editoriale di Cornell

No, dico, ma qualcuno dei sostenitori del paladino della democrazia, detentore della verità assoluta dispensata sulle tre tivvì private e non solo, vice-capitanate da colui che è uscito dalle balls del paladino (il perché della scelta democratica tramite concorso e/o meritocrazia è noto ai più... Se non fosse noto documentatevi), si è posto la fatidica domanda: "Ma allora siamo proprio un popolo di rincoglioniti come volete farci passare in Tivvù?" ?
La risposta è inderogabilmente “Sì, vi vogliamo così!”.
Oppure il popolo più assiduo frequentatore di bamboline e bamboloni a pagamento sia in terra che oltre si bea dei servizi di alto giornalismo che scodella quel fior fior di telegiornale che risponde al nome di Studio Aperto (e non solo)?

"Papà papà guarda cosa ho fatto! Papà giochi con me?".
"Sssshhhh... E un attimo cazzo che in tivvù ci stanno le chiappe di Belèn... Uuhhh che bocce! Un attimo che papà viene"….
"Mamma mamma, giochiamo insieme?".
"Sì caro, un attimo che c'è Pippa in tivvù, chissà che ha combinato stavolta. Che invidia però.. La sorella ha sposato un principe. Un po' calvo e non proprio bellissimo, ma sempre principe è. E lei… ha un corpo e un fondoschiena che io neanche con dieci anni di step. Grrrrrrrrrrrrrrrr… E anche quell'antipatica dell'Elisabetta che si è accalappiata quello strafiko del George, che rabbia. Che poi lei non è poi tutto quel granché… Sembra un cavallo da corsa con quella faccia, una foca quando applaude e ha una grazia che neanche Bud Spencer. E Michelle meno male che un po' si è eclissata, non se ne poteva più di vederla dappertutto. Poi sempre a ridere come un'oca giuliva. Ma che avrà mai da ridere! Ah, se potessi mettermi in mano a qualche chirurgo plastico, magari il marito della Brilli, il Roy sì, quello è bravo assai. Chissà che mi farebbe diventare. E poi un calcio in culo a mio marito e... Red Carpet arrivooooooo!"
"Mammaaaaa!"
"Eddai rompiballe, lasciami sognare in pace no?!".

Ah beh se questi sono i sogni delle e degli italiani siam messi bene.

Ma prima di chiudere spendiamo anche due parole sulle notizie vere, quelle che almeno tentano di spacciar per tali. I delitti irrisolti. AVETRANA! In maiuscolo perché è un macigno che pesa ormai da tempo sui coglioni. Avetrana: zio Michele sì, zio Michele no. E' stata Sabrina, in galera! No, Sabrina no. E Cosima pure lei, era la mente!
"No, Cosima e Sabrina stanno in carcere da innocenti e io, che sono il carnefice, sto a casa a potare le piante e curare il giardino."
"Sì ma che fa a casa di solito?"
"E niente, mi occupo del giardino e guardo la tivvù, i film di Celentano e Bruce Lee..."
"Sì, ma quali film di Celentano?"
"Quelli vecchi di una volta."
"Ahhh, e di Bruce Lee?".
Domande da fare ad un presunto omicida per come si spaccia. Giornalismo d'assalto. E Yara? Identificato il DNA sul cadavere. Solo adesso? E se salta fuori che è del tipo che ha testimoniato la prima volta salta qualche testa all'investigativa, o no?

C'è qualcosa che non va o sono solo io che lo penso? C'è un pelo di incompetenza nelle indagini in generale o sbaglio? Ma chi cazzo le fa? Zenigata? L'Ispettore Clouseau?

E quanto si è parlato del referendum? Eh? Ma quanto? Boh, io non me ne sono accorto e voi? Per fortuna che ci sono vie traverse per informarsi.

Questa è l'Italia della democrazia, del popolo sovrano. L'Italia dei miliardi dati a un demente che tira calci ad un pallone per fare in modo che faccia due prodezze e ipnotizzi una bella fetta di questa bell'Italia. Così che si scommetta sul vincitore. Così che si scommetta su qualsiasi cosa.
Ma però mi raccomando… "Giocate il giusto e bevete con responsabilità".

Ma vaffanculo.

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editoriale di kosmogabri

Come se non ci fosse altro da fare sul pianeta, uno studioso, tale professore Francis Thackeray, direttore dell'Istituto di antropologia dell'università di Johannesburg, South Africa, ha richiesto in questi giorni la riesumazione delle spoglie di William Shakespeare per analizzarne le ossa. Non è la prima volta che si aprono tombe con l'intenzione di studiare i resti di personaggi storici del passato, però questa volta la motivazione che spinge l'antropologo è piuttosto originale: ritiene che Shakespeare si facesse le canne.
Ovviamente non è l'unica ragione, la principale sarebbe di appurare di che cosa sia morto esattamente il Bardo. Si presume sia appunto a causa del tabagismo e derivati.

Nella storia della letteratura è risaputo di autori dediti ai paradisi artificiali e/o all'alcool. Tuttavia quest'idea di Shakespeare spipazzatore di ganja è piuttosto sconcertante per i benpensanti d'oggi, soprattutto britannici; pensate che direbbero quelli italiani se si attribuisse a Dante un "vizietto" simile… Comunque sia, gli studiosi sudafricani si sono fissati su questo sospetto, basandosi su alcuni indizi.

Nell'Inghilterra della seconda metà del Cinquecento fumare marijuana non era vietato, anche perché era una pratica raramente adottata considerando che era l'oppio la sostanza stupefacente più quotata; ma non solo, a quei tempi la canapa non era coltivata per fumarla, visto che quella che cresceva nelle nostre campagne aveva un bassissimo tenore di sostanza attiva (thc), bensì per trasformarla in tessuto, carta, alimenti per animali e produzione di oli. Furono gli africani ed indiani emigrati nel Millecinquecento in Occidente dalle colonie ad importare canapa indica (quella con più concentrazione di thc), farne scoprire l'uso stupefacente e la conversione in hascisch. Comunque fino all'Ottocento la canapa da fumare rimase una pratica pochissimo diffusa, fu infatti in seguito alla spedizione di Napoleone in Egitto che iniziò in Europa l'interesse per questa pianta. Così i primi medici cominciarono a studiarne gli effetti stupefacenti e le proprietà: un italiano, Carlo Erba - un nome una garanzia - isolò il principio attivo della canapa nella sua farmacia in via Fiori Oscuri - era proprio destino- a Brera, nel 1849. In seguito il principio attivo fu commercializzato per curare certe patologie, i reumatismi, la gotta, l'inappetenza, le convulsioni, nonché quelle psichiatriche, dunque la curiosità nell'utilizzo stupefacente della canapa crebbe tra la gente, soprattutto nell'ambiente artistico. Famosissimo dell'epoca è "The Hashish Club", fondato da Theophile Gautier e che includeva Alexander Dumas, Victor Hugo, Honore de Balzac, Charles Baudelaire, Eugene Delacroix, eccetera… La ragione per cui nel Novecento poi la canapa fu resa illegale nel Occidente è storia che conosciamo tutti.

"Why write I still all one, ever the same/ And keep invention in a noted weed/ That every word doth almost tell my name/ Showing their birth, and where they did proceed?" (William Shakespeare - Sonnet 76)

Per quanto riguarda Shakespeare, alcuni accenni criptici rilevati nei suoi scritti (ad esempio il riferimento ad una "erba" che potete leggere nell'estratto sopraindicato), e il ritrovamento di qualche pipa nel giardino dell'abitazione storica dello scrittore, nelle quali si son rinvenuti resti microscopici d'erba e cocaina (pare la masticasse) scientificamente datati alla sua epoca, paiono abbastanza importanti da attribuirgli l'abitudine dell'uso di stupefacenti.
Con l'apertura della tomba e l'analisi delle ossa si potrà averne (finalmente?) la certezza, sempre che la Chiesa d'Inghilterra (quindi la Regina che ne è il "Papa") dia il permesso di "profanare" il sepolcro, e sempre che l'antropologo e i suoi sodali non si facciano suggestionare dai versi che il Genio diede ordine d'incidere sulla sua pietra tombale: “Blessed be the man that spares these stones. And cursed be he who moves my bones.

E' un'idea romantica, diciamocelo, cioè immaginare Shakespeare "stoned" con la pipa farcita e fumante in bocca mentre passeggia nel suo bel giardino inglese fantasticando un passaggio saliente della faida Montecchi versus Capuleti oppure quella famosa questione dell'Hamlet… E' affascinante pure l'idea che fosse così eccentrico nell'utilizzare sostanze che nemmeno i fantomatici medici-guaritori del tempo conoscevano. Doveva avere dei pusher molto speciali, il William... Insomma, fosse vera questa peculiarità, stravagante per la sua epoca, me lo farebbe più simpaticamente umano.

Perché vi racconto questa curiosità di cui parlano tutti i giornali? Probabilmente siete venuti a conoscenza del fatto che la Global Commission on Drug Policy - organismo composto da grandi nomi internazionali, dalla politica alla cultura - ha recentemente lanciato la raccolta di firme per una petizione da presentare all'ONU che chiederà agli Stati di rivedere le politiche di contrasto al traffico criminale delle droghe illegali. Ossia, detto in soldoni, di progettare e sviluppare delle soluzioni alternative al proibizionismo, ad esempio la legalizzazione commerciale delle cosiddette droghe leggere con l'intento di gambizzare le mafie che le trafficano. Ho seri dubbi riguardo questa proposta, ma eventualmente li esporrei tra i commenti a questo scritto.

Non riesco però a trattenermi dal chiedermi che ne penserebbe Shakespeare, fosse vivo oggi, di questa "pensata" rivoluzionaria… sarebbe d'accordo sulla legalizzazione della canapa, o vorrebbe mantenere il suo "vizio" segreto agli occhi del mondo?

Secondo me è valida la seconda. Non aprite quella tomba.

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editoriale di zaireeka

Non so quanti di voi sappiano cosa siano i qualia.

Qualia ("quale" al singolare) in verità è una parola esotica e difficile per indicare una delle cose più "normali", più "conosciute", e più "diffuse" nella vita quotidiana di ogni essere umano.
In poche parole per qualia si intende il modo in cui le cose, percepite attraverso i sensi, ci appaiono. Sono quindi qualia ad esempio i sapori, gli odori, e, sopratutto, i colori. La loro natura primaria è l'ineffabilità.

E' difficile dire a qualcun altro quello che provi a vedere il rosso, in cosa consiste il verde. Tanto da farti venire il dubbio che quello che tu chiami verde in verità per me potrebbe essere il blu, o il giallo.
Ecco, appunto, sabato scorso sono andato a vedere l'ultimo film di Terence Malick e una delle prime cose a cui ho pensato all'uscita dal cinema sono stati i qualia.
Perché mai?

Semplice, perché fra i tratti maggiormente distintivi di "The Tree of Life" vi sono, a mio avviso, le sue immagini e i suoi colori. A parte la sensazione di vivere in un sogno lucido di quelli che sogni e trovi tutto assurdo ma, contrariamente ai sogni normali, ti rendi anche conto di quanto lo sia. Di quelli che puoi guidare, ti capita di voler andare a vedere una cosa in quel sogno, e riesci davvero ad andarci… insomma, il regista fa quello che tu vuoi, ti fa vedere da vicino quello che vuoi, anzi il regista del sogno sei tu.
Insomma è un po' come vivere la tua vita, solo presa un po' alla lontana (diciamo a partire dal Big Bang, passando per i protozoi ed i dinosauri).

Non so quanti di voi sappiano che per alcuni studiosi della mente (Daniel Dennet, Thomas Metzinger) i qualia in verità non esistano.
Sono solo illusione.
Sarà forse per questo, e per essere fatto quasi esclusivamente di immagini e colori, che per alcuni "scienziati del cinema" questo meraviglioso film in verità "non esiste"?

Ieri sono andato alla recita di fine anno di mia figlia, l'ultima del quinquennio della scuola elementare. L'anno prossimo si va alle medie.
Mi sono commosso pensando a come passa il tempo, ma non è facile da descrivere a parole quello che ho provato. Mi è venuto da pensare di nuovo al film di Malick.
Sono sicuro che sia lui (il film) che io (le mie sensazioni, o, per dirla dottamente, i miei qualia) esistiamo.

Alla faccia degli scienziati cognitivi.

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editoriale di kosmogabri

Singolare figura quella di Cesare Battisti, l’irredentista italiano originario del Trentino il quale, disertando la chiamata alle armi dell’Austria asburgica, fini impiccato come traditore. Chissà se fu dichiarato anche terrorista. Le cronache del tempo non lo rivelano, ma almeno all’epoca il termine non era inflazionato come oggi.

Varrebbe la pena approfondire anche le vicende dell’altro Battisti, quello in salsa carioca, ma non è questa la sede, e poi è stato versato già abbastanza inchiostro a (s)proposito.

Piuttosto, ci si è chiesto come mai numerosi paesi (non c’è solo Brasile e Francia) giudicano il sistema giudiziario italiano incapace di obiettività e di offrire equo trattamento agli imputati, in particolare quando le vicende riguardano la storia della lotta armata del nostro recente passato, al punto di schierarsi dalla parte di un personaggio quantomeno imbarazzante come Cesare Battisti?

E’ forse il caso di cominciare finalmente ad interrogarsi sull'ingarbugliata e discutibile storia giudiziaria di quegli anni. Giusto due elementi, tanto per delineare il quadro:
In Italia, oltre trent’anni fa, è proliferata tutta una legislazione di emergenza ben poco consona ad uno Stato che voglia credersi civile (anche considerando il particolare momento sociale), legislazione che, per il ben noto principio della “eternità del provvisorio” è tuttora (parzialmente, ma non poi tanto) in vigore.
Oppure, pensiamo a quell'aberrazione giuridica passata alla storia come "processo 7 Aprile" o “teorema Calogero”, che ha messo in galera un’intera generazione?
A dispetto degli esiti, ancora oggi (anzi, soprattutto oggi), il suo impianto teorico viene ampiamente lodato dalla maggior parte del mondo politico, e dopo trent’anni di silenzio lo stesso giudice Calogero si autoincensa e sostiene “avevo ragione io!" senza che nessuno lo seppellisca sotto una manica di pernacchi (maschile, come si dice a Napoli).

Ma sono passate ere geologiche, direte.

Già, ma non è proprio l’Italia di oggi ad essere denunciata dal suo stesso Governo come un paese illiberale dove il potere giudiziario è politicizzato al punto tale da configurare una dittatura?
E poco importa che questa magistratura sia dipinta come “di sinistra”, perché la sinistra ufficiale in Italia è sempre stata il peggior nemico delle organizzazioni lottarmatiste, molto più della DC. Ed in ogni caso, un potere giudiziario rappresentato come lobby ideologizzata è per definizione inattendibile, a prescindere dalla caratterizzazione politica.

Bene, adesso spostiamoci in Brasile: un paese emergente, che per chiari motivi non ha subìto, come l’Italia, quella transizione che, partendo dalla concezione dei blocchi contrapposti, giunge all’attuale pot-pourri ideologico, alla marmellata politica.
Un paese dove certi argomenti pre-1994 o addirittura pre-1989 fanno ancora presa, anche a livello istituzionale, mentre in Italia mostrano di crederci solo Emilio Fede e donna Letizia Moratti Serbelloni Viendalmare.

Ecco, adesso proviamo ad osservare il quadretto italiano, quello delle leggi di emergenza, del 7 Aprile, della magistratura-dittatura, attraverso le lenti di un Brasile che negli ultimi anni ha costruito e trovato un riferimento nell’asse politico Lula-Chavez (si, anche questa è una semplificazione).

E’ un po’ più comprensibile, adesso, come mai non ce lo mollano, oppure devo fare uno schizzo?

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editoriale di fosca

Quanti di voi vivono da soli avranno sicuramente notato quanto sia impegnativo vivere da single dovendo sostituire tutte quelle figure di riferimento (che poi è quasi sempre una sola) che per anni ci hanno accompagnato viziandoci ed abituandoci alla cosiddetta “pappafatta” come fosse un assoluto diritto ed una (sana) abitudine: il letto fatto, gli asciugamani puliti, la colazione, il pranzo e la cena pronti, le camicie stirate, le mutande lavate, i calzoni ammorbiditi, le lenzuola profumate, la tavola apparecchiata, la dispensa piena, la spesa fatta, il bucato steso, i piatti lavati, le vacanze pagate, e “mamma cacchio dove sono le mie scarpe che non le trovo?… Come a posto, a posto dove??”…

Ora, non per tutti è andata proprio così: “Hai fame? Cucina che io non sono la tua serva, e pulisci la tua camera che è un macello, e non solo dove si vede, che questa casa non è un albergo, e vai a fare la spesa, quella è la lista e non comprare cazzate, che non ci sei mai e non mi aiuti mai a fare niente, e prima di uscire fatti il letto e cambia l’aria alla camera che puzza, imbecille, invece di tornare alle quattro di mattina dopo aver bevuto come un tombino, e aver speso tutti i soldi, e non far tardi per pranzo che poi oggi devi studiare/lavorare!”… E sticazzi.
Però un cosa è fare i bravi ragazzi che vanno incontro ai genitori aiutandoli un po’ e vivendo con loro tutto il bello ed il brutto che questa situazione comporta, ed un conto è invece lasciare la famiglia d’origine per andare incontro al proprio futuro cominciando da soli una vita da lavoratori, single, possibilmente grandi scopatori, casalinghi, cuochi, massaie, lavandai, sarti e soprattutto alla fine, esauriti all’ultimo stadio. Aaahh la libertà!

Dopo un anno e passa che ti senti così libero di fare tutto ma proprio tutto ciò che vuoi e solo con le tue forze, già quasi nun gliela fai più e cominci a ripensare a quando in casa era un continuo lamento, e ripensi a quei rimproveri con nostalgia. Ma in fondo questa è la tua vita e va bene così.
Però sei così libero che alla fine hai da fare talmente tante cose, che in realtà non hai più il tempo di fare nulla a meno di sottrarre tempo libero al sonno: e così dormi sempre meno, perché lavori tutto il giorno poi magari esci con gli amici, rientri tardi e sei sempre più stanco.

Ma oggi abbiamo una sempre migliore tecnologia che ci viene incontro a costi contenuti, migliorandoci la vita e riducendo lo stress, quindi perché non spingerci oltre con la fantasia in nome e per conto della praticità? Ecco quindi l’ipotesi per una Nuova Invenzione: per tutti coloro che hanno problemi coi tempi che certe faccende domestiche (che l’igiene ed il decoro) comportano, si potrebbe pensare ad un unico evoluto elettrodomestico (che comprimerebbe quindi budget di spesa e tempi di lavoro) in grado per esempio di espletare le funzioni di una lavatrice e di una lavastoviglie, semplicemente cambiando il cestello o la vaschetta del sapone e consentendo di risparmiare tempo prezioso e denaro, avendo due elettrodomestici al prezzo di uno!

Cosa accadrebbe? Analizziamo vantaggi e svantaggi in uno scenario ipotetico.
In caso di dimenticanza dell’uno o altro articolo nel cestello sbagliato (mutande tra i piatti, calzini incastonati sui manici delle pentole, fazzoletti nei bicchieri, etc) simpatiche situazioni come:
- Accidenti, ho il culo tutto unto nonostante la doccia e gli slip freschi di bucato!
- Hei, ma ti puzzano le ascelle di impepata di cozze!
- Accidenti, ma questa bistecca sa di sterco!
- Uèh, ma da dove li hai tirati fuori 'stì bicchieri, dal naso??
- Ma tu che usi al posto dei tamponi, i tovaglioli?
- Ma amore… hai il sesso che sa di cassoela (arrostino, branzino, polenta coi porcini)
- Noo, avevo i preservativi nella tasca dei jeans ed il forchettone me li ha bucati, Cristo!

E così via, potete ben immaginare. Che dite?
Forse è meglio lasciar perdere e continuare ad impazzire a causa dello stress, portando ogni tanto il bucato a casa di mamma…

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editoriale di Geo@Geo

Non so perché provo a scrivere qualcosa da qualche giorno, ma mai usando penna, carta o tastiera: utilizzo la mente, praticamente tento di racimolare idee e tento di metterle in fila per dare loro una parvenza di sensato.
Le idee ci sono, ma ti scappano via inseguendosi in azzardate piste di formula uno; escono dal tracciato schiantandosi sui guardrail delle tue circonvoluzioni cerebrali e... boom, esplodono prima di prendere forma vera!
Cosa sarà mai? Sei tu completamente fuori? oppure è il Crampo dello Scrivano, ma solo a livello mentale?
Mentre cerco di capire ho iniziato a scrivere e le cose sembra vadano un po' meglio, forse perché riesco a vedere le mie parole, nero su bianco, e ciò mi dà un minimo di coraggio in più per andare avanti.

Siete riusciti a leggere fino a questo punto? Probabilmente avete del tempo libero, oppure siete curiosi di capire le stranezze e le motivazioni di queste righe, o ancora aspettate di trovare il rigo giusto per poter sferrare l'attacco nel momento del commento! Fichissimo...
Mi dispiace non vi sono delle cose da capire, non voglio dare messaggi di chissà quale importanza, non sono neanche convinta che premerò "enter"

Ecco, diciamo, che chi tenta di scrivere un Editoriale, ma non queste quattro righe sgangherate e non interessanti, vuole partecipare idee, sensazioni, "quazzate", emozioni, ricordi... personali!
Eh si, personali! Il punto di vista di chi scrive è sempre personale, a meno che non si faccia un copia-incolla!
Ma adesso, alla fine, che senso ha questo scritto. Forse nessuno. Forse è uno sfogo o un esercizio grammaticale. Forse… mi è venuto il Crampo dello Scrivano!

E' probabile che abbia accettato una sfida, chissà!
Pierre de Coubertin diceva: "L'importante è partecipare, non vincere.".

Balle, a me piace più vincere!

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editoriale di macaco

Passai cinque anni interessandomi in modo approfondito di geopolitica, cercando di capire come l´uomo gestisce l´economia ed il potere istituzionale. Decisi poi di mollare tutto, e per i cinque anni successivi non volli più saperne, avevo ormai raggiunto il mio scopo: confermare attraverso dati oggettivi e studi di esperti la mia naturale avversione verso le forme di rappresentazione del potere e di dominio.

Fino a qualche settimana fa non mi sono mai più interessato di politica. Poi qualcosa dentro me è drasticamente cambiato. Ho scoperto il MoVimento 5 Stelle, qualcosa in perfetta sintonia con i miei ideali.

Vivo da nove anni in Brasile e credetemi, per la prima volta sento qualcosa di nuovo, una spinta di ritorno verso la mia povera patria. È quel sentimento immanente che spinge gli uomini a difendere la propria terra da un´ invasione, con la differenza che il nostro nemico è già dentro il corpo politico e sociale, come un cancro in metastasi.

Immaginate adesso cosa proverebbe un malato se scoprisse improvvisamente una cura, che per quanto amara sia, sarà l´unica che potrà farlo guarire. Quale sentimento dovrebbe nascere nel suo intimo?

Io purtroppo sono lontano, non posso scendere in strada come non ho mai fatto. Ma è proprio necessario? Oggi non serve scendere in piazza, basta fare un click, e se milioni fanno un click, qualcosa cambia.

Si chiama moltitudine, e siamo tutti noi che ci siamo rotti i coglioni di farci rappresentare da uomini e idee che non ci rappresentano, che abbiamo votato nel meno peggio solo perché non farlo sarebbe stato peggiore.

Impariamo allora a valorizzare le nostre capacità, sforziamoci di usare questo strumento fantastico che abbiamo sotto le dita e davanti agli occhi, usiamolo per il potenziale che può esprimere, raccogliendo informazioni, confrontandole, usando sempre il filtro delicato del buonsenso.

I documentari, ad esempio, sono uno strumento piacevole e leggero per informarsi. I migliori hanno il sapore amaro ed il retrogusto salato, e anche i più faziosi sono ricchi di contenuto.

Sapete sognare? Vivere un utopia? Riuscite ad immaginare un'Italia governata da una democrazia partecipativa, dove siano i cittadini a proporre, discutere e decidere?
Ci pensate se proprio noi - dal paese che ha una delle classi politiche più ridicole - potessimo iniziare a cambiare il mondo?

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editoriale di kosmogabri

Dal quartiere in cui sono cresciuto al centro città ci vogliono pochi minuti, passando per l’unica via che collega le palazzine tutte uguali - come scatole di cartone messe l’una accanto all’altra nella certezza di una pronta spedizione verso altri luoghi, altri tempi ed altri spazi - al groviglio confuso delle vie più antiche, un tempo gran dimora della borghesia commerciale, ed oggi affittate, a poco prezzo, a gruppi, più o meno clandestini, di migranti e similari.

Mi spiegavano che quando possiedi una casa, in centro, la sua manutenzione ti viene a costare troppo, e non puoi facilmente venderla o affittarla a qualche giovane coppia o famiglia italiana: chi non ha i soldi, chi vuole il garage sotto casa, chi teme i soffitti troppo alti e le ombre che sembrano nascondersi lungo i corridoi e le vetrate che, troppo lunghe, collegano la camera da pranzo alla zona notte, ed a bagni troppo difficili da riscaldare, senza doccia e con la vasca da bagno corta, sagomata come un sedile.

Tutto troppo anni Dieci o troppo anni Cinquanta, troppo lontano dalla perfetta geometria degli scatoloni che orbitano lontano dal sole delle piazze, troppo distante dalla stessa idea che, in quelle scatole di periferia, ci puoi stare per poco e non per sempre, come tappa verso la villetta a schiera o quella con ampio giardino, su nei paesi di collina. Dove i bambini crescono all’aperto, puoi giare in bicicletta e, forse, avere un cane.

Chi il cane non lo può immaginare, il garage non lo postula neppure, chi impara a pedalare per andare in fabbrica, si accontenta allora di vivere il presente sotto gli alti soffitti del passato, passando in pochi mesi dall’asfissia del doppio fondo del camion agli ampi sospiri che solo una stanza che “non ha/ più pareti/ ma alberi/ alberi infiniti”, come quella dell’ex casino in fondo alla via, può ancora dare a chi ci dorme, oggi come ieri.

I casini sono un retaggio della vecchia città militare, delle caserme e dei clienti che negli anni ’50 affollavano i palazzi, per defluire negli anni ’60 e ’70 verso un paio di viali di periferia, attorno al cinema che, ancora negli anni ’80, ospitava nei sabati e nelle domeniche pomeriggio film di un certo genere - per intenderci, quelli con le locandine fascette nere - e nei lunedì mattina, potrei testimoniare, i saggi di fine anno delle scuole elementari. Un modo come un altro di coprire i costi di gestione di sale in disuso.

Il cinema non c’è più, da anni. E pure le caserme sono ormai chiuse. Restano i militari di un tempo, specie quelli meridionali, che si sono stabiliti attratti dalla bellezza della città o di qualche cittadina, senza necessariamente passare per le ampie stanze degli edifici del centro.

Uno, divenuto poi generale, era il padre di un mio compagno di classe, tifava incongruamente Genoa ed era uguale a Paolo Villaggio, nella versione Belva Umana. Da adolescenti, i due figli avevano la croce celtica sui caschi del motorino, e, si mormora, uno dei due fu fermato in una manifestazione di skins. Un altro, rimasto maresciallo, era il mio vicino di casa fin quando stavo dai miei, e pare non abbia mai lavorato in vita sua, come parrebbe confermare la pensione raggiunta in surplace, appena prima dei cinquant'anni, sconfitto però dalla moglie infermiera, che era in pensione già attorno ai quaranta.

Il mio preferito, però, è “il maresciallo”, quello che alcuni scambiano, da lontano, per mio padre, ma non lo è. Alcuni lo chiamano così, ma non so se il titolo tardivo corrisponda al grado dei tempi belli, di cui residua il portamento, il taglio corto di capelli, l’incedere con la testa dritta e lo sguardo avanti, sempre a braccetto della moglie, e, da qualche anno ormai, assieme alla figlia, al genero, ed ai nipotini, cresciuti fino ad avere l’età che io avevo quando lui era ancora in servizio.

Non so se il maresciallo frequentasse i casini del centro, ma mi piace pensare che, già negli anni ’50, andasse a braccetto con la stessa donna, incinta della figlia che ora porta le borse della spesa e sgrida i bambini sotto lo sguardo flemmatico del padre; che già negli anni ’60, e poi via via fino ad oggi, facesse il percorso periferia-centro-periferia che quasi ogni giorno immagino faccia, sempre più spesso da quando ha tolto la divisa.

Quando sono fuori città, lontano chilometri, spero sempre di ritrovarlo al mio ritorno, di incrociarlo e di riconoscerlo, anche se non so il suo nome, anche se lui non sa il mio. Negli ultimi anni, è quasi scaramanzia: anche se è invecchiato, spalle ormai curve, a me pare sempre dritto come un fuso, lo sguardo in avanti e sempre fisso.

Dare immensa importanza a chi non sa il tuo nome, non ti conosce, ti ignora, è un modo come un altro per ingannare il tempo.

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editoriale di Bartleboom

A sei anni il nucleare fu Ken Shiro.
Sapete, no? "Siamo alla fine del XX secolo, il mondo interno è sconvolto dalle esplosioni atomiche…".
Epicissimo. Roba da brividi.
Roba che quasi quasi mi faccio investire da una tonnellata di acqua radioattiva così divento forte come Toki e più incazzato di Godzilla.

A otto anni il nucleare fu una gita scolastica.
Meglio: una gita scolastica mancata.
Erano i primi giorni dell'aprile 1986 e la IV B della Scuola Elementare di BartleTown si apprestava a fare visita al Parco della Preistoria di Vergate sul Membro (MI).
Pochi giorni prima della partenza, però, succede un gran casino da qualche parte in Russia o giù di lì, non si capisce bene dove. Dai telegiornali iniziano bombardamenti a grappolo di immagini di enormi camini in cemento armato e inquietanti operai con le maschere a gas e le tute di plastica arancione. La gente parla di contaminazione, di nube tossica, chi tocca l'erba muore.
E così niente gita.
Unico vantaggio: a casa Boom, il minestrone viene mandato in esilio sino a data da destinarsi.

A dodoci anni il nucleare fu un documentario.
Mezz'ora girata male, inquadrature traballanti, colori spenti, zero ritmo. Provenienza: Cernobyl, Ucraina.
Ci sono campagne abbandonate che solo a vederle in televisione ti viene freddo alle ossa. Casolari isolati, animali abbandonati.
C'è una pecora: ha la mascella deforme, non si sa come faccia ad alimentarsi. Un'altra ha tre paia di zampe.
C'è una donna. Anziana, ma non troppo. Fissa la telecamera e non dice niente. Tiene in braccio un bambino senza occhi, con le articolazioni delle gambe al contrario. Sono passati vent'anni e il ricordo di quel documentario riesce ancora ad angosciarmi.

A sedici anni il nucleare fu "Nuclear Winter" dei Sodom: super chicca thrash metal, tra le prime canzoni che ho imparato a suonare con la mia Ibanez koreana. Non so più quanti sabato pomeriggi ho passato a consumarci plettri e polpastrelli.

A trenta e passa anni, il nucleare è Fukushima, lo tsunami, gli elicotteri che buttano acqua sui reattori, i bambini con le mascherine sulla bocca e le mamme col latte radioattivo. Il Governo giapponese che ogni giorno dice una cosa diversa.

A trenta e passa anni, il nucleare doveva essere anche un Referendum.
Ho cercato di informarmi, di capire.
L'internet l'ho scartato quasi subito: il più delle volte viene fuori che i siti sull'argomento sono in realtà gestiti dall'ufficio stampa dell'Eni. Oppure da qualche aiuto-vice-sottosegretario alle politiche energetiche. E allora tanto vale.

Così ho deciso di chiedere alla gente che conosco, chissà mai che ne sappiano più di me.
E' venuto fuori di tutto:
- "Le centrali non sono sicure! Guarda che casino in Giappone!"
- "Ma che ti frega! Tanto se ne scoppia una francese facciamo comunque la fine del calamaro nel fritto misto!"
- "E le scorie?! Eh?! Le scorie?! Lo sai che mantengono la radioattività per mille milioni di anni?!"
- "In Germania le hanno sotterrate e dormono sonni tranquilli"
- "Il petrolio presto finirà! Abbiamo bisogno di altre fonti di energia!"
- "Anche l'uranio presto finirà. Dobbiamo investire sulle fonti rinnovabili!"
- "Sì, bravo! Vatti a vedere gli scempi ambientali dell'eolico in Calabria!"

E via discorrendo.
Sono arrivato alla conclusione che chi parla di nucleare o ha qualche interesse di troppo nella faccenda, oppure ne sa quanto me.

E allora ci ho rinunciato.
Davvero.
Ho deciso che non voglio essere informato sul nucleare.
Mi bastano i miei ricordi.
E le mie paure.

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editoriale di ilfreddo

Arriva la mail di un collega con invito all’inaugurazione del suo nuovo romanzo. Tonnellate di pacche sulle spalle, baci e complimenti che Giuda Iscariota al confronto è un dilettante. Lo inizio una settimana dopo ed è una merda. Sembra sia una malattia: se non scrivi un libro, che venga pubblicato o no è secondario, non sei nessuno. Rettifico. Non sei qualcuno.

Qualche settimana dopo il tasto “Back Space”, alla millesima pressione di giornata, salta fuori dalla tastiera e mi tira un calcio volante alla Van Damme (nell’hard disk ha un sacco di film d’azione anni ‘80/’90 del calibro di “Senza esclusione di colpi“) al dito medio. Incazzato nero, è quello il colore dei quadrilateri placcati, se ne esce con un: “Ragà, mo’ hai veramente rotto er cazzo e nun sei manco alla prima frase!” Mi ero quasi dimenticato di averlo comprato a Roma. Questo dannato pc. Lo guardo incredulo e dolorante mentre pavoneggiandosi si rimette a posto in alto a destra, proprio sopra l’amico “Enter” che lo applaude energicamente guardandomi con aria di sfida.

Il fatto è che prendere un guanto e sfidare questa parete da ospedale che mi guarda sprezzante è un cubo di Rubik per un daltonico. E se è vero che, quando in un’indefinita fase REM un sottofondo di archi da “Il Gladiatore” accompagnerà le pagine che si accumuleranno veloci una sull‘altra, concludere sarà uno spasso è altrettanto vero che arrivare fin lì sarà tedio e disperazione. Ci saranno momenti in cui avrò voglia di prendere questo pc romano e coniare una parola magica come “appappalua“, che a pensarci bene non è poi molto più stronza di “abracadabra“, e donargli la vita. Ma farei questo solo per sadico godimento. Ogni tasto premuto, una pugnalata profonda nella scheda madre. E il periodo stavolta col cazzo che lo farei terminare tanto facilmente: lo infarcirei di subordinate e descrizioni inutili, per un imo e denso bagno di appiccicoso sangue elettronico. Perché anche se non sono uno scrittore, il blocco dello scrittore deve essere una gran brutta cosa ed io sarò il giustiziere delle tastiere mangia ispirazione.

Un altro calcio al dito, proprio sull‘unghia, da parte di quel brutto figlio di puttana rettangolare che mi dice sorridendo: “Ma stai a scherzà? Sogna, sogna perché nun c’hai talento! Quattro ore per du’ righe, a Sciacckespirre!”

Proseguo senza dargli troppa soddisfazione. Continuo a premerlo, ovviamente molto più del dovuto, e nell'immaginazione disbosco mezza Amazzonia tanto sono ispirato e prolisso; veloce ed agile scavallo metà percorso e penso, da ignobile presuntuoso, che in fin dei conti "Back Space" stia sbagliando. Non serve mica avere talento. Sarebbe sufficiente, ora che nella mente la mia opera è già ben rilegata pronta per la produzione in serie, che una stupida tessera del domino scorrendo tra gli scaffali pieni dicesse ad un‘altra: “ma questo qui, (e indicherebbe me nella foto sul retro), è fuori come un balcone”. E così, “appappalua”, un incidente d’avorio per un libro cult.

Ok, sarebbe per mediocrità altrui ma mica ci credo a termini come meritocrazia, io. Perché se ci saranno pure un bel po’ di suicidi di massa fra due dicembri per quanto ha previsto una civiltà estinta, converrete con me che humus fresco e sterco di primissima qualità in giro non ne manca proprio. Ed allora uno potrebbe pure pensare che non provare a sfruttarla, questa pausa neurologica di una gran bella fetta del globo, sarebbe un delitto perché in un prossimo futuro potremmo pure cominciare a svegliarci.

Ma forse hai ragione tu Jean Claude “Back Space”. Il mondo è già sufficientemente pieno di Arturi Bandini che smanierebbero per potersene stare rinchiusi per mesi in una stanza polverosa di un Hotel d’America a scrivere quello che, ai loro occhi - ma solo ai loro, cazzo - sarebbe il capolavoro che li renderebbe immortali. Lì, sullo scaffale dei classici, a parlare con Twain e Hemingway come vecchi amici al pub.

In realtà solo un tremendo mal di testa per milioni di “Back Space” inutilmente pigiati che invece vorrebbero solo poter dormire o, perché no, scopare con quel gran pezzo di plastica di F12 che non li fila di striscio e che, proprio per questo, li fa impazzire e tirare calci volanti a destra e a manca sulle nostre povere dita.

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editoriale di fosca

“Non ce la faccio più” e reclinando il capo cercava di nascondere le lacrime, inutilmente.
Non un sussulto in tutto il corpo, solo un flebile sospiro emesso con sofferta rassegnazione.
Una discesa buia. Un viaggio sconosciuto e spaventoso.
E loro, durante quei giorni, non poterono che starlo a guardare ed osservare il suo lucido, incosciente malessere prendere possesso di lui e della sua mente, metodicamente e in maniera umiliante.
Pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno, apparentemente senza motivo.
Qualcosa s’era spezzato nei suoi pensieri insicuri di essere umano, di essere fragile, e l'integrità del suo io non sapeva più avere il sopravvento.

Fu un lungo tunnel da percorrere insieme, tentennando certo, ma cercando il modo di non perderlo e che non si perdesse. Col tempo, un lungo interminabile tempo, ritrovarono la fiducia nei suoi occhi, guardandolo, studiandolo, scoprendolo quasi immemore di quel lontano crollo improvviso, ma si sa, la mente può questo ed altro e come crea distrugge, senza testimoni e senza rispetto per niente e per nessuno. Tabula rasa.
Le sue giornate da allora in poi furono molto più libere e leggere, trascorsero lievi così come i rinnovati pensieri che con serenità esponeva loro. Nuovamente.

Ma quando restano soli, al buio, avvolti dal silenzio, a pensare, ecco che di nuovo la sua immagine sconfitta rimbalza da un lato all’altro delle loro menti schiantandosi là dove cominciano i pensieri, che non sono più gli stessi.
E rimangono soli, ognuno in silenzio e carichi di tristezza, carichi di incertezze e dubbi, a bersi la vita, a cercare di comporre il mosaico incompleto che fino ad oggi hanno vissuto, aspettando, mentre brividi di tensione percorrono le loro schiene chiudendo loro la gola.

A pugni stretti rivedono il suo aspetto, ritrovandosi così, madidi di sudore freddo e di paura.

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editoriale di MorgueOfAbsinth

L’universo umano sembra sempre più grottesco, manipolato da forze di cui è impossibile tracciare un profilo comprensibile. La pratica dell’accumulo verbale e dell’elenco non metodico diviene un mezzo per omaggiare l’apocalisse di Cioran e l’assurdo di Beckett. Omaggio che, con inquietudine, si muta in orrore: voi sapevate, maestri, voi avevate percepito questo sfaldamento del mondo e dell’uomo. Ma, dissimili dagli antichi profeti, dopo le vostre parole non rimane nulla, se non un campo di cenere arida. Nessuna redenzione, divina o illuminista, nessun viaggio verso una perfezione tanto ambita quanto irraggiungibile.

Un ragazzino stuprato da sette coetanei, ululati ubriachi che culminano in pestaggi nelle notti cittadine, stirpi di clandestini il cui destino è sospeso tra la morte e la morte, il vicepresidente del CNR che inveisce contro gli omosessuali e che definisce la tragedia giapponese “… una voce terribile ma paterna della bontà di Dio.”.
Ventenni universitari, futuri medici, avvocati, magistrati, penalisti, fisici, biologi, storici, scrittori, che vedono tre vecchi in piedi nel treno delle 15.05 per Trento e che si guardano bene dal cedere per mezz’ora il proprio posto a sedere. Quella che dovrebbe essere la parte migliore del paese si condanna da sola con questo miserabile non-atto senza scusanti, dal costo infimo e dal prezzo immane.

Potenze costruite dall’uomo contro l’uomo per le quali la comprensione è diventata estremamente ardua e, allo stesso tempo, comunque necessaria; per chi discende da stirpi di contadini, contrabbandieri, pescatori, allevatori le armi di distruzione di massa, le centrali nucleari, gli strumenti tecnologici con i quali scoprire gli eterni misteri del cosmo rimangono un mistero assurdo: a che pro tanta potenza quando per salvare un territorio dalla carestia e dalla siccità sono sufficienti investimenti economici esigui e macchinari ai limiti del rudimentale e, nonostante l’umiltà di questi mezzi, non c’è volontà di raggiungere un fine così semplice e giusto?

Cadiamo sulla terra senza volerlo, strappati via come lembi di una cucitura, e viviamo nudi e sanguinanti, sporchi di terra e incoscienza, segnati dall’assurdo al quale è impossibile rassegnarsi, pur nella lucidità della comprensione della sua esistenza. Oggi non ho le forze per sradicare dal campo della vita un elenco, altrettanto disorganico del precedente, di quello che di buono compie l’uomo per l’uomo: i miei occhi sono inetti a questo compito, deboli la mia pazienza e la mia volontà; è difficile, tra migliaia di vespe, estrarre l’ape bottinatrice capitata, per cattiva sorte, tra loro.

Vago tra le molte valli della vita, in attesa del suo assurdo dipanarsi, barcollando pervaso dallo sforzo di mantenere una rotta accettabile. Eppure, sentire il mite, forte e favolosamente vecchio Salvatore mentre parla di come ha bizzarramente guarito il suo cane contro ogni previsione veterinaria mi riporta pace. E un sorriso nella cupezza del giorno che viene.

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editoriale di ilfreddo

Il cellulare è vuoto e così maledettamente pieno di energia: frutto di decenni di progressivo e naturale isolamento. Prima, quando era giovane, gli sembrava fico essere diverso, non avere bisogno di niente e di nessuno, non avere legami duraturi e considerare tutta la gente con la quale veniva a contatto inutile, incolore, insapore e stupida al suo confronto. Ma ora, ingobbito, stanco e grigio pagherebbe per avere un confidente. Qualcuno. E l’incubo della pensione è a solo una manciata di ore di distanza.

Ci sono giorni, ed oggi è uno di quelli, nei quali pensa davvero a come cazzo ci sia finito qui: in fondo a questo fottuto vicolo cieco la cui fine delle pareti di cemento si confonde ormai con il plumbeo cielo di un' anonima città. Si ferma e pensa al senso che finora la sua esistenza ha avuto; non trova una risposta soddisfacente e mentre si sforza di trovarne uno accarezza il cane dentro la giacca. Cammina, ma non se ne accorge nemmeno delle foglie che calpesta, della merda di cane che si appiccica alle suole e del pallone che i bambini gli chiedono di lanciare con urla sempre più acute. Immerso com’è nei suoi pensieri profondi è in un'altra dimensione e si ritrova a poggiare le chiappe lontano, su una panchina isolata posta sul limitare del bosco. Tocca la fredda canna lucida ed è un contatto rassicurante.

Avesse una lampada, la strofinerebbe. Chiederebbe di diventare… un animale selvaggio.

Che vive di istinti. Che quando va in calore, scopa; se ha fame, caccia; se ha sete, va a cercare qualcosa da bere. Cammina per giorni e continua a spostarsi a seconda del clima e delle stagioni. Non ha pensieri filosofici, cazzate cerebrali e menate femminili al di fuori delle necessità impellenti e della mera, durissima sopravvivenza giornaliera. Non ha progetti da realizzare, sogni a lunga scadenza. Nemmeno illusioni da rincorrere che tanto andrebbero comunque irrimediabilmente a puttane. Non deve deludere e rendere conto a nessuno. Se ne sta lì, nel branco, perché così si è sempre fatto e così si farà, anche dopo che lui sarà diventato concime per i vermi. Si muove assieme agli altri simili senza nome e codice fiscale, spinto dall’istinto; ci saranno momenti di giubilo, quando la caccia andrà particolarmente bene e si riempirà lo stomaco di carne grondante e si accoppierà per giorni; di paura, quando rischierà di essere a sua volta sbranato o, peggio, ucciso da quegli strani e lenti animali vestiti; di sofferenza, quando arriveranno la siccità, la carestia e le epidemie. E se sarà proprio parecchio sfortunato invecchierà nel branco fino a quando non sarà più capace di reggere il passo.

Quel giorno arriverà, e come se arriverà, ma sarà l’unico davvero triste della sua esistenza. Verrà lasciato lì senza tanti commiati paraculi. Senza un ospedale con tubi pieni di vita infilati per il corpo sfatto per poter procrastinare la sua ormai inutile permanenza. E’ così che funziona. Lo sa bene ed è una scena che ha già visto parecchie volte. Un paio di giorni e morirà. Un animale selvaggio, abituato al branco, in solitudine ci rimane per poco tempo; solo quello necessario per andarsene.

Sente il calcio tra le dita ed è una bella sensazione.

Ce ne saranno milioni di differenze, ma questa, al momento, gli sembra quella più importante. Noi, sapienti sapienti, moderni e tecnologici, nella solitudine ci possiamo sguazzare tristemente per anni. Perfino per decenni. Apre gli occhi ed invidia con tutto sé stesso quel capriolo senza casa che corre leggero chissà dove, chissà da chi.

Un rumore secco, degli uccelli volano via impauriti. E poi... poi torna il silenzio e scende la sera.

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editoriale di kosmogabri

1
Genius is not a generous thing
In return it charges more interest than any amount of royalties can cover
And it resents fame
With bitter vengeance

Pills and powdres only placate it awhile
Then it puts you in a place where the planet's poles reverse
Where the currents of electricity shift

Your Body becomes a magnet and pulls to it despair and rotten teeth,

Cheese whiz and guns

Whose triggers are shaped tenderly into a false lust
In timeless illusion

2
The guitar claws kept tightening, I guess on your heart stem.
The loops of feedback and distortion, threaded right thru
Lucifer's wisdom teeth, and never stopped their reverbrating
In your mind

And from the stage
All the faces out front seemed so hungry
With an unbearably wholesome misunderstanding

From where they sat, you seemed so far up there
High and live and diving

And instead you were swamp crawling
Down, deeper
Until you tasted the Earth's own blood
And chatted with the Buzzing-eyed insects that heroin breeds

3
You should have talked more with the monkey
He's always willing to negotiate
I'm still paying him off...
The greater the money and fame
The slower the Pendulum of fortune swings

Your will could have sped it up...
But you left that in a plane
Because it wouldn't pass customs and immigration

4
Here's synchronicity for you:
Your music's tape was inside my walkman
When my best friend from summer camp
Called with the news about you

I listened them...
It was all there!
Your music kept cutting deeper and deeper valleys of sound
Less and less light
Until you hit solid rock

The drill bit broke
and the valley became
A thin crevice, impassible in time,
As time itself stopped.

And the walls became cages of brilliant notes
Pressing in...
Pressure
That's how diamonds are made
And that's WHERE it sometimes all collapses
Down in on you

5
Then I translated your muttered lyrics
And the phrases were curious:
Like "incognito libido"
And "Chalk Skin Bending"

The words kept getting smaller and smaller
Until
Separated from their music
Each letter spilled out into a cartridge
Which fit only in the barrel of a gun

6
And you shoved the barrel in as far as possible
Because that's where the pain came from
That's where the demons were digging

The world outside was blank
Its every cause was just a continuation
Of another unsolved effect

7
But Kurt...
Didn't the thought that you would never write another song
Another feverish line or riff
Make you think twice?
That's what I don't understand
Because it's kept me alive, above any wounds

8
If only you hadn't swallowed yourself into a coma in Roma...
You could have gone to Florence
And looked into the eyes of Bellini or Rafael's Portraits

Perhaps inside them
You could have found a threshold back to beauty's arms
Where it all began...

No matter that you felt betrayed by her

That is always the cost
As Frank said,
Of a young artist's remorseless passion

Which starts out as a kiss
And follows like a curse


"8 Fragments For Kurt Cobain" - Jim Carroll

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editoriale di ilfreddo

La cenere a forza di starsene lì sul fondo si era quasi sopita nel tiepido ventre pietroso; grigio dappertutto e solo un po' di rosso spento qua e là. Pomodoro caduto accidentalmente in un cielo d'autunno a testimoniare la presenza di qualche barlume di calore. E così, mentre si stava spegnendo, guardava senza troppa convinzione in alto, sperando che da quella apertura cadesse un copioso rettangolo di diavolina. Quel dolce e candido petrolio solido che è solito anticipare la caduta di qualche tenero legno da mordere. Come quasi non si ricordava più.

Questione di un istante. Occhi. Quattro, in un locale affollato si scontrano su una linea retta invisibile e non si abbassano per tre secondi eterni che vengono spezzati in una fila eterna di istanti densi come blocchi di granito. Dal soffitto cade quindi una doccia di benzina mentre la sala si riempie di lanciafiamme. Dietro quel colore verde, quasi irreale tanto intenso, sicuramente ci sarà di che farsi male; molto probabilmente, se farà la loro conoscenza, più in là gli potranno strappare il cuore e trafiggerlo con un tacco dodici, girando per bene il piede affusolato. Non ci pensa: deve conoscere e vedere da vicino quella criptonite. Vorrebbe davvero, ma quella fottuta di una timidezza lo prende per la manica e con strattoni violenti lo fa allontanare. Lui gira il collo mentre fa cadere bicchieri, sposta tavolini, pesta piedi ed in una cornice di bestemmie e urla riesce ancora a vederli. Quegli occhi.

La provvidenza assiste alla scena e non può resistere e starsene lì, con le mani in mano, di fronte ad uno scempio del genere. Scava così con un gesto una bella buca di rum e pera nella quale la timidezza, impegnata com'era a strattonare, ci cade dentro con uno spettacoloso tuffo. Sguazza per un po', arranca muovendo in maniera goffa e scoordinata le braccia ed infine annega senza rimpianti e cerimonie da parte di nessuno.

Qualche cifra viene scambiata e poi, a distanza di sette giri di volta della Terra si ritrova a parlare con quegli occhi senza dover nemmeno prendere la Padania o Libero per avere la meglio, con sonore risate, su quei fastidiosi e miei silenzi di ghiaccio che solitamente albergano nei primi appuntamenti. Sciogliersi alla "evve" sexy, alle fossette quando ride e condividere persino buona parte dei pensieri dando una scorciata peccaminosa al fisico che sembra una Chicane. Tirare una battuta ed osservarla saltare, prenderla al volo e rilanciarla per uno strike. Ritrovarsi così a camminare leggeri, due, tre, quattro volte davanti alla macchina parcheggiata per procrastinare quel suono fastidioso: la chiusura della portiera. Danzare quindi come granelli di sabbia scippati dal deserto e trasportati dal vento per le vie della città.

Sentirsi di nuovo bruciare ed ardere; non pensare con fredda razionalità a quello che verrà, ma mangiarsi questo momento di miele avendo la falsa convinzione che sarà così per un tempo impossibile anche solo da immaginare. Per sempre.

La legna, si dice, stavolta scenderà copiosa al momento giusto e non mi raffredderò più.
Sentirsi ancora una volta così stupidamente e meravigliosamente innamorato.

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editoriale di zaireeka

Questa volta, se me lo permettete, vorrei fare qualche considerazione semplice semplice sul giusto trascorso 17 marzo.
Per chi non lo sapesse (immagino quei pochi impegnati nel frattempo a prendere un cappuccino al bar con gli amici) in tale data, nel lontano A.D. 1861, Vittorio Emanuele II fu proclamato ufficialmente Re d'Italia, sancendo in questo modo la nascita della Nostra nazione.
Insomma, il 17 marzo 2011 è stata una data importante. Il 150esimo anniversario dell'unità nazionale.

Stando a quanto riportato dagli organi di informazione (e ci posso credere visto quello che ho visto nella mia città), molta gente in Italia si è fatta coinvolgere nei festeggiamenti, come probabilmente sarà successo cinquant'anni fa, nel 1961.
Personalmente, sorprendentemente visto la mia predisposizione all'amor Patrio, non sono riuscito a farmi prendere dall'entusiasmo.
Non so se sarebbe stato diverso cinquant'anni fa, se avrei festeggiato con più trasporto, non subendo negativi influssi dalla attuale situazione socio-politica italiana.
In compenso io cinquant'anni fa, essendo nato giusto giusto con i sufficienti anni di ritardo, ancora non c'ero.
Mi racconta chi c'era, per quello che ricorda, che fu anche allora un giorno di festa, anzi anche di più.

Pensando al futuro, fra cinquant'anni forse ci sarà ancora l'Italia (lo spero) ma io (quasi) sicuramente non ci sarò più.
Spero ci sarà mia figlia e che mi faccia una telefonata per farmi sapere come è andata, ricordandosi questi giorni.
Insomma, a pensarci, questi anniversari li vedo un po' come i passaggi delle comete, come quella di Halley, che ci fanno bye bye dal Cielo quando ci passano sopra la testa, e forse anche una pernacchia.

Non sono riuscito ad appassionarmi a questa festa, a queste celebrazioni.
Ma una cosa mi è venuta da pensarla.
Cazzo, quanto è breve la vita di un uomo!

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editoriale di fosca

Quasi chiunque avrà da poco finito di godere della polemica mediatica (politica) messa in moto dall’ultimo film dell’ottimo Michele Placido, qui in veste di solo regista, che nuovamente ha dimostrato di sapercela davvero fare.

Punti di vista, certo, ma il film “Vallanzasca, gli angeli del male” è davvero ben fatto, confezionato a norma, girato bene, con delle ottime riprese ed uno strepitoso Kim Rossi Stuart; l’ambientazione è la solita fotografia molto cara al regista di un’Italia particolarmente difficile (quella a cavallo degli anni 70/Piombo) che Placido ha già ampiamente fatto capire di prediligere nelle sue tematiche di rottura violenta con la società e le leggi del tempo.

La differenza minima è che questa volta il tema centrale del lungometraggio non ruota attorno alla protesta corale (per quanto sbagliata) del terrorismo, un movimento che definirei storico e culturale nel senso più ampio del termine, o attorno al fenomeno oligarchico dell’organizzazione di potere criminale mafiosa, bensì racconta in modo credibile ed esauriente le gesta (certo discutibili) di un criminale semplice nella sua vasta complessità, e della sua banda. Una sorta di “Romanzo criminale 2” con un nuovo protagonista, si badi bene, non un nuovo eroe.

Non si tratta affatto di “apologia del criminale” com’è invece stato detto più volte anche dalla stampa oltre che dai nostri politici, anche se sicuramente la visione di questo film non potrà affatto essere cara ai familiari colpiti.

Personalmente, una volta giunti i titoli di coda, non ho pensato cose diverse da quelle che già pensavo prima della visione del film. I miei pensieri sono rimasti gli stessi, derivanti sia dall’esperienza diretta (certo ero solo una bambina ma me ne ricordo molto bene, comunque) sia dalla conseguente “curiosità documentativa” sopraggiunta con la maturità, nel corso degli anni.

Insomma, non ho visto tutta questa esaltazione violenta del crimine e della sua progettualità, non ho visto il rispettoso elogio di un regista nei confronti di un (suo) mito.
Ho solo visto raccontata molto dettagliatamente, nuda e cruda, la (discutibile) vita di una persona che scientemente, cioè potendo scegliere, ha deciso di seguire il crimine, non da vittima dello stesso, ma come si sceglie un mestiere.

E soprattutto da amante dei fumetti quale sono, il paragone che immediato mi è saltato alla mente è quello con un altro anti-eroe, ma celebrato ed osannato da decenni interi, da fiumi di carta stampata e gadgets vari e che io stessa ho seguito per anni: l’efferato ladro ed assassino (questo soprattutto), il genio del male, amante del lusso e del bello, crudele e coraggioso, sfrontato ed imprendibile, Diabolik, stesso figlio di androcchia, solo più monogamo o meno puttaniere.

Certo, uno è reale, l’altro è pura finzione.
Ma non capisco comunque perché si debba condannare Placido e al contempo continuare ad osannare le sorelle Giussani per la loro prolifica produzione quarantennale, quando a ben vedere, i loro intenti sono in fondo comuni, e cioè raccontare semplicemente una storia, comunque sia stata.

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editoriale di kosmogabri

Lungo la via centrale del mio quartiere, venticinque anni fa, c’erano, in serie, tre negozi: panettiere, generali alimentari, fruttivendolo-tabaccheria, distanti cinquanta metri l’uno dall’altro, quasi del tutto complementari. Se avevi bisogno del pane, andavi dal primo, poi scendevi dal secondo per la pasta, il succo di frutta, i ghiaccioli, il dentifricio (possibilmente quello con i tre colori tipo bandiera francese, o quello che sapeva di fragola), infine dal terzo, per pomodori, patate, insalata, mele (preferibilmente rosse), e, se necessari, giornali e sigarette.

Quasi del tutto complementari, perché il fruttivendolo, appena all’ingresso, aveva un congelatore con la calotta trasparente dove vendevano ghiaccioli più buoni che nell’altro negozio. Ghiaccioli nel senso vero, onesto e brutale - di acqua colorante e ghiaccio - che si presentavano perfettamente per quello che erano - acqua messa a gelare con zucchero e additivi - e non per ghiaccioli con la “frutta vera”, con un vago sapore di detersivo che toglieva ogni illusione al secondo o terzo assaggio, trasportandoti dalle spiagge della dja-me-ka al più acconcio terrazzino di casa.
I negozi erano a cinquecento metri da casa mia, e certe estati, quando i miei amici della via erano già in vacanza, andavo io a fare la spesa, sotto il sole all’andata, e sotto il sole al ritorno col terrore che si sciogliessero i ghiaccioli, giusto in tempo per rincasare e vedere alla tivvù una qualche variante dei quiz stagionali, programmati in replica o sostituiti da palliativi a costo-zero per piazzare regali-spot-prodotti di vario genere.

L’altro giorno, passandoci davanti in macchina per un saltuario ritorno, ho gettato l’occhio dentro al fruttivendolo, e l’ho visto vuoto. Niente ghiaccioli, ma, a parte la stagione, l’azienda ormai vende solo ai bar, me l’ha detto uno che ci lavora come custode. Niente più vecchi gestori, sostituiti da figli e figlie, che conoscevo da ragazzi e ritrovo invecchiati dietro il banco. Niente più clienti, o quasi, il negozio vive solo di giornali e di tabacchi, cui si è aggiunta da qualche mese la ricevitoria del lotto, dove le donne impellicciate che venticinque anni fa entravano a comprare centomila lire di frutta e verdura si giocano, oggi, qualche residuo della pensione in cappotti invecchiati peggio di loro. Niente più concorrenti, però panettiere e alimentari hanno chiuso da anni, e tocca farsi un settecento metri per raggiungere il nuovo ipermercato, con ampio parcheggio ed uno scaffale in cui, accanto a Danielle Steel o Dean Koontz, vendono anche Sciascia.

Nessuna macchina, tranne la mia, parcheggiata appena fuori, nel piccolo piazzale in cui mi sono entusiasmato nell’89, quando sembrava fatta per Vanenburg alla Juventus, e rattristato sei mesi fa, quando ho casualmente scoperto della morte, certo non prematura, della donna più vecchia del quartiere, che conoscevo di striscio.
Aveva centocinque anni, centocinque primavere passate in questo quartiere. La stessa età di mio nonno, che però è morto ancora nel ’75, alzandosi da tavola, tossendo, e svanendo di colpo sul divano a pochi passi, lo stesso divano su cui, anni dopo, mi sedevo a guardare Riccardo Scocciante cantare la sigla dell’ennesima Domenica In condotta da Baudopippo, con canzoni tipo pedalando in bicicletta o qualcosa del genere.
Centocinque primavere e l’ovvia, chiara percezione di essere sopravvissuta a tutto, e quasi a tutti. Come l’ultimo ghiacciolo della confezione (solitamente l’anice, che persistono a spacciare per gusto “puffo” come se la cosmesi linguistica lo migliorasse), l’ultima riposta del tabellone del quiz, l’ultima schedina del lotto, l’ultimo cliente del fruttivendolo, appena prima di spegnere le luci ed abbassare la serranda del negozio.

A volte, vorrei essere come gli alberi, o come i cani, che crescono fino ad un certo punto e poi si fermano, resistono, persistono, non vanno oltre e rivivono giorno dopo giorno un presente che è sempre fermo, sempre nuovo perché privo del passato e di quello che era prima. Forse, anche di quello che sarà poi, qualunque sia il poi.

Un tempo ed un luogo dove nulla, veramente, accade, e centocinque primavere sono immutabili come quella a venire.

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editoriale di saeedal-owairan

Mi lanciai in quest’avventura senza preoccuparmi delle conseguenze, né di tutti gli impegni e oneri finanziari che avrebbe comportato. Conoscevo il mio nuovo socio da quando eravamo ragazzi. Da nove anni era costretto a vivere su di una sedia a rotelle e conduceva una esistenza solitaria, dimenticato da tutti tra le quattro mura del suo piccolo appartamento. Fu lui ad avere l’idea, “Dobbiamo aprire un negozio di parrucchiere per signore. Io e te assieme sono certo potremmo farcela; e finiremmo anche con il tirare su qualche soldo.”

Non sapevo nulla di forbici, föhn, shampoo e balsami, spazzole, tinture e lozioni per capelli e non avevo idea del perché avesse deciso di riscattarsi intraprendendo l’attività di parrucchiere per signore; forse in questo modo intendeva esorcizzare quel principio di caduta dei capelli, quell’incipiente calvizie che tanto lo tormentava nell’ultimo periodo. Non gli feci alcuna domanda tuttavia, non ne ebbi bisogno: era mio amico da sempre, tanto bastò, e, affascinato dalla sua determinazione e da questo nuovo mondo a me sconosciuto, acconsentii a prestare la mia opera e le mie risorse finanziarie in quest’attività.

Cominciammo con grande entusiasmo, superando brillantemente le prime difficoltà burocratiche e quelle legate all’apprendimento del mestiere e allo studio scientifico della cura delle capigliature femminili, finché le cose non presero a girare a dovere. In breve avemmo un discreto giro di clienti: per lo più, con nostro grande rammarico, constatammo come la parte più consistente e, in tutti i sensi, corposa della nostra clientela fosse costituita da vecchie e attempate signore. Tuttavia le cose stavano così e ce le facemmo piacere; sogghignavamo tra di noi, complici beffardi, compiacenti, quasi perversi, mentre ci dedicavamo alle esigenti criniere di queste simpatiche ciccione, vecchie befane.

Fuori da questo idilliaco paradiso da coiffeur, tuttavia, dovevo tenere conto della mia vita quotidiana e lavorativa. Assistetti inerme alla mia oramai ex compagna preparare le valigie e lasciare per sempre quello che era stato il nostro appartamento e la mia vita lavorativa finì con il travolgermi: avere trascurato troppo tempo l’ufficio aveva comportato un ingente quantitativo di lavoro arretrato da smaltire. In realtà consideravo la mia nuova attività di coiffeur per signore solo una generosa concessione fatta a un amico e pensai che concentrarmi esclusivamente sul lavoro fosse esattamente la cosa più giusta da farsi.

Considerandomi impossibilitato a frequentare il negozio, smisi di andarci e nei due mesi che seguirono mi limitai a farmi inviare periodicamente i conti da mettere in ordine e pagare le spese, e a qualche telefonata informativa di tanto in tanto.

Poi una mattina il mio amico scomparve. Preso dal panico, mi precipitai in negozio per cercarlo, ma vi trovai invece una inodore massa informe, quello che appariva essere un cadavere in cui tutti credettero di riconoscere il mio amico: lo diedero per morto e celebrarono un triste funerale cui tuttavia, nella perplessità generale, mi rifiutai di presenziare. Il cadavere nella bara non era il suo, perché lui non era morto e lo sapevo condurre una nuova libera esistenza in uno degli infiniti mondi contenuti in uno dei flaconi di balsamo che avevamo in negozio.

Vendetti l’attività, ma tenni per me il flacone. Compresi di essere solo, ma non ebbi mai il coraggio di abbandonare tutto e di raggiungerlo nell’infinito vorticare delle galassie contenuto nel flacone, finché un giorno, che mi sembrava di impazzire, decisi di berne il contenuto. Mi bevvi tutto il contenuto del flacone e in un attimo fu come bere tutta la sua vita. Vomitai e ebbi disprezzo di me stesso; nulla avrebbe mai potuto restituirmi quello che avevo perduto.

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editoriale di telespallabob

Ronan O'Gara è nato a San Diego, in California, da genitori irlandesi originari di Cork. Una città bellissima, affascinante. E' la capitale di una delle quattro province storiche d'Irlanda, il Munster, ma è soprattutto il luogo dove si respira, più di ogni altro, quello spirito denominato “Proud to be Irish”. La gente di Cork ha nelle vene il sangue di Micheal Collins e dei combattenti dell'IRA. Vivere in luoghi così ti forma e ti fa sentire un tutt'uno con la propria terra e questo plasma il giovane Ronan che tra una scuola e l'altra diventa una promessa del Rugby irlandese.

Il mondo ovale irlandese è gestito in modo molto particolare: prima di tutto non esiste la distinzione tra Eire ed Irlanda del Nord (prima delle partite viene suonato un inno apposta, "Ireland's Call") ed inoltre la IRFU organizza il professionismo attraverso le quattro province storiche (Connacht, Leinster, Munster ed Ulster). Il Connacht rappresenta la squadra sperimentale, quella dove vengono mandate le giovani promesse prima di finire al Munster o al Leinster secondo il proprio ruolo: a Limerick i giocatori di mischia, a Dublino i tre-quarti. Almeno in teoria. In pratica, per quanto ci siano interessi ed ingerenze, c'è chi non obbedisce a queste logiche e così fa O'Gara che resta al Munster, diventandone una bandiera. In poco tempo conquista il posto anche in nazionale e diventa uno dei migliori interpreti al mondo nel suo ruolo.

O'Gara oggi ha 34 anni, naturalmente continua a giocare. Nel Munster come nell'Irlanda, con un differenza. A Limerick è ancora il leader di una squadra che con il suo pubblico e la sua micidiale mischia mette in crisi mezz'Europa. In Nazionale ha perso il posto da titolare, scalzato da Jonathan Sexton. E' il mediano d'apertura del Leinster. Hanno caratteristiche e modi di giocare molto diversi ma quest'ultimo ha dalla sua l'età (26 anni) e la “Rugby World Cup” di Settembre rappresenta la grande occasione per la maturità. Ronan lo sa fin troppo bene ed accetta la panchina. Non pretende il ruolo di primo piano solo per i meriti passati, capisce che c'è un momento in cui bisogna fare un passo indietro e lasciare spazio. Sa che in momenti difficili bisogna essere pronti e dimostrare di essere grandi dentro. Non si può avere sempre vent'anni. Bisogna sfruttare al massimo ogni età, accettare il corso del tempo ma non per questo si deve rinunciare ai propri valori e alle proprie idee.

L'anno nuovo coincide con un altro “6 Nations”: al Flaminio si gioca Italia-Irlanda, la partita è in bilico. Declan Kidney, head coach dell'Irlanda, si gioca la carta dell'esperienza nel finale e sotto questo aspetto chi meglio di O'Gara? Ronan entra, è fresco e sa cosa fare ma i suoi compagni soffrono le incursioni degli avanti azzurri che al momento giusto aprono ai tre-quarti: è la meta italiana. Mirko Bergamasco non trasforma, 11-10. Basterebbe un piazzato per rimontare ma prima c'è da recuperare il pallone, fortuna vuole che gli avversari lo regalano ingenuamente. O'Gara pensa al drop e i compagni di squadra lo mettono nelle condizione giuste: ora è solo un suo problema. Al '78 Italia 11- Irlanda 13, drop di O'Gara. Il risultato non cambia più. Diventa l'eroe del sabato ma nelle interviste non si auto-elogia, non tenta di sconvolgere le gerarchie. Parla della lucidità del gruppo e dell'importanza della vittoria. E' cosciente che sabato prossimo il titolare sarà Sexton e lui dovrà essere a bordo-campo, pronto in caso di bisogno.

In verità Ronan O'Gara è un passionale, dal carattere irriverente ed orgoglioso. Non sopporta né Sexton né la panchina e sta approfittando dell'ottimo “6 Nations” disputato fin ora (contro la Scozia è stato premiato come “Man of the Match”) per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, con dichiarazioni taglienti ed ironiche. Ciononostante gli sono affezionato, adoro vederlo giocare e mi divertono i suoi “colpi di testa”.

Dedico questo mio scritto agli “anziani” del CUS Brescia Rugby. Compagni di squadra meravigliosi, anche nei loro difetti. Sempre pronti a farti capire come stare al mondo, prima di tutto. Anche del campo.
Speciali come Ronan O'Gara.

(nella foto: Ronan O'Gara conversa amabilmente con Queen Elizabeth II)  di più