Una discesa buia. Un viaggio sconosciuto e spaventoso.
E loro, durante quei giorni, non poterono che starlo a guardare ed osservare il suo lucido, incosciente malessere prendere possesso di lui e della sua mente, metodicamente e in maniera umiliante.
Pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno, apparentemente senza motivo.
Qualcosa s’era spezzato nei suoi pensieri insicuri di essere umano, di essere fragile, e l'integrità del suo io non sapeva più avere il sopravvento.

Fu un lungo tunnel da percorrere insieme, tentennando certo, ma cercando il modo di non perderlo e che non si perdesse. Col tempo, un lungo interminabile tempo, ritrovarono la fiducia nei suoi occhi, guardandolo, studiandolo, scoprendolo quasi immemore di quel lontano crollo improvviso, ma si sa, la mente può questo ed altro e come crea distrugge, senza testimoni e senza rispetto per niente e per nessuno. Tabula rasa.
Le sue giornate da allora in poi furono molto più libere e leggere, trascorsero lievi così come i rinnovati pensieri che con serenità esponeva loro. Nuovamente.

Ma quando restano soli, al buio, avvolti dal silenzio, a pensare, ecco che di nuovo la sua immagine sconfitta rimbalza da un lato all’altro delle loro menti schiantandosi là dove cominciano i pensieri, che non sono più gli stessi.
E rimangono soli, ognuno in silenzio e carichi di tristezza, carichi di incertezze e dubbi, a bersi la vita, a cercare di comporre il mosaico incompleto che fino ad oggi hanno vissuto, aspettando, mentre brividi di tensione percorrono le loro schiene chiudendo loro la gola.

A pugni stretti rivedono il suo aspetto, ritrovandosi così, madidi di sudore freddo e di paura.

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editoriale di MorgueOfAbsinth

L’universo umano sembra sempre più grottesco, manipolato da forze di cui è impossibile tracciare un profilo comprensibile. La pratica dell’accumulo verbale e dell’elenco non metodico diviene un mezzo per omaggiare l’apocalisse di Cioran e l’assurdo di Beckett. Omaggio che, con inquietudine, si muta in orrore: voi sapevate, maestri, voi avevate percepito questo sfaldamento del mondo e dell’uomo. Ma, dissimili dagli antichi profeti, dopo le vostre parole non rimane nulla, se non un campo di cenere arida. Nessuna redenzione, divina o illuminista, nessun viaggio verso una perfezione tanto ambita quanto irraggiungibile.

Un ragazzino stuprato da sette coetanei, ululati ubriachi che culminano in pestaggi nelle notti cittadine, stirpi di clandestini il cui destino è sospeso tra la morte e la morte, il vicepresidente del CNR che inveisce contro gli omosessuali e che definisce la tragedia giapponese “… una voce terribile ma paterna della bontà di Dio.”.
Ventenni universitari, futuri medici, avvocati, magistrati, penalisti, fisici, biologi, storici, scrittori, che vedono tre vecchi in piedi nel treno delle 15.05 per Trento e che si guardano bene dal cedere per mezz’ora il proprio posto a sedere. Quella che dovrebbe essere la parte migliore del paese si condanna da sola con questo miserabile non-atto senza scusanti, dal costo infimo e dal prezzo immane.

Potenze costruite dall’uomo contro l’uomo per le quali la comprensione è diventata estremamente ardua e, allo stesso tempo, comunque necessaria; per chi discende da stirpi di contadini, contrabbandieri, pescatori, allevatori le armi di distruzione di massa, le centrali nucleari, gli strumenti tecnologici con i quali scoprire gli eterni misteri del cosmo rimangono un mistero assurdo: a che pro tanta potenza quando per salvare un territorio dalla carestia e dalla siccità sono sufficienti investimenti economici esigui e macchinari ai limiti del rudimentale e, nonostante l’umiltà di questi mezzi, non c’è volontà di raggiungere un fine così semplice e giusto?

Cadiamo sulla terra senza volerlo, strappati via come lembi di una cucitura, e viviamo nudi e sanguinanti, sporchi di terra e incoscienza, segnati dall’assurdo al quale è impossibile rassegnarsi, pur nella lucidità della comprensione della sua esistenza. Oggi non ho le forze per sradicare dal campo della vita un elenco, altrettanto disorganico del precedente, di quello che di buono compie l’uomo per l’uomo: i miei occhi sono inetti a questo compito, deboli la mia pazienza e la mia volontà; è difficile, tra migliaia di vespe, estrarre l’ape bottinatrice capitata, per cattiva sorte, tra loro.

Vago tra le molte valli della vita, in attesa del suo assurdo dipanarsi, barcollando pervaso dallo sforzo di mantenere una rotta accettabile. Eppure, sentire il mite, forte e favolosamente vecchio Salvatore mentre parla di come ha bizzarramente guarito il suo cane contro ogni previsione veterinaria mi riporta pace. E un sorriso nella cupezza del giorno che viene.

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editoriale di ilfreddo

Il cellulare è vuoto e così maledettamente pieno di energia: frutto di decenni di progressivo e naturale isolamento. Prima, quando era giovane, gli sembrava fico essere diverso, non avere bisogno di niente e di nessuno, non avere legami duraturi e considerare tutta la gente con la quale veniva a contatto inutile, incolore, insapore e stupida al suo confronto. Ma ora, ingobbito, stanco e grigio pagherebbe per avere un confidente. Qualcuno. E l’incubo della pensione è a solo una manciata di ore di distanza.

Ci sono giorni, ed oggi è uno di quelli, nei quali pensa davvero a come cazzo ci sia finito qui: in fondo a questo fottuto vicolo cieco la cui fine delle pareti di cemento si confonde ormai con il plumbeo cielo di un' anonima città. Si ferma e pensa al senso che finora la sua esistenza ha avuto; non trova una risposta soddisfacente e mentre si sforza di trovarne uno accarezza il cane dentro la giacca. Cammina, ma non se ne accorge nemmeno delle foglie che calpesta, della merda di cane che si appiccica alle suole e del pallone che i bambini gli chiedono di lanciare con urla sempre più acute. Immerso com’è nei suoi pensieri profondi è in un'altra dimensione e si ritrova a poggiare le chiappe lontano, su una panchina isolata posta sul limitare del bosco. Tocca la fredda canna lucida ed è un contatto rassicurante.

Avesse una lampada, la strofinerebbe. Chiederebbe di diventare… un animale selvaggio.

Che vive di istinti. Che quando va in calore, scopa; se ha fame, caccia; se ha sete, va a cercare qualcosa da bere. Cammina per giorni e continua a spostarsi a seconda del clima e delle stagioni. Non ha pensieri filosofici, cazzate cerebrali e menate femminili al di fuori delle necessità impellenti e della mera, durissima sopravvivenza giornaliera. Non ha progetti da realizzare, sogni a lunga scadenza. Nemmeno illusioni da rincorrere che tanto andrebbero comunque irrimediabilmente a puttane. Non deve deludere e rendere conto a nessuno. Se ne sta lì, nel branco, perché così si è sempre fatto e così si farà, anche dopo che lui sarà diventato concime per i vermi. Si muove assieme agli altri simili senza nome e codice fiscale, spinto dall’istinto; ci saranno momenti di giubilo, quando la caccia andrà particolarmente bene e si riempirà lo stomaco di carne grondante e si accoppierà per giorni; di paura, quando rischierà di essere a sua volta sbranato o, peggio, ucciso da quegli strani e lenti animali vestiti; di sofferenza, quando arriveranno la siccità, la carestia e le epidemie. E se sarà proprio parecchio sfortunato invecchierà nel branco fino a quando non sarà più capace di reggere il passo.

Quel giorno arriverà, e come se arriverà, ma sarà l’unico davvero triste della sua esistenza. Verrà lasciato lì senza tanti commiati paraculi. Senza un ospedale con tubi pieni di vita infilati per il corpo sfatto per poter procrastinare la sua ormai inutile permanenza. E’ così che funziona. Lo sa bene ed è una scena che ha già visto parecchie volte. Un paio di giorni e morirà. Un animale selvaggio, abituato al branco, in solitudine ci rimane per poco tempo; solo quello necessario per andarsene.

Sente il calcio tra le dita ed è una bella sensazione.

Ce ne saranno milioni di differenze, ma questa, al momento, gli sembra quella più importante. Noi, sapienti sapienti, moderni e tecnologici, nella solitudine ci possiamo sguazzare tristemente per anni. Perfino per decenni. Apre gli occhi ed invidia con tutto sé stesso quel capriolo senza casa che corre leggero chissà dove, chissà da chi.

Un rumore secco, degli uccelli volano via impauriti. E poi... poi torna il silenzio e scende la sera.

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editoriale di kosmogabri

1
Genius is not a generous thing
In return it charges more interest than any amount of royalties can cover
And it resents fame
With bitter vengeance

Pills and powdres only placate it awhile
Then it puts you in a place where the planet's poles reverse
Where the currents of electricity shift

Your Body becomes a magnet and pulls to it despair and rotten teeth,

Cheese whiz and guns

Whose triggers are shaped tenderly into a false lust
In timeless illusion

2
The guitar claws kept tightening, I guess on your heart stem.
The loops of feedback and distortion, threaded right thru
Lucifer's wisdom teeth, and never stopped their reverbrating
In your mind

And from the stage
All the faces out front seemed so hungry
With an unbearably wholesome misunderstanding

From where they sat, you seemed so far up there
High and live and diving

And instead you were swamp crawling
Down, deeper
Until you tasted the Earth's own blood
And chatted with the Buzzing-eyed insects that heroin breeds

3
You should have talked more with the monkey
He's always willing to negotiate
I'm still paying him off...
The greater the money and fame
The slower the Pendulum of fortune swings

Your will could have sped it up...
But you left that in a plane
Because it wouldn't pass customs and immigration

4
Here's synchronicity for you:
Your music's tape was inside my walkman
When my best friend from summer camp
Called with the news about you

I listened them...
It was all there!
Your music kept cutting deeper and deeper valleys of sound
Less and less light
Until you hit solid rock

The drill bit broke
and the valley became
A thin crevice, impassible in time,
As time itself stopped.

And the walls became cages of brilliant notes
Pressing in...
Pressure
That's how diamonds are made
And that's WHERE it sometimes all collapses
Down in on you

5
Then I translated your muttered lyrics
And the phrases were curious:
Like "incognito libido"
And "Chalk Skin Bending"

The words kept getting smaller and smaller
Until
Separated from their music
Each letter spilled out into a cartridge
Which fit only in the barrel of a gun

6
And you shoved the barrel in as far as possible
Because that's where the pain came from
That's where the demons were digging

The world outside was blank
Its every cause was just a continuation
Of another unsolved effect

7
But Kurt...
Didn't the thought that you would never write another song
Another feverish line or riff
Make you think twice?
That's what I don't understand
Because it's kept me alive, above any wounds

8
If only you hadn't swallowed yourself into a coma in Roma...
You could have gone to Florence
And looked into the eyes of Bellini or Rafael's Portraits

Perhaps inside them
You could have found a threshold back to beauty's arms
Where it all began...

No matter that you felt betrayed by her

That is always the cost
As Frank said,
Of a young artist's remorseless passion

Which starts out as a kiss
And follows like a curse


"8 Fragments For Kurt Cobain" - Jim Carroll

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editoriale di ilfreddo

La cenere a forza di starsene lì sul fondo si era quasi sopita nel tiepido ventre pietroso; grigio dappertutto e solo un po' di rosso spento qua e là. Pomodoro caduto accidentalmente in un cielo d'autunno a testimoniare la presenza di qualche barlume di calore. E così, mentre si stava spegnendo, guardava senza troppa convinzione in alto, sperando che da quella apertura cadesse un copioso rettangolo di diavolina. Quel dolce e candido petrolio solido che è solito anticipare la caduta di qualche tenero legno da mordere. Come quasi non si ricordava più.

Questione di un istante. Occhi. Quattro, in un locale affollato si scontrano su una linea retta invisibile e non si abbassano per tre secondi eterni che vengono spezzati in una fila eterna di istanti densi come blocchi di granito. Dal soffitto cade quindi una doccia di benzina mentre la sala si riempie di lanciafiamme. Dietro quel colore verde, quasi irreale tanto intenso, sicuramente ci sarà di che farsi male; molto probabilmente, se farà la loro conoscenza, più in là gli potranno strappare il cuore e trafiggerlo con un tacco dodici, girando per bene il piede affusolato. Non ci pensa: deve conoscere e vedere da vicino quella criptonite. Vorrebbe davvero, ma quella fottuta di una timidezza lo prende per la manica e con strattoni violenti lo fa allontanare. Lui gira il collo mentre fa cadere bicchieri, sposta tavolini, pesta piedi ed in una cornice di bestemmie e urla riesce ancora a vederli. Quegli occhi.

La provvidenza assiste alla scena e non può resistere e starsene lì, con le mani in mano, di fronte ad uno scempio del genere. Scava così con un gesto una bella buca di rum e pera nella quale la timidezza, impegnata com'era a strattonare, ci cade dentro con uno spettacoloso tuffo. Sguazza per un po', arranca muovendo in maniera goffa e scoordinata le braccia ed infine annega senza rimpianti e cerimonie da parte di nessuno.

Qualche cifra viene scambiata e poi, a distanza di sette giri di volta della Terra si ritrova a parlare con quegli occhi senza dover nemmeno prendere la Padania o Libero per avere la meglio, con sonore risate, su quei fastidiosi e miei silenzi di ghiaccio che solitamente albergano nei primi appuntamenti. Sciogliersi alla "evve" sexy, alle fossette quando ride e condividere persino buona parte dei pensieri dando una scorciata peccaminosa al fisico che sembra una Chicane. Tirare una battuta ed osservarla saltare, prenderla al volo e rilanciarla per uno strike. Ritrovarsi così a camminare leggeri, due, tre, quattro volte davanti alla macchina parcheggiata per procrastinare quel suono fastidioso: la chiusura della portiera. Danzare quindi come granelli di sabbia scippati dal deserto e trasportati dal vento per le vie della città.

Sentirsi di nuovo bruciare ed ardere; non pensare con fredda razionalità a quello che verrà, ma mangiarsi questo momento di miele avendo la falsa convinzione che sarà così per un tempo impossibile anche solo da immaginare. Per sempre.

La legna, si dice, stavolta scenderà copiosa al momento giusto e non mi raffredderò più.
Sentirsi ancora una volta così stupidamente e meravigliosamente innamorato.

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editoriale di zaireeka

Questa volta, se me lo permettete, vorrei fare qualche considerazione semplice semplice sul giusto trascorso 17 marzo.
Per chi non lo sapesse (immagino quei pochi impegnati nel frattempo a prendere un cappuccino al bar con gli amici) in tale data, nel lontano A.D. 1861, Vittorio Emanuele II fu proclamato ufficialmente Re d'Italia, sancendo in questo modo la nascita della Nostra nazione.
Insomma, il 17 marzo 2011 è stata una data importante. Il 150esimo anniversario dell'unità nazionale.

Stando a quanto riportato dagli organi di informazione (e ci posso credere visto quello che ho visto nella mia città), molta gente in Italia si è fatta coinvolgere nei festeggiamenti, come probabilmente sarà successo cinquant'anni fa, nel 1961.
Personalmente, sorprendentemente visto la mia predisposizione all'amor Patrio, non sono riuscito a farmi prendere dall'entusiasmo.
Non so se sarebbe stato diverso cinquant'anni fa, se avrei festeggiato con più trasporto, non subendo negativi influssi dalla attuale situazione socio-politica italiana.
In compenso io cinquant'anni fa, essendo nato giusto giusto con i sufficienti anni di ritardo, ancora non c'ero.
Mi racconta chi c'era, per quello che ricorda, che fu anche allora un giorno di festa, anzi anche di più.

Pensando al futuro, fra cinquant'anni forse ci sarà ancora l'Italia (lo spero) ma io (quasi) sicuramente non ci sarò più.
Spero ci sarà mia figlia e che mi faccia una telefonata per farmi sapere come è andata, ricordandosi questi giorni.
Insomma, a pensarci, questi anniversari li vedo un po' come i passaggi delle comete, come quella di Halley, che ci fanno bye bye dal Cielo quando ci passano sopra la testa, e forse anche una pernacchia.

Non sono riuscito ad appassionarmi a questa festa, a queste celebrazioni.
Ma una cosa mi è venuta da pensarla.
Cazzo, quanto è breve la vita di un uomo!

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editoriale di fosca

Quasi chiunque avrà da poco finito di godere della polemica mediatica (politica) messa in moto dall’ultimo film dell’ottimo Michele Placido, qui in veste di solo regista, che nuovamente ha dimostrato di sapercela davvero fare.

Punti di vista, certo, ma il film “Vallanzasca, gli angeli del male” è davvero ben fatto, confezionato a norma, girato bene, con delle ottime riprese ed uno strepitoso Kim Rossi Stuart; l’ambientazione è la solita fotografia molto cara al regista di un’Italia particolarmente difficile (quella a cavallo degli anni 70/Piombo) che Placido ha già ampiamente fatto capire di prediligere nelle sue tematiche di rottura violenta con la società e le leggi del tempo.

La differenza minima è che questa volta il tema centrale del lungometraggio non ruota attorno alla protesta corale (per quanto sbagliata) del terrorismo, un movimento che definirei storico e culturale nel senso più ampio del termine, o attorno al fenomeno oligarchico dell’organizzazione di potere criminale mafiosa, bensì racconta in modo credibile ed esauriente le gesta (certo discutibili) di un criminale semplice nella sua vasta complessità, e della sua banda. Una sorta di “Romanzo criminale 2” con un nuovo protagonista, si badi bene, non un nuovo eroe.

Non si tratta affatto di “apologia del criminale” com’è invece stato detto più volte anche dalla stampa oltre che dai nostri politici, anche se sicuramente la visione di questo film non potrà affatto essere cara ai familiari colpiti.

Personalmente, una volta giunti i titoli di coda, non ho pensato cose diverse da quelle che già pensavo prima della visione del film. I miei pensieri sono rimasti gli stessi, derivanti sia dall’esperienza diretta (certo ero solo una bambina ma me ne ricordo molto bene, comunque) sia dalla conseguente “curiosità documentativa” sopraggiunta con la maturità, nel corso degli anni.

Insomma, non ho visto tutta questa esaltazione violenta del crimine e della sua progettualità, non ho visto il rispettoso elogio di un regista nei confronti di un (suo) mito.
Ho solo visto raccontata molto dettagliatamente, nuda e cruda, la (discutibile) vita di una persona che scientemente, cioè potendo scegliere, ha deciso di seguire il crimine, non da vittima dello stesso, ma come si sceglie un mestiere.

E soprattutto da amante dei fumetti quale sono, il paragone che immediato mi è saltato alla mente è quello con un altro anti-eroe, ma celebrato ed osannato da decenni interi, da fiumi di carta stampata e gadgets vari e che io stessa ho seguito per anni: l’efferato ladro ed assassino (questo soprattutto), il genio del male, amante del lusso e del bello, crudele e coraggioso, sfrontato ed imprendibile, Diabolik, stesso figlio di androcchia, solo più monogamo o meno puttaniere.

Certo, uno è reale, l’altro è pura finzione.
Ma non capisco comunque perché si debba condannare Placido e al contempo continuare ad osannare le sorelle Giussani per la loro prolifica produzione quarantennale, quando a ben vedere, i loro intenti sono in fondo comuni, e cioè raccontare semplicemente una storia, comunque sia stata.

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editoriale di kosmogabri

Lungo la via centrale del mio quartiere, venticinque anni fa, c’erano, in serie, tre negozi: panettiere, generali alimentari, fruttivendolo-tabaccheria, distanti cinquanta metri l’uno dall’altro, quasi del tutto complementari. Se avevi bisogno del pane, andavi dal primo, poi scendevi dal secondo per la pasta, il succo di frutta, i ghiaccioli, il dentifricio (possibilmente quello con i tre colori tipo bandiera francese, o quello che sapeva di fragola), infine dal terzo, per pomodori, patate, insalata, mele (preferibilmente rosse), e, se necessari, giornali e sigarette.

Quasi del tutto complementari, perché il fruttivendolo, appena all’ingresso, aveva un congelatore con la calotta trasparente dove vendevano ghiaccioli più buoni che nell’altro negozio. Ghiaccioli nel senso vero, onesto e brutale - di acqua colorante e ghiaccio - che si presentavano perfettamente per quello che erano - acqua messa a gelare con zucchero e additivi - e non per ghiaccioli con la “frutta vera”, con un vago sapore di detersivo che toglieva ogni illusione al secondo o terzo assaggio, trasportandoti dalle spiagge della dja-me-ka al più acconcio terrazzino di casa.
I negozi erano a cinquecento metri da casa mia, e certe estati, quando i miei amici della via erano già in vacanza, andavo io a fare la spesa, sotto il sole all’andata, e sotto il sole al ritorno col terrore che si sciogliessero i ghiaccioli, giusto in tempo per rincasare e vedere alla tivvù una qualche variante dei quiz stagionali, programmati in replica o sostituiti da palliativi a costo-zero per piazzare regali-spot-prodotti di vario genere.

L’altro giorno, passandoci davanti in macchina per un saltuario ritorno, ho gettato l’occhio dentro al fruttivendolo, e l’ho visto vuoto. Niente ghiaccioli, ma, a parte la stagione, l’azienda ormai vende solo ai bar, me l’ha detto uno che ci lavora come custode. Niente più vecchi gestori, sostituiti da figli e figlie, che conoscevo da ragazzi e ritrovo invecchiati dietro il banco. Niente più clienti, o quasi, il negozio vive solo di giornali e di tabacchi, cui si è aggiunta da qualche mese la ricevitoria del lotto, dove le donne impellicciate che venticinque anni fa entravano a comprare centomila lire di frutta e verdura si giocano, oggi, qualche residuo della pensione in cappotti invecchiati peggio di loro. Niente più concorrenti, però panettiere e alimentari hanno chiuso da anni, e tocca farsi un settecento metri per raggiungere il nuovo ipermercato, con ampio parcheggio ed uno scaffale in cui, accanto a Danielle Steel o Dean Koontz, vendono anche Sciascia.

Nessuna macchina, tranne la mia, parcheggiata appena fuori, nel piccolo piazzale in cui mi sono entusiasmato nell’89, quando sembrava fatta per Vanenburg alla Juventus, e rattristato sei mesi fa, quando ho casualmente scoperto della morte, certo non prematura, della donna più vecchia del quartiere, che conoscevo di striscio.
Aveva centocinque anni, centocinque primavere passate in questo quartiere. La stessa età di mio nonno, che però è morto ancora nel ’75, alzandosi da tavola, tossendo, e svanendo di colpo sul divano a pochi passi, lo stesso divano su cui, anni dopo, mi sedevo a guardare Riccardo Scocciante cantare la sigla dell’ennesima Domenica In condotta da Baudopippo, con canzoni tipo pedalando in bicicletta o qualcosa del genere.
Centocinque primavere e l’ovvia, chiara percezione di essere sopravvissuta a tutto, e quasi a tutti. Come l’ultimo ghiacciolo della confezione (solitamente l’anice, che persistono a spacciare per gusto “puffo” come se la cosmesi linguistica lo migliorasse), l’ultima riposta del tabellone del quiz, l’ultima schedina del lotto, l’ultimo cliente del fruttivendolo, appena prima di spegnere le luci ed abbassare la serranda del negozio.

A volte, vorrei essere come gli alberi, o come i cani, che crescono fino ad un certo punto e poi si fermano, resistono, persistono, non vanno oltre e rivivono giorno dopo giorno un presente che è sempre fermo, sempre nuovo perché privo del passato e di quello che era prima. Forse, anche di quello che sarà poi, qualunque sia il poi.

Un tempo ed un luogo dove nulla, veramente, accade, e centocinque primavere sono immutabili come quella a venire.

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editoriale di saeedal-owairan

Mi lanciai in quest’avventura senza preoccuparmi delle conseguenze, né di tutti gli impegni e oneri finanziari che avrebbe comportato. Conoscevo il mio nuovo socio da quando eravamo ragazzi. Da nove anni era costretto a vivere su di una sedia a rotelle e conduceva una esistenza solitaria, dimenticato da tutti tra le quattro mura del suo piccolo appartamento. Fu lui ad avere l’idea, “Dobbiamo aprire un negozio di parrucchiere per signore. Io e te assieme sono certo potremmo farcela; e finiremmo anche con il tirare su qualche soldo.”

Non sapevo nulla di forbici, föhn, shampoo e balsami, spazzole, tinture e lozioni per capelli e non avevo idea del perché avesse deciso di riscattarsi intraprendendo l’attività di parrucchiere per signore; forse in questo modo intendeva esorcizzare quel principio di caduta dei capelli, quell’incipiente calvizie che tanto lo tormentava nell’ultimo periodo. Non gli feci alcuna domanda tuttavia, non ne ebbi bisogno: era mio amico da sempre, tanto bastò, e, affascinato dalla sua determinazione e da questo nuovo mondo a me sconosciuto, acconsentii a prestare la mia opera e le mie risorse finanziarie in quest’attività.

Cominciammo con grande entusiasmo, superando brillantemente le prime difficoltà burocratiche e quelle legate all’apprendimento del mestiere e allo studio scientifico della cura delle capigliature femminili, finché le cose non presero a girare a dovere. In breve avemmo un discreto giro di clienti: per lo più, con nostro grande rammarico, constatammo come la parte più consistente e, in tutti i sensi, corposa della nostra clientela fosse costituita da vecchie e attempate signore. Tuttavia le cose stavano così e ce le facemmo piacere; sogghignavamo tra di noi, complici beffardi, compiacenti, quasi perversi, mentre ci dedicavamo alle esigenti criniere di queste simpatiche ciccione, vecchie befane.

Fuori da questo idilliaco paradiso da coiffeur, tuttavia, dovevo tenere conto della mia vita quotidiana e lavorativa. Assistetti inerme alla mia oramai ex compagna preparare le valigie e lasciare per sempre quello che era stato il nostro appartamento e la mia vita lavorativa finì con il travolgermi: avere trascurato troppo tempo l’ufficio aveva comportato un ingente quantitativo di lavoro arretrato da smaltire. In realtà consideravo la mia nuova attività di coiffeur per signore solo una generosa concessione fatta a un amico e pensai che concentrarmi esclusivamente sul lavoro fosse esattamente la cosa più giusta da farsi.

Considerandomi impossibilitato a frequentare il negozio, smisi di andarci e nei due mesi che seguirono mi limitai a farmi inviare periodicamente i conti da mettere in ordine e pagare le spese, e a qualche telefonata informativa di tanto in tanto.

Poi una mattina il mio amico scomparve. Preso dal panico, mi precipitai in negozio per cercarlo, ma vi trovai invece una inodore massa informe, quello che appariva essere un cadavere in cui tutti credettero di riconoscere il mio amico: lo diedero per morto e celebrarono un triste funerale cui tuttavia, nella perplessità generale, mi rifiutai di presenziare. Il cadavere nella bara non era il suo, perché lui non era morto e lo sapevo condurre una nuova libera esistenza in uno degli infiniti mondi contenuti in uno dei flaconi di balsamo che avevamo in negozio.

Vendetti l’attività, ma tenni per me il flacone. Compresi di essere solo, ma non ebbi mai il coraggio di abbandonare tutto e di raggiungerlo nell’infinito vorticare delle galassie contenuto nel flacone, finché un giorno, che mi sembrava di impazzire, decisi di berne il contenuto. Mi bevvi tutto il contenuto del flacone e in un attimo fu come bere tutta la sua vita. Vomitai e ebbi disprezzo di me stesso; nulla avrebbe mai potuto restituirmi quello che avevo perduto.

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editoriale di telespallabob

Ronan O'Gara è nato a San Diego, in California, da genitori irlandesi originari di Cork. Una città bellissima, affascinante. E' la capitale di una delle quattro province storiche d'Irlanda, il Munster, ma è soprattutto il luogo dove si respira, più di ogni altro, quello spirito denominato “Proud to be Irish”. La gente di Cork ha nelle vene il sangue di Micheal Collins e dei combattenti dell'IRA. Vivere in luoghi così ti forma e ti fa sentire un tutt'uno con la propria terra e questo plasma il giovane Ronan che tra una scuola e l'altra diventa una promessa del Rugby irlandese.

Il mondo ovale irlandese è gestito in modo molto particolare: prima di tutto non esiste la distinzione tra Eire ed Irlanda del Nord (prima delle partite viene suonato un inno apposta, "Ireland's Call") ed inoltre la IRFU organizza il professionismo attraverso le quattro province storiche (Connacht, Leinster, Munster ed Ulster). Il Connacht rappresenta la squadra sperimentale, quella dove vengono mandate le giovani promesse prima di finire al Munster o al Leinster secondo il proprio ruolo: a Limerick i giocatori di mischia, a Dublino i tre-quarti. Almeno in teoria. In pratica, per quanto ci siano interessi ed ingerenze, c'è chi non obbedisce a queste logiche e così fa O'Gara che resta al Munster, diventandone una bandiera. In poco tempo conquista il posto anche in nazionale e diventa uno dei migliori interpreti al mondo nel suo ruolo.

O'Gara oggi ha 34 anni, naturalmente continua a giocare. Nel Munster come nell'Irlanda, con un differenza. A Limerick è ancora il leader di una squadra che con il suo pubblico e la sua micidiale mischia mette in crisi mezz'Europa. In Nazionale ha perso il posto da titolare, scalzato da Jonathan Sexton. E' il mediano d'apertura del Leinster. Hanno caratteristiche e modi di giocare molto diversi ma quest'ultimo ha dalla sua l'età (26 anni) e la “Rugby World Cup” di Settembre rappresenta la grande occasione per la maturità. Ronan lo sa fin troppo bene ed accetta la panchina. Non pretende il ruolo di primo piano solo per i meriti passati, capisce che c'è un momento in cui bisogna fare un passo indietro e lasciare spazio. Sa che in momenti difficili bisogna essere pronti e dimostrare di essere grandi dentro. Non si può avere sempre vent'anni. Bisogna sfruttare al massimo ogni età, accettare il corso del tempo ma non per questo si deve rinunciare ai propri valori e alle proprie idee.

L'anno nuovo coincide con un altro “6 Nations”: al Flaminio si gioca Italia-Irlanda, la partita è in bilico. Declan Kidney, head coach dell'Irlanda, si gioca la carta dell'esperienza nel finale e sotto questo aspetto chi meglio di O'Gara? Ronan entra, è fresco e sa cosa fare ma i suoi compagni soffrono le incursioni degli avanti azzurri che al momento giusto aprono ai tre-quarti: è la meta italiana. Mirko Bergamasco non trasforma, 11-10. Basterebbe un piazzato per rimontare ma prima c'è da recuperare il pallone, fortuna vuole che gli avversari lo regalano ingenuamente. O'Gara pensa al drop e i compagni di squadra lo mettono nelle condizione giuste: ora è solo un suo problema. Al '78 Italia 11- Irlanda 13, drop di O'Gara. Il risultato non cambia più. Diventa l'eroe del sabato ma nelle interviste non si auto-elogia, non tenta di sconvolgere le gerarchie. Parla della lucidità del gruppo e dell'importanza della vittoria. E' cosciente che sabato prossimo il titolare sarà Sexton e lui dovrà essere a bordo-campo, pronto in caso di bisogno.

In verità Ronan O'Gara è un passionale, dal carattere irriverente ed orgoglioso. Non sopporta né Sexton né la panchina e sta approfittando dell'ottimo “6 Nations” disputato fin ora (contro la Scozia è stato premiato come “Man of the Match”) per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, con dichiarazioni taglienti ed ironiche. Ciononostante gli sono affezionato, adoro vederlo giocare e mi divertono i suoi “colpi di testa”.

Dedico questo mio scritto agli “anziani” del CUS Brescia Rugby. Compagni di squadra meravigliosi, anche nei loro difetti. Sempre pronti a farti capire come stare al mondo, prima di tutto. Anche del campo.
Speciali come Ronan O'Gara.

(nella foto: Ronan O'Gara conversa amabilmente con Queen Elizabeth II) di più
editoriale di zaireeka

Se, un lunedì mattina di fine febbraio, aprendo l'edizione in rete di uno dei quotidiani più prestigiosi di questo Paese (per giunta di "opposizione"), ti trovi davanti una prima pagina di questo tipo:

"Libia nel caos. E' guerra civile. Gheddafi in fuga!". E subito sotto: "Roma del caos. Ranieri si è dimesso!".

… significa che qualcosa effettivamente non va. E non solo qualcosa.

Che questo Paese si trovi ormai a galleggiare in un meraviglioso cocktail fatto non solo di perdita del senso della misura (altrimenti come è possibile usare gli stessi termini per parlare di una guerra civile e della crisi di una squadra di calcio) ma anche di continue prove di instaurazione di un quasi-regime (a mio avviso, sull'onda dello scandalo Ruby, ora ci stiamo avvicinando davvero) ne avevo avuto ulteriore conferma ieri (20 febbraio, n.d.r.), nel primo pomeriggio, assistendo a qualche minuto di Domenica In.
In particolare al linciaggio in diretta tv di Michele Santoro (e di tutto lo staff di Anno Zero), reo di aver "cavalcato" e "strumentalizzato" le dichiarazioni fatte al "Se non ora, quando?" day da tale Emma, mia corregionale, neo-stellina del mondo canterino, seconda classificata insieme ai Modà dell'ultimo festival di San Remo .

Linciaggio, cosa assai grave, non solo ad opera di noti lacchè del potere, ma addirittura di una persona solitamente composta ed equilibrata quale Marino Bartoletti (da Giletti me lo potevo aspettare, da lui, no).

Come dire, al di là delle responsabilità di Santoro, il messaggio al Popolo dato dalla televisione di stato è stato comunque uno: "dagli all'untore".

Siamo davvero sull'orlo di un nuovo fascismo in doppio-petto?
Dobbiamo augurarci che scoppi davvero una guerra civile per svegliarci tutti, come voleva Monicelli o come vaticinava anni fa Moretti?
Non sarebbe male, anche considerando che una delle cose che mi ha più commosso negli ultimi tempi è stata quella che è successa durante l'ultima guerra civile in Egitto, con il popolo spontaneamente auto-organizzatosi a proteggere i tesori all'interno del museo egizio del Cairo dagli sciacalli.
Una pagina bellissima, di cui il "nuovo" Egitto dovrebbe andare (e probabilmente va) fiero.

Non sarebbe bello e commovente, anche da noi, per una volta vedere insieme tutto il popolo, i seguaci di Fini, Di Pietro e Berlusconi, smettere di tirarsi contro i soliti slogan come ad una partita di calcio e fare insieme le barricate per impedire a ladri e teppisti di saccheggiare i nostri tesori del Museo degli Uffizi o della Basilica di Massenzio?

In questo editoriale. non so se si è capito, ho perso anche io il senso della misura.
A proposito, tornando a parlare dei disordini libici a cui ho fatto riferimento all'inizio, non è forse il tempo di nuovo maturo e propizio, dopo più di sessant'anni, per approfittarne, e per pensare di riprenderci quello che un tempo era nostro sull'altra sponda del Mediterraneo?

Ma non ditelo a La Russa, altrimenti lo fa veramente.

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editoriale di fosca

Oggi facciamo un po' di inutile e sano gossip pecoreccio, come direbbe qualcuno dei miei de-amati qui.
Mettiamo da parte la politica e il vecchio nano col priapismo e parliamo di Starlettes e Vips (Vituperanti Imbecilli Porta Sconforto) del Semper Deus Ex Machina, la Tv.
Questi personaggi che, ricoperti da un alone di fama e fantomatico mistero allo stesso modo in cui, meno allegramente, lo sono i gabbiani quando planano sul petrolio, dimenticano la loro condizione di esseri umani per auto-assurgere a quella di SemiDei, condizione che stava già sulle balle sia agli umani sia agli Dei migliaia di anni fa, figuriamoci oggi nell'era modèèèrna!

Quindi, parliamo di soubrettes straniere bionde italianizzate e della loro vita dentro e fuori dallo schermo. Parliamo di come l'una influenzi e stravolga l'altra, fino a portare questi esimi Premi Nobel a credere di essere davvero speciali e pertanto diversi, da noi non-illustri mortali, al punto di poter fare tutto il beato cazzo che vogliono. E mi scuso se ho detto beato.

Ma poi, alone di fama de che? Parliamone.
Se essere pagate per fare comparsate settimanali in alcuni dei programmi pomeridiani più inutili perfino per le casalinghe cui son rivolti e per le quali sono pensati, (palinseeestoooo!) senza esprimere mai un valido parere ma semplicemente facendo l'occhiolino e le faccette buffe, può definirsi avere una "carriera di successo" allora ok, stiamo parlando di fama nazionale.
Stiamo parlando di persone che, senza un talento reale (non ballano, non cantano, non recitano, non presentano, non scrivono e non hanno mai un parere che non sia scritto da altri sul gobbo e così via), hanno solo una nazionalità diversa sul passaporto, delle buone conoscenze personali e sotto la chioma bionda un cervello dormiente che fa dire, in un italiano caro al più noto Don Lurio, idiozie lapalissiane senza peso ma pagate evidentemente a peso d'oro, se paragonati ad uno stipendio medio di un'occupazione normale.

Voi direte "... e chissene, dove sta la novità?" ed in effetti la novità non c'è, eccetto per chi, come me, ha l'enorme fortuna di condividere, con questi personaggi, gli spazi vitali in una convivenza condominiale ai limiti del miglior Almodovar più scatenato, con sfumature incivili al limite del grottesco. Sì, perché la famiglia felice - ipercefala soubrette, arrogantissimo marito fashion victim yuppie/trash imprenditore in carriera, multiprole, animali domestici e servitù (ovviamente) - vive ad un piano di differenza dal mio e le pareti dei nostri reciproci focolari domestici sono contigue, come le nostre incomparabili vite in reciproca collisione. Il che purtroppo rende la famiglia della sottoscritta partecipe della loro che continua a regalarci spunti tutt’altro che piccanti, confezionati con la maleducazione più becera.
Ma in fondo, suvvia, è forse una colpa se non hanno un lavoro "normale" (serio?) ma vanno a dormire quando normalmente gli altri sono in fase r.e.m.?
Se amano fare la lavatrice alle tre del mattino (con la centrifuga che parte sempre mentre tu sei in fase r.e.m.) per avere il bucato pronto alle dieci?
Se non si curano della raccolta differenziata per cui qualcun altro deve sempre mettere mano nella loro monnezza per evitare le multe al condominio, cercando di pensare forse anche all'ambiente?
Se amano parcheggiare sempre il macchinone sotto casa ma fuori dagli spazi, sulle strisce pedonali ed in curva ogni santo giorno?
Se ogni sera le urla ed il lancio delle sedie da parte della giovanissima prole si protraggono fino oltre la mezzanotte creando disagio a tutti i vicini minchioni?
Se occupano tutti gli spazi comuni con oggetti di loro proprietà come passeggini, biciclette, scatoloni, trattorini e scatole vuote di pannoloni new generation?
Se i loro animali hanno la loro gran personalità per cui non ce la si fa a tenerli buoni in casa ma vengono lasciati liberi di scorrazzare e rumoreggiare per le scale e tutti gli spazi a loro piacimento?
Se sono liberi di comunicarsi, urlando per la tromba delle scale, qualsiasi importante informazione a qualunque ora del giorno e della sera?
Se il tempo passa per tutti con la sua promessa di rughe sul viso e lei non ce la fa ad accettarlo perché è VIP e lui la insulta a gran voce perché osa chiedergli i soldi per la chirurgia estetica?
Se infine non si può rivolgere loro parola perché lei "... no capiscie beni taliani." e lui ti fa mandare lettere dall'Avvocato anche per dire "...ascensoreee?"? Ovviamente le lettere di lamentele da parte dei condomini sono invece ignorate.

Insomma, essere VIPS comporta tutta una serie di responsabilità che noi poveretti non possiamo nemmeno immaginare.
Non c'è tempo per essere normali. Non c'è tempo per essere educati e avere senso civico.
Non c'è tempo per le piccole cose del vivere quotidiano, per il rispetto di quelli come noi, con un lavoro semplice, spesso sfigato e assolutamente rompipalle; per quelli con una vita il cui apice di tensione è l'aumento dei surgelati all'Esselunga o lo straordinario non riconosciuto in busta paga.

Alla fine sapete però che vi dico? Vi dico… beati noi, beati, eccheccazzo!

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editoriale di ilfreddo

Il succo di polipo che ho bevuto sfogliando il paese delle Banane, stropicciando l’invenzione di Guttenberg e prendendo un pacco veloce poco prima di cena mi ha fatto sgranchire i neuroni e pensare.

L’orchestra da qualche tempo mostra evidenti problemi di sincronia e musicalità. La melodia che genera, unghie di Nightmare su una pentola ruvida. Gli strumentisti vetusti non mollano il posto ed i rincalzi sono lì che aspettano. Qualcuno di loro si incazza perché non capisce il motivo per cui le sue dita veloci debbano essere preferite a quelle lì, incerte e nodose, che si attorcigliano e si impantanano goffe sugli spartiti. Ci sarebbe da lavorare sugli archi, sugli ottoni, sul tempismo e forse bisognerebbe cambiare pure alcuni strumenti. Vecchi di decenni e mai puliti, usurati ormai irrimediabilmente. Insomma per il direttore ci sarebbe un gran da fare, ma invece di provare e riprovare i pezzi più tortuosi e ricomporre la preziosa sintonia nell’orchestra spreca tanto tempo sui triangoli: strumenti indubbiamente carini e ammiccanti, ma di contorno e quasi insignificanti nel risultato melodico complessivo. Nella concitazione degli eventi e delle prove, vista l'imminenza dello spettacolo, di quei triangoli sbattuti con veemenza dal direttore con una bacchetta dallo strano colore blue nessuno se ne cura. Nessuno li sente. Finché il polipo di cui sopra non starnuta su un pezzo di carta: solo allora quel lieve tintinnio, magia, diventa un urlo in un megafono.

Stupore, vergogna, biasimo, indifferenza, minimizzazione e strenua difesa si attorcigliano come edera rampicante su un muro infinito capace di oltrepassa perfino i confini nazionali e l'oceano.

Le rivelazioni, sempre che siano confermate direbbe un Diavolo non troppo grande, potranno anche indignare ma personalmente mi paiono assumere i connotati e le fattezze del soldato sopravvissuto alla battaglia di Maratona. Costui nel febbraio 2011 arriva ansimante dopo 42 km e 195 m per dirmi, poco prima di morire asciugato di ogni energia: “la Terra non è piatta!”

Sarà che ho raggiunto la saturazione. In questo quotidiano piatto di salgemma che mangerò anche stasera, un mezzo chilo di sale in più non lo sentirò nemmeno. Le papille gustative sono morte da tempo. Ho perso in questi anni di orchestre sbilenche e stonate ogni cosa. Chiavi di casa e punti di riferimento per orientarmi, capacità di esprimermi, di amare, di dormire. Speranza e perfino stupore.

Più spremevo questi tentacoli passandomeli sulle dita e più si è palesato un pensiero banale, ma a mio modo di vedere importante.

Non accettare l’invecchiamento, procrastinare l’inevitabile e continuare a fare i Peter Pan è un problema assai comune nella nostra società; basta svolgere lo sguardo anche distrattamente in una giornata qualunque. Oggi può andare bene. Ed è sufficiente buttare un occhio distratto mica troppo lontano: l’ufficio dove lavorate, la palestra dove bruciate, il bar e perfino la casa dove vivete. E’ tristemente vero affermare che molti, quelli che applaudiranno alla fine dell‘esecuzione a prescindere, farebbero carte false per essere lì, alla sua età, a suonare fino al definitivo piattume cardiaco quei tre gran pezzi di metallo con la loro bacchetta blue presa in farmacia.

E quindi, mentre chiudo questo polipo ormai morente, sento che il sentimento che prevale, alla notizia che l’ambo uscito sulla ruota di Roma è un 69 unito con un 74, è pura e semplice pena.

Mi ritrovo poi a ridere amaramente al pensiero che sta orchestra malconcia e sgarruppata rischi di cadere davvero non per le percussioni titubanti, per le melodie sbilenche, gli ottoni stridenti, i fiati spompati, i violini spenti, gli strumenti decadenti e la mediocrità stessa dei musicisti, ma per dei fottuti ed inutili triangolini che esaltano il direttore.
Fatale luce elettrica per una zanzara in una notte d’estate. Ma non abbiate timore, son certo che arriverà Bruce Willis a spegnerla ancora una volta. Proprio appena in tempo come si confà ad un eroe alla fine del film.

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editoriale di fosca

Ci sono molti modi per dare voce al proprio pensiero, per esprimere dissenso o approvazione verso qualcosa che non necessariamente deve essere dato per scontato.

Si può parlare con voce pacata, si può urlare, si può fare della sottile ironia, si può litigare; ma si può anche stare in silenzio, ad ascoltare, in un confronto creativo e costruttivo insieme ad altri che come te la pensano in quel modo. E si può semplicemente essere presenti, fisicamente e moralmente.

Questo in poche parole è quanto è accaduto ieri pomeriggio in molte delle più importanti piazze delle più grandi città d'Italia e d'Europa, sotto una pioggia fine ed insistente che ha concesso poca tregua inzuppando i vestiti in profondità ma che non ha smorzato gli animi pacatamente accesi delle Donne e dei loro amici e compagni che la pensano come loro.

E' stata una "festa educata", condivisa da migliaia di persone che a perdita d'occhio si snodavano come un enorme serpente multiforme e multicolore tra le vie principali del centro di Milano, nel mio caso, e contemporaneamente in altri centri altrettanto colorati di altri confini, tra bandiere, cartelli, slogan, sciarpe rigorosamente ma non necessariamente bianche, fiori ed ombrelli di tutte le grandezze.

E' stato tanto emozionante quanto importante esserci, sentire condiviso un pensiero così netto, preciso, sicuro eppure tanto semplice.

Non solo per i 50 anni di evoluzione (purtroppo non sempre) di Storia al Femminile ma anche per il pensiero più comune che non ha bisogno di essere frammentato attraverso le diverse vicissitudini storiche, cronologiche, geografiche o politiche, perché sempre lo stesso, sempre tale, e cioè il pensiero dell'uguale Diritto e della Dignità (della Donna) come persona, a prescindere da tutto.

Questo è stato il respiro comune di un enorme polmone fatto di gente di tutte le razze ed età, ceto ed estrazione sociale, livello culturale ed emotivo, durante quella che è stata una festa vera e propria a tutti gli effetti, in cui si è ascoltato, chiacchierato, riso, urlato, ballato, raccontato storie e raccolto pareri dalle sfumature più diverse ma tutte all'insegna dell'educazione e del buon senso...

Non ho mai visto una folla tanto educata.

Persone che, muovendosi con difficoltà tra i pochi sentieri concessi da quel muro di corpi stretti, chiedevano permesso scusandosi e sorridendo come se si conoscessero tutti: mamme, figlie, insegnanti, nonne, impiegate, dirigenti, casalinghe, teenagers, punkabbestia, tutte presenti perché ugualmente arrabbiate ma felici di essere lì accanto ai loro compagni, amici e parenti.

Per un attimo mi è sembrato di essere ad uno dei più importanti concerti della mia vita, tutti stretti pigiati davanti ad un palco, con la nota voglia di condividere un evento comune verso una passione comune. Ma mentre davanti al palco di un live in fondo in fondo si tende a prevaricare l'altro per avere il posto migliore, la visuale più ampia e catturare il suono più pulito, lì l'importante era evidentemente, semplicemente essere presenti, vicini, corpo compatto che facesse muro e numero, senza distinzione di posto e senza biglietto.

Aldilà di com'è andata e di come andrà, e di come la racconteranno e la stanno già raccontando, penso sia importante sapere com'è stato e perché, senza false storpiature, e raccontarlo a chi importasse ancora dibattere di buon senso, Costituzione e Diritti Civili.

Perché come diceva Qualcuno "La Libertà è partecipazione".

(immagine by fsk)di più
editoriale di MorgueOfAbsinth

Maria ha 90 anni. Una vita agra, costellata di morti come una coperta rimasta troppo tempo accanto ad un fuoco e cosparsa di buchi lasciati da troppi tizzoni ribelli, minuti ed incandescenti. Il nome del territorio su cui è stata posta dal destino regala, da solo, una ventata di amarezza: Cjargne, nome arcigno, nome impastato della stessa roccia da cui deriva. Un nome, Carnia, che ha tanti etimologici fratelli quanti sono i molteplici fenomeni carsici, rappresentanti ferite sul dorso della terra: foibe, doline, inghiottitoi, campi solcati, fori di dissoluzione. Maria ha passato l’intera sua esistenza in un luogo legato, nel nome e nel suo stesso essere, a enormi fori che hanno mangiato vivi uomini e donne e a buchi infimi che hanno bevuto il sangue di stirpi di soldati.
In un paese carnico (Damâr, Preon? ma che importanza ha?) ha visto morire il marito e quattro dei suoi sei figli; ha visto la vita scorrere in novanta rotazioni stagionali, accompagnata da gesti antichi perfezionati dal loro continuo esercizio e segnata da lavori faticosi, aspri, durissimi. Il suo volto risplende di rughe appena accennate, i suoi occhi brillano ironici quando rispondono al saluto del nipote, mentre la mano risponde a modo suo, abbattendosi lieve sopra le orecchie del canaj. Nerovestita, come si dice sia la morte, Maria è un’icona di vita, di misurata vitalità. Un professore universitario probabilmente sorriderebbe compiaciuto davanti alla semplicità della vecchia. Non sa che Maria, dieci anni prima, ha lasciato basito un suo simile durante la cerimonia di laurea della nipote. “Allora, signorina, io e lei reagiremmo in un modo ben diverso rispetto ad un contadino all’annuncio di una nostra ipotetica malattia oncologica. La nostra cultura ci pone su un piano di reazione differente. O sbaglio?”. Al che Maria: “Lei reagirebbe come farei io: l’arroganza non aiuta, davanti alla malattia. Neppure se l’ha studiata.”.
E così prosegue, leggera come gli scufons sulla neve, accompagnata da una saggezza profonda perché nativa, non imparata o costruita, tanto semplice quanto radicata come quegli alberi che emergono dalla terra e si immergono nella terra in equivalenti proporzioni.

Il 13 ottobre 2010 Maria si inoltra nel bosco in cerca di castagne. Riempie il suo sacco di iuta, senza badare all’approssimarsi del tramonto e all’entità della strada percorsa. Giunge la notte. Perde la via fino ad ora percorsa. Smarrirsi nel bosco è un’esperienza angosciante. Nord, sud, est, ovest. Il muschio è ubiquitario. Non puoi seguire il cammino del sole. Destra, sinistra, sopra, sotto diventano categorie assurde, compenetrate l’una nell’altra in un caos che opprime il petto, fa capovolgere la testa e che genera nella mente pazzi spiritelli ingovernabili. In più l’autunno carnico può essere rigido, a volte mortale. Maria non teme lo spettro degli zero gradi, non il fantasma del terrore irrazionale del bosco, non il profilo della morte. Un sapiente riparo di foglie secche e rami, il suo vestire sobrio e adatto ai rigori del freddo e, soprattutto, un animo protetto in pari misura da fede, ironia, coraggio, forza e consapevolezza. Altro non serve a Maria per attendere l’alba e con essa i soccorsi, guidati dal nipote, disperato tanto quanto lei era tranquilla.

Vieni, nonna, ti portiamo subito all’ospedale.
E invece aspetti. Tutta la notte qui fuori per un sacco di castagne e vuoi che le lasci ai cinghiali?

Ho letto in questi giorni di Elisa Benedetti, la ragazza di 25 anni morta di ipotermia in un bosco a dieci chilometri da Perugia: in preda al panico non ha saputo trarsi fuori da quella che è diventata una tragedia. Una ragazza dalla vita normale, dicono. Studi, un fidanzato, un bancomat, probabilmente nessun problema di denaro. Con qualche sbandata per droga e alcool.

La sua triste morte mi ha fatto pensare che, come mi insegna saggiamente l’utente Tomgil, “la verità è che nella vita non c'è sempre bisogno di guardare alle tragedie altrui per avere un'idea di che cosa sia la sofferenza.”. E, come corollario, aggiungerei che dietro un’apparente serenità possono nascere tragedie immani, mentre da tragedie oggettive possono nascere fiori di forza inaudita.
Ho pensato che l’esempio di umili sconosciuti come Maria rappresentano un’iniezione di forza, di rettitudine, di onestà verso la vita.
Ho pensato che, quali che siano le storture dei nostri caratteri, i dolori che ci piovono addosso, i difetti che ci attanagliano, abbiamo il dovere di non cedere fino all’ultimo: per rispetto verso noi stessi, verso la nostra dignità, verso chi ci ama.
Ho pensato che il giudizio negativo nei riguardi delle persone deve essere sospeso se non hai mangiato con loro almeno dieci chili di sale (come dice Rigoni Stern). E dunque paragonare Elisa a Maria, etichettarla come una viziata drogata, incapace di salvarsi la vita perché troppo stupida (cosa che, da vero balordo, ho fatto io, immediatamente) non è solo sbagliato: è soprattutto moralmente ingiusto e malvagio.

Ringrazio Maria per la lezione che è riuscita a darmi. E, pur, non conoscendola, spero che Elisa possa riposare in pace, se non ha potuto farlo da viva.

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editoriale di kosmogabri

Ne ha fatto di strada il piccolo Chicco per finire dentro quella miserabile gabbia metallica: al massimo poteva essere 70 x 70. Gli hanno fatto attraversare stati, deserti, mari, continenti; migliaia di chilometri per arrivare fino a quella maledetta tana, per farlo diventare il classico “souvenir” da mostrare agli amici e curiosi.

Chicco, splendido pennuto grigio proveniente da chissà quale fronda della savana centroafricana, dotato di una splendida coda rossa e di un becco prensile spettacolare, forte e delicato alla bisogna, nei lunghi anni di immeritata prigionia ha imparato a imitare, alla perfezione, i suoni e le voci captate da chiunque gli si parasse di fronte: non avete un’idea di quante volte ho visto i condomini scendere in pigiama a bordo strada pensando ci fosse una raccomandata da ritirare… perché Chicco era in grado di rifare tutto: prima il vespino smarmittato del postino, poi il fischio e infine il cognome a gran voce del malcapitato di turno.

Chicco, oltre essere un amabile mattacchione e un divoratore instancabile di semi di girasole, ci crederete o no, era un devoto fan dell’elettropop dei quattro androidi di Dusseldorf: i Kraftwerk. In particolare si esaltava per il repertorio più arcaico e ostico: ad esempio andava in letterale visibilio - non so se avete presente - per il brano “Antenna”: quei suoni acutissimi, cosmici, tendenti all’infinito quasi a voler creare un ponte transcontinentale per cercare di comunicare con i suoi liberi consimili.

Noi, poco più che bambini, non è che potessimo fare molto per cercare di alleviare la sua ingiusta detenzione: tranne quella volta storica che mio fratello aprì, diciamo così, inavvertitamente l’uscio della gabbia per farci apprezzare la imponente e per noi inedita apertura alare e farlo svolazzare per tutto il quartiere, una tra le poche cose che potevamo fare era spalancare le finestre del soggiorno, smanettare adeguatamente lo sciancato impianto giradischi Philips e, soprattutto, mettere su il consunto vinile del 1975: Chicco per tutta la sera seguente, l’indomani e per chissà quanti giorni consecutivi avrebbe riprodotto, alla assoluta perfezione e senza pietà per tutto il vicinato il repertorio cosmico dei quattro robot mittleuropei.

Qualche inverno fa, uno dei più rigidi degli ultimi anni, Chicco ha smesso di cantare: nonostante non fosse malato ma anzi ancora giovane e forte semplicemente non ha ce l’ha fatta a resistere al freddo ma soprattutto alla fame. La proprietaria, partendo per qualche giorno, dimenticò di lasciare al figlio, che avrebbe dovuto accudire almeno una volta al giorno la povera bestia, quel poco cibo necessario a farlo sopravvivere.

Quel giorno maledetto vi giuro che avrei voluto ficcarci quei due dentro quella gabbia. E sono sicuro che, pur con tutta la disperazione possibile, neanche in coro avrebbero mai saputo rifare “Antenna” come Chicco.

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editoriale di zaireeka

A quanto pare quando, anche questa volta, tutto sarà passato (sarà proprio così secondo certi bene informati), non rimarrà molto da dire e da fare.
In compenso l'Italia passerà all'estero (almeno in certi ambienti) non solo come la solita terra di santi, poeti e navigatori, ma anche come accogliente terra d'adozione e prodiga dispensatrice (basta conoscere le persone giuste) di un gran numero di rappresentati di quella categorie di lavoratrici solitamente note sotto il nome di…

E chissà che non riusciremo a rubare il primato in quanto a fama a vecchie glorie nel campo come Olanda e Thailandia.

Insomma, stasera (mentre scrivo è un sabato di fine gennaio 2011) non ho niente di meglio da fare che mettermi a scrivere dell'argomento di cui si parla di più in questi giorni, specialmente in Italia (oltre al sempreverde "Silvio Berlusconi vs i giudici comunisti"), ovvero di ... puttane, l'oggetto del contendere dell'ultima disputa governo-magistrati.
Sono stato troppo brutale?
Non dovevo nominare Silvio Berlusconi?
Forse, ma voglio andare subito al sodo.
Ed il "sodo" riguarda una domanda che ultimamente mi arrovella "nostalgicamente" la mente.

Come giudicherebbe tutto il casino (mai parola è stata più adeguata) che sta succedendo in questi giorni quel noto anarco-cantautore che rispondeva al nome (e cognome) di Fabrizio De André, se fosse ancora vivo di questi tempi?

Come molti probabilmente sanno, De André era un sincero appassionato dell'argomento in questione (le puttane, da ora in avanti, per eleganza, "escorts"), come anche di giudici del resto, ma di questo parleremo in un'altra puntata.
Allora, cosa avrebbe detto?
Diciamolo, anche De André era un appassionato di "escorts". Ma lui, come molti sanno, a differenza del nostro Premier, usava questa sua passione anche a fini artistici, la sublimava in Arte.

Chi non si ricorda della sua "escort" bambina di Via del Campo? O di quella di Bocca di Rosa. Tutte e due splendidi, amabili, personaggi che sono ormai scolpiti nella nostra memoria. Evangelica la prima, Boccaccesca la seconda.

Insomma, cosa ne avrebbe pensato Faber (mio Dio, come mi mancano le sue parole in questo periodo così povero di poesia oltre che di sana e marmorea indignazione)?

Penso di saperlo, e lo dico anche a costo di voler sembrare mettere in secondo piano, quanto a responsabilità, la figura di quel pover'uomo del nostro premier.
Faber avrebbe pensato a loro, a mio avviso, come a delle insignificanti e normali, ancorché implasticatissime, impasticcatissime, ma anche gnocchissime, cinicissime, avidissime, puttane (ach! lo ho detto di nuovo). Anni luce distanti dalle "meravigliose" e "veraci" figure ispiratrici delle sue canzoni.

Normali puttane (un lavoro come un altro, del resto), nulla di meno, nulla di più.

E non c'è Ruby, ed allegato programma tv di Alfonso Signorini, che tenga.


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