editoriale di kosmogabri

Se chiudo gli occhi e immagino i profumi d'infanzia della campagna lucana, quella in cui trascorrevo i tre mesi di vacanza scolastica, ne ricreo due distintissimi: quello del fieno arso al sole, più o meno fino ai dieci anni, e quello, successivo, del gas naturale di sfiato dei primi pozzi di petrolio della Val D'Agri.

Che il petrolio della Val D'Agri copra oggi il fabbisogno nazionale del 10%, con un' area di di trivellazione di quasi cento ettari, è cosa risaputa.
Che il paese Viggiano (natale di mio padre) ne tragga diversi milioni di euro (pare 17 annui) in royalties per concessioni all'Eni, un po' meno, sebbene immaginabile.

Sono tornato in quella terra dopo quasi dieci anni di assenza, con l'idea di girare in lungo e in largo i luoghi dove Pasolini trovò l'ispirazione per il suo Vangelo, di respirare la stessa aria esule di Carlo Levi, di interrogare una regione così timida quando vuole manifestare le sue immense eredità greche, romane, normanne, saracene, spagnole. Una terra che ha laghi e montagne che tolgono il fiato, con calanchi alti fino a quattrocento metri cosparsi di fauna marina millenaria e che promuove l'eolico e gli idrodotti.

Al petrolio neanche ci pensavo più. Persino il suo "profumo" si era fatto più discreto.

Poi però mi sono arrivate all'orecchio quelle parole dai pesci morti del Pertusillo e la verità di quella "offerta" di acquisto delle proprietà dei miei, ché i pozzi devono diventare almeno cento, di altri 70 ettari. Aut-aut, prendere od espropriare.

E allora ho ringraziato la Madonna Del Sacro Monte che i miei nonni non siano arrivati a vedere il Peggio. Anche solo il loro.

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editoriale di MorgueOfAbsinth

Da quando ho compreso la grande coerenza di tutte le genie di fanatici razzisti sparsi per il mondo ho iniziato provocatoriamente a tramutarmi in mostro. Le bionde famiglie ariane dei sobborghi tedeschi o americani, i solitari paranoici che pullulano nelle foreste norvegesi, gli estremisti religiosi che vedono nel secolarismo dell’uomo occidentale la fucina di tutti i mali sono accomunati dall’ammirabile coerente fermezza del proprio odio.

Quando simili individui iniziano a camminare nel mondo dipingono il proprio nemico. E a quel ritratto rimangono fedeli spesso per tutta la vita, proclamando con feroce orgoglio la propria superiorità su negri, froci, ebrei, occidentali, atei, appartenenti ad altre religioni, ad altre etnie, ad altri stati. Fermezza e coerenza, nessuna vergogna nell’ergersi come paladini di un proprio universo immaginario che si staglia come un monolite su fetide pianure popolate da nemici inumani ed inferiori.

La strage compiuta da Breivik in Norvegia è stata la causa che mi ha portato a riconsiderare alcune assunzioni. Nell’isola Utøya sono stati uccisi circa 76 ragazzi appartenenti alle sezioni giovanili del Partito Laburista. La commozione generale è stata grande, foto e video ad alto tasso di emotività si sono susseguiti per lungo tempo, copiose sono scese le lacrime nel ricordare la strage. Ognuno di questi 76 virgulti della buona borghesia europea, multietnica, colta, liberale e antirazzista è stato pianto come martire dell’Europa, come vittima della barbarie estremista. Mi sono chiesto da cosa derivi invece la freddezza con cui è stata accolta la notizia della strage presso la moschea di Jamrood in Pakistan, datata agosto 2011. Eppure anche li sono morte decine di persone ad opera di un fanatico imbottito di esplosivo, persone con storie, volti, sogni, desideri esclusivi.

Allora ho meditato. Ho pensato che se vieni ucciso e sei biondo e benestante, oppure se hai un volto esotico ma un pedigree, socialmente parlando, di tutto rispetto, la tua morte produrrà una commozione che spingerà ad organizzare marce, fiaccolate, sfilate ed ogni altro tipo di ributtante manifestazione necrofila in tuo onore. Se invece il tuo futuro è quello di diventare pastore come migliaia di avi prima di te, se sei coperto da una lunga barba nera e da un turbante, se sei una donna resa invisibile da un lungo velo, la tua uccisione porterà ad un articolo di fondo sui quotidiani ed ad un rapido oblio. Nessuna lacrima, nessuna fervida meditazione sul valore della tua vita spezzata, nessuna intervista ai tuoi tutori universitari. Anche perché all’università non ci vai neppure.

Questo potrebbe anche essere una cosa giusta e ragionevole, ma solo sottostando a varie condizioni. Che nessuno di coloro che hanno pianto per Utøya e hanno taciuto per Jamrood si permetta di discettare poi di lotta al razzismo, di umanità, di rispetto sconfinato per il prossimo. Che tutti questi abbiano il coraggio di diventare coscienti del proprio inconsapevole razzismo, nutrito della convinzione che esista una sola razza degna di pianto dopo la morte violenta: la nostra, quella che dimora nel nostro villaggio ingrandito, quella che realmente è composta da uomini e non da primitivi dalle rozze tradizioni, subumani eternamente in guerra con i quali c’è ben poco in comune.

A dispetto dell’informazione che oggi viaggia rapida e tutto può far sapere di tutto il mondo, restiamo sostanzialmente gli stessi da molti millenni: ma se un tempo si ammetteva l’esclusiva importanza del proprio piccolo gruppo, oggi si pretende di includere nel nostro interesse sincero l’intero mondo; Utoya e Jamrood, l’entità della reazione, totale e nulla, sono qui per indicare la nostra stessa iniquità, la nostra stessa mancanza di coerenza.

In sintesi, il nostro stesso razzismo.

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editoriale di enbar77

Quando Lennon declamava questi versi, nel lontano 1965, sembrava volesse esaltare la qualità del soggetto, tesserne, in un sottile turbine di nuvole psichedeliche, le lodi. Nel mio caso, dei norvegesi, non posso fare altro che lodarne la solidarietà, pazzesca, che ha lasciato un’impronta indelebile nell’archivio dei miei stati emozionali.
Tra le città toccate dall’itinerario di una recente crociera nuziale, ho avuto la fortuna di solcare il suolo di Oslo. Città bellissima, per carità, pulita, ordinata, organizzata, precisa. Tutti fattori che in Italia ci vengono solo in sogno, insomma. Anche molto cara, se si pensa che un biglietto orario per il tram, necessariamente utilizzato per coprire in breve tempo la distanza tra Aker Brygge e il Vigelandsparken (splendido), costa circa 28 corone, ossia 4 euro, beh…

La giornata soleggiata non riusciva a stemperare l’atmosfera pesante lasciata qualche pugno di giorni prima da un lucidissimo squilibrato di estrema destra, Anders Breivik, che ha deciso di cancellare dalla terra novantatré persone tra colpi di fucile ed autobombe. A questo, giusto per farci riconoscere ancora un po’, va aggiunto che due schifosi porci leghisti, Borghezio e Speroni, approvano in qualche modo le idee espresse dall’invasato. Di fronte ai moli era stata allestita una parete su cui applicare fiori alla memoria delle vittime. Qualcuno ha lasciato qualche messaggio. Qualcun altro ha appoggiato dei fiori sui muretti accanto la fermata del tram. Un silenzio pesante regnava privo di ogni contrasto. Raggiungiamo la Karl Johans Gate, una delle strade principali della città e qualcosa mi fa intuire che di espressioni floreali ne vedrò altre. Non si trattava solo di aiuole curate o piazze decoratissime. Non ricordo uno spazio dove non fosse stato apposto un omaggio. Ogni cittadino ha voluto materializzare la propria vicinanza a coloro che sono stati barbaramente mutilati negli affetti. Tra i petali adagiati nell’acqua delle fontane e quelli che galleggiavano tra le schiume di bocche d’ottone. Mazzetti anonimi appoggiati ai piedi delle statue, sui gradini delle scalinate di imponenti palazzi, tra le colonne dell’Università e i sentieri piastrellati del Teatro Nazionale. Qualcuno, per fissarli ai pali dei semafori e dei segnali stradali, ha usato addirittura dei lacci di plastica monouso, di quelli che si utilizzano per raccogliere la cavetteria traboccante dei computers o per persuadere dal furto i ladri di copriruote in plastica delle nostre macchine.

Mai avrei immaginato, però, ciò che ho visto, per puro caso, all’incrocio con la Stortorvet, la piazza che accoglie una bellissima chiesa, la Domkirken Sokn.
Un semaforo mostrava inutilmente i suoi colori. Allo stesso tempo, come se volesse chiedere un’udienza poi inevasa, emetteva anche dei suoni sordi. Nessuno, tranne noi, spostò di qualche oncia lo sguardo per soddisfare una quanto mai inopportuna curiosità impegnata a carpire il significato di quei secondi in decorrenza tra il rosso e il verde. Ci avremmo fatto caso a tempo debito.
Non ho memoria di un’area di notevoli dimensioni, tappezzata da così tanti fiori. Le rotaie del tram e l’asfalto circostante erano stati amorevolmente seppelliti da migliaia di mazzetti, lumini, bandierine e messaggi lasciati da chiunque si trovasse a passarci. Che solidarietà tentacolare.

Non riesco a dire altro in merito, tranne che è stato assolutamente doveroso lasciare un piccolo contributo emozionale a coloro che saranno costretti a soffrire per sempre. E’ stato difficile lasciare la piazza e trovare un equilibrio tra il cuore e la mente. Mai, come allora il tempo si è dimostrato tiranno. Chi avrebbe mai immaginato tanta partecipazione nella fredda Norvegia? Mai visto omaggio così grande. E sono fiero, con mia moglie, di averne fatto parte.
Il giorno dopo abbiamo saputo, dal giornalino che lasciano in cabina, che tutti i fiori sono stati rimossi. In dodici giorni, ne erano stati adagiati a tonnellate e solo sulla Stortorvet coprivano ogni millimetro quadrato di un’area di 50 metri per 30. Inutile dire che l’umanità, in Norvegia, si somma con la saggezza e l’intelligenza. I fiori sono diventati compost, i lumini sono stati tutti riciclati e i messaggi, le foto, le bandierine e i pupazzi, sono ora conservati nel Palazzo del Governo. Per chi non vuole dimenticare.

Isn’t it good, Norwegian… love.

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editoriale di ilfreddo

In quei giorni, che ora appaiono così lontani e sbiaditi, me ne stavo appollaiato a Lisbona a godere un autunno insolitamente tiepido che sembrava essere stato strappato direttamente dalla pellicola di un happy ending con tanto di titoli di coda, musica e vattelapesca. Aria rilassante, quiete, ed ore capaci di scorrere lente e piacevoli: proprio come l'acqua nelle larghe anse di un fiume al tramonto. Le notizie che leggevo in quei giorni d'ottobre 2008 sembravano provenire da Marte, così aliene da me che, tra un paragrafo e l’altro, poggiavo lo sguardo su quelle strade tranquille, festanti e calorose. Il contrasto era così forte che l’impatto di quelle notizie mi arrivava quasi completamente svuotato del suo impatto iniziale. Eppure la prima tessera di un domino lungo un oceano, dopo aver traballato a lungo, era infine caduta. Tranquilli, non voglio parlare della situazione del nostro paese. Non serve proprio che uno stronzetto come il sottoscritto la fotografi più o meno bene.

Il mio pensiero è rivolto verso un’ottica di lungo periodo e di più largo respiro. Ho come l’impressione che in questi tre anni tutta questa informe e cervellotica massa di “esperti”, “politicanti” ed “economisti”, si sia impegnata con furore ed impegno per rincoglionirci e gettarci sabbia negli occhi. Per nasconderci un fatto molto semplice: nessuno sa dove cazzo stiamo andando.

Tralasciando la disgrazia Italia & Co., che paga ora quanto non fatto per decenni, quello che mi preoccupa e spinge a scrivere è che siamo in un periodo difficilmente catalogabile volgendo lo sguardo al passato. L’economia ciclicamente ha sempre avuto momenti di boom alternati ad altri di profonda recessione. E le guerre proprio a questo servivano! Si ammazzavano un bel po’ di persone con le armi, ma il grosso lo facevano le carestie alimentari e le epidemie che ne conseguivano. Venivano distrutti molti edifici, infrastrutture e questo tabula rasa creava la spinta per il nuovo benessere. Fino ad una nuova guerra. E così via. Il problemino è che Alberto e=mc al quadrato aveva ragione quando affermava qualcosa simile a “La quarta guerra mondiale si combatterà con le clave.”. La terza infatti, a suo dire, sarebbe stata molto poco auspicabile. E così la tecnologia ha reso impraticabile, otturato con un megastronzo, la valvola di sfogo che questo sistema nel quale viviamo ha utilizzato per rilanciarsi. Viviamo sempre più a lungo, siamo sempre di più, le risorse diminuiscono. E ora…

Ora è inutile che mi guardi schifato, affermando che sia un pazzo, perché scrivo di volere la guerra! Cazzo, se è questo quello che pensi hai abboccato come un tonno all’amo del titolo senza leggere il contenuto, oppure è palese che la sbornia di ieri sera mica l’hai digerita tanto bene. Come al solito non sono propositivo. Se sei un nerd, amico, mi dispiace deluderti ma mica sono il fottuto Gandalf: non ho oracoli da consultare, bastoni da far ruotare o anelli da cercare.

Oggi avevo solo voglia di dirTi, carissimo de-utente, senza freni quello che mi passa per la testa balorda. Se straccio questa merda di un giornale che ora mi rassicura, e che domani invece mi bastonerà senza pietà, e guardo con i miei occhi il futuro che scruto è incerto e nero. Una nuvola che si allunga per formare in cielo un punto interrogativo che subito si racchiude a pugno, per poi far affiorare un dito medio con tanto di fulmini e saette che manco Zeus! E se non mi viene voglia di mettere su famiglia, impelagarmi in un mutuo, forse non è solo ed esclusivamente per mera pigrizia e bambocciaggine estrema, ma anche per un pizzico di divina illuminazione.

Non mi preoccupa tanto questa crisi attuale, perché volgo lo sguardo oltre e mi sembra evidente che il mondo, più prima che poi, dovrà trovare un riassetto completamente nuovo.
Un equilibrio che per noi privilegiati sarà assai peggiore delle politiche "lacrime e sangue" che i nostri governi saranno costretti a varare per tenere in piedi questo vecchio e decrepito sistema ormai al collasso.

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editoriale di Bartleboom

Premessa n. 1: non sarà un editoriale particolarmente illuminante. Tutt'altro. Però sta cosa ce l'ho qui da un po' e voglio sapere se me la sto prendendo per nulla;

Premessa n. 2: l'altro ieri è cominciato il Ramadan. Niente acqua e niente cibo dall'alba al tramonto. Peccato che siamo ad agosto, il sole sta bello pizzo nel cielo per 18 ore al giorno e se va bene ci sono 25° all'ombra. Il Presidente delle associazioni islamiche italiane (chiedo scusa, ma non sono riuscito a trovare il nome e la carica esatti) ha concesso che chi lavora nei campi, spezzandosi la schiena sotto il sole, è perlomeno autorizzato a bere. La notizia, però, non è stata accolta positivamente da tutti: infatti c'è stato chi si è lamentato ed ha giudicato questa deroga ingiusta e comunque non giustificata;

E ora l'editoriale vero e proprio.

Non riesco più a guardare i programmi di cucina.

Non che prima me la spassassi granché tra "Chef per un giorno", quello con Mengacci, quell'altro con lo chef che insulta tutti e mi chiedo come mai non abbia ancora trovato qualcuno che lo aspetti fuori e gli faccia scoprire un uso alternativo del mestolone...

Però, devo ammetterlo, ogni tanto l'occhio ce lo buttavo. A colazione, ad esempio, mi guardavo Top Chef e me la sghignazzavo di brutto sentendo dei nomi mostruosi per descrivere dei piatti che assomigliano tanto ad una tartina col burro.

A pranzo, i seni generosi della Clerici mi accoglievano e mi cullavano, mentre cuochi ormai familiari si sbattevano per stare dietro a concorrenti incapaci anche di aprire un uovo senza combinare un casino pazzesco.

Poi ho iniziato a notare quanto cibo venga sprecato in questi programmi. Chili e chili di prodotti soltanto per le scenografie. Centinaia di uova solo per fare la "Prova di velocità" in cui vince chi monta a neve per primo l'albume. Poi c'è la prova in cui vince chi riesce a disossare più polli. Quella in cui si affettano più cipolle. Quella in cui si trita più carne. Insomma: vince chi butta più cibo.

Ma porca miseria. Ma solo io mi sono sentito ammorbare la fanciullezza con frasi del tipo: "O mangi sta minestra o butto la nonna dalla finestra?" "Non ti alzi finchè non hai finito tutto"? "Non giocare col cibo"?

Ora, non voglio riesumare l'antico detto "In Africa i bambini muoiono di fame...". Però oggi, qui da noi, c'è gente che fa fatica a fare la spesa e questi sprecano supermercati interi di roba per vedere chi è più fico col frullatore. Sta cosa mi fa impazzire. Mi procura lo stesso fastidio fisico di una qualsiasi intervista a Gasparri.

Come lo concludo questo editoriale? Non lo so. Non penso ci siano grandi conclusioni da tirare. E allora me la cavo con una frase che ripete sempre un tizio che conosco. Secondo lui è una citazione, ma ogni volta che gli chiedo di chi, mi dice un nome diverso:

"Se vuoi davvero bene a tuo figlio, cerca di fargli provare sempre un po' di freddo e un po' di fame".

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editoriale di Gallagher87

Uno sguardo è bastato per capire che non voleva fargli lo scontrino fiscale, e ad Antonio conveniva non chiederglielo perché avrebbe pagato ogni singolo DVD 0,10 € in meno. "Conviene", quante volte usiamo questo termine in funzione delle situazioni che viviamo?

L' “Italian Revolution - democrazia reale ora”, termine con cui l'informazione scritta e online descrive quel movimento che dovrebbe essere l'alter ego degli "indignados" spagnoli, in realtà qui in Italia non avrebbe motivo reale di esistere, o meglio non pragmaticamente.
Voglio essere chiaro per non essere frainteso: ci sarebbero tutte le carte in regola per far partire un moto di risposta apolitico, penso ad esempio, a situazioni di gap che viviamo giorno dopo giorno come possono essere l'impatto delle imposte sulla benzina o l'aumento spropositato dell' RCA, per non parlare più in generale della crisi economica, politica e sociale che attanaglia più o meno tutto il paese.
L' “Italian Revolution" non ha motivo di esistere semplicemente perché non è presente nel nostro DNA.
Sicuramente la fotografia della Spagna di oggi e di ieri (penso al regime di Franco ma non voglio entrare nel merito) è forse persino più grigia della nostra, e si sa che bisogna farsi sentire quando la pancia è vuota, quando fa male, a dispetto delle coreografie degli stadi di Madrid e Barcellona, ritraenti la bella presenza di centomila paganti. Certo non può neanche essere questa la foto della Spagna, l'esempio dello stadio è un momento, è un istante che può essere un momento di svago, o in altri casi un momento di ritrovo per chi magari la crisi la sente un po' meno.

Tornando a noi, il concetto di ciò che "conviene a me" a dispetto degli altri, non è certamente un esclusiva del nostro bel paese, ma forse è presente sotto più forme e in modo più massiccio che in altri paesi detti "industrializzati". Per il "conviene a me" non alludo a riferimenti politici come leggi "ad personam" di cui tanto si sente parlare, intendo la realtà che ognuno di noi vive nei rapporti sociali. L'esempio iniziale dello scontrino fiscale può essere legittimo ma relativo, perché magari i controlli (a sorpresa!?) della guardia di finanza possono variare di incisività da comune a comune, da regione a regione, come la stessa indole del venditore e dell'acquirente alla convenienza reciproca può variare secondo svariati parametri. Se solo però tentassimo per un attimo a capire perché ad esempio, andare da un parrucchiere da donna in salone costa dieci volte di più rispetto ai parrucchieri casa per casa, senza analizzare ciò che dice la legge consente di fare e al di là di ciò che "conviene" a me come consumatore, potremmo anche iniziare a capire perché l' “Italian Revolution" perde di valore, e di conseguenza potremmo anche iniziare a capire perché vengono giocati in una nazione in crisi, 50-60 miliardi di € all'anno in giochi d'azzardo legalizzati (Superenalotto, Win For Life, ecc.) con una possibilità su 620 milioni di azzeccare il 6 vincente, e una su 120mila di strappare un 4 che ci arricchirebbe con la bellezza di 250, 300 €, insomma addio crisi!

Ora, tralasciando che sia più facile che l'asteroide Apophis colpisca la Terra nel 2036 (ebbene si) augurandoci che la crisi nel frattempo sia passata, sfrutto le mie ore di cassa integrazione (legittima?) per potervi scrivere questi miei pensieri e conscio del fatto che potrei far scaturire una serie di commenti più o meno democratici, memorabili a tal punto da doverli salvare in un file word su un DVD, che se dovessi chiedere al mio amico Antonio, pagherei soltanto 0,40 €. Tutto sommato conviene.

Ogni Stato ha i rivoluzionari che si merita.
(Palmiro Togliatti)

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editoriale di telespallabob

Ve li ricordate gli Indignados? Il movimento 15-M, chiamati così dalla prensa spagnola, aveva attirato l'attenzione della stampa di tutto il mondo, Italia compresa (nel nostro paese l'attenzione agli esteri è pressoché nulla). E' passato oltre un mese da quelle giornate ma la rete che aveva generato quel movimento è ancora attiva, in programma sono previste altre manifestazioni dopo quelle del 19 Giugno.

Lasciamo da parte gli Indignados e riavvolgiamo il nastro, eravamo alla vigilia delle elezioni amministrative del 22 Maggio. Una tornata elettorale importante, l'ultima prima delle “elecciones generales” dell'anno prossimo. A livello nazionale è stato pesante il crollo del PSOE di Zapatero, a vantaggio del PP guidato da Mariano Rajoy. I risultati elettorali spagnoli sono stati commentati anche da noi, dedicando poca attenzione all'altro grande dato di queste elezioni: l'exploit di Bildu. Piccolo excursus: cos'è Bildu? E' un partito che ha riunito le principali forze dell'izquierda abertzale con l'obiettivo di presentarsi a questa tornata elettorale. Un secondo tentativo visto che Sortu, altro partito legato alla galassia abertzale, era stato escluso dal Tribunale Supremo in base alla discussa Ley de Partidos (quella che aveva portato all'illegalizzazione di Batasuna). In verità anche Bildu era stata prima esclusa il 3 Maggio e poi riammessa il 5, alla vigilia dell'inizio della campagna elettorale (che ufficialmente inizia nelle due settimane antecedenti le elezioni). Bildu, nella regione del Pais Vasco (province storiche di Araba, Biskaia e Gipuzkoa) e in Navarra, ha raccolto 313mila voti e con il 23% è secondo solo al EAJ-PNV (330mila voti, 24%) per numero di votanti ma è il primo partito per numero di consiglieri eletti. Ha ottenuto grandi consensi nei piccoli centri, spesso riportando la maggioranza assoluta, e nella cintura industriale attorno a Vitoria-Gasteiz e Donostia-San Sebastian. In quest'ultima città e nella rispettiva provincia è risultato il primo partito.
E' un risultato storico quello uscito fuori dalle urne, prima di tutto la somma dei voti ai partiti baschi (compresi Aralar, crollato in questa tornata, e Nafarroa Bai) è maggiore rispetto alla somma dei partiti “spagnoli”. In secondo luogo la forza elettorale e politica del movimento abertzale è coincisa con il momento di massima debolezza, in tutti i sensi, dell'ETA. L'organizzazione terroristica è ridotta ai minimi termini, dallo scorso Gennaio vige un “cessate il fuoco” permanente. Dallo scorso aprile è stato accompagnato, tramite due lettere inviate alle associazioni degli imprenditori baschi e della Navarra, dalla rinuncia all'impuesto revolucionario, vale a dire una sorta di pizzo richiesto a imprenditori e commercianti per il finanziamento. E' un gesto clamoroso, non era mai successo (in occasioni di altre tregue temporanee i commercianti ricevevano ancora le lettere con le richieste estorsive) e ad oggi nessuna delle due azioni è stata disattesa. Le elezioni offrono un segnale importante all'ETA, al Governo (per ora quello di Zapatero) e alla nomenklatura politica di Madrid perché dimostrano la bontà delle idee autonomiste e l'interesse della gente nei confronti della questione basca.
oluzione non-violenta della questione basca.

Le elezioni e il conseguente successo di Bildu rappresentano un'occasione storica per Euskal Herria, come giustamente hanno dichiarato Martin Garitano (nuovo Diputado General di Gipuzkoa) e Arnaldo Otegi, ex-portavoce del Batasuna attualmente agli arresti e sotto processo per tentata ricostituzione dello stesso (rischia fino a 10 anni di galera). Oltre alla difesa dei valori e delle identità basche c'è da affrontare la crisi economica (è una delle regioni più ricche della Spagna. E' basco il BBVA, uno dei gruppi bancari più ricchi e potenti d'Europa), la questione dell'Alta Velocità (vista come priorità politica dal governo ma molto criticata a livello popolare), dei 700 prigionieri politici (in queste settimane è esploso il caso di Aurore Martin, dirigente del Batasuna estradata in Francia dopo che in Spagna era stato emesso un mandato di cattura contro di lei. Solamente una forte mobilitazione ne ha evitato l'arresto dopo la sua ricomparsa in un'assemblea pubblica a Biarritz), della libertà d'opinione e della rappresentanza delle istanze basche (la Ley de Partidos resta un pericolo, visto il fuoco incrociato di parte dell'opinione pubblica spagnola). I politici europei parlano di libertà dei popoli, di autodeterminazione (22 stati dell'UE hanno riconosciuto il Kosovo). Sappiate che queste parole non valgono per tutti, non valgono nel cuore dell'Europa per il popolo più antico del nostro continente.

[Nella foto la prima pagina del quotidiano “La Razon” del 6 Maggio 2011, il giorno prima il Tribunale Supremo con 6 voti a favore e 5 contrari aveva riammesso Bildu alle elezioni. Non c'è bisogno di tradurre]

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editoriale di james

Premetto che non ho mai dato tanto peso alle storie sugli ufo, alieni eccetera, le ho sempre considerate in fondo come simpatiche cazzate e nulla di più. Ma tre giorni fa mi è successa una cosa.

Ero di ritorno dalla festa di laurea di un mio caro amico d'infanzia. Saranno state le due di notte circa. Tratto di strada buio lungo la costa ionica lucana, ero solo in auto. Mancava ancora un bel tratto per arrivare a casa - la festa infatti si è tenuta nella villa degli zii del mio amico, zona turistica, a circa un ora e mezza di macchina da casa mia. Forse avevo bevuto troppo, non tanto alcolici, quanto bibite, e all'improvviso ebbi l'urgente bisogno di fermarmi per fare pipì. Accostai l'auto, scesi, feci pipì e poi guardai un po' verso l'alto come a dire: "Oh finalmente, ci voleva proprio", quando vidi un puntino luminoso nel cielo, una luce biancastra giallognola, che si muoveva. "Toh guarda, una stella cadente, devo esprimere un desiderio" pensai, ma guardando meglio mi accorsi che procedeva lentamente ma con traiettoria perfettamente orizzontale, al che pensai fosse semplicemente un aereo.

Poi però si fermò. "No, nemmeno un aereo, è solo un elicottero" dissi fra me e me. E fu a quel punto che successe una cosa stranissima, la luce cambiò colore. Da giallino chiaro virò a un rosso acceso, fra il rosso e l'arancione diciamo, e poi improvvisamente decollò verso l'alto, con traiettoria verticale, perpendicolare al suolo, a velocità elevatissima, tanto da scomparire alla mia vista nel giro di un paio di secondi al massimo.
Avevo con me una videocamera, ma non feci in tempo a riprendere niente, perché tutto durò non più di dieci secondi credo.

Tornai a casa, ma non presi sonno facilmente, quell'episodio continuava a ripetersi nella mia testa. Mi addormentai credo molto tardi. Il giorno dopo continuai a pensare a quello che avevo visto, senza riuscire a darmi una spiegazione.

Perché vi sto dicendo tutto questo? Perché ho bisogno di raccontare questa cosa a qualcuno, ma ho paura di essere preso per scemo. Quindi la scelta del racconto anonimo. Credo che nessun razzo possa procedere orizzontalmente, fermarsi in volo e poi decollare in verticale, nemmeno aerei o elicotteri.

Mi interesserebbe sapere se a qualcuno è successa una cosa simile, se qualcuno ha delle spiegazioni plausibili, insomma se qualcuno sa dirmi che cazzo è stato.

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editoriale di kosmogabri

Si dice che ciò che distingue il ragionamento umano da quello artificiale sia che il nostro processore centrale esegua associazioni di elementi su un continuum analogico ovvero ad esempio : se pensiamo a un ricordo d’infanzia, torniamo all’adesso e re-immaginiamo quel ricordo fra un’anno, allora il flash di memoria ci apparirà diverso senza che un processo cosciente sappia decifrare perché siano andate perse (o acquisite nuove informazioni) - in un file .avi questo non succede, se manipoliamo uno script i processi di modifica sono tangibili e comprensibili.

La creatività, semioticamente parlando, è il nostro riuscire a concepire dettami, schemi, figure non calcolabili cioè riusciamo ad esempio a tradurre la visione oculare di un oggetto con cui interagiamo in uno spettro di cromature e forme infinito, unico e senza confini ed è ciò che invece un .jpeg derivato da una scansione o una fotografia digitale deve necessariamente essere spezzettato in pixel secondo una griglia e una numerazione ben precisa… ciò significa che la computazione del reale al computer crea qualcosa di solo apparentemente reale, e quel qualcosa di apparentemente reale non è in grado (poiché già digitalizzato), a tradursi in qualcosa di reale: il continuum analogico di cui noi ci avvaliamo.

Bene, queste nozioni – nella loro lieve complessità ma masticabili anche ai non addetti ai lavori come me che capisco mezza cippa di informatica – che mettono a confronto due universi di ragionamento in apparenza intangibili sembrano trovare progressivo punto di convergenza nell’imminente progresso socio-tecnologico che ci apprestiamo ad affrontare. Come due rette parallele che intravedono la collisione per il loro progressivo avvicinamento ai poli. Archiviata ormai la possibilità di conquista dell’universo per mancanza di propulsione energetica (e diciamo anche una diffusa accidia verso il senso della scoperta) sembra tanto che la tecnica nella ricerca e lo sviluppo sia ormai relegata in una stretta cerchia di espedienti volti a suffragare la nostra implacabile voluttà dell’avvalerci di una sempre più estenuante dipendenza telematica: mezzi che ci esulano da una partita faccia a faccia col reale, mezzi che con un click riescono a mediare e sopperire a tutti quei compromessi temporali- operativi che una volta servivano per “faticarsi” avidamente o un bene o un servizio.

E se il nostro percepire, sentire, toccare stesse davvero perdendo totale affinità col raziocinio libero, boicottato, quest’ultimo, dall’irresistibile fascino della cyber cultura? Quale sarà il prossimo passo? Tradurre i nostri pensieri in bytes ed entrare in completa simbiosi coi computer? Esistono già apparecchi che riescono a captare la variazione di eccitazione e inibizione neuronale; forse è ancora poco ma se pensiamo all’avanzamento siderale fatto dalla rete globale - dai vecchi 56 k all’attuale wifi iperveloce in meno di 15 anni - allora sistemi che ci incanalino in memoria interi tomi di anatomia, astrofisica, diritto e statistica sono realtà dei prossimi decenni, non certo fantascienza. Diventare proprio come le macchine di cui ci avvaliamo tanto di essere superiori ma che ci battono in quell esaustività eruditiva che tanto invidiamo. Ma senza più il piacere del progresso e della scoperta in cui il “tutto” sarà già dato fin da subito. Un mare infinito di cui riusciamo però a malapena a lambirne i contorni senza addentrarvici mai, colpiti noi da ineffabili quanto frenetici stimoli sempre complici nel distrarci nella risoluzione dei nostri reali voleri e le nostre potenzialità.
Entrare in uno stato simbiotico con le intelligenze artificiali, vere e avide detentrici di protocolli sicuri nel loro essere meccanicamente impeccabili.

E’ veramente quindi giunta l’era in cui l’uomo deve sopperire alla sua prerogativa di libera associazione dei concetti e delle entità esterne e piegarsi e questo determinismo meccanicistico, questo universo ormai compiuto in cui cerchiamo invano limiti invalicabili?

Non abbiamo davvero più nulla da creare?

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editoriale di Cornell

No, dico, ma qualcuno dei sostenitori del paladino della democrazia, detentore della verità assoluta dispensata sulle tre tivvì private e non solo, vice-capitanate da colui che è uscito dalle balls del paladino (il perché della scelta democratica tramite concorso e/o meritocrazia è noto ai più... Se non fosse noto documentatevi), si è posto la fatidica domanda: "Ma allora siamo proprio un popolo di rincoglioniti come volete farci passare in Tivvù?" ?
La risposta è inderogabilmente “Sì, vi vogliamo così!”.
Oppure il popolo più assiduo frequentatore di bamboline e bamboloni a pagamento sia in terra che oltre si bea dei servizi di alto giornalismo che scodella quel fior fior di telegiornale che risponde al nome di Studio Aperto (e non solo)?

"Papà papà guarda cosa ho fatto! Papà giochi con me?".
"Sssshhhh... E un attimo cazzo che in tivvù ci stanno le chiappe di Belèn... Uuhhh che bocce! Un attimo che papà viene"….
"Mamma mamma, giochiamo insieme?".
"Sì caro, un attimo che c'è Pippa in tivvù, chissà che ha combinato stavolta. Che invidia però.. La sorella ha sposato un principe. Un po' calvo e non proprio bellissimo, ma sempre principe è. E lei… ha un corpo e un fondoschiena che io neanche con dieci anni di step. Grrrrrrrrrrrrrrrr… E anche quell'antipatica dell'Elisabetta che si è accalappiata quello strafiko del George, che rabbia. Che poi lei non è poi tutto quel granché… Sembra un cavallo da corsa con quella faccia, una foca quando applaude e ha una grazia che neanche Bud Spencer. E Michelle meno male che un po' si è eclissata, non se ne poteva più di vederla dappertutto. Poi sempre a ridere come un'oca giuliva. Ma che avrà mai da ridere! Ah, se potessi mettermi in mano a qualche chirurgo plastico, magari il marito della Brilli, il Roy sì, quello è bravo assai. Chissà che mi farebbe diventare. E poi un calcio in culo a mio marito e... Red Carpet arrivooooooo!"
"Mammaaaaa!"
"Eddai rompiballe, lasciami sognare in pace no?!".

Ah beh se questi sono i sogni delle e degli italiani siam messi bene.

Ma prima di chiudere spendiamo anche due parole sulle notizie vere, quelle che almeno tentano di spacciar per tali. I delitti irrisolti. AVETRANA! In maiuscolo perché è un macigno che pesa ormai da tempo sui coglioni. Avetrana: zio Michele sì, zio Michele no. E' stata Sabrina, in galera! No, Sabrina no. E Cosima pure lei, era la mente!
"No, Cosima e Sabrina stanno in carcere da innocenti e io, che sono il carnefice, sto a casa a potare le piante e curare il giardino."
"Sì ma che fa a casa di solito?"
"E niente, mi occupo del giardino e guardo la tivvù, i film di Celentano e Bruce Lee..."
"Sì, ma quali film di Celentano?"
"Quelli vecchi di una volta."
"Ahhh, e di Bruce Lee?".
Domande da fare ad un presunto omicida per come si spaccia. Giornalismo d'assalto. E Yara? Identificato il DNA sul cadavere. Solo adesso? E se salta fuori che è del tipo che ha testimoniato la prima volta salta qualche testa all'investigativa, o no?

C'è qualcosa che non va o sono solo io che lo penso? C'è un pelo di incompetenza nelle indagini in generale o sbaglio? Ma chi cazzo le fa? Zenigata? L'Ispettore Clouseau?

E quanto si è parlato del referendum? Eh? Ma quanto? Boh, io non me ne sono accorto e voi? Per fortuna che ci sono vie traverse per informarsi.

Questa è l'Italia della democrazia, del popolo sovrano. L'Italia dei miliardi dati a un demente che tira calci ad un pallone per fare in modo che faccia due prodezze e ipnotizzi una bella fetta di questa bell'Italia. Così che si scommetta sul vincitore. Così che si scommetta su qualsiasi cosa.
Ma però mi raccomando… "Giocate il giusto e bevete con responsabilità".

Ma vaffanculo.

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editoriale di kosmogabri

Come se non ci fosse altro da fare sul pianeta, uno studioso, tale professore Francis Thackeray, direttore dell'Istituto di antropologia dell'università di Johannesburg, South Africa, ha richiesto in questi giorni la riesumazione delle spoglie di William Shakespeare per analizzarne le ossa. Non è la prima volta che si aprono tombe con l'intenzione di studiare i resti di personaggi storici del passato, però questa volta la motivazione che spinge l'antropologo è piuttosto originale: ritiene che Shakespeare si facesse le canne.
Ovviamente non è l'unica ragione, la principale sarebbe di appurare di che cosa sia morto esattamente il Bardo. Si presume sia appunto a causa del tabagismo e derivati.

Nella storia della letteratura è risaputo di autori dediti ai paradisi artificiali e/o all'alcool. Tuttavia quest'idea di Shakespeare spipazzatore di ganja è piuttosto sconcertante per i benpensanti d'oggi, soprattutto britannici; pensate che direbbero quelli italiani se si attribuisse a Dante un "vizietto" simile… Comunque sia, gli studiosi sudafricani si sono fissati su questo sospetto, basandosi su alcuni indizi.

Nell'Inghilterra della seconda metà del Cinquecento fumare marijuana non era vietato, anche perché era una pratica raramente adottata considerando che era l'oppio la sostanza stupefacente più quotata; ma non solo, a quei tempi la canapa non era coltivata per fumarla, visto che quella che cresceva nelle nostre campagne aveva un bassissimo tenore di sostanza attiva (thc), bensì per trasformarla in tessuto, carta, alimenti per animali e produzione di oli. Furono gli africani ed indiani emigrati nel Millecinquecento in Occidente dalle colonie ad importare canapa indica (quella con più concentrazione di thc), farne scoprire l'uso stupefacente e la conversione in hascisch. Comunque fino all'Ottocento la canapa da fumare rimase una pratica pochissimo diffusa, fu infatti in seguito alla spedizione di Napoleone in Egitto che iniziò in Europa l'interesse per questa pianta. Così i primi medici cominciarono a studiarne gli effetti stupefacenti e le proprietà: un italiano, Carlo Erba - un nome una garanzia - isolò il principio attivo della canapa nella sua farmacia in via Fiori Oscuri - era proprio destino- a Brera, nel 1849. In seguito il principio attivo fu commercializzato per curare certe patologie, i reumatismi, la gotta, l'inappetenza, le convulsioni, nonché quelle psichiatriche, dunque la curiosità nell'utilizzo stupefacente della canapa crebbe tra la gente, soprattutto nell'ambiente artistico. Famosissimo dell'epoca è "The Hashish Club", fondato da Theophile Gautier e che includeva Alexander Dumas, Victor Hugo, Honore de Balzac, Charles Baudelaire, Eugene Delacroix, eccetera… La ragione per cui nel Novecento poi la canapa fu resa illegale nel Occidente è storia che conosciamo tutti.

"Why write I still all one, ever the same/ And keep invention in a noted weed/ That every word doth almost tell my name/ Showing their birth, and where they did proceed?" (William Shakespeare - Sonnet 76)

Per quanto riguarda Shakespeare, alcuni accenni criptici rilevati nei suoi scritti (ad esempio il riferimento ad una "erba" che potete leggere nell'estratto sopraindicato), e il ritrovamento di qualche pipa nel giardino dell'abitazione storica dello scrittore, nelle quali si son rinvenuti resti microscopici d'erba e cocaina (pare la masticasse) scientificamente datati alla sua epoca, paiono abbastanza importanti da attribuirgli l'abitudine dell'uso di stupefacenti.
Con l'apertura della tomba e l'analisi delle ossa si potrà averne (finalmente?) la certezza, sempre che la Chiesa d'Inghilterra (quindi la Regina che ne è il "Papa") dia il permesso di "profanare" il sepolcro, e sempre che l'antropologo e i suoi sodali non si facciano suggestionare dai versi che il Genio diede ordine d'incidere sulla sua pietra tombale: “Blessed be the man that spares these stones. And cursed be he who moves my bones.

E' un'idea romantica, diciamocelo, cioè immaginare Shakespeare "stoned" con la pipa farcita e fumante in bocca mentre passeggia nel suo bel giardino inglese fantasticando un passaggio saliente della faida Montecchi versus Capuleti oppure quella famosa questione dell'Hamlet… E' affascinante pure l'idea che fosse così eccentrico nell'utilizzare sostanze che nemmeno i fantomatici medici-guaritori del tempo conoscevano. Doveva avere dei pusher molto speciali, il William... Insomma, fosse vera questa peculiarità, stravagante per la sua epoca, me lo farebbe più simpaticamente umano.

Perché vi racconto questa curiosità di cui parlano tutti i giornali? Probabilmente siete venuti a conoscenza del fatto che la Global Commission on Drug Policy - organismo composto da grandi nomi internazionali, dalla politica alla cultura - ha recentemente lanciato la raccolta di firme per una petizione da presentare all'ONU che chiederà agli Stati di rivedere le politiche di contrasto al traffico criminale delle droghe illegali. Ossia, detto in soldoni, di progettare e sviluppare delle soluzioni alternative al proibizionismo, ad esempio la legalizzazione commerciale delle cosiddette droghe leggere con l'intento di gambizzare le mafie che le trafficano. Ho seri dubbi riguardo questa proposta, ma eventualmente li esporrei tra i commenti a questo scritto.

Non riesco però a trattenermi dal chiedermi che ne penserebbe Shakespeare, fosse vivo oggi, di questa "pensata" rivoluzionaria… sarebbe d'accordo sulla legalizzazione della canapa, o vorrebbe mantenere il suo "vizio" segreto agli occhi del mondo?

Secondo me è valida la seconda. Non aprite quella tomba.

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editoriale di zaireeka

Non so quanti di voi sappiano cosa siano i qualia.

Qualia ("quale" al singolare) in verità è una parola esotica e difficile per indicare una delle cose più "normali", più "conosciute", e più "diffuse" nella vita quotidiana di ogni essere umano.
In poche parole per qualia si intende il modo in cui le cose, percepite attraverso i sensi, ci appaiono. Sono quindi qualia ad esempio i sapori, gli odori, e, sopratutto, i colori. La loro natura primaria è l'ineffabilità.

E' difficile dire a qualcun altro quello che provi a vedere il rosso, in cosa consiste il verde. Tanto da farti venire il dubbio che quello che tu chiami verde in verità per me potrebbe essere il blu, o il giallo.
Ecco, appunto, sabato scorso sono andato a vedere l'ultimo film di Terence Malick e una delle prime cose a cui ho pensato all'uscita dal cinema sono stati i qualia.
Perché mai?

Semplice, perché fra i tratti maggiormente distintivi di "The Tree of Life" vi sono, a mio avviso, le sue immagini e i suoi colori. A parte la sensazione di vivere in un sogno lucido di quelli che sogni e trovi tutto assurdo ma, contrariamente ai sogni normali, ti rendi anche conto di quanto lo sia. Di quelli che puoi guidare, ti capita di voler andare a vedere una cosa in quel sogno, e riesci davvero ad andarci… insomma, il regista fa quello che tu vuoi, ti fa vedere da vicino quello che vuoi, anzi il regista del sogno sei tu.
Insomma è un po' come vivere la tua vita, solo presa un po' alla lontana (diciamo a partire dal Big Bang, passando per i protozoi ed i dinosauri).

Non so quanti di voi sappiano che per alcuni studiosi della mente (Daniel Dennet, Thomas Metzinger) i qualia in verità non esistano.
Sono solo illusione.
Sarà forse per questo, e per essere fatto quasi esclusivamente di immagini e colori, che per alcuni "scienziati del cinema" questo meraviglioso film in verità "non esiste"?

Ieri sono andato alla recita di fine anno di mia figlia, l'ultima del quinquennio della scuola elementare. L'anno prossimo si va alle medie.
Mi sono commosso pensando a come passa il tempo, ma non è facile da descrivere a parole quello che ho provato. Mi è venuto da pensare di nuovo al film di Malick.
Sono sicuro che sia lui (il film) che io (le mie sensazioni, o, per dirla dottamente, i miei qualia) esistiamo.

Alla faccia degli scienziati cognitivi.

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editoriale di kosmogabri

Singolare figura quella di Cesare Battisti, l’irredentista italiano originario del Trentino il quale, disertando la chiamata alle armi dell’Austria asburgica, fini impiccato come traditore. Chissà se fu dichiarato anche terrorista. Le cronache del tempo non lo rivelano, ma almeno all’epoca il termine non era inflazionato come oggi.

Varrebbe la pena approfondire anche le vicende dell’altro Battisti, quello in salsa carioca, ma non è questa la sede, e poi è stato versato già abbastanza inchiostro a (s)proposito.

Piuttosto, ci si è chiesto come mai numerosi paesi (non c’è solo Brasile e Francia) giudicano il sistema giudiziario italiano incapace di obiettività e di offrire equo trattamento agli imputati, in particolare quando le vicende riguardano la storia della lotta armata del nostro recente passato, al punto di schierarsi dalla parte di un personaggio quantomeno imbarazzante come Cesare Battisti?

E’ forse il caso di cominciare finalmente ad interrogarsi sull'ingarbugliata e discutibile storia giudiziaria di quegli anni. Giusto due elementi, tanto per delineare il quadro:
In Italia, oltre trent’anni fa, è proliferata tutta una legislazione di emergenza ben poco consona ad uno Stato che voglia credersi civile (anche considerando il particolare momento sociale), legislazione che, per il ben noto principio della “eternità del provvisorio” è tuttora (parzialmente, ma non poi tanto) in vigore.
Oppure, pensiamo a quell'aberrazione giuridica passata alla storia come "processo 7 Aprile" o “teorema Calogero”, che ha messo in galera un’intera generazione?
A dispetto degli esiti, ancora oggi (anzi, soprattutto oggi), il suo impianto teorico viene ampiamente lodato dalla maggior parte del mondo politico, e dopo trent’anni di silenzio lo stesso giudice Calogero si autoincensa e sostiene “avevo ragione io!" senza che nessuno lo seppellisca sotto una manica di pernacchi (maschile, come si dice a Napoli).

Ma sono passate ere geologiche, direte.

Già, ma non è proprio l’Italia di oggi ad essere denunciata dal suo stesso Governo come un paese illiberale dove il potere giudiziario è politicizzato al punto tale da configurare una dittatura?
E poco importa che questa magistratura sia dipinta come “di sinistra”, perché la sinistra ufficiale in Italia è sempre stata il peggior nemico delle organizzazioni lottarmatiste, molto più della DC. Ed in ogni caso, un potere giudiziario rappresentato come lobby ideologizzata è per definizione inattendibile, a prescindere dalla caratterizzazione politica.

Bene, adesso spostiamoci in Brasile: un paese emergente, che per chiari motivi non ha subìto, come l’Italia, quella transizione che, partendo dalla concezione dei blocchi contrapposti, giunge all’attuale pot-pourri ideologico, alla marmellata politica.
Un paese dove certi argomenti pre-1994 o addirittura pre-1989 fanno ancora presa, anche a livello istituzionale, mentre in Italia mostrano di crederci solo Emilio Fede e donna Letizia Moratti Serbelloni Viendalmare.

Ecco, adesso proviamo ad osservare il quadretto italiano, quello delle leggi di emergenza, del 7 Aprile, della magistratura-dittatura, attraverso le lenti di un Brasile che negli ultimi anni ha costruito e trovato un riferimento nell’asse politico Lula-Chavez (si, anche questa è una semplificazione).

E’ un po’ più comprensibile, adesso, come mai non ce lo mollano, oppure devo fare uno schizzo?

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editoriale di fosca

Quanti di voi vivono da soli avranno sicuramente notato quanto sia impegnativo vivere da single dovendo sostituire tutte quelle figure di riferimento (che poi è quasi sempre una sola) che per anni ci hanno accompagnato viziandoci ed abituandoci alla cosiddetta “pappafatta” come fosse un assoluto diritto ed una (sana) abitudine: il letto fatto, gli asciugamani puliti, la colazione, il pranzo e la cena pronti, le camicie stirate, le mutande lavate, i calzoni ammorbiditi, le lenzuola profumate, la tavola apparecchiata, la dispensa piena, la spesa fatta, il bucato steso, i piatti lavati, le vacanze pagate, e “mamma cacchio dove sono le mie scarpe che non le trovo?… Come a posto, a posto dove??”…

Ora, non per tutti è andata proprio così: “Hai fame? Cucina che io non sono la tua serva, e pulisci la tua camera che è un macello, e non solo dove si vede, che questa casa non è un albergo, e vai a fare la spesa, quella è la lista e non comprare cazzate, che non ci sei mai e non mi aiuti mai a fare niente, e prima di uscire fatti il letto e cambia l’aria alla camera che puzza, imbecille, invece di tornare alle quattro di mattina dopo aver bevuto come un tombino, e aver speso tutti i soldi, e non far tardi per pranzo che poi oggi devi studiare/lavorare!”… E sticazzi.
Però un cosa è fare i bravi ragazzi che vanno incontro ai genitori aiutandoli un po’ e vivendo con loro tutto il bello ed il brutto che questa situazione comporta, ed un conto è invece lasciare la famiglia d’origine per andare incontro al proprio futuro cominciando da soli una vita da lavoratori, single, possibilmente grandi scopatori, casalinghi, cuochi, massaie, lavandai, sarti e soprattutto alla fine, esauriti all’ultimo stadio. Aaahh la libertà!

Dopo un anno e passa che ti senti così libero di fare tutto ma proprio tutto ciò che vuoi e solo con le tue forze, già quasi nun gliela fai più e cominci a ripensare a quando in casa era un continuo lamento, e ripensi a quei rimproveri con nostalgia. Ma in fondo questa è la tua vita e va bene così.
Però sei così libero che alla fine hai da fare talmente tante cose, che in realtà non hai più il tempo di fare nulla a meno di sottrarre tempo libero al sonno: e così dormi sempre meno, perché lavori tutto il giorno poi magari esci con gli amici, rientri tardi e sei sempre più stanco.

Ma oggi abbiamo una sempre migliore tecnologia che ci viene incontro a costi contenuti, migliorandoci la vita e riducendo lo stress, quindi perché non spingerci oltre con la fantasia in nome e per conto della praticità? Ecco quindi l’ipotesi per una Nuova Invenzione: per tutti coloro che hanno problemi coi tempi che certe faccende domestiche (che l’igiene ed il decoro) comportano, si potrebbe pensare ad un unico evoluto elettrodomestico (che comprimerebbe quindi budget di spesa e tempi di lavoro) in grado per esempio di espletare le funzioni di una lavatrice e di una lavastoviglie, semplicemente cambiando il cestello o la vaschetta del sapone e consentendo di risparmiare tempo prezioso e denaro, avendo due elettrodomestici al prezzo di uno!

Cosa accadrebbe? Analizziamo vantaggi e svantaggi in uno scenario ipotetico.
In caso di dimenticanza dell’uno o altro articolo nel cestello sbagliato (mutande tra i piatti, calzini incastonati sui manici delle pentole, fazzoletti nei bicchieri, etc) simpatiche situazioni come:
- Accidenti, ho il culo tutto unto nonostante la doccia e gli slip freschi di bucato!
- Hei, ma ti puzzano le ascelle di impepata di cozze!
- Accidenti, ma questa bistecca sa di sterco!
- Uèh, ma da dove li hai tirati fuori 'stì bicchieri, dal naso??
- Ma tu che usi al posto dei tamponi, i tovaglioli?
- Ma amore… hai il sesso che sa di cassoela (arrostino, branzino, polenta coi porcini)
- Noo, avevo i preservativi nella tasca dei jeans ed il forchettone me li ha bucati, Cristo!

E così via, potete ben immaginare. Che dite?
Forse è meglio lasciar perdere e continuare ad impazzire a causa dello stress, portando ogni tanto il bucato a casa di mamma…

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editoriale di Geo@Geo

Non so perché provo a scrivere qualcosa da qualche giorno, ma mai usando penna, carta o tastiera: utilizzo la mente, praticamente tento di racimolare idee e tento di metterle in fila per dare loro una parvenza di sensato.
Le idee ci sono, ma ti scappano via inseguendosi in azzardate piste di formula uno; escono dal tracciato schiantandosi sui guardrail delle tue circonvoluzioni cerebrali e... boom, esplodono prima di prendere forma vera!
Cosa sarà mai? Sei tu completamente fuori? oppure è il Crampo dello Scrivano, ma solo a livello mentale?
Mentre cerco di capire ho iniziato a scrivere e le cose sembra vadano un po' meglio, forse perché riesco a vedere le mie parole, nero su bianco, e ciò mi dà un minimo di coraggio in più per andare avanti.

Siete riusciti a leggere fino a questo punto? Probabilmente avete del tempo libero, oppure siete curiosi di capire le stranezze e le motivazioni di queste righe, o ancora aspettate di trovare il rigo giusto per poter sferrare l'attacco nel momento del commento! Fichissimo...
Mi dispiace non vi sono delle cose da capire, non voglio dare messaggi di chissà quale importanza, non sono neanche convinta che premerò "enter"

Ecco, diciamo, che chi tenta di scrivere un Editoriale, ma non queste quattro righe sgangherate e non interessanti, vuole partecipare idee, sensazioni, "quazzate", emozioni, ricordi... personali!
Eh si, personali! Il punto di vista di chi scrive è sempre personale, a meno che non si faccia un copia-incolla!
Ma adesso, alla fine, che senso ha questo scritto. Forse nessuno. Forse è uno sfogo o un esercizio grammaticale. Forse… mi è venuto il Crampo dello Scrivano!

E' probabile che abbia accettato una sfida, chissà!
Pierre de Coubertin diceva: "L'importante è partecipare, non vincere.".

Balle, a me piace più vincere!

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editoriale di macaco

Passai cinque anni interessandomi in modo approfondito di geopolitica, cercando di capire come l´uomo gestisce l´economia ed il potere istituzionale. Decisi poi di mollare tutto, e per i cinque anni successivi non volli più saperne, avevo ormai raggiunto il mio scopo: confermare attraverso dati oggettivi e studi di esperti la mia naturale avversione verso le forme di rappresentazione del potere e di dominio.

Fino a qualche settimana fa non mi sono mai più interessato di politica. Poi qualcosa dentro me è drasticamente cambiato. Ho scoperto il MoVimento 5 Stelle, qualcosa in perfetta sintonia con i miei ideali.

Vivo da nove anni in Brasile e credetemi, per la prima volta sento qualcosa di nuovo, una spinta di ritorno verso la mia povera patria. È quel sentimento immanente che spinge gli uomini a difendere la propria terra da un´ invasione, con la differenza che il nostro nemico è già dentro il corpo politico e sociale, come un cancro in metastasi.

Immaginate adesso cosa proverebbe un malato se scoprisse improvvisamente una cura, che per quanto amara sia, sarà l´unica che potrà farlo guarire. Quale sentimento dovrebbe nascere nel suo intimo?

Io purtroppo sono lontano, non posso scendere in strada come non ho mai fatto. Ma è proprio necessario? Oggi non serve scendere in piazza, basta fare un click, e se milioni fanno un click, qualcosa cambia.

Si chiama moltitudine, e siamo tutti noi che ci siamo rotti i coglioni di farci rappresentare da uomini e idee che non ci rappresentano, che abbiamo votato nel meno peggio solo perché non farlo sarebbe stato peggiore.

Impariamo allora a valorizzare le nostre capacità, sforziamoci di usare questo strumento fantastico che abbiamo sotto le dita e davanti agli occhi, usiamolo per il potenziale che può esprimere, raccogliendo informazioni, confrontandole, usando sempre il filtro delicato del buonsenso.

I documentari, ad esempio, sono uno strumento piacevole e leggero per informarsi. I migliori hanno il sapore amaro ed il retrogusto salato, e anche i più faziosi sono ricchi di contenuto.

Sapete sognare? Vivere un utopia? Riuscite ad immaginare un'Italia governata da una democrazia partecipativa, dove siano i cittadini a proporre, discutere e decidere?
Ci pensate se proprio noi - dal paese che ha una delle classi politiche più ridicole - potessimo iniziare a cambiare il mondo?

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editoriale di kosmogabri

Dal quartiere in cui sono cresciuto al centro città ci vogliono pochi minuti, passando per l’unica via che collega le palazzine tutte uguali - come scatole di cartone messe l’una accanto all’altra nella certezza di una pronta spedizione verso altri luoghi, altri tempi ed altri spazi - al groviglio confuso delle vie più antiche, un tempo gran dimora della borghesia commerciale, ed oggi affittate, a poco prezzo, a gruppi, più o meno clandestini, di migranti e similari.

Mi spiegavano che quando possiedi una casa, in centro, la sua manutenzione ti viene a costare troppo, e non puoi facilmente venderla o affittarla a qualche giovane coppia o famiglia italiana: chi non ha i soldi, chi vuole il garage sotto casa, chi teme i soffitti troppo alti e le ombre che sembrano nascondersi lungo i corridoi e le vetrate che, troppo lunghe, collegano la camera da pranzo alla zona notte, ed a bagni troppo difficili da riscaldare, senza doccia e con la vasca da bagno corta, sagomata come un sedile.

Tutto troppo anni Dieci o troppo anni Cinquanta, troppo lontano dalla perfetta geometria degli scatoloni che orbitano lontano dal sole delle piazze, troppo distante dalla stessa idea che, in quelle scatole di periferia, ci puoi stare per poco e non per sempre, come tappa verso la villetta a schiera o quella con ampio giardino, su nei paesi di collina. Dove i bambini crescono all’aperto, puoi giare in bicicletta e, forse, avere un cane.

Chi il cane non lo può immaginare, il garage non lo postula neppure, chi impara a pedalare per andare in fabbrica, si accontenta allora di vivere il presente sotto gli alti soffitti del passato, passando in pochi mesi dall’asfissia del doppio fondo del camion agli ampi sospiri che solo una stanza che “non ha/ più pareti/ ma alberi/ alberi infiniti”, come quella dell’ex casino in fondo alla via, può ancora dare a chi ci dorme, oggi come ieri.

I casini sono un retaggio della vecchia città militare, delle caserme e dei clienti che negli anni ’50 affollavano i palazzi, per defluire negli anni ’60 e ’70 verso un paio di viali di periferia, attorno al cinema che, ancora negli anni ’80, ospitava nei sabati e nelle domeniche pomeriggio film di un certo genere - per intenderci, quelli con le locandine fascette nere - e nei lunedì mattina, potrei testimoniare, i saggi di fine anno delle scuole elementari. Un modo come un altro di coprire i costi di gestione di sale in disuso.

Il cinema non c’è più, da anni. E pure le caserme sono ormai chiuse. Restano i militari di un tempo, specie quelli meridionali, che si sono stabiliti attratti dalla bellezza della città o di qualche cittadina, senza necessariamente passare per le ampie stanze degli edifici del centro.

Uno, divenuto poi generale, era il padre di un mio compagno di classe, tifava incongruamente Genoa ed era uguale a Paolo Villaggio, nella versione Belva Umana. Da adolescenti, i due figli avevano la croce celtica sui caschi del motorino, e, si mormora, uno dei due fu fermato in una manifestazione di skins. Un altro, rimasto maresciallo, era il mio vicino di casa fin quando stavo dai miei, e pare non abbia mai lavorato in vita sua, come parrebbe confermare la pensione raggiunta in surplace, appena prima dei cinquant'anni, sconfitto però dalla moglie infermiera, che era in pensione già attorno ai quaranta.

Il mio preferito, però, è “il maresciallo”, quello che alcuni scambiano, da lontano, per mio padre, ma non lo è. Alcuni lo chiamano così, ma non so se il titolo tardivo corrisponda al grado dei tempi belli, di cui residua il portamento, il taglio corto di capelli, l’incedere con la testa dritta e lo sguardo avanti, sempre a braccetto della moglie, e, da qualche anno ormai, assieme alla figlia, al genero, ed ai nipotini, cresciuti fino ad avere l’età che io avevo quando lui era ancora in servizio.

Non so se il maresciallo frequentasse i casini del centro, ma mi piace pensare che, già negli anni ’50, andasse a braccetto con la stessa donna, incinta della figlia che ora porta le borse della spesa e sgrida i bambini sotto lo sguardo flemmatico del padre; che già negli anni ’60, e poi via via fino ad oggi, facesse il percorso periferia-centro-periferia che quasi ogni giorno immagino faccia, sempre più spesso da quando ha tolto la divisa.

Quando sono fuori città, lontano chilometri, spero sempre di ritrovarlo al mio ritorno, di incrociarlo e di riconoscerlo, anche se non so il suo nome, anche se lui non sa il mio. Negli ultimi anni, è quasi scaramanzia: anche se è invecchiato, spalle ormai curve, a me pare sempre dritto come un fuso, lo sguardo in avanti e sempre fisso.

Dare immensa importanza a chi non sa il tuo nome, non ti conosce, ti ignora, è un modo come un altro per ingannare il tempo.

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editoriale di Bartleboom

A sei anni il nucleare fu Ken Shiro.
Sapete, no? "Siamo alla fine del XX secolo, il mondo interno è sconvolto dalle esplosioni atomiche…".
Epicissimo. Roba da brividi.
Roba che quasi quasi mi faccio investire da una tonnellata di acqua radioattiva così divento forte come Toki e più incazzato di Godzilla.

A otto anni il nucleare fu una gita scolastica.
Meglio: una gita scolastica mancata.
Erano i primi giorni dell'aprile 1986 e la IV B della Scuola Elementare di BartleTown si apprestava a fare visita al Parco della Preistoria di Vergate sul Membro (MI).
Pochi giorni prima della partenza, però, succede un gran casino da qualche parte in Russia o giù di lì, non si capisce bene dove. Dai telegiornali iniziano bombardamenti a grappolo di immagini di enormi camini in cemento armato e inquietanti operai con le maschere a gas e le tute di plastica arancione. La gente parla di contaminazione, di nube tossica, chi tocca l'erba muore.
E così niente gita.
Unico vantaggio: a casa Boom, il minestrone viene mandato in esilio sino a data da destinarsi.

A dodoci anni il nucleare fu un documentario.
Mezz'ora girata male, inquadrature traballanti, colori spenti, zero ritmo. Provenienza: Cernobyl, Ucraina.
Ci sono campagne abbandonate che solo a vederle in televisione ti viene freddo alle ossa. Casolari isolati, animali abbandonati.
C'è una pecora: ha la mascella deforme, non si sa come faccia ad alimentarsi. Un'altra ha tre paia di zampe.
C'è una donna. Anziana, ma non troppo. Fissa la telecamera e non dice niente. Tiene in braccio un bambino senza occhi, con le articolazioni delle gambe al contrario. Sono passati vent'anni e il ricordo di quel documentario riesce ancora ad angosciarmi.

A sedici anni il nucleare fu "Nuclear Winter" dei Sodom: super chicca thrash metal, tra le prime canzoni che ho imparato a suonare con la mia Ibanez koreana. Non so più quanti sabato pomeriggi ho passato a consumarci plettri e polpastrelli.

A trenta e passa anni, il nucleare è Fukushima, lo tsunami, gli elicotteri che buttano acqua sui reattori, i bambini con le mascherine sulla bocca e le mamme col latte radioattivo. Il Governo giapponese che ogni giorno dice una cosa diversa.

A trenta e passa anni, il nucleare doveva essere anche un Referendum.
Ho cercato di informarmi, di capire.
L'internet l'ho scartato quasi subito: il più delle volte viene fuori che i siti sull'argomento sono in realtà gestiti dall'ufficio stampa dell'Eni. Oppure da qualche aiuto-vice-sottosegretario alle politiche energetiche. E allora tanto vale.

Così ho deciso di chiedere alla gente che conosco, chissà mai che ne sappiano più di me.
E' venuto fuori di tutto:
- "Le centrali non sono sicure! Guarda che casino in Giappone!"
- "Ma che ti frega! Tanto se ne scoppia una francese facciamo comunque la fine del calamaro nel fritto misto!"
- "E le scorie?! Eh?! Le scorie?! Lo sai che mantengono la radioattività per mille milioni di anni?!"
- "In Germania le hanno sotterrate e dormono sonni tranquilli"
- "Il petrolio presto finirà! Abbiamo bisogno di altre fonti di energia!"
- "Anche l'uranio presto finirà. Dobbiamo investire sulle fonti rinnovabili!"
- "Sì, bravo! Vatti a vedere gli scempi ambientali dell'eolico in Calabria!"

E via discorrendo.
Sono arrivato alla conclusione che chi parla di nucleare o ha qualche interesse di troppo nella faccenda, oppure ne sa quanto me.

E allora ci ho rinunciato.
Davvero.
Ho deciso che non voglio essere informato sul nucleare.
Mi bastano i miei ricordi.
E le mie paure.

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editoriale di ilfreddo

Arriva la mail di un collega con invito all’inaugurazione del suo nuovo romanzo. Tonnellate di pacche sulle spalle, baci e complimenti che Giuda Iscariota al confronto è un dilettante. Lo inizio una settimana dopo ed è una merda. Sembra sia una malattia: se non scrivi un libro, che venga pubblicato o no è secondario, non sei nessuno. Rettifico. Non sei qualcuno.

Qualche settimana dopo il tasto “Back Space”, alla millesima pressione di giornata, salta fuori dalla tastiera e mi tira un calcio volante alla Van Damme (nell’hard disk ha un sacco di film d’azione anni ‘80/’90 del calibro di “Senza esclusione di colpi“) al dito medio. Incazzato nero, è quello il colore dei quadrilateri placcati, se ne esce con un: “Ragà, mo’ hai veramente rotto er cazzo e nun sei manco alla prima frase!” Mi ero quasi dimenticato di averlo comprato a Roma. Questo dannato pc. Lo guardo incredulo e dolorante mentre pavoneggiandosi si rimette a posto in alto a destra, proprio sopra l’amico “Enter” che lo applaude energicamente guardandomi con aria di sfida.

Il fatto è che prendere un guanto e sfidare questa parete da ospedale che mi guarda sprezzante è un cubo di Rubik per un daltonico. E se è vero che, quando in un’indefinita fase REM un sottofondo di archi da “Il Gladiatore” accompagnerà le pagine che si accumuleranno veloci una sull‘altra, concludere sarà uno spasso è altrettanto vero che arrivare fin lì sarà tedio e disperazione. Ci saranno momenti in cui avrò voglia di prendere questo pc romano e coniare una parola magica come “appappalua“, che a pensarci bene non è poi molto più stronza di “abracadabra“, e donargli la vita. Ma farei questo solo per sadico godimento. Ogni tasto premuto, una pugnalata profonda nella scheda madre. E il periodo stavolta col cazzo che lo farei terminare tanto facilmente: lo infarcirei di subordinate e descrizioni inutili, per un imo e denso bagno di appiccicoso sangue elettronico. Perché anche se non sono uno scrittore, il blocco dello scrittore deve essere una gran brutta cosa ed io sarò il giustiziere delle tastiere mangia ispirazione.

Un altro calcio al dito, proprio sull‘unghia, da parte di quel brutto figlio di puttana rettangolare che mi dice sorridendo: “Ma stai a scherzà? Sogna, sogna perché nun c’hai talento! Quattro ore per du’ righe, a Sciacckespirre!”

Proseguo senza dargli troppa soddisfazione. Continuo a premerlo, ovviamente molto più del dovuto, e nell'immaginazione disbosco mezza Amazzonia tanto sono ispirato e prolisso; veloce ed agile scavallo metà percorso e penso, da ignobile presuntuoso, che in fin dei conti "Back Space" stia sbagliando. Non serve mica avere talento. Sarebbe sufficiente, ora che nella mente la mia opera è già ben rilegata pronta per la produzione in serie, che una stupida tessera del domino scorrendo tra gli scaffali pieni dicesse ad un‘altra: “ma questo qui, (e indicherebbe me nella foto sul retro), è fuori come un balcone”. E così, “appappalua”, un incidente d’avorio per un libro cult.

Ok, sarebbe per mediocrità altrui ma mica ci credo a termini come meritocrazia, io. Perché se ci saranno pure un bel po’ di suicidi di massa fra due dicembri per quanto ha previsto una civiltà estinta, converrete con me che humus fresco e sterco di primissima qualità in giro non ne manca proprio. Ed allora uno potrebbe pure pensare che non provare a sfruttarla, questa pausa neurologica di una gran bella fetta del globo, sarebbe un delitto perché in un prossimo futuro potremmo pure cominciare a svegliarci.

Ma forse hai ragione tu Jean Claude “Back Space”. Il mondo è già sufficientemente pieno di Arturi Bandini che smanierebbero per potersene stare rinchiusi per mesi in una stanza polverosa di un Hotel d’America a scrivere quello che, ai loro occhi - ma solo ai loro, cazzo - sarebbe il capolavoro che li renderebbe immortali. Lì, sullo scaffale dei classici, a parlare con Twain e Hemingway come vecchi amici al pub.

In realtà solo un tremendo mal di testa per milioni di “Back Space” inutilmente pigiati che invece vorrebbero solo poter dormire o, perché no, scopare con quel gran pezzo di plastica di F12 che non li fila di striscio e che, proprio per questo, li fa impazzire e tirare calci volanti a destra e a manca sulle nostre povere dita.

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editoriale di fosca

“Non ce la faccio più” e reclinando il capo cercava di nascondere le lacrime, inutilmente.
Non un sussulto in tutto il corpo, solo un flebile sospiro emesso con sofferta rassegnazione.
Una discesa buia. Un viaggio sconosciuto e spaventoso.
E loro, durante quei giorni, non poterono che starlo a guardare ed osservare il suo lucido, incosciente malessere prendere possesso di lui e della sua mente, metodicamente e in maniera umiliante.
Pezzo dopo pezzo, giorno dopo giorno, apparentemente senza motivo.
Qualcosa s’era spezzato nei suoi pensieri insicuri di essere umano, di essere fragile, e l'integrità del suo io non sapeva più avere il sopravvento.

Fu un lungo tunnel da percorrere insieme, tentennando certo, ma cercando il modo di non perderlo e che non si perdesse. Col tempo, un lungo interminabile tempo, ritrovarono la fiducia nei suoi occhi, guardandolo, studiandolo, scoprendolo quasi immemore di quel lontano crollo improvviso, ma si sa, la mente può questo ed altro e come crea distrugge, senza testimoni e senza rispetto per niente e per nessuno. Tabula rasa.
Le sue giornate da allora in poi furono molto più libere e leggere, trascorsero lievi così come i rinnovati pensieri che con serenità esponeva loro. Nuovamente.

Ma quando restano soli, al buio, avvolti dal silenzio, a pensare, ecco che di nuovo la sua immagine sconfitta rimbalza da un lato all’altro delle loro menti schiantandosi là dove cominciano i pensieri, che non sono più gli stessi.
E rimangono soli, ognuno in silenzio e carichi di tristezza, carichi di incertezze e dubbi, a bersi la vita, a cercare di comporre il mosaico incompleto che fino ad oggi hanno vissuto, aspettando, mentre brividi di tensione percorrono le loro schiene chiudendo loro la gola.

A pugni stretti rivedono il suo aspetto, ritrovandosi così, madidi di sudore freddo e di paura.

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