Dal quartiere in cui sono cresciuto al centro città ci vogliono pochi minuti, passando per l’unica via che collega le palazzine tutte uguali - come scatole di cartone messe l’una accanto all’altra nella certezza di una pronta spedizione verso altri luoghi, altri tempi ed altri spazi - al groviglio confuso delle vie più antiche, un tempo gran dimora della borghesia commerciale, ed oggi affittate, a poco prezzo, a gruppi, più o meno clandestini, di migranti e similari.
Mi spiegavano che quando possiedi una casa, in centro, la sua manutenzione ti viene a costare troppo, e non puoi facilmente venderla o affittarla a qualche giovane coppia o famiglia italiana: chi non ha i soldi, chi vuole il garage sotto casa, chi teme i soffitti troppo alti e le ombre che sembrano nascondersi lungo i corridoi e le vetrate che, troppo lunghe, collegano la camera da pranzo alla zona notte, ed a bagni troppo difficili da riscaldare, senza doccia e con la vasca da bagno corta, sagomata come un sedile.
Tutto troppo anni Dieci o troppo anni Cinquanta, troppo lontano dalla perfetta geometria degli scatoloni che orbitano lontano dal sole delle piazze, troppo distante dalla stessa idea che, in quelle scatole di periferia, ci puoi stare per poco e non per sempre, come tappa verso la villetta a schiera o quella con ampio giardino, su nei paesi di collina. Dove i bambini crescono all’aperto, puoi giare in bicicletta e, forse, avere un cane.
Chi il cane non lo può immaginare, il garage non lo postula neppure, chi impara a pedalare per andare in fabbrica, si accontenta allora di vivere il presente sotto gli alti soffitti del passato, passando in pochi mesi dall’asfissia del doppio fondo del camion agli ampi sospiri che solo una stanza che “non ha/ più pareti/ ma alberi/ alberi infiniti”, come quella dell’ex casino in fondo alla via, può ancora dare a chi ci dorme, oggi come ieri.
I casini sono un retaggio della vecchia città militare, delle caserme e dei clienti che negli anni ’50 affollavano i palazzi, per defluire negli anni ’60 e ’70 verso un paio di viali di periferia, attorno al cinema che, ancora negli anni ’80, ospitava nei sabati e nelle domeniche pomeriggio film di un certo genere - per intenderci, quelli con le locandine fascette nere - e nei lunedì mattina, potrei testimoniare, i saggi di fine anno delle scuole elementari. Un modo come un altro di coprire i costi di gestione di sale in disuso.
Il cinema non c’è più, da anni. E pure le caserme sono ormai chiuse. Restano i militari di un tempo, specie quelli meridionali, che si sono stabiliti attratti dalla bellezza della città o di qualche cittadina, senza necessariamente passare per le ampie stanze degli edifici del centro.
Uno, divenuto poi generale, era il padre di un mio compagno di classe, tifava incongruamente Genoa ed era uguale a Paolo Villaggio, nella versione Belva Umana. Da adolescenti, i due figli avevano la croce celtica sui caschi del motorino, e, si mormora, uno dei due fu fermato in una manifestazione di skins. Un altro, rimasto maresciallo, era il mio vicino di casa fin quando stavo dai miei, e pare non abbia mai lavorato in vita sua, come parrebbe confermare la pensione raggiunta in surplace, appena prima dei cinquant'anni, sconfitto però dalla moglie infermiera, che era in pensione già attorno ai quaranta.
Il mio preferito, però, è “il maresciallo”, quello che alcuni scambiano, da lontano, per mio padre, ma non lo è. Alcuni lo chiamano così, ma non so se il titolo tardivo corrisponda al grado dei tempi belli, di cui residua il portamento, il taglio corto di capelli, l’incedere con la testa dritta e lo sguardo avanti, sempre a braccetto della moglie, e, da qualche anno ormai, assieme alla figlia, al genero, ed ai nipotini, cresciuti fino ad avere l’età che io avevo quando lui era ancora in servizio.
Non so se il maresciallo frequentasse i casini del centro, ma mi piace pensare che, già negli anni ’50, andasse a braccetto con la stessa donna, incinta della figlia che ora porta le borse della spesa e sgrida i bambini sotto lo sguardo flemmatico del padre; che già negli anni ’60, e poi via via fino ad oggi, facesse il percorso periferia-centro-periferia che quasi ogni giorno immagino faccia, sempre più spesso da quando ha tolto la divisa.
Quando sono fuori città, lontano chilometri, spero sempre di ritrovarlo al mio ritorno, di incrociarlo e di riconoscerlo, anche se non so il suo nome, anche se lui non sa il mio. Negli ultimi anni, è quasi scaramanzia: anche se è invecchiato, spalle ormai curve, a me pare sempre dritto come un fuso, lo sguardo in avanti e sempre fisso.
Dare immensa importanza a chi non sa il tuo nome, non ti conosce, ti ignora, è un modo come un altro per ingannare il tempo.
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